Giovanni Bianchi. Solo la sinistra va in Paradiso.

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Corso di formazione alla politicaSe nei primi anni settanta del cosiddetto secolo breve era “…la classe operaia ad andare in Paradiso”, secondo il punto di vista del regista Elio Petri espresso in uno dei suoi indimenticati film, nel momento storico attuale, in cui le classi sociali sembrano non esistere più, dove anche le neoformazioni partitiche spesso sono di matrice post-ideologica e desiderano interpretare la società tout-court, e non più solamente alcune sue componenti, è invece la più estesa platea della “…sinistra ad andare in Paradiso”;  questo almeno secondo l’interpretazione deliberatamente iperbolica espressa nel titolo dell’ultima fatica editoriale di Giovanni Bianchi. In realtà la questione è molto più complessa ed intricata,  “…la classe operaia, […], non va in Paradiso […], ma semplicemente cambia e sparisce, oppure diventa <invisibile>.   Resta una <questione operaia>, ma si presenta e si declina con modalità e ritmi affatto diversi…”.

Giovanni Bianchi. Solo la sinistra va in Paradiso.

1. leggi il testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo

2. leggi la trascrizione della relazione di Giovanni Bianchi

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premessa di Giovanni Bianchi (6’08”) – introduzione di Andrea Rinaldo (28’18”) – relazione di Giovanni Bianchi (1:09’45”) – domande (27’09”) – risposte di Giovanni Bianchi (45’48”)

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Testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo a Giovanni Bianchi

SOLO LA SINISTRA VA IN PARADISO – Tantonando, da credente, sulle strade accidentate della politica. 

Uno. Se nei primi anni settanta del cosiddetto secolo breve era “…la classe operaia ad andare in Paradiso”[1], secondo il punto di vista del regista Elio Petri espresso in uno dei suoi indimenticati film, nel momento storico attuale, in cui le classi sociali sembrano non esistere più, dove anche le neoformazioni partitiche spesso sono di matrice post-ideologica e desiderano interpretare la società tout-court, e non più solamente alcune sue componenti, è invece la più estesa platea della “…sinistra ad andare in Paradiso”[2];  questo almeno secondo l’interpretazione deliberatamente iperbolica espressa nel titolo dell’ultima fatica editoriale di Giovanni Bianchi. In realtà la questione è molto più complessa ed intricata,  “…la classe operaia, […], non va in Paradiso […], ma semplicemente cambia e sparisce, oppure diventa <invisibile>.   Resta una <questione operaia>, ma si presenta e si declina con modalità e ritmi affatto diversi…”[3].

Intanto è precisa consapevolezza dell’autore il fatto che non è compito della politica “moderata”, nel senso Sturziano della cognizione del limite, premurarsi dell’Eden poiché:  “… la politica non si occupa del Paradiso.  Anzi, segno della sua moderazione è lasciar perdere la salvezza, come cosa che non le appartiene…”[4], ed infatti la concezione della politica come facoltà umana libera da ogni argine ha comportato spesso l’annientamento della persona.   Può essere in questo senso evocata la figura del Leviathàn, cioè del mostro biblico distruttore ed immane, che metaforicamente incarna la concezione dello Stato quando quest’ultima diventa assolutistica ed opprimente.   Il Leviatano “…regge in mano una spada, simbolo del potere temporale, e nell’altra il simbolo del potere religioso, a indicare che, secondo Hobbes, i due poteri non vanno separati… Temi attualissimi, in costante ricerca di nuovi equilibri…”[5]. Un Leviatano però, e va detto, spesso accompagnato da un altro demone, tutto umano e niente affatto di stampo “istituzionale”, Mammona, incarnazione senza tempo dell’idolatria della ricchezza.  Così nella modernità, intesa nell’accezione restrittiva dell’accesso affluente al consumo, potrebbe non essere azzardato far assumere al Leviatano le fattezze allo stesso tempo seducenti e dispotiche del  “…<Mostro Mite>, cioè il paradigma di cultura delle masse della Neodestra…”[6], in pratica corrispondente a quella forma di “destra maggioritaria”  secondo taluni stabilmente al potere, o meglio “nei poteri”, e da diversi anni a questa parte.   Il saggio del politico Sestese si muove abilmente tra le due polarità dei poteri storicamente prevalenti (temporale e spirituale), scrutando però attraverso la particolare lente di ingrandimento costituita dall’insegnamento di ineludibili maestri della statura di un Lazzati o di un Dossetti.  Oppure seguendo le piste di riflessione del monaco francese Chenu, del gesuita Bartolomeo Sorge; della lezione appresa dal magistero pastorale del cardinale Martini, o di Raniero La Valle sull’esperienza Conciliare.  Della “riscoperta” di una sorta di matrice relativa ad un “cristianesimo popolare italiano” in Papa Roncalli o di un “ecumenismo contadino” in padre David Maria Turoldo.   Nelle quasi centonovanta pagine che compongono il testo emerge un’incessante incedere nell’esplorazione “mineraria” sempre più approfondita delle ragioni della spiritualità del cristiano e sulle conseguenti implicazioni relative al ruolo laicale dei credenti, nel senso che essi risultino, alla luce di un rinnovato rapporto tra teologia e politica,  sempre più protagonisti di tali questioni. Insomma la parola religiosa alimenta e nello stesso tempo trascende la politica:    ed ecco quindi lo scorrere fluente di pagine dense di riferimenti biblici o dottrinali, ricche di citazioni tratte dalle esperienze di taluni personaggi di riferimento; con non poche incursioni nell’universo “altro” della letteratura e della poesia, quasi che solo in queste forme espressive sia possibile sublimare ed esternare stati d’animo ed esperienze interiori.

