Luigi Ciotti. Quale la forza dei deboli nella società italiana?

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Considerando le tematiche ricorsive negli scritti di Ciotti, le realtà cosiddette “di strada”, alle quali peraltro ci ha abituato una certa cronaca soprattutto quando essa si trasforma in “nera”,  sono indubbiamente prevalenti. Così prendiamo coscienza  delle storie tragiche di tante persone spesso “invisibili”, “senza nome” e “senza diritti”. Sono le storie legate alle dipendenze da sostanze, all’immigrazione, alla prostituzione, al carcere (e al dopo carcere), alla malattia, ecc. Quelle generate dall’eccessiva precarizzazione del mondo del lavoro che sta creando una nuova forma di vita “flessibile” per migliaia di persone. Le “storie ordinarie di vita precaria” non riguardano fenomeni di “devianza” in senso stretto, ma rappresentano il vissuto di persone apparentemente integrate, che immaginano la loro attività lavorativa ancorata ai modelli di riconosciute figure professionali. E che invece si trovano imprigionate in una interminabile serie di lavori diversi a termine, che pian piano trasformano la loro esistenza in una “vita a scadenza”, quasi essa fosse paragonabile ad un prodotto commerciale deperibile.

Luigi Ciotti. Quale la forza dei deboli nella società italiana?

1. leggi il testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo

2. leggi la trascrizione della relazione di don Luigi Ciotti

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introduzione di Andrea Rinaldo – relazione di don Luigi Ciotti

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Testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo a don Luigi Ciotti

Una lettura sotto questo profilo di una selezione di articoli del 2006 di Luigi Ciotti.

Uno. Innanzitutto è necessario sottolineare che gli scritti[i] ai quali si fa riferimento rappresentano non tanto (o non solo) una raccolta di “saggi specialistici” sulla materia sociale che Luigi Ciotti ci offre appunto sotto la forma di diversi articoli apparsi su alcune riviste. Semmai essi sono il precipitato del suo sentire individuale vagliato però alla luce della Fede e di una non comune sensibilità umana, delle diverse storie border-line di uomini e di donne che “l’università della strada”  fornisce quotidianamente a don Luigi e ai suoi collaboratori.   Del resto di questa sua particolare visione del mondo, certamente non prevalente,  ne ha una chiara sensazione, sia chi ha già  avuto modo di incontrarlo nei contesti dove egli costantemente opera o interagisce, ma anche noi del Dossetti di Milano, che l’anno passato siamo stati da lui sollecitati a non aver “…paura delle mele marce”[ii], cioè di chi nella nostra società del benessere diffuso permane invece in una condizione di sofferenza e di marginalità.    Anzi di considerare coloro che si trovano in tali situazioni di disagio prioritariamente come delle “…persone, e non come dei problemi…”[iii], ponendo così il centro dell’attenzione sull’aspetto pregnante della relazione  ontologica e asseverando nel contempo il valore intangibile della persona.   Per cercare di dipanare il tema dell’incontro di oggi può essere utile definire preliminarmente il perimetro (se esiste!) che include la categoria  dei“deboli”  in Italia, e quindi di verificare se sussistano le condizioni ed i presupposti affinchè da tale condizione di debolezza possa anche essere espressa una certa“forza”.

Due. Considerando le tematiche ricorsive negli scritti di Ciotti, le realtà cosiddette “di strada”, alle quali peraltro ci ha abituato una certa cronaca soprattutto quando essa si trasforma in “nera”,  sono indubbiamente prevalenti.   Così prendiamo coscienza  delle storie tragiche di tante persone spesso “invisibili”, “senza nome” e “senza diritti”. Sono le storie legate alle dipendenze da sostanze, all’immigrazione, alla prostituzione, al carcere (e al dopo carcere), alla malattia, ecc.    E apprendiamo però che sono da ricomprendere in questo contesto di “debolezza” anche altre condizioni che a prima vista sembrerebbero escluse dalle categorie riconosciute come, diciamo così, di “evidente disagio”.   Ad esempio quelle generate dall’eccessiva precarizzazione del mondo del lavoro che sta creando una nuova forma di vita “flessibile” per migliaia di persone. Le “storie ordinarie di vita precaria”[iv] non riguardano perciò fenomeni di “devianza” in senso stretto, ma rappresentano il vissuto di persone apparentemente integrate, che immaginano la loro attività lavorativa ancorata ai modelli di riconosciute figure professionali.    E che invece si trovano imprigionate in una interminabile serie di lavori diversi a termine, che pian piano trasformano la loro esistenza in una “vita a scadenza”, quasi essa fosse paragonabile ad un prodotto commerciale deperibile.

Tre. C’è una parola che viene utilizzata come giustificazione delle dinamiche che riguardano la mutazione sociale delle società avanzate ma anche di quelle che ancora non lo sono:   questa parola è “globalizzazione”.  Sono stati versati fiumi di inchiostro su di essa, tanto che è possibile attribuire alla globalizzazione una funzione  per così dire “catartica”, dei recenti fenomeni di trasformazione antropologica.        Se la globalizzazione intesa come possibilità di apertura a livello planetario dei mercati (in un contesto di regole condivise però!); di maggiore mobilità individuale e di libera circolazione delle informazioni; di accesso generalizzato alle risorse e alle merci, rappresenta una selezione limitata dei possibili aspetti positivi del fenomeno, sovente la direzione impressa a queste dinamiche specialmente da alcuni potenti gruppi è causa invece di impressionanti “…lacerazioni sociali”. Così capita che il lavoro in Italia possa essere sotto il costante ricatto al ribasso costituito (nella migliore delle ipotesi) dall’esuberanza dell’offerta, o dalla minaccia di delocalizzazione delle attività produttive in aree del pianeta dove sussiste una più favorevole remunerazione della mano d’opera e generalmente un  più contenuto livello di esigibilità dei diritti. Nell’interesse esclusivo di pochi vengono spesso sacrificate le enormi potenzialità costituite dalle capacità di consistenti fasce sociali anche altamente istruite, determinando parallelamente deludenti percorsi di vita individuali e professionali, ma anche privando il nostro Paese di quelle forze creative competitive in grado di migliorare la qualità dell’esistenza di tutti noi. Questa è una potenziale “forza” ridotta però ad uno stato di “debolezza”.  Alla luce di queste considerazioni anche taluni fondamentali principi costituzionali (che abbiamo peraltro recentemente difeso da insidiosi attacchi), appaiono solo parzialmente realizzati:   non basta infatti che essi siano chiaramente declarati è necessario poi che siano effettivamente esigibili.   E’ quindi di estrema importanza la difesa quotidiana degli ineludibili principi contenuti nella nostra Costituzione.  

Quattro. Paradossalmente dalla “…diffusione degli squilibri sociali, politici, economici e culturali innescati a livello mondiale dalla globalizzazione…”[v] sono favorite invece le organizzazioni criminali, quelle “…dieci, cento, mille mafie…”[vi], costituenti ormai un sistema di “…mafia globale…”[vii]. Questo aspetto è certamente messo in secondo piano quando si concepisce il fenomeno degli sbarchi di clandestini o quello legato all’uso di sostanze stupefacenti, esclusivamente come problemi da imputare principalmente su chi è  vittima di questi traffici. Il lavoro di divulgazione di Luigi Ciotti contribuisce ad abbattere molti degli stereotipi consolidati su questa materia.

