Il congresso del Partito Democratico. Di Lorenzo Gaiani.

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editorialeA dieci anni dalla sua nascita il Partito Democratico si appresta alla sua quarta tornata congressuale con alcune certezze e diversi problemi.

La prima certezza è quella, per così dire, della tenuta: piaccia o meno, l’oscillazione del pendolo elettorale del partito va dal 25% della “non vittoria” di Bersani nel 2013 al 40% ottenuto da Renzi alle elezioni europee dell’anno successivo, rendendo del tutto credibili le rilevazioni attuali che danno il partito intorno al 30%, facendone di fatto il soggetto più consistente fra quelli che si contendono credibilmente la guida del Paese.

Se si pensa che dopo le elezioni del 2008 e la crisi di delegittimazione che condusse Veltroni alle dimissioni l’anno successivo il pronostico più accreditato era che il partito dovesse finire in mille pezzi di lì a pochi mesi, non è un risultato da poco.

La seconda è quella di una sostanziale tenuta organizzativa, giacché la fuoriuscita di alcuni dirigenti più o meno illustri non ha comportato fin qui, se non a livello parlamentare e a macchia di leopardo (o di giaguaro…) sul territorio, un vero indebolimento della struttura del partito. Ciò peraltro dimostra come tale fuoriuscita (la parola scissione sembra troppo “nobile” per un fenomeno del genere) sia stata essenzialmente un fenomeno di vertice, derivante da un lato dalla difficoltà psicologica di accettare come contendibile quel Partito – Ditta che taluni consideravano eredità inalienabile, dall’altro dal fatto che, confermata dalla Corte costituzionale la previsione dei capilista bloccati alla Camera, molti deputati uscenti il cui unico merito era stato quello della fedeltà personale a Bersani presagivano l’imminente estromissione da Montecitorio ovvero una defatigante e costosa campagna di raccolta delle preferenze.

La terza certezza discende dalle prime due, e rimanda ad una struttura di partito che in questi anni ha visto un forte rimescolamento di presenze con il crescere dei cosiddetti “nativi”, ossia di persone che non avevano una militanza di partito precedente: nello stesso tempo, è innegabile che vi sia stato un rimescolamento fra persone di provenienze diverse, ed anche i più critici nei confronti di Renzi non si sentono di mettere in discussione la loro appartenenza al partito a causa dell’astio e della vanità offesa di D’Alema o degli incomprensibili borborigmi di Bersani. Semmai cercano di portare le loro battaglie all’interno del partito, sapendo che se esso è stato contendibile a beneficio di Renzi potrebbe esserlo per converso contro di lui.

Non mancano però i problemi, il primo dei quali evidentemente è quello di una difficoltà ad articolare presenza territoriale e proposta politica: al netto di tutte le chiacchiere su partito “leggero” o “pesante”, è evidente che il PD deve avere una sua presenza autorevole e capillare sul territorio: il protrarsi di crisi strutturali come quelle di Napoli o di Roma fa capire che il problema esiste ed ha dei risvolti che debbono essere affrontati con nettezza, soprattutto per evitare la sistematica degenerazione delle pur legittime differenziazioni politiche e personali in guerre per bande che costituiscono una manna dal cielo per una stampa che fa dello scandalismo e dell’antipolitica l’additivo per la vendita di più copie e per forze politiche che ad organizzare primarie (che sono sempre a rischio di inquinamento, come qualunque strumento politico) non ci pensano minimamente perché tanto a decidere di tutto è un Capo autoproclamato o un algoritmo facilmente manipolabile.

E questo rimanda ad una delle maggiori difficoltà del PD, ossia la crescita di una classe dirigente autorevole nel Partito e nelle istituzioni: non si può dire che manchino delle esperienze importanti, ma ha latitato fin qui un processo sistematico di costruzione di questa classe dirigente. Certo, a sua volta questa difficoltà è figlia di un modello irrisolto di ridefinizione dell’identità del partito politico, il quale modella la sua struttura su quella delle istituzioni. L’incompiutezza del percorso fra la dimensione maggioritaria agognata e le nostalgie proporzionalistiche sempre in agguato, aggravata dal risultato del referendum del 4 dicembre che sembra aver chiuso per non si sa quanto tempo la porta delle riforme istituzionali, ha fatto sì che i partiti non avessero più precisi termini di riferimento.

Resta il fatto che la costruzione di una classe dirigente non può procedere per metodi empirici, ma richiede percorsi formativi e di crescita che richiedono strutture, agili quanto si vuole, ma comunque stabili, ed una programmazione di lungo periodo sul modello dei partiti tedeschi, ognuno dei quali si appoggia ad una fondazione che svolge ricerche e studi spesso di livello internazionale. Ma per far questo occorre ridare dignità alla politica, far comprendere che il beruf politico, per citare Weber, può certo degenerare in burocratismo e funzionariato, ma ha una sua specificità che non può venir sostituita da quadri aziendali o da giovanotti volonterosi selezionati con i “click” che non solo non hanno finito l’università ma dimostrano anche di aver tratto ben poco profitto dalle scuole dell’obbligo.

Più in generale, il grande obiettivo riformatore cui il PD deve tendere è quello di essere in Italia il perno non solo dell’idea d’ Europa ma dello stesso processo di globalizzazione a fronte di quelle tentazioni “sovraniste” che , oltre ad essere antistoriche sotto il profilo socio- economico, sono anche ambigue sotto il profilo politico, perché in un modo o nell’altro suggeriscono una restrizione dei diritti civili e sociali che sono fra le principali acquisizioni della migliore tradizione cristiana, illuminista e socialdemocratica dell’Europa. Capita così che coloro che chiedono voti cavalcando strumentalmente tutte le proteste sociali siano i primi ad adottare un’attitudine repressiva e forcaiola quando vanno al potere.

Sarà quindi proprio in base a questa dicotomia apertura/chiusura che si articolerà la vita politica italiana ed europea nel corso dei prossimi anni, e il PD dovrà selezionare in base ad esso le sue alleanze in un quadro che dovrà essere il più aperto possibile a quegli elementi maggioritari che soli renderanno possibile la costruzione di un governo per il nostro Paese nella prospettiva di una reale unità europea.

Mentre scrivo queste note (31 marzo) sembra evidente nei Circoli la prevalenza della proposta politica di Matteo Renzi rispetto a quelle di Andrea Orlando e Michele Emiliano: ovviamente l’ultima parola la diranno gli elettori democratici il 30 aprile, ma soprattutto la dirà il popolo italiano nelle prossime tornate elettorali.

Lorenzo Gaiani

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3 commenti

    • Wladimir Sestan il 3 Aprile 2017 alle 11:33

    Una domanda: ma cosa c’entra questo PD RENZIANO con Dossetti, per esempio ?
    Wladimir Sestan

    • Giulia Barbieri il 3 Aprile 2017 alle 11:33

    Sono completamente d’accordo con il commento di Eugenio Redaelli. Aggiungerei di tener conto anche della “prospettiva di una reale unità europea”.
    Giulia Barbieri

    • Eugenio Redaelli il 3 Aprile 2017 alle 09:09

    Analisi lucida e condivisibile. Apre una prospettiva per il futuro. Interessante l’idea di una fondazione che affianchi/appoggi il partito per fare ricerche e studi.
    Eugenio Redaelli

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