Due. Il punto di vista è quello di un cristiano di sinistra, e sul rovello di come un cattolico fedele alla comunità ecclesiale ma non privo della volontà di riflettere attorno a talune questioni nodali, possa essere appunto cristiano nello spazio pubblico attuale e nella modernità.   Ma il focus non è centrato su quanto i due termini cristiano e di sinistra si tengano insieme, semmai su come ha funzionato tale connubio per Giovanni Bianchi.   Certamente è possibile essere cristiani anche essendo di destra, ed è questa probabilmente la compagine maggioritaria almeno a giudicare dai recenti risultati elettorali, e confrontando tali dati con il numero di persone che in Italia si definiscono cattoliche (“…il 90%…”[7]).   Tuttavia la nostra penisola sembrerebbe invece assai “…più ricca di atei devoti che di dubbiosi in ricerca…”[8], capaci spesso di giocarsi funzionalmente l’etichetta di credenti nell’agone politico, mentre come rammentava il Cardinale Tettamanzi “…è più importante essere cristiani che limitarsi a dirsi tali…”[9].    Si impone così il tema del senso da attribuire oggi agli aggettivi politici “di destra” o “di sinistra”, cioè a connotazioni che hanno in gran parte perso il loro significato originario, con la sola eccezione della dislocazione spaziale nell’emiciclo elettivo.  E’ semmai la dicotomia ad interessare, nel senso delle:   “…differenze di programma e di progetti.  Nella visione delle relazioni internazionali.  Nelle politiche fiscali.  Sulla distribuzione del reddito.  Nel giudizio sul fenomeno migratorio.  Sui problemi ambientali.  Sul ruolo della scienza e della tecnologia, e nel loro impatto sul costume e sull’etica…”[10]. Se genericamente possiamo identificare nella visione di destra la tendenza a salvaguardare la tradizione, le gerarchie, mentre in quella di sinistra la tensione verso l’uguaglianza e l’emancipazione,  in conseguenza della complessità di una società che è sempre più globalizzata e secolarizzata, le “carte” risultano sparigliate, e l’autore del testo che oggi stiamo esaminando può affermare che “…la cultura di sinistra, perso il riferimento al Libro (testi marxisti) e alla Grande Fabbrica, ripieghi con dignità sulla figura dell’ honnêt homme borghese…” [11], cioè sulla classe storicamente avversa.   Mentre quella che si riferisce al cattolicesimo democratico non possa non fare i conti con “…la questione sociale, irrimediabilmente vista dalla parte dei poveri…” [12], però non con un approccio superficiale o solamente domenicale durante le funzioni.   Comunque sia una buona parte del corpo sociale del nostro Bel Paese è esterna o indifferente a questi paradigmi interpretativi:   tutt’al più è maggiormente assimilabile alla più vasta categoria del trasformismo  come ebbe modo di dirci a suo tempo Salvatore Natoli[13], in un contesto, quello italiano, dove da tempo immemore “…le capacità adattive prevalgono su quelle progettuali. […]   Che premia i trasformisti e mette ai margini e in minoranza riformisti e riformatori, anche quando si fanno partito…” [14].    Alla luce di queste considerazioni possono essere lette le nette sconfitte elettorali del centrosinistra inanellate recentemente, ma anche quelle che si riferiscono ad un passato soltanto un poco più prossimo.  Resta poi l’altro aspetto nodale della questione, e cioè l’esser cristiani. Bianchi suggerisce la prospettiva di una “teologia minore” che è “teologia dell’impegno” e ne indica alcuni eminenti artefici, anche perché nel contesto attuale   “…la parola religiosa ha mantenuto una dignità che alla parola politica è negata dal suo estenuarsi dentro il gossip, quasi scivolasse lungo una montagna di sapone…”[15].   E’ rievocato poi uno stretto e più complesso rapporto tra utopia (idealità) e profezia (rivelazione), tanto che la prima potrebbe essere considerata come una trasformazione secolarizzata della seconda.    Si tratta di incontrare una modalità per essere cristiani penetrando dentro le storie di vita di uomini e di donne in perenne ricerca, spesso utopisti e in qualche caso anche profeti, che si mettevano ampiamente in discussione;  e comunque “…non praticavano lo sport nazionalcattolico di battere il mea culpa sul petto degli altri…[16].  

Tre. La crisi odierna della politica è, secondo l’ex presidente nazionale delle ACLI, crisi  di cultura e di personale politico, il cui ruolo spesso è di tipo “notarile” nella costruzione del bene comune, e appare insignificante ed ingiustificato se rapportato invece con i privilegi di cui gode appunto la“casta” . Di più (e peggio!), siamo “…confrontati con una politica trasformatasi in motore del disordine.  Non costruisce la città dell’uomo:  la lacera con i tentacoli della piovra, la fa deragliare in labirinti ove essa si smarrisce…”[17]. Che fare allora?   Innanzitutto riconfermare un primato del“civile”  e dei “corpi intermedi”, mutuandolo dall’insegnamento del Magistero Ecclesiale codificato nella Dottrina Sociale.   Perché la politica, come ama spesso dire Giovanni Bianchi, prendendo a prestito le parole di Hegel, “…nasce da quel che politico non è, e gli dà forma…”[18].    Lo Stato perciò deve essere una funzione della società civile, in quanto in quest’ultima albergano quei diritti che sono connaturati all’inalienabilità della persona. Il principio di “sussidiarità”  è il metodo ma la “solidarietà”, che però non può mai essere pura e semplice filantropia, è l’orizzonte complessivo. E’ la scelta che fecero i “Popolari” quando fondarono quel partito, è “…la scelta dei cattolici italiani, o almeno di una loro parte non maggioritaria, ma intensa, e capace di egemonia culturale…”[19] , ed è la particolare specificità per cui in “…Una società che attraverso l’apparato dei media e l’omologazione dei comportamenti generalizza un nuovo conformismo, rispetto al quale i cristiani hanno il dovere della critica e della testimonianza…”[20]. Si tratta anche di andare oltre a quei caratteri di intransigenza cattolica presenti storicamente soprattutto nelle regioni del nord-est, dove il popolo dei credenti si percepisce spesso come estraneo alle istituzioni e allo Stato, per recuperare invece una virtuosa dialettica tra la dimensione del civile e l’apparato istituzionale, anzi una circolarità (non definita a priori) tra civile-istituzioni e viceversa.      Come si declina però questo statuto nella modernità ed in forme laiche? Certamente non attraverso le ambigue fattezze paternalistico-conservatrici di un“capitalismo compassionevole”, ma semmai cercando laicamente (e faticosamente), magari “tantonando”, un “consenso etico tra culture”;  perché il destino non provvisorio degli uomini d’oggi è quello di un “meticciato”, che lungi dal corrompere le presunte identità, può espandere le qualità complessive della “famiglia umana”. Tutto questo implica una fatica del pensare perché “…chi non pensa la politica, non si concede cioè alla fatica che importa il riflettere […] si prepara a sgovernare e quindi a far correre rischi <infernali> ai suoi concittadini…”[21]. Ed infatti il pensare politica è già al novanta per cento fare politica, è una asserzione di Aldo Moro che ricorre frequentemente nelle conversazioni pubbliche di Giovanni Bianchi.     Non sono però delineate facili ricette preconfezionate, si tratta semmai di trovare i punti di convergenza sulle diverse issues, attraverso un dialogo fruttuoso che nasce e si sviluppa nella pluralità dei codici etici, a partire e non contro le diverse identità, lontano perciò da ogni tentazione integralista ed esclusivista del pensiero cattolico in politica:  così può essere intesa la particolare weltanschauung del già deputato Sestese e l’auspicabile cammino da intraprendere.