Ad esempio attraverso l’acquisizione della consapevolezza che la criminalità organizzata non è un fatto localistico, specialmente Italiano e riguardante solo alcune regioni del Mezzogiorno, ma è ormai un fenomeno mondiale.    Oppure nell’esigenza di  “…mettere in luce i volti molteplici e spesso insospettabili delle mafie…”[viii], cosicchè è comprensibile la considerazione che quando, a qualsiasi latitudine ci si trovi,  i diritti elementari (alla casa, al lavoro, all’istruzione, alla salute, ecc.) non esistono o sono ridotti a favori, lì ci sono le condizioni oggettive affinchè possano instaurarsi relazioni di tipo mafioso.      Da questo punto di vista è anche ragionevole pensare che questo fenomeno non avrebbe la portata e la durata che ha, se non avesse avuto e mantenuto nel tempo stretti legami di contiguità con “pezzi deviati” appartenenti ad ambiti economici, della pubblica amministrazione, politici,  nonché goduto (ma sarebbe meglio dire estorto) un certo consenso popolare.    Inoltre in alcuni contesti dell’attuale sistema capitalistico mondiale sussistono evidenti coni d’ombra, dove il confine tra “lecito” e “illecito” diventa oggettivamente difficoltoso da tracciare. Può sorgere allora la domanda (che lancio anche per il dibattito) se questa non sia altro che una delle manifestazioni della “faccia oscura” degenerata e meno presentabile  (da negare perché illegale) del modello economico mondiale, che pone sul mercato qualsiasi cosa possa essere oggetto della dinamica domanda-offerta, in un continuo sovrapporsi di ambivalenze di significati.     Tutto ciò è però certamente favorito da una società atomizzata, che ha dissolto nel bagno dell’individualismo egoista molti degli elementi fondanti che costituiscono invece il tessuto connettivo di una comunità di uomini e di donne, e dove in definitiva tutto ha un “prezzo” e quasi nulla ha più un  “valore”.

Cinque. Certamente è appropriata anche l’osservazione a proposito della necessità di una Politica, con la “p” maiuscola che possa (e debba) governare questi processi.     C’è bisogno di questa Politica proprio per non lasciare l’onere del farsi carico di questi problemi solo sulle spalle della seppur meritevole carità dei singoli, sostituendo così una questione di diritti mancati, con la più facile soluzione puntiforme di qualche caso isolato. In questo senso anche una certa gestione mediatica dei temi sociali contribuisce ad un basso profilo di “spettacolarizzazione” del dolore e del disagio, da trattare solo in certe occasioni, secondo certe convenienti angolature.   E soprattutto quasi mai sospingendo l’analisi fino al punto di andarne a toccare le cause ed i motivi che ne stanno all’origine. Un approccio poi dei temi sociali non limitato alla sola repressione, sarebbe persino suffragato da un possibile risparmio economico a patto però che si spostino le risorse dai capitoli che fanno riferimento ad una massiccia “blindatura” del territorio, a quelli che invece prevedono adeguate forme di accompagnamento all’integrazione sociale.   Invece il malcontento è cavalcato costantemente in modo opportunistico in politica:  la “tolleranza zero” ne è la sua mission ispirativa, mentre l’orizzonte basso dell’“educare non punire” sembra essere un principio fuori dal tempo, una cosa da “anime belle”, poco remunerativa in termini di consenso elettorale.     Ma eludere la distinzione tra comportamenti illeciti e persone che li compiono, e provvedere esclusivamente alla loro massiccia criminalizzazione, crea le premesse per acuire i conflitti sociali e non per risolverli. Questa impostazione può determinare un pericoloso consolidamento della divisione sociale tra una minoranza di cittadini super protetti, un’altra fetta, in un certo senso al “servizio” della prima, e un cospicuo segmento di “risulta” da consegnare direttamente alle varie “discariche sociali”. D’altro canto è necessario sottolineare che il livello di sviluppo, ma direi soprattutto di civiltà di una Nazione, non si misura solo in termini di aumento percentuale del PIL, ma specialmente sulla qualità delle azioni finalizzate  all’inclusione nel sistema delle fasce sociali più marginali.

Sei. Luigi Ciotti disvela l’universo delle “debolezze” umane che appare alquanto variegato:   esso contempla sia gli ambiti consolidati del disagio, ma anche altre e nuove condizioni.   Si è detto più sopra della precarizzazione del lavoro.        Potremmo citare inoltre i contesti di solitudine che avvolgono molte persone (non solo anziane) nelle nostre città.    Provando ad esplicitare il concetto con una metafora geometrica, se il perimetro che include la categoria dei “deboli” esiste, esso  non è un unico poligono, una specie di recinto dei reietti, più verosimilmente è una condizione comune purtroppo a molte, a troppe persone.

Sette. Quale allora la “forza”  dei “deboli”?      Sembrerebbe questa proposizione una contraddizione di termini, quasi un ossimoro.   Può essere “forte” chi è invece  in una condizione di “debolezza”? Una perniciosa “teoria” entrata però a far parte dell’ immaginario collettivo, indurrebbe a pensare che nelle società avanzate le possibilità di “successo”, intendendo con quest’ultimo termine prevalentemente il raggiungimento di un elevato livello economico (e quindi sociale!), sono alla portata di chiunque.   Secondo questo punto di vista tutti gli “attori” che prendono parte alla “grande corsa della vita” partono con le stesse potenzialità, e hanno la concreta  possibilità di raggiungere un  migliore status personale.   Se questo fatto non accade è certamente a causa di precise responsabilità del singolo.    Sappiamo bene come questa rappresentazione ideal tipica è ben lontana dal fotografare la realtà;   come ai rari casi di “self made man”, corrisponde invece una pletora di persone, che per dirla con un eufemismo “non ce la fanno”.   E certo non a causa della loro insufficiente volontà.    Per non parlare poi delle “regole” che spesso governano la citata “grande corsa”:   il contesto reale infatti è quello di un sistema italiano prevalentemente “familistico”,  che ha come effetto più evidente la conservazione dello status quo, mentre  come contropartita (solo per fare qualche esempio) la fuga dei “cervelli” all’estero, un mondo del lavoro sempre più asfittico e precario, la scarsa propensione all’innovazione, una mobilità sociale praticamente inesistente, ecc. ecc. Tra l’altro e’ altresì evidente  che non tutti i partecipanti partono dalla stessa “linea di partenza”.   Si prefigura così un particolare (e spesso fallace) superamento in chiave “individualistica” degli “…ostacoli di ordine economico e sociale…” contemplati dal noto articolo tre della Costituzione,  come compito specifico però della Repubblica Italiana e non dei singoli cittadini. Eppure questo “modello” solo apparentemente orientato verso la  competitività e le capacità personali, ha comunque un notevole appeal:   pertanto estremizzando, colui che  utilizzando le possibilità concesse dal “sistema” risulta essere “forte” se lo merita, e chi è “debole” anche.

Don Luigi Ciotti invece indica alcuni orizzonti di senso che permettono di uscire dalle secche di un facile conformismo omologativo e ad avere “il coraggio di sentirsi inadeguati”[ix], “…prendere le distanze da quella realtà in cui le merci sostituiscono le persone e il senso della vita dipende da quello che hai e non da quello che sei…”[x].    Il modello di sviluppo può presentare come “effetti collaterali” questi aspetti deteriori, ma a questo proposito esiste come sappiamo tutti una forza fisica e c’è però la forza delle idee, dei pensieri, degli ideali, che spesso traggono sostegno dalle personali convinzioni religiose.    Evidentemente Luigi Ciotti fa riferimento principalmente a quest’ultima tipologia di “robustezza” individuale la quale può diventare il segno specifico del carattere di tantissime persone.   Le sue riflessioni muovono verso la ricerca (o alla riappropriazione) di maggiori condizioni di libertà, di uguaglianza, di giustizia, di esigibilità dei diritti. Nessun uomo o donna nasce inesorabilmente corredato da un suo particolare status di debolezza, sono semmai le condizioni specifiche preesistenti e quelle successivamente poste in essere nel contesto sociale, che determinano il livello individuale di inclusione o il permanere invece in uno stato di subalternità. In queste condizioni se è immediato da comprendere che chi è prigioniero, ad esempio,  delle dipendenze va prima liberato da questa schiavitù, è però nel successivo passo da compiere, che si gioca la vera sfida di questi tempi.   A questa sfida possiamo dare un nome, e questo nome è “conoscenza”.    Conoscere quindi per scegliere liberamente, conoscere per esercitare i propri diritti, conoscere per poter meglio partecipare ed anche per appassionarsi.   E’ in questo processo virtuoso che la condizione iniziale di “debolezza” di tante persone può trasformarsi per molte di esse in una nuova situazione di “forza”.     Nel prendere man mano coscienza della funzione individuale e sociale dell’esistenza, che consente a ciascuno (nessuno escluso) di lottare per conseguire una qualità della vita migliore, e contemporaneamente per consegnare ai posteri il “mondo” in cui c’è dato di vivere un po’ meglio di come l’abbiamo trovato.    Sono dinamiche che presuppongono indubbiamente il coinvolgimento personale, ma che si sviluppano e maturano in un percorso collettivo. Da questo punto di vista è certamente condivisibile la posizione di chi non “condanna” duramente chi è nell’errore, così come parimenti non “esalta” eccessivamente chi pratica la virtù.    Se la seconda è certamente da incoraggiare e da preferire, è anche vero che chi cade nell’errore è spesso proprio chi non è in possesso di adeguati strumenti di interpretazione della realtà ed è quindi più vulnerabile.   Per queste persone sono maggiormente necessarie delle opportune azioni di “protezione”, piuttosto che quelle di “repressione”.    In questo senso non può essere fatto esclusivo affidamento solo sul “tritacarne” della Legge, che è fatta dall’uomo “per” l’uomo (specialmente se debole) e non “contro” di esso (specialmente se debole).   Ma è semmai più utile la ponderazione virtuosa della Giustizia.     E’ per questi motivi che il mondo dell’associazionismo, del volontariato, di una certa Politica può assumere un ruolo fondamentale,  per sviluppare azioni di inclusione e non solo compiti da “barellieri sociali”, rinunciando così alla dimensione istituente dei corpi intermedi, e di fatto confermando il modello sociale che genera gli squilibri che invece dovrebbero essere corretti.   Per rendere concreta la possibilità di  accesso alle professioni, alle istituzioni, alla Politica, anche per quelle fasce sociali che normalmente ne resterebbero escluse.   Perché se questi ruoli sono occupati prevalentemente (e stabilmente) da persone che sono espressione del  ceto sociale dominante, difficilmente i diritti dei più deboli saranno poi riconosciuti.

E’ in questa prospettiva che la testimonianza della vita e dei pensieri di Luigi Ciotti rappresenta sicuramente una “forza” per i “deboli”,  perchè è in grado di far emergere in modo propositivo le contraddizioni di un modello sociale caratterizzato da abbaglianti luci ma anche da altrettante inquietanti ombre, e soprattutto perché infonde la speranza che nasce da una concezione ostinatamente fiduciosa delle peculiarità umane.

[i] Selezione di articoli vari – Fonte: www.gruppoabele.org – (pagine interne al sito) –

[ii] Chi ha paura delle mele marce? – Ciotti Luigi – ed. SEI – 1992-2003

[iii] Persone, non problemi. L’utopia concreta della strada – Ciotti Luigi – ed. EGA – 1994

[iv] Storie ordinarie di vita precaria – Ciotti Luigi – in Messaggero di sant’Antonio del 15/05/2006

[v] La società civile contro la “mafia globale”  – Ciotti Luigi – in Testimonianze del 15/03/2006

[vi] Ibidem – come nota 5 –

[vii] Ibidem – come nota 5 – (sta nel titolo)

[viii] Ibidem – come nota 5 –

[ix] Il coraggio di sentirsi inadeguati  Ciotti Luigi – in Guida naz. dell’educ. al Consumo Consapevole del 09/10/2006

[x] Ibidem – come nota 9 –

Trascrizione della relazione di don Luigi Ciotti

Grazie Andrea, per le cose grandi che hai detto… Non è proprio così, ma lui è così generoso, così attento, così profondo.

Oltre un mese fa mi sono trovato una domenica a celebrare la messa a S. Luca nella Locride. C’era una chiesa strapiena di donne e di bambini, ma solo sedici uomini, la metà carabinieri, tutte le donne in nero. Alle preghiere dei fedeli un bambino dice: “Prego per mio papà che è in carcere”. Un altro bambino, “Prego per i miei fratelli che sono in carcere.”,una bambina, “Per mio nonno.” cioè tutta la dinastia…: S. Luca, è in Italia,  è nella Locride, sapete che a Natale è ripresa la faida, c’è guerra, gli uomini sono scappati sulle montagne, non vanno più a lavorare perché c’è il timore di essere uccisi, in questa faida. E’ un paese fantasma. S. Luca è una terra meravigliosa, in un contesto meraviglioso, però lacerato da questa violenza, da questi crimini, da queste faide che si trascinano nell’arco degli anni. Tutte le donne in nero, in nero non per costume, ma perché c’è lutto, c’è trasversalità di sofferenze, di profonde ferite. Questo avviene in Italia, nel 2007.

I bambini per più di un mese non sono usciti di casa, a scuola si faceva fortemente fatica, un bravissimo vescovo ha cercato di stanare la gente, un prefetto ha cercato di creare le condizioni per invitare ad uscire di casa le persone.. Questo avviene in Italia, in Calabria, terra meravigliosa. Ma a S. Luca è nato Corrado Alvaro,  voi certamente di lui avete letto dei testi, delle documentazioni, delle riflessioni di grande valore. Di tante cose che di lui si potrebbero dire è che ha fatto storia , che ha portato un contributo alla riflessione, alla politica, alla ricerca sociale, a leggere quei contesti, quei territori,oltre che alla letteratura. Vi vorrei dire un passaggio che mi ha sempre colpito di Corrado Alvaro che è questo:

“La disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.