Quattro. Una laicità però tutta da inventare, imboccando la strada del primato dell’ascolto, magari sulla scorta di quell’insegnamento Martiniano della “Cattedra dei non credenti”, perché come ebbe a dire il Cardinale “…C’è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere…” [22],  e poi lo Spirito Santo soffia dove vuole, oltrepassando gli steccati, senza rispettare i confini tra chi crede e chi è estraneo alla fede. Laicità da coniugare con i concetti di autonomia e di responsabilità, distillando quindi dalle riflessioni e dalla pastorale dell’ex presule milanese, quegli elementi utili per un rinnovamento del pensiero politico, che consentano ai credenti di sperimentare il Vangelo dentro la polis, cioè dentro la città che è sì anche quella di Caino, ma soprattutto è oggi quella della molteplicità dei codici etici.[23]   Abbandonando la “…Vecchia forma di laicismo, che contrapponeva Chiesa e Stato, riducendo la dimensione religiosa al piano privato, senza alcuna rilevanza sociale…”[24], come osservava padre Sorge s.j., e rinnovando invece quella collaborazione politica tra credenti e non credenti, che potrebbe consentire di incamminarsi verso gli approdi di una “democrazia deliberativa”. Infatti alla luce di queste considerazioni Bianchi afferma che “…Si tratta cioè di elaborare un <neopersonalismo solidale e laico>, che consenta di passare dall’individualismo di mercato al personalismo comunitario, dalla solidarietà alla fratellanza, dalla laicità come opposizione alla laicità come collaborazione nella distinzione…”[25].   Verrebbe da dire a questo proposito che certamente dei tre grandi depositi universali lasciati ai posteri dalla Rivoluzione francese del 1789, la “fraternité” è ancora oggi la meno concretamente tangibile, e pensare che essa, così come la libertà,  ha certamente molto a che vedere con la “regola d’oro” proposta come minimo comune denominatore etico tra le religioni:  “…Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti (Mt 7, 12)…”[26].   Resta poi da vedere quanto spazio sia concesso oggi al cattolicesimo democratico, in un contesto di secolarizzazione sempre più avanzata, perché esso è stato sì in grado di generare “egemonia culturale”, attraverso diverse esperienze di Vangelo calato nella quotidianità e  spesso incarnato nelle storie di vicende umane “penultime”.   Ma tali narrazioni hanno sovente rappresentato solo un numero ridotto di sperimentazioni avanzate di cristianesimo “dalla parte di Marta”, per certi versi irripetibili, mentre la gran parte dell’universo ecclesiale era, è, (e forse continuerà ad essere) rappresentata da prevalenti sensibilità clerico-moderate.

Cinque. Voltando pagina troviamo il caso di Alexander Langer che rappresenta indubbiamente un unicum nel non entusiasmante panorama politico italiano.  Definito “viaggiatore inquieto”“portatore di speranza”“troppo etico”, e pertanto schiacciato fino al gesto estremo dall’insostenibile peso dell’etica.   Perché guardare ancora oggi alle vicende umane e politiche di Alex Langer?   Perché egli “…ci dice dal gorgo profondo della sua tragedia che non si può dare nuova politica nella restaurata stagione berlusconiana senza un nuovo guadagno etico: di un’etica <meticcia> ancorché condivisa…[27]. In lui infatti è viva la propensione verso una sorta di policentrismo decisionale in politica, non strettamente legato alla forma partito/apparato, e a chi ad esso vi appartiene, ma ai luoghi di formazione delle scelte laddove essi vengono a determinarsi.  Egli sembra pertanto più vicino a quel paradigma di democrazia deliberativadi tipo orizzontale e spesso di slancio spontaneo che si rammentava poc’anzi:  è la“faccia notturna della politica” dove la dimensione dei movimenti del civile s’incontra con l’architettura delle istituzioni.     Perché ha delineato una nuova figura di consumatore, restituendogli dignità attraverso l’acquisizione di una sempre maggiore capacità di autodeterminazione, nella logica però della cosiddetta “autolimitazione”  dei consumi, i quali alla lunga finiscono proprio con il consumare il consumatore.