Avete visto in questi giorni la festa della legalità per il primo anniversario dell’arresto di  Bernardo Provenzano. Credo che sia gravissimo quello che è successo e che sia ancora più grave che non si siano alzate delle voci attente, chiare e precise. Lo dicevo ieri alla LUISS, l’Università di Roma, “libera” Università. Non per semplificare, vi prego, ma per spiegare come quella che dovrebbe essere la voce onesta, trasparente, chiara, “la forza dei deboli” come Andrea ci ha  sottolineato con molta chiarezza e determinazione, oggi viene catturata, viene usata, viene “celebrata” creando confusioni, ambiguità: così si appiattisce tutto. Quella giunta che ha promosso l’anniversario della legalità, – può essere una cosa condivisibile che si celebrino dei momenti di festa per la legalità- quella stessa giunta, appena eletta, mise a vice-sindaco un mafioso, che fu costretto poi a dimettersi; il prefetto dovette sciogliere la cooperativa che aveva realizzato il sindaco precedente Giuseppe Cipriani, Pippo Cipriani, perchè infiltrata dai Provenzano, e con il sindaco di  quella giunta appena eletta la famiglia Reina andò a congratularsi ufficialmente. Quella giunta promuove nel primo anniversario dell’arresto di Provenzano la festa della legalità!

Voi capite perché il TG1 ha dato spazio alla notizia senza porsi una domanda? Dei quotidiani hanno fatto un articolo così senza porsi una domanda? E’ chiaro che questo va a togliere forza agli onesti, ai deboli intesi come persone chiare, trasparenti che stanno costruendo, stanno collaborando a costruire realtà nuove, mettendosi in gioco. Tutto questo è strategico, come è strategico destrutturare il valore dei percorsi costruiti nell’arco di questi anni; pensate alle cooperative fatte sui beni confiscati alla mafia., è proprio la forza delle idee che si fa realtà ed anche la forza dei segni, dei segni concreti : il potere dei segni condiziona il potere direbbe Tonino Bello.

 Oggi chi  fa le cooperative in Italia per andare a lavorare sui beni dei mafiosi? Le fanno le mafie. Hanno catturato quella forza, quel segno e destabilizzano tutto. Noi abbiamo scoperto, lavorando con chi ne ha la  competenza già tre cooperative infiltrate . Quella forza proprio costruita dalla base, dalla volontà di giovani, di associazioni per dare un segnale forte, chiaro, ai vari segmenti della società – tra cui quello della politica, evidentemente, ma non solo,  anche alla mafia- che vince il bene sul male, che vince la forza degli onesti, della trasparenza, la mafia l’ha fatta sua. Tre cooperative abbiamo scoperto.

 Com’è il meccanismo? Si usano i prestanomi, facce apparentemente pulite, che non hanno precedenti penali; poi nei paesi c’è una sete, innescata dal precariato, di lavoro, di prospettive e quindi trovate giovani che vivono con gioia una proposta che a loro appare trasparente ma che è giocata abilmente, strategicamente. Aderiscono alla cooperativa; c’è certamente la complicità di segmenti politici, magari gli amministratori locali, i funzionari del comune assegnatari, poiché  la legge stabilisce che passa attraverso i comuni l’assegnazione del bene. e La mafia si espropria a basso costo, perché pagano questi ragazzi  mezzo in nero, non li mettono a posto, ecc, e il guadagno  torna ai mafiosi , sono i mafiosi che usano le persone per lavorare sui loro beni.

Sapete chi fa le associazioni anti-mafia oggi in Italia? E’ la mafia, la mafia. Il signor Campanella, di cui avete sentito magari dire qualche cosa perché fornì i documenti falsi a Bernardo Provenzano per andare ad operarsi a Marsiglia , il signor Campanella anni fa fu arrestato.Avvenne prima della cattura di Provenzano, perché il cerchio su Provenzano si è lentamente chiuso con degli arresti importanti: Reina, Giuffrè, figure minori ma che erano quelle che gli permettevano di avere dei contatti, tra cui questo Campanella che gli forniva assegni di garanzia, un volto. Arrestato Campanella comincia a parlare, collabora, diventa collaboratore di giustizia e si scopre che lui aveva fondato un’associazione anti-mafia. Tanto è vero che quando Bernardo Provenzano è stato arrestato, tra i pizzini (sapete cosa sono i pizzini?) ne hanno trovato uno in cui Campanella chiedeva l’autorizzazione al capo per fare una bella manifestazione anti-mafia, che ovviamente Provenzano ha concesso. Quindi a Villabbate tanta gente onesta, pulita, col volto pulito- la forza dei deboli- si è trovata a manifestare per la giustizia, per la legalità, per la trasparenza, contro la criminalità, l’illegalità e contro le mafie, ma organizzata dalla mafia.

Avete capito che quella strategia, che quella  trasparenza, che quei percorsi, nel momento stesso in cui cominciano ad incidere, cominciano a preoccupare? E le preoccupazioni sono su due fronti in questo caso.In alcuni segmenti la politica è interessata: qui non generalizzo perché  alcune forze politiche, di cui dirò, disturbano tutta una serie di equilibri e se disturbano la mafia, le mafie, bisogna  creare scompiglio, creare ambiguità, creare sospetto, livellare tutto.

Campanella ha dichiarato-l’ho letto sul Corriere della Sera, pagine locali- che lui alle conferenze di Don Ciotti c’era sempre, prendeva anche appunti Campanella… diligente, serio, non solo lui, all’albero di Falcone, il 23 di maggio, applaudiva in modo convinto.

Tra i segni del nostro tempo rilevo oggi che in questi 12 anni è nato un grande coordinamento. Si cominciano a confiscare i beni, ad aprire cooperative di lavoro sui beni, esistono duemila scuole che, a titolo diverso, sono coinvolte in percorsi, e tante altre con altre realtà ecc., e la strategia è quella di svuotare, di creare ambiguità, confusione, destabilizzazione fatta in un certo modo. Ma c’è di più. E’ stato accertato dalle intercettazioni ambientali su Bernardo Provenzano che l’ordine di infiltrarsi c’è, ma il problema delle mafie non è solo Cosa Nostra ovviamente, immaginate la  ‘Ndrangheta, immaginate…..Adesso poi è di moda la mafia del caos: ognuno va per la sua strada, ma è stato intercettato l’ordine, da parte delle  mafie, di infiltrarsi nelle associazioni anti-racket ed anti-usura, di infiltrarsi. C’è un problema: in quelle forze, in quelle realtà deboli, intese anche come proposta culturale, sociale, politica, che chiedono l’affermazione dei diritti, che vogliono costruire nella legalità,  oggi c’è il problema di guardarsi attorno. Nasce il sospetto ed è quello che strategicamente viene suscitato.

E Libera stessa, Libera stessa si pone questo problema, perché Campanella aveva chiesto l’adesione a Libera, al coordinamento nazionale di una società civile che, con le sue fragilità, con i suoi limiti, ma anche con la sua ricchezza, ha cominciato a battagliare, a non fare sconti a nessuno, a chiedere  chiarezza e trasparenza, a essere un pungolo per la politica rispetto alle politiche sociali e all’intervento sulla criminalità e le mafie fatto in un certo modo, non all’acqua di rosa. Questo è il problema. Ora vi porto questa fragilità, perché la forza dei deboli, intesa nel senso che tu Andrea hai sottolineato bene, viene presa, viene frullata tutta e ci mette in difficoltà. Cosa si prepara dietro a tutto questo?  Un mondo di informazione disinformata!

Ieri a Roma c’era un bravissimo giornalista di un quotidiano italiano che m’ha detto: “Il mio giornale non mi ha permesso di spiegare quello che è successo a Corleone.” Perché? Perché  non si fa spiegare che chi organizza la giornata per la legalità, quello aveva nominato come vicesindaco un mafioso. Poi han dovuto allontanarlo in fretta, ma aveva messo nella cooperativa tutta una serie di personaggi equivoci. Il prefetto aveva dovuto sciogliere la cooperativa: immaginate con che fatica sciogliere una cooperativa fatta di giovani, ma il sindaco aveva  posto alla cooperativa la condizione seguente: se voi non prendete questo signore e questo signore io non vi do più l’appalto del lavoro, discorso molto semplice. La cooperativa non ha avuto la forza di dire di no, ha inserito delle persone e la prefettura ha dovuto intervenire, col mal di pancia, a sciogliere una cooperativa che aveva ceduto. Capite la situazione: questa è una strategia.

Parto da questa considerazione amara per invitare tutti a fare molta attenzione. Anche sulle cose positive, le cose belle, dobbiamo vigilare, essere attenti: le catturano, le fanno proprie e le destabilizzano.

 Vi porto un altro esempio che mi è molto chiaro. Io sono molto arrabbiato con questa enfasi che si fa sul bullismo oggi. Voglio anche spiegarmi. Non voglio negare che ci siano dei problemi, ma adesso si mette l’accento solo sul bullismo. Abbiamo una storia già alle spalle che voi mi insegnate. Anni fa sulla droga, semplifico, si è fatto di tutto nel nostro paese, poi più nulla! Come abbiamo avuto un’altra stagione in cui dopo l’11 Settembre non si è fatta più la lotta alla mafia nel paese perché tutto è stato investito sulla lotta al terrorismo e sulla sicurezza intesa in un certo modo. Sono delle stagioni. Il che non vuol dire che non bisogna valorizzare dei momenti, dei percorsi, delle situazioni che emergono in quel particolare contesto, in quel particolare tempo, ma qui c’è il problema che si creano delle grandi semplificazioni.

Mi permetto, in questo senso, di cogliere un mondo fragile e debole per leggerlo solo per titoli, perché non c’è tempo, ma è su questa realtà che noi ci interroghiamo e guardiamo oggi avanti. Mi permetto di leggere un attimo nel mondo dei giovani di oggi. Prendo questa fascia fragile, perché fragile è. Io ho presente un diario di un adolescente che mi ha sempre colpito per il titolo “Attenzione, materiale fragile, trattare con cura”: i nostri ragazzi sono così. Io me lo sono posto questo problema l’altro giorno al funerale di un ragazzino di 15 anni, suicida a Torino. I mass media hanno scritto della partecipazione dei giovani a quel funerale. Io c’ero, c’era un pullman della scuola con la sua classe, punto e basta. Credetemi, guardatemi in faccia, per piacere, c’era la sua classe, non so neppure se tutta la classe, c’erano i bravi insegnanti che sono venuti: è morto un ragazzo di  15 anni, in una scuola di 1.200 studenti.  Certo, qualcuno mi può dire che era la vigilia di Pasqua, c’erano altre esigenze, bisognava fare altro, non lo so, io non formulo giudizi. Porto alla vostra attenzione il fatto che tutti abbiamo visto immagini nel TG per cui pareva che ci fosse una  grande partecipazione… Certo io ho visto sofferenze nei volti di quei compagni di classe, ma non eravamo più di 300 persone a quel funerale. In quel paese, un grande paese, un bel paese, ci sono due sacerdoti, zii del ragazzino, quindi neanche questo conta più. Mi pongo allora delle domande, evidentemente di fronte a  quella fragilità, all’uso di quella vicenda di sofferenza e della fragilità umana di questo ragazzo, ma anche di un contesto. Allora cinque o sei passaggi  diventano importanti.

Comincio da uno. Oggi  noi abbiamo sempre  più giovani che diventano adulti sempre più tardi. Questo è un dato che non ho bisogno di spiegare, che voi conoscete molto molto bene: diventano adulti sempre più tardi e la transizione all’età adulta è lenta e più  lunga oggi. Gli uomini della politica si devono interrogare sul perché solo il 4% dei giovani si impegna in politica nel nostro paese. Ci sarà pure una ragione, anche rispetto alle coerenze, alla credibilità, e così via.  Quando vedi che nel mondo giovanile non lavora il 35% tra i 25 ed i 29 anni in Italia, uno si deve chiedere qualcosa. Quando tra i 33-34 anni c’è il 23% che non lavora, in generale, in tutto il paese, uno si pone un interrogativo: come possono  diventare adulti? Ma un dato forte che emerge, e voi me lo insegnate perché i ragazzi li conoscete, è che, anche se non bisogna generalizzare mai,  sono schiacciati sul presente. E voi trovate che non si impegnano: c’è una generazione che non si impegna. Se tu la stimoli, imponi delle domande, richiedi delle risposte, voi trovate un dato che ieri non c’era, che non si impegnano su scelte vincolanti per il futuro, perché hanno uno sguardo  faticoso verso il futuro: vivono il precariato, le incertezze.

Nel 1987, in una ricerca molto seria a cui noi avevamo partecipato in Italia, avevamo un 65 % che ti diceva cosa avrebbe fatto in futuro, faceva delle scelte;  nel 2004   l’80 % non le fa, non fa più scelte vincolanti perché vive di questa precarietà, di questa incertezza, di questa profonda oscillazione che c’è intorno a noi. E voi trovate che questa precarietà schiaccia una generazione sul presente. Quale presente?   Voi trovate di conseguenza, ma ve lo diciamo nel  senso di una lettura propositiva, perché vogliamo fare delle cose partendo dai segnali della fatica, che sempre più in molti ragazzi cresce  molto l’io e poco il  noi.

Siamo qui anche per chiederci che cosa fare, perché quella precarietà, quella incertezza ti proietta a cercate tu la tua soluzione e vedete che crescono sempre molto di più i valori individuali. I valori individuali sono ai primi posti. C’è  però un altro dato che è importante: ci sono meno giovani che vivono la politica, ma trovate più giovani che partecipano per il cambiamento.  Noi abbiamo visto che non credono magari nella dimensione politica, ma  hanno voglia di mettersi in gioco: qui c’è stata una crescita in questa direzione, che è un segno che deve essere profondamente colto.

Anche l’insicurezza che si respira, il bombardamento di temi ed immagini di terrore, le vicende note, insomma, fanno crescere il senso di fiducia negli organi di controllo e quindi i militari e le forze dell’ordine sono quelle che hanno più riscontro nel mondo giovanile. E’ impensabile rispetto al passato, perché sembra che si possa affidare lì questo ritorno di partecipazione.

Due dati su cui voglio riflettere sono i nuovi mondi virtuali. Oggi  la nuova agenzia di socializzazione è diventata Internet. Il 34 % dei rapporti amicali ed affettivi avvengono in via virtuale. Non dimenticate -se c’è un giornalista non lo scriva per cortesia- che il papà di Matteo, il ragazzo suicida, s’era sposato per agenzia. Non è un giudizio, è la situazione di un uomo cresciuto in un contesto tale per cui  non riusciva a trovare la persona per costruire il percorso della sua vita e lo ha fatto attraverso un’agenzia: Oggi abbiamo un’ulteriore agenzia di socializzazione che è Internet. Nessuno vuole dimenticare gli aspetti positivi della tecnologia, evidentemente, ma anche vogliamo cogliere i pericoli eventuali che vi si nascondono.