Sei. A questo proposito però, può sorgere il dubbio che l’auspicabile linea politica dell’autolimitazionenel senso di vivere una vita maggiormente qualitativa,  consumando meno,  in modo più responsabile e consapevole, faccia a pugni con il credo più generalizzato, che vede invece ogni limitazione, come una compressione delle libertà individuali e dell’espansione del proprio ego attraverso una sempre maggiore capacità di acquisto, e in definitiva come una minaccia per la tenuta del sistema. Infatti da più parti, e soprattutto nelle fasi di recessione, si invoca la panacea dell’ottimismo, del mantenimento del livello di consumi raggiunto; anzi si auspica l’identificazione di nuovi e sempre più elevati standard di produzione o di acquisto di beni materiali.    Pressoché inascoltata è la Chiesa quando indica orizzonti di sobrietà, e non ottengono consenso anche quelle forze politiche più progressiste quando manifestano questi orientamenti che, al contrario, sono percepiti dai più come anacronistiche modalità di essere soggetti “penitenziali”.   Purtroppo poi il “sistema” premia pochissimo la ricerca, il merito, chi potrebbe essere in grado di migliorare non solo i prodotti ma anche e soprattutto la qualità delle relazioni umane: insomma chi si auspica un progresso partecipato e condiviso, e non l’accanimento terapeutico verso il mantenimento (mutatis mutandi) dello status quo. In aggiunta di tutto ciò, la mutazione antropologicaoperata dalla civiltà dei consumi ha trasformato nel profondo soprattutto quelle compagini del lavoro più esposte come quelle operaie, micro-artigiane, piccolo borghesi (anche se con tassi di elevata scolarizzazione), trasformandole da classi (se mai lo sono state) in ceti sociali, che hanno assunto comportamenti, stili di vita e consumi direttamente attinti dalla borghesia dominante di riferimento. Invece decisamente più “pericolosa”risulta quella fetta di esclusi, che stanno al limite o fuori dal codice penale, trattati perciò come un problema di ordine pubblico;  in questo senso può essere letto il bisogno spasmodico di sicurezzada esercitare spesso in nome del libero consumo preferibilmente sugli strati sociali più deboli, peraltro ben poco utili al consumo stesso.  Pertanto il busillis sta, non tanto, nella possibilità o meno di assumere un paradigma di sviluppo improntato alla sobrietà, ma su come quest’ultimo possa essere concretamente declinato nella civiltà dei consumi; intendendo pertanto la sobrietà stessa non solo come una riduzione quantitativa dell’utilizzazione di merci, ma anche come un orientamento di tipo qualitativo rispetto alla possibilità di fruizione delle risorse.   Ma non dovrebbe essere compito della politica, e segnatamente di quella di sinistra, orientare la produzione e la distribuzione di beni verso criteri di sostenibilità:  umana,  economica e ambientale?

Sette. E a questo proposito decisamente controcorrente è la prospettiva tratteggiata da Giovanni Bianchi nella parte conclusiva del suo testo.  Essa è lontana anni luce dalle pratiche della politique politicienne:  è invece “la nuova categoria del politico” a interessarlo, che ha come epicentro lagenerosità.   Infatti   “…Non si dà politica autentica senza generosità…”[28] , cioè senza l’azione di colui che per attitudine dà di più di quanto riceve.  Costui è animato da passione per la politica, tanto che per lui perdere non vuol dire mollare tutto ma casomai ricominciare: è qui che si percepisce lo scarto esistente tra la politica vissuta come passione e quella intesa invece come professione. L’etichetta riduttiva di “buonismo”appiccicata a questo tipo di approccio non incide però sulla sua reale capacità di stare sui territori, di innovare i contenuti e le tecniche del politico, come è stato ampiamente dimostrato dalle esperienze nei vasti campi dell’esclusione e della marginalità sociale di don Puglisi, Ciotti, Colmegna, Zanotelli o di Emergency e Medicines sans frontières, solo per citare alcuni esempi. In estrema sintesi è evocato un orizzonte alto di riferimento nutrito di speranza per l’uomo e quindi anche per l’uomo politico, che postula però come contropartita la necessità di operare scelte di vita anche sofferte.   Ad un voler cambiare il mondo e non solo ad un limitarsi ad attraversarlo descrivendolo; mettendo perciò le … ali alla politica[29], come ci suggeriva più di vent’anni fa il presidente di questo Circolo Dossetti.   Ad un essere per gli altri con generosità,  poiché come Giovanni Bianchi giustamente chiosa in conclusione del suo ultimo lavoro editoriale,  “…senza generosità del cuore non funziona la genialità del cervello…”[30] e in questo senso, magari alla lunga, “…la sinistra, provandoci e riprovandoci, mettendo lungo un filo come perle vittorie e sconfitte, finirà per meritare il Paradiso…” [31].

[1] La classe operaia va in paradiso” – Film, regia E. Petri, VHS ed. De Agostini (1992), Italia, 1971

[2] Giovanni BIANCHI, Solo la sinistra va in Paradiso, san Paolo, Cinisello B. (MI), 2009

[3] Ibid., p. 41

[4] Ibid., p. 7

[5] Ibid., p. 9

[6] Raffaele SIMONE, Il Mostro mite, Garzanti, Milano, 2008, p. 102

[7] Giovanni BIANCHI, Solo la sinistra va in Paradiso, san Paolo, Cinisello B. (MI), 2009, p. 132

[8] Giovanni BIANCHI, Nel paese degli atei devoti, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 36

[9] Giovanni BIANCHI, Solo la sinistra va in Paradiso, san Paolo, Cinisello B. (MI), 2009, p. 118

[10] Ibid., p. 56

[11] Ibid., p. 58

[12] Ibid., p. 59

[13] Salvatore NATOLI, La trasformazione non governata. Appunti sulla tipologia del mutamento nell’Italia degli anni 80/90, in Bailamme, n. 9, giugno 1991, p. 52 e segg., sta in vedi nota 2, p. 64

[14] Giovanni BIANCHI, Solo la sinistra va in Paradiso, san Paolo, Cinisello B. (MI), 2009, p. 64

[15] Ibid., p. 69

[16] Ibid., p. 79

[17] Ibid., p. 11

[18] Ibid., p. 8

[19] Ibid., p. 135

[20] Ibid., p. 134

[21] Ibid., p. 17

[22] Ibid., p. 81

[23] Per un approfondimento si veda:  Giovanni BIANCHI, Martini “politico” e la laicità dei cristiani, san Paolo, Cinisello B. (MI), 2007

[24] Giovanni BIANCHI, Solo la sinistra va in Paradiso, san Paolo, Cinisello B. (MI), 2009, p. 86

[25] Ibid., p. 87

[26] Ibid., p. 121

[27] Ibid., p. 150

[28] Ibid., p. 186

[29] Giovanni BIANCHI, Le ali della politica, Morcelliana, Brescia, 1987.

[30] Giovanni BIANCHI, Solo la sinistra va in Paradiso, san Paolo, Cinisello B. (MI), 2009, p. 188

[31] Ibid., p. 15

Trascrizione della relazione di Giovanni Bianchi

Grazie ad Andrea Rinaldo. Procederò così: due contestualizzazioni, una relativa al titolo che non è stato scritto da me, e una relativa a come queste cose vadano lette nel contesto nel quale siamo entrati in questi giorni. Perché credo che un discorso politico debba sempre mettere le pagine anche di una riflessione in situazione, altrimenti facciamo della politologia, della letteratura, del sociologismo che non ci aiuta gran che e che non è lo stile della nostra, e tanto meno della mia, riflessione.