Noi oggi abbiamo sempre più esploratori di nuovi mondi attraverso Internet, nuove forme di socializzazione, ma cominciamo ad avere i dipendenti da Internet, che chiedono di essere disintossicati. Anni fa, il Gruppo Abele ha 41 anni, non avrei mai pensato che ci saremmo trovati due o tre elementi nel nostro scenario che ci hanno posto delle domande e degli interrogativi nuovi e ci hanno chiesto di realizzare dei percorsi di accompagnamento e di incontro nuovi. Mi riferisco a tutto il mondo del gioco d’azzardo e delle dipendenze che crea; ci sono  ragazzi che chiedono di essere disintossicati dal consumismo di cui diventano schiavi.  Anni fa noi non avremmo ragionato, non avremmo riflettuto, non avremmo aperto con altri questi spazi e queste opportunità, ma ci troviamo ora con una quota di persone giovani che diventano matti perché navigano 5,6,7,8 ore al giorno in virtuale, in totale solitudine, in Internet. Questi strumenti non sono da demonizzare, anzi possono diventare una forza per i deboli, in una  dimensione culturale e politica, per avere maggiori strumenti anche di conoscenza, anche di pressione politica, favorita da nuove modalità e nuove strategie.

Il 98% dei nostri ragazzi possiede il cellulare. A Scampia, che è un quartiere di Napoli difficile, che voi conoscete, dove  ci sono molte ferite e c’è anche molta povertà, la maggior parte dei ragazzi ha due telefonini. A Bologna muore una ragazza per un incidente automobilistico, insieme allo zio; le amiche, ragazzine quindicenni, sedicenni, vanno dalla mamma e spiegano che avevano fatto un patto, come abbiamo fatto noi da ragazzini, in un altro contesto sociale, con altre fragilità da adolescenti. La mamma scopre che le ragazzine avevano fatto un patto che purtroppo si è avverato in una tragedia: tra il ridere ed il serio le compagne avevano deciso che se fosse successo qualcosa a loro, sarebbero state sepolte col telefonino. Succede l’incidente, quello che uno non vorrebbe mai, e questa mamma disperata perché ha perso il fratello, lo zio della ragazza, e la figlia, vede arrivare le compagne. Lei resta disorientata, nella sofferenza nel momento, della richiesta delle ragazze: “Signora, ha messo il telefonino?” Però qui c’è un problema, il problema che il virtuale è diventato l’elemento identitario della relazione,.

E allora attenzione al fatto che noi diciamo che dobbiamo leggere le fragilità oggettive di oggi, anche le fragilità evidentemente soggettive che le persone vivono: non è perchè  io mi occupo degli emarginati, degli sfigati come si dice,  ma perché vivo nel mondo delle persone, nel contesto, ascolto i giovani, entro in quelle realtà, ne colgo le positività e le fragilità di oggi, che però ci pongono delle domande chiare, precise, forti, su piani certamente diversi. Oggi c’è un cambiamento che s’impone nell’ambito dell’educazione: diventa importante l’educazione all’uso responsabile delle tecnologie, all’uso di questi strumenti. Non si può sottovalutare tutto questo. Hanno una forza di penetrazione e di proposta che può essere indirizzata in modo propositivo, evidentemente, ecc.

Parlavo di bulli perché, anche qui non voglio semplificare, ma voi sapete che l’aggressività c’è dentro  ciascuno di noi, non è negativa l’aggressività, ma  va educata: ci vuole un’educazione dei sentimenti, bisogna accompagnare i nostri ragazzi leggendo i contesti virtuali di oggi, dove i giovani sono anche fortemente schiacciati. Dentro  ciascuno di noi c’è una quota di aggressività che, se aiutata e accompagnata in un certo modo, può portare ad atteggiamenti positivi, ad avere forza, passione, impegno. Vi devo dire che oggi, paradossalmente, per me è una gioia immensa essere qui;  nel momento di queste fragilità, nel momento di un mondo di giovani più ripiegati su se stessi perché c’è  precarietà, insicurezza che li circondano, mentre c’è una sfiducia nella politica, questa è una scuola di politica. E cresce il numero di giovani che partecipano, che ci mettono testa, che ci pongono delle domande, è la forza dei deboli. Deboli in questo senso

Io lo vedo con Libera: è una piccola esperienza, che non fa testo, dico a livello nazionale. C’è una richiesta di punti di aggregazione nel nome della trasparenza, della legalità, dei diritti, della pace e della giustizia.Ciò che Libera fa. Noi negli ultimi tempi siamo sommersi, ho detto sommersi, di richieste di fare presidi in paesi, in città, di mettere insieme associazioni, vogliono che si mettano assieme, e questo da una parte stupisce,  ma per me diventa un dato inquietante: Da una parte c’è la gioia di un lavoro che stai facendo, che stai condividendo, che stai allargando, dall’altra parte t’inquieta perché vuol dire che mancano dei riferimenti, sono venuti meno una serie di altri presupposti. Non è che ingrossando la tua realtà tu sei entusiasta  perché tu devi lavorare perché valga il territorio, cresca il territorio. Ma questo è il segno che trovate migliaia di persone, tra cui molti giovani, che hanno voglia di esserci, di contare.

Leggendo oggi i cambiamenti e le trasformazioni che ci sono, ne ho accennato solo alcuni, ne dirò altri,  sono venuti meno alcuni riferimenti e se ne stanno cercando degli altri. Noi abbiamo questa grande responsabilità da condividere insieme, su cui interrogarci, come io mi devo interrogare certamente sul bullismo. Oggi il video-telefonino amplifica i gesti, la tecnologia amplifica tutto ancor più  quei gesti che si facevano magari anche ieri, di cui ho ricordi sulla mia pelle…. Noi eravamo immigrati dal Veneto, eravamo visti in un certo modo, io mi ricordo di alcune vicende, di essere un po’ sbeffeggiato da alcuni ragazzini perché arrivando dal Veneto io avevo un accento dialettale; nei  primi anni c’era un po’ di fatica, nell’ impatto con la città e c’era chi si burlava di te. C’è sempre stato questo e chi aveva però alle spalle dei riferimenti ridimensionava le cose, comunicava, dava la giusta dimensione. Il che vuol dire oggi dare  attenzione anche a questa dimensione, ma senza enfatizzarla, senza cavalcarla come ho visto fare da più parti. Una cosa è certa, che per il ragazzo che fa il bullo, chiamiamolo così, c’è la crescita, poi prende coscienza di quello che ha fatto, questa è la storia. Ma per la vittima quella ferita resta sempre. Io che ho subito questo nella mia adolescenza vi  posso garantire che certe battute, che certe umiliazioni, che certi giudizi, fatti così dai ragazzi bruciano ancora ma c’è un problema educativo, di accompagnare la crescita. Oggi c’è l’amplificazione perché tu col telefonino e Internet mandi in circuito tutto.