Il titolo. Poco prima, un paio di mesi prima, forse anche meno, delle elezioni dell’aprile scorso, mi chiamò Mancuso, il teologo in questo momento più sulla cresta dell’onda che è il mio editor presso le Edizioni Paoline, dicendomi: “Giovanni, perché non facciamo un instant book dove tu dici le ragioni per le quali un cattolico può essere di sinistra – e infatti il titolo, il tema, sul quale ho lavorato inizialmente era “Può un cattolico essere di sinistra?” – e chiediamo a un altro di svolgere un tema relativo all’altra faccia della luna: “Può un cattolico essere di destra?”. E avevano scelto, e la cosa a me andava benissimo, come interlocutore don Gianni Baget Bozzo, scomparso la settima scorsa. Fra l’altro io ho sentito Gianni… alle volte è vero che si dice ma il destino… era qualche anno che non lo sentivo più, mi ero imbattuto per un lavoro che ho da poco terminato su un suo giudizio intelligentissimo, come spesso gli accadeva, sul ’68, mettendo il ’68 – e questo, come dire, in contrasto anche con Papa Ratzinger – non come continuità dell’Illuminismo, ma come contrapposizione all’Illuminismo in quanto grande espressione dei soggetti. E a me, che considero il ’68 una grande esplosione nei due sensi, grande esplosione delle soggettività e poi grande esplosione delle soggettività che finiscono dentro la gabbia di ferro dei processi che è la tesi che abbiamo vista esposta, e che io condivido, nella bella prefazione a quel tomo sull’operaismo degli anni ’60 con il quale abbiamo cominciato il corso, di Mario Tronti, quel libro scritto da Pino Trotta e Fabio Milani.

Allora avevo chiamato Gianni dicendogli: “Ho visto questa cosa, la condivido, tu come stai, eccetera”. Lui mi disse semplicemente: “Sai (che è anche una frase fatta), sono vecchio e malato”. Due notti dopo l’hanno trovato morto nel sonno. Però la voce che gli avevo sentito era normale, quel suo farfugliare zampillante, e così via, e credo sia il più comprensivo il giudizio che ne ha dato Massimo Cacciari: “Non ho mai incontrato nessuna persona tanto inquieta e sul piano intellettuale e sul piano religioso”. Che spiega anche tutta una serie di svolte sul piano intellettuale.

Poi, Gianni che non si sentiva bene ha buttato la spugna. A quel punto io avevo cominciato a scrivere quelle che dovevano essere le 50 pagine dell’instant book e ho finito, e poi il gruppo del marketing delle Paoline in una riunione ha trovato questo titolo che è Solo la sinistra va in paradiso, il che mi ha obbligato anche a rivedere, nei due capitoli iniziali, il rapporto con il tema.

Qual è il senso di questo approccio? Io non mi metterei mai a difendere la necessità che un cattolico sia di sinistra, semplicemente la possibilità che un cattolico possa essere di sinistra. Quindi, la mia tesi è: un cattolico, dopo il Concilio, dopo encicliche come Octogesimo adveniens di Paolo VI, può operare una serie di scelte politiche pluraliste. E quindi io non difendo l’esigenza o la possibilità dei cattolici di essere a sinistra, difendo soltanto la possibilità dei cattolici in politica di assumere una pluralità di posizioni. Quindi, quando difendo il mio diritto, chiamiamolo così, a militare a sinistra, devo difendere e difendo espressamente nel contempo la possibilità per un altro cattolico di essere di destra. Il di più mi sembra stupido e venire dal maligno. Quindi questo difendo.

E poi do le ragioni invece per cui io milito da sempre a sinistra. Se dovessi ridefinirmi ,direi che mi sento un operaista bianco, ne fa fede quel famoso convegno della fine anni ’70 organizzato da Cacciari a Bologna e presieduto allora da Giorgio Napolitano, sulla fine dell’operaismo. Ero l’unico operaista bianco come risulta anche dagli atti. Prima di me parlò Sergio Bologna, che allora era il grande leader dell’autonomia e fui, come dire, sorretto in particolare da Aris Accornero che mi accolse così: “Sei l’unico cattolico di sinistra e operaista che non è populista”. Ricordo perfettamente questa sua definizione.

Sono lì, se proprio volessi ricollegarmi a un filone che è presente nella tradizione cattolica democratica mi definirei, ecco, un catto-laburista, che vuol dire Dossetti, Mario Romani, il pensatore che sta all’origine della Cisl, come sindacato italiano che guarda agli Stati Uniti d’America, e Giulio Pastore. Questa è la grande triade e poi, secondo me, in questa triade si inserisce perfettamente anche Ermanno Gorrieri. Questo è il filone.

Continuo a ripetere che diversamente che nella vita, uno la famiglia in politica se la sceglie. Nessuno di noi ha scelto di nascere, l’ha scelto qualcun altro per noi. In politica invece la famiglia te la devi scegliere. E questa è una delle tesi che sostengo anche nel libro. E siccome parlo da una parte, io credo sia sempre importante parlare da una parte: pur essendo un atteggiamento ecumenico, molto attento alle ragioni degli altri, la politica è parte che poi si combina con altre parti, Quando non si intende questo si rischia di fare un sacco di confusioni. Ecco, questa è la mia parte ed è bene che in politica uno la famiglia se la scelga, se la costruisca.

Noi abbiamo un esempio preclaro dell’altro fronte: Umberto Bossi. A me ha sempre stupito una cosa di Bossi, l’atteggiamento pedagogico che ha coi suoi, una pedagogia in certi momenti, a mio giudizio, addirittura repellente, però continua, totale. Si è inventato i Celti, si è inventato il pratone di Pontida… Pensate quanto lavoro sul simbolico profondo. E senza di questo non educhi, la politica non può fare a meno del mito, anche la politica cristianamente ispirata. Senza di questo non educhi. Queste liturgie pagane lungo il Po, le ampolle d’acqua annualmente riempite al Monviso e poi trasportate sulla laguna di Venezia, che sappiamo tutti è operazione idraulicamente inutile, ma tutta carica di significato simbolico. I Celti, non sa nessuno, non c’è nessun antropologo che farebbe scommesse sui Celti, e questi si sono inventati il matrimonio celtico, Calderoli e non solo lui. I giochi celtici.

Perché? Perché in politica tu devi avere la tua famiglia, te la devi scegliere. Senza questo grunto una forza politica non parte e devi stare attento anche a non farla troppo estesa, a non scambiare la famiglia con una cooperativa, tipo Pantheon che è probabilmente un errore veltroniano all’inizio del Partito Democratico. Per cui si andava a Montesole e si nasceva là per Dossetti,   andava a Barbiana e là si nasceva per Don Milani, poi bisognava nascere in Sardegna perché comunque non puoi fare a meno di Gramsci, e poi Norberto Bobbio e quindi vai a Torino, e poi, perché no, il mito kennediano ti impone di andare a Dallas, se non alla Kansas University per il più bel discorso della retorica politica che io ricordi in epoca moderna che è quello sul PIL di Bob Kennedy. Troppe culle. Però, il trovare un riferimento questo è essenziale per la politica.

Ecco, quindi questo mi sembra l’altro elemento. La famiglia in politica te la devi scegliere per guardare al futuro. Dico una banalità, con l’autorità di Polly Curtis, la memoria non è un dato, è una costruzione. E senza memoria non fai politica, non ti confronti con la progettualità del futuro, quindi l’operazione di individuare tutto questo mi sembra essenziale e questo è un altro degli elementi che mi sembrano di assoluta importanza.

Quindi il credente è legittimato dopo il Concilio a una pluralità di scelte politiche, i credenti sono legittimati a questo, devono trovare un’unità che non è nella politica; la politica è conflitto, è contrapposizione, è anche mediazione, ma è anche conflitto: la politica divide, la religione unisce diceva Sturzo. Non è sempre vero che la religione unisca, però è un’indicazione per dire come quantomeno la politica abbia per compito anche la divisione che poi si compone: non c’è politica senza conflitto, non c’è democrazia senza conflitto. Da questo punto di vista, Tronti dà una definizione in quell’introduzione che è anche molto guerresca, forse eccessiva dal punto di vista del rapporto con la violenza, ma è la tradizione leninista che arriva lì; lui dice: la politica è guerra civile nel senso di guerra civilizzata. Non arrivo fin lì ma certamente la politica ha bisogno di tutto questo e quindi una pluralità di scelte.

La cosa assolutamente non da fare è dire che il cattolico debba essere di sinistra oppure di destra. No, il cattolico scelga cosa vuole essere. Questo è il deposito conciliare e il resto mi sembra stupido e addirittura figlio del maligno.

Detto questo poi dò la ragione per la quale io milito da sempre a sinistra, mi sono definito… non sono mai stato un centrista, neanche da presidente del Partito Popolare, sono sempre stato per questo guardato con un po’ di sospetto da chi veniva da una tradizione di centrismo democristiano. Infatti, io sto nella cultura cattolico-democratica secondo quel filone che ho detto; ho il vantaggio di saperlo.

Poi avevo un vantaggio politico, e anche elettorale, che per la percezione dell’italiano medio, il cattolico comunque è moderato. Sei iscritto dagli altri, anche dagli avversari, tra i moderati, cosa che io ho sempre cercato di non distruggere come immagine perché in politica è quanto meno giovevole. Le mie radicalità le esercito ma in genere non ho l’abitudine di gridarle in piazza.

Cosa è intervenuto in questa decisione di stare a sinistra e di militare a sinistra. Due cose essenzialmente; la mia città, Sesto San Giovanni. Sesto San Giovanni ha una storia, è un mito operaio, è il luogo principale del fordismo in questo paese, anche se questo fordismo, lo ripeto anche qui, è durato a Sesto soltanto 90 anni esatti. La prima colata è del 1906, l’ultima del 1996. Un’epoca, il fordismo. Novant’anni la velocità di caduta della civiltà, impressionante. Sesto aveva ancora a metà degli anni ’70 quarantamila tute blu. Non ce n’è più una di tute blu  Si arriva a malapena a mille operai dipendenti. E tutto questo in 90 anni. E poi incomincerà quel post-fordismo del quale sappiamo che è post e rispetto al quale cerchiamo incunaboli, reperti e con le diagnosi che si fanno da questo punto di vista.

Al posto delle grandi fabbriche che sorsero nel 1903, epoca giolittiana, la prima fabbrica, la siderurgia in pianura, fabbriche che sorsero direttamente dai campi di granoturco, siderurgia in pianura, quella siderurgia che stava soltanto sui monti, pensate al bresciano, pensate Val Camonica, pensate Val Trompia, e così via per i torrenti ricchi d’acqua eccetrera. Milano è ricchissima d’acqua tanto è vero che oggi le falde in assenza di quel grande consumo che volevano le industrie siderurgiche e metallurgiche sono stracolme e spesso abbiamo le cantine allagate. Viene impiantata a nord Milano, a Sesto San Giovanni, l’industria siderurgica, con tutto quello che poi seguirà: il fordismo, il socialismo, il partito comunista e così via.

Quindi la mia città, la Stalingrado d’Italia. Stalingrado come la Stalingrado che reggeva alle armate di Von Paulus. Non siamo un modo di dire Reggello o un guareschiano Don Camillo e Peppone. No. Qua, 1943, i primi scioperi in Europa a Sesto San Giovanni, nell’Europa occupata dai nazisti. Diventiamo Medaglia d’Oro della Resistenza come città, quella notte stessa dello sciopero incominciarono le deportazioni nei lager. Quattrocento sestesi sono morti là.

La mia città influisce e poi il particolare cattolicesimo della mia città, quello imparato all’oratorio. La mia è una teologia in fondo parrocchiale. Io ho votato per la prima volta per il presidente del circolo giovanile dell’Oratorio San Luigi di Sesto San Giovanni, la democrazia ho imparato a esercitarla lì, e poi via via nell’associazionismo.

Queste sono le ragioni, che non sono ragioni soltanto razionali, come non sono soltanto razionali le ragioni per cui si sceglie politicamente. La politica si sceglie con la testa e con il cuore, in un contesto, in una tradizione, magari in rottura con quella tradizione, Il padre fascista e tu fai il comunista, o viceversa.