E’ cresciuta la forma di omertà presente nei vari contesti. In quella scuola superiore di Torino dove avevano burlato quel ragazzo diversamente abile, da cui è partito tutto il dibattito -tutto e il contrario di tutto, ministri contro ministri- prima non esisteva nulla, poi, improvvisamente, attenzione, non hanno alzato la mano i compagni di classe per dire quello che è avvenuto, ma si è scoperto casualmente, due mesi dopo, in Internet. Casualmente, due mesi dopo, in Internet qualcuno ha intercettato quel video, ha denunciato quelle cose, si è scoperto qual era la scuola, ma l’omertà, il silenzio restano.C’erano i compagni che hanno visto, questo è un altro dato di fragilità.

Ma attenzione noi abbiamo due milioni di ragazzi in Italia, è il dato ufficiale, non è mio, che oggi vivono il problema delle anoressie e delle bulimie: è la dipendenza alimentare e si fa il discorso sulla droga? Scusate, perché tutto il dibattito deve essere sulla droga? C’è una lettura sulle dipendenze e ti ringrazio che avete richiamato per educare e non punire. E’ la scommessa di una società che deve trasversalmente, non solo su quei segmenti, credere nell’investimento, dare gli strumenti, scommettere sui giovani e scommettere sugli insegnanti, dare una formazione, e dare la giusta gratificazione necessaria, perché qui il problema è quello di una società di giovani fragili: quella ragazza ha lasciato sul diario il problema della sua fragilità.

La terza causa di morte tra i ragazzi tra i 15 e i 24 anni è il suicidio, in Italia, E’ il suicidio. E oggi voi percepite che in alcuni suicidi, non c’è la percezione che quel gesto è per sempre. Io me li sono studiati, scusate la parola, non mi piace, ho incontrato tante famiglie il cui ragazzo si è suicidato, o la ragazza, ho incontrato i compagni, sono andato a guardarli in faccia, sono ragazzini. Dobbiamo capire dove stiamo andando, dobbiamo fare in modo che anche queste fragilità diventino forza di proposta, di speranza, di coinvolgimento, ecc.

Forse io l’ho detto qui l’anno scorso, ma lasciate che lo riprenda per chi magari non c’era. Leggo messaggi di ragazzi che si suicidano, adolescenti. Oggi si lascia il messaggino via internet, si lascia col telefonino, c’è una nuova moda, si  usa questo, si annuncia ai compagni il suicidio. Capite subito che c’è un bisogno di esserci, di contare, di dire. Io ve ne leggo solo alcuni, ma cogliete dei passaggi che diventano importanti.  Sedici anni questo: “La vita è troppo difficile, scusate perché non sono capace.”

Si scusano e denunciano un contesto per loro  difficile, per noi che abbiamo una certa età è diverso, ma questi sono ragazzini. Allora uno deve fermarsi e porsi delle domande …

Alla base del caso successo a Genova, c’è un rimprovero , bisogna anche saper  mettere dei paletti, c’è modo e modo, ma c’è anche una fragilità, attenzione. La ragazzina manda l’annuncio del suicidio via SMS agli amici e dice “Scusate se vi ho deluso”, scusate! Capite che c’è una parola che torna sempre oggi? Ciò significa: “Vivo una vita che non è la mia, se non fossi nata sarebbe lo stesso. Io ho avuto il coraggio di farlo poi si vedrà.” Voi avete capito quello scusarsi? E’ il bombardamento di una società, dove quello che conta è l’immagine, l’apparire, il potere, la forza, la bellezza ad oltranza, dove l’uomo è macchina. Abbiamo visto tutti lo spot  di quel ragazzino che scavalca il muretto, poi è un adolescente, poi un giovane adulto, poi improvvisamente diventa automobile. Uno può anche sorridere, ma tu adulto hai più strumenti, per decodificare alcuni messaggi,  che i nostri ragazzi. Quando questa ragazza dice io ho avuto il coraggio di farlo poi si vedrà, non si vedrà più nulla dopo; non c’è la percezione, in una grande fetta di ragazzini suicidi oggi, che quel gesto è per sempre.

Ma dietro questi messaggi nella nostra società che corre, che produce, c’è la paura della solitudine. C’è solitudine. C’è la paura di non essere capaci di vivere. C’è la paura di deludere. Allora dobbiamo capovolgere il tutto: questa è la nostra scommessa. Vuol dire protagonismo, vuol dire coinvolgimento, una società che scommette sui ragazzi, che scommette sulla scuola, che scommette sulla famiglia. Io ho il mal di pancia per quello che sta succedendo in questi giorni, specialmente sui DICO: abbiate pazienza, dovremmo invece ragionare seriamente, aiutarci seriamente in contesti diversi a valorizzare, a sostenere, a incoraggiare, a fare quello che un grande vescovo ha detto: “Che non venga difesa questa famiglia, ma venga promossa.” E’ Martini, ma intanto l’hanno subito messo in cantone, in pensione, Martini è in pensione! Uomo di grande intelligenza e anche di grande umiltà. Che umiltà!

Io vi devo dire che  vivo una sofferenza (poi chiedo scusa se tocco la sensibilità di qualcuno) andando in casa della gente che non c’è più, incontrando quei padri e quelle madri, vedendo tanti altri contesti di situazioni in cui  qualcosa non ha funzionato. Chiedono un minimo di dignità e di diritti per guardare avanti, per sperare, per avere vita. Io poi mi sono  letto questi benedetti DICO, poi mi sono convinto che la maggior parte non li ha mica letti. Si parla senza averli letti, vedi che è una proposta prudente, che non tocca il valore, il sacramento del matrimonio, la santità del matrimonio. Non tocca quello, se no io non potrei dire nulla, per tutto quello che è la mia vita, i riferimenti, il Vangelo. No. E’ sacro quello, non è toccato. Allora io non capisco, non riesco a capire perché ci si oppone. Voi capite?

E vorrei che si scommettesse, per sostenere,per promuovere le famiglie, perchè diventino una forza propositiva. Ho parlato di giovani proprio per cogliere anche quelle fragilità che ci sono. Bisogna dare una mano anche in modo propositivo alle famiglie, per aiutarle a leggere i contesti, i cambiamenti, per aiutarle a costruire delle modalità educative, un educarci oggi ….ecco la forza dei deboli, nel senso di questi nostri contesti che possono essere forza, se trovano dei riferimenti. Non è opera di navigatori solitari perché una famiglia ce l’avete tutti, magari s’arrabbia, soffre, fa fatica… Bisogna creare le condizioni di quel noi, un noi che non giudica, che sostiene, che accompagna e aiuta.