Ecco quindi così spiegato, da una parte la legittimità della pluralità di scelte e del perché io sono nato qui; e descrivo, sono le uniche poche righe che leggo dal testo oggi, e descrivo anche una temperie particolare della mia città. Infatti, nella scelta entra la città da questo punto di vista, che sintetizzo un poco così sulle vicende di questa Sesto: “Vegliava il grande campanile quadrato che sovrasta la chiesa prepositurale di S. Stefano, distintasi nel dopo guerra per la vocazione by partisan dei suoi sagrestani. Non di rado infatti la chiusura dei comizi coincideva con una carica del Celere di Padova, famoso per la sbrigatività dei metodi anti-sommossa. E mentre le jeep braccavano gli astanti con spericolati caroselli, ecco spalancarsi, qualunque fosse la giornata e l’orario, le porte della chiesa, oggi assurta al rango di Basilica Minore. E avresti visto cattolici ferventi, e non di rado integralisti, e bestemmiatori incalliti trepestare gomito a gomito sugli scalini del sagrato per raggiungere insieme l’ultima opportunità del diritto di asilo”.

Un idillio se vogliamo chiamarlo così, secondo la letteratura greca, che dà un’idea di questa Sesto San Giovanni dove il principe del foro delle piazze, si chiamava Giancarlo Pajetta, e il suo grande antagonista polemico (allora si facevano anche i contraddittori in piazza, con piazze rumoreggianti e ogni tanto il rumore andava anche nei bicipiti) e il grande antagonista di Giancarlo Pajetta che si chiamava Oscar Luigi Scalfaro.

Questa è la Sesto di allora che determina il mio orientamento. Quindi un credente che sta a sinistra, che non lo ha mai nascosto anche se, devo dire, fu Baget Bozzo una volta a scrivere che “comunque, per quanto stia a sinistra, Giovanni Bianchi è un catto-cattolico”. Mi fece un favore. In questa Sesto, quindi una scelta fatta in questo modo.

L’altro elemento che mi sembra importante dire. E sono i primi due capitoli. La sinistra non va in paradiso, la politica per favore non si occupi del paradiso, non è compito suo. Spesso i politici promettono miracoli, anche se nessuno glieli chiede, può servire un terremoto, possono servire altre cose, degli scenari più incredibili. No, la politica crei delle condizioni di buona convivenza. Questo deve fare la politica, il buon governo, questa è la lezione totalmente sturziana. Sturzo prende le distanze da socialismo e comunismo, da fascismo e nazismo perché a qualche titolo promettono palingenesi, società hombre nuevo, dirà poi qualcuno in America Latina decenni più tardi. La politica deve avere grandi ideali, sporgenze profetiche e utopiche ma deve governare al meglio questa terra. Si astenga dal promettere cose che stanno in cieli improbabili anche se utopici. Anche se, ripeto, l’utopia serve perché la politica non è riducibile ad amministrazione, ha bisogno di queste spinte e deve muoversi in questa direzione. E mi sembra che questa è tutta la lezione del cattolicesimo democratico.

Grandi idealità, ma anche grande capacità, che deriva da che cosa? Dove incomincia il cattolicesimo democratico? Dal senso del limite E quindi anche il senso del limite rispetta… questa è la grande innovazione politica di Sturzo nel nostro paese. La politica deve pensare in grande, deve essere capace di profezie e di utopia, di mito, e però deve avere il senso del limite, sapere che altre cose esistono nei cieli e sulla terra che non sono riducibili alla politica. Guai a ridurre la dimensione estetica, ad esempio, avresti il realismo socialista o il realismo fascista, che non sono un vantaggio per l’arte. Il cattolicesimo democratico incomincia con l’acquisizione del senso del limite e quindi anzitutto del proprio limite.

Ed è in questa direzione che io credo, ora che è in termini ironici che si dice, che si può dire, che la sinistra va in paradiso.

A questo punto mi pongo anche una domanda che qui è svolta in maniera colta ma che era una domanda che mi crucciava dopo le elezioni di aprile. Come mai abbiamo perso? Non dimentico la serata del 10 aprile, la chiusura della campagna di Walter Veltroni a Milano, anche perché l’avevo organizzata io che non passo per un grande organizzatore, ed è vero. Erano trent’anni che un partito politico non riusciva più a riempire Piazza Duomo e noi ce l’abbiamo fatta, in una serata piovosa. E allora? E allora c’è una spinta ma la risposta che io mi sono data subito il giorno successivo è stata questa: abbiamo presentato al paese un partito riformatore ma la maggioranza del paese non vuole le riforme.

Questo è il mio giudizio, non complesso, non complicato. Noi pensiamo che realmente risponde al bisogno del paese un’esigenza di riforme, di trasformazioni. E poi le diverse culture possono anche altercare, scontrarsi, misurare vicinanze e distanze tra di loro per capire di quali riforme ci sia bisogno, ma il complesso del paese rispose allora: ci sia continuità. Questa è la vittoria di Berlusconi.

Ricordate anche una cosa. Alla vigilia del voto, a me è successo anche in dibattiti televisivi, che qualcuno dell’altra parte mi dicesse: “Capisco, rispetto alle sue idee (che non erano diverse da queste) come Berlusconi dica che bisogna guardare al Partito Democratico”. Anche dall’altra parte l’ipotesi detta a media vos era che dopo le elezioni ci sarebbe voluta anche in Italia la grande coalizione. D’altra parte, il partito maggioritario di Veltroni ha inevitabilmente come interlocutore dialettico Berlusconi.

Poi le cose sono andate diversamente, la controparte dirà nei giorni successivi: “Abbiamo preso più voti di quanto ci aspettassimo” e spesso le leadership inseguono i propri elettori, anche in questi giorni. E quindi perché questo Berlusconi? Io do un giudizio su Berlusconi dicendo, non vorrei scomodare Hegel per dire che rappresenta lo spirito del tempo. Lo dirò così con un ossimoro: è l’imitazione autentica di questa società, che ha pur contribuito coi suoi media a costruire. E porto un esempio: vi sembrerà banale ma ognuno si sceglie le icone, le epifanie che per lui sono state tali.