L’ho detto prima, io vedo un mondo di giovani che ha voglia di impegnarsi. Ieri ero all’Università, la Luiss, questi ragazzi sono ad una università che costa, credo  sia la Confindustria che la porta avanti, non so bene….Però questi ragazzi sono venuti con le loro cravatte, diversamente da altri, a Polistena per la giornata della memoria e dell’impegno per le vittime della mafia. C’erano! Oggi, 11 università in Italia hanno chiesto di convenzionarsi con Libera, per fare dei percorsi, non sarà un caso. Alcune migliaia di scuole ce l’hanno chiesto. Noi i ragazzi li incontriamo. Vedi che si illuminano: possono essere critici, non essere d’accordo su alcune cose, ma questo fa parte di un costruire, del camminare. Hanno bisogno di punti coerenti, veri, credibili, non certo di adulti perfetti, ma certo di adulti che sappiano di autenticità e di passione, in una società che li cancella troppe volte. Non hanno bisogno di adulti che dicono loro di fare, ma che facciano insieme, che costruiscano percorsi di  protagonismo, di  partecipazione. Sono le cose che voi come genitori, alcuni forse già come nonni, vivete. E voi mi siete maestri. Vi sento vivi quando i ragazzi trovano in voi ed in sé forza, pressione, riferimenti…

Noi dobbiamo cogliere queste fragilità, queste debolezze che sono poi forza, perché ci aiutano a cambiare i nostri schemi, le nostre sicurezza e anche le nostre presunzioni, almeno certamente le mie. Io vi posso garantire che la vita me l’hanno cambiata le persone, in questi 40 anni di gruppo Abele, mai nulla a tavolino, ma cogli a naso il cambiamento, cogli le storie, magari le intuisci subito nelle persone. La politica ufficiale deve stare più appiccicata alla realtà e deve sopra tutto, io non mi stancherò di dirlo, deve sopra tutto creare le opportunità perché tutti possano parlare, dialogare ecc., creare le opportunità perché tutti possano essere ascoltati. Noi questo cerchiamo di farlo e la gente ha bisogno di questo.

Vi porto un esempio che potrà far sorridere qualcuno. Sono centinaia i familiari delle vittime della mafia, ognuno viaggiava per conto suo, la stragrande maggioranza dei loro cari, nessuno se li ricorda più, si ricordano  Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa perché ha un figlio eccezionale e porta lo stesso cognome, ma al tempo stesso è impegnato, si da dà fare, stimola, scrive. E degli altri?  Si ricorda qualche nome. Poi ci sono migliaia di familiari che hanno visto l’Italia vicina nei giorni del delitto, poi il loro dolore resta e l’Italia è lontana. Noi abbiamo fatto una cosa molto semplice, li abbiamo messi insieme. Abbiamo promosso la giornata della memoria e dell’impegno dove loro sono i protagonisti, loro; abbiamo cominciato a fare battaglia politica perché le vittime del terrorismo hanno delle attenzioni, dei sussidi e delle corsie preferenziali; le vittime del dovere hanno altre attenzioni, altri percorsi ed altre garanzie: le vittime della mafia, forse perché sono tante, hanno meno attenzioni. Noi li abbiamo messi tutti insieme, abbiamo cominciato a fare un’assemblea spontanea, nata l’anno scorso a Torino, continuata quest’anno a Polistena.

Che devo dire ?  Circa il 75% di loro non conosce la verità sulle morti dei loro cari, morti di mafia: abbiamo chiesto una sola cosa, che si equiparassero le vittime del terrorismo, del dovere e della mafia. Ventiquattro  ore dopo quel grido, lanciato davanti a uomini e donne di forze politiche diverse, nella giornata della memoria e dell’impegno, in cui le famiglie umilmente si sono anche un po’ raccontate veniva presentato il disegno di legge che, a corsia preferenziale già è in una commissione parlamentare. Lo so, non cambia il mondo, però la forza dei deboli è unirsi insieme, far conoscere la realtà. Non è semplice , non è così facile, non è così scontato, però questo mi sembra molto importante e fondamentale.

Io credo che la cosa importante nel mio piccolo è aver messo insieme tanta gente, aver creduto nei coordinamenti quando abbiamo messo in rete  le realtà che avevamo per l’accoglienza fondando il CNCA, poi la LILA, poi il Vaticano è intervenuto, mi sembra che c’erano anche i gay, c’è sempre questo problema, io cerco di mettere insieme e gli altri…..ma ci si incontra sui progetti, sui contenuti, sui diritti.

Però, devo dire, l’inchiesta me l’ha aperta proprio Ratzinger che è stato sempre molto corretto, lo devo dire per chiarezza, molto corretto. Una persona umile, una  persona di grande gentilezza, uomo di dottrina. C’è un punto sull’AIDS e quel punto è il preservativo che le Nazioni Unite avevano indicato tra gli strumenti….e anche l’OMS lo aveva indicato, noi come realtà trasversale che metteva insieme mondi diversi, abbiamo firmato il documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E in quel momento, le varie realtà provenienti da mondi diversi avevano chiesto, guarda caso, un prete per aiutarli a partire, quindi abbiamo firmato quel documento dell’OMS e qualcuno da questa città, da questa città fece partire il grande attacco che portò me a lasciare  e fu Ratzinger che allora, d’ufficio, dovette aprire il fascicolo.

Ma vi devo dire che subentrò il mio arcivescovo di Torino, l’unico cardinale che fece tacere Giovanni Paolo II, che fu per due mandati presidente della Conferenza prima di questo, Anastasio Balestrero. Era un religioso, era un carmelitano scalzo, uomo di contemplazione e di preghiera. Centoventicinque libri pubblicati e mai preso la penna in mano, ma le suore registravano sempre e poi sbobinavano.  Aveva una capacità di memoria, di espressione eccezionale. Giovanni Paolo II lo chiamò a predicare un corso di esercizi, scusate la parentesi ma vi dà la dimensione e lo spessore della persona, ha predicato in Vaticano la quaresima tanti anni fa evidentemente come lui era capace di fare.   L’ultimo giorno il Papa, la Curia ringraziano il predicatore; Stanislao, il segretario del Papa, rincorre Balestrero nei corridoi: “ Sua Santità …vorrebbe chiedere gli appunti, li fotocopio, poi le faccio avere tutto”. Balestrero, non so se ve lo ricordate, con quel faccione, con quel vocione, apre la borsa, guardate che è la verità io ne sono testimone, tira fuori un pezzo di carta non più grande di questo e glielo consegna. Lui aveva scritte  tre parole per giorno e lì costruiva tutto. Aveva  una capacità impressionante, di elaborare, con citazioni, una memoria ferrea, era un uomo di grande profondità.

Ma quando ci fu tutto questo lui si arrabbiò innanzi tutto, però mi fece piacere, perchè scese in campo  lui e disse: “ Don Ciotti non si tocca. C’è solo un problema -disse a Roma- Don Ciotti sta con i malati di AIDS, aperto  alle accoglienze, va sulla strada a cercarli, cerca di mettere insieme mondi diversi e così via, forse non vi si pone un dubbio?”.

 Lui voleva aiutare un suo prete evidentemente. Ricordo che mi disse: “Luigi non dimenticare, finché ci sono io non ti toccheranno”

Io con questo papa ho avuto questa vicenda, poi ha messo subito nel cassetto tutto perché autorizzato da Balestrero. Balestrero fece tacere Giovanni Paolo II, a Loreto disse:”Lei faccia il papa e io il presidente della Conferenza Episcopale Italiana,- qualcuno se lo ricorda- io faccio la mia parte, lei faccia la sua, però mi faccia fare la mia.” E fece storia.

Tutta questa parentesi per dire come è importante per me se metti insieme tanti e porti avanti una progettualità che ascolta, che costruisce insieme, che rende protagonisti. Allora c’è una proposta culturale, di conseguenza c’è un fermento sociale e c’è una proposta politica in senso lato. Bisogna che la politica ascolti questo. E vi devo dire che su alcuni temi che qui ho accennato si sta cercando di costruire con la politica “alta” per elaborare dei percorsi un po’ più attenti, però senza sconti, senza semplificazioni, evidentemente, non venendo meno ai contenuti Vi ho rubato un sacco di tempo. Grazie.

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