Ricordo un Natale quando Tony Blair andò tra le sue truppe in Iraq. Berlusconi era sparito, per 10 giorni non si sapeva dove fosse; io mi sarei aspettato che se ne andasse a Nassiria in mezzo ai nostri soldati. No, dopo 10 giorni apprendemmo che era stato in una clinica svizzera dove si era fatto il lifting, eccetera. Frivolezza? No! No! Berlusconi è tutto dentro le logiche di questa società. E probabilmente dàfastidio anche a lui la mattina mettersi il cerone da subito, ma ha deciso da sempre di parlare non con il suo interlocutore, ma con l’occhio della telecamera.

Io ricordo nel ’94 colleghi anche della sua parte in Parlamento che mi venivano a dire scandalizzati e perplessi: “Sai, ho visto Berlusconi in transatlantico, quanto cerone che ha su”. Non hai capito una cosa. Che non è qui in Parlamento per parlare con te o con i parlamentari, ma ogni volta si rivolge al paese e si rivolge attraverso i media e il mettersi il cerone credo che anche per lui possa essere un peso, una sofferenza, ma lo fa perché è totalmente dentro alle logiche di questa società.

Solo se capiamo questo si capisce il fenomeno. Non è un virus. Poi ci mette l’iperbole, del suo, l’iradiddio. C’è qualcosa di caricaturale, la lettera della moglie Veronica, di malato nel personaggio in questi eccessi. Probabilmente sì, ma è tutto dentro lo spirito di questa società della quale lui ha capito essenzialmente una cosa, sulla quale noi della sinistra fatichiamo. Noi parliamo generalmente a un cittadino, come se gli italiani d’oggi fossero i figli o i discepoli ancora di Toqueville o di Montesquieu. Lui da sempre sa, non direi existitus Spiritus Sancti che è una cosa da non scomodare, ma naturaliter che bisogna parlare anche più al consumatore.

Quanto c’è di consumatore nel cittadino italiano? Non erano così gli italiani nel momento in cui i costituenti scrissero la Costituzione: allora si rivolgevano a dei cittadini, oggi quando tu parli deve rivolgerti a un cittadino che deve restare tale, devi trovare le formule politiche, ma che è anche in gran parte consumatore. È qui che si inserisce quella cosa, quella definizione del mostro mitico, così come lo ha chiamato Calise, che io credo che sia una cosa con la quale fare i conti.

Non a caso Berlusconi, dicono i suoi biografi, dagli esordi in Mediaset dice ai suoi, e lo dice oggi ai politici che lo contornano: “Ricordatevi che il nostro utente ha fatto la terza media e non era il primo della classe”. Gli americani direbbero più alla plebea, a prova di scemo. Però è questo. Una delle cose sulle quali la sinistra balbetta, pur avendo tentato esperienze di consumo, pensate a Nadal (?), a cosa ha significato negli Stati Uniti d’America e così via, è questo connubio, questo ircocervo, questa chimera che è il cittadino consumatore, con le passioni che lo contraddistinguono e probabilmente anche le forme del politico sono chiamate a tener conto di questo.

E quindi questo è anche l’approccio a Berlusconi che sta dentro a questa logica finché dura. D’altra parte ci hanno provato i francesi e poi non sono andati in porto. Il Tapis  era sulla medesima strada, in Libano c’era un Berlusconi del Libano, nel sud-est asiatico ci sono i Berlusconi del sud-est asiatico, nel Brasile prima di Lula abbiamo avuto un personaggio totalmente mediatico che rispondeva ai facenderos del Brasile: ecco non siamo più e non governiamo più soltanto dei cittadini. Questo secondo me è un problema che la politica deve porsi e che la sinistra fatica a porsi.

Poi facendo delle rincorse, assumendo anche i vizi dell’altra parte, facendoci ogni volta tritare a “Porta a Porta”, una trasmissione dove per la sinistra, se va bene, fai zero a zero fuori casa. Ma dietro cosa sta? La malvagità? No! Stiamo facendo i conti con una cittadinanza di consumatori. Che vuol dire? Come passa il confine? Dove le tecniche? Dove il tipo di messaggio? Come l’organizzazione può tener conto di questo? Perché, per esempio, Forza Italia incomincia con tutto un apparato destinato ai consumatori e però poi crea progressivamente sul territorio un personale politico che non è più soltanto di piazzisti. Pensate alla metamorfosi di Galan in Veneto.

Quindi, ci sono cose per le quali bisogna incominciare ad avere le categorie per pensarci. E poi questa distinzione ancora, questa è classica, tra destra e sinistra. Io prendo come riferimento il libretto di Norberto Bobbio. Norberto Bobbio diceva con molta autoironia e disincanto: “È il libro al quale ho lavorato meno e col quale ho guadagnato di più, è quello che ha più venduto”. Un libro che dice semplicemente che il termine destra e sinistra è all’origine una distinzione geografica, di quelli che sedevano alla Assemblea dell’89, della Rivoluzione Francese e quindi poi ci sono delle trasformazioni in questo: classico quello italiano nel primo Parlamento italiano, la destra sono i conservatori e la sinistra sono i liberali. Con la comparsa successiva dei socialisti, alla destra si spostano i liberali e la sinistra è rappresentata dai socialisti. Questo a dire le trasformazioni che si danno anche storicamente.

Di più, io credo di condividere in questo caso un giudizio, lo dico, di Michele Salvati il quale dice che oggi ci sono tutta una serie di temi che non sono di destra o di sinistra, questo è anche vero. Io non credo sia comunque caduta la possibilità di guardare da destra e da sinistra, anzi penso che debba essere recuperata, per il bene della democrazia, per il bene della ricerca, questa capacità di guardare. Porterò un caso dell’oggi, che nel libro ovviamente non c’era, e che è una riflessione che vado facendo in questi giorni a partire dalle categorie che qui mi sono approntato, sulla realtà. La cosa che Norberto Bobbio comunque ci consegna è questa: attenzione che una democrazia ha comunque bisogno di una dicotomia. Senza chi governa e chi controlla, la democrazia non regge. Quindi possono mutare i ruoli di destra e sinistra, possono subentrare ai liberali nella sinistra del Parlamento italiano i socialisti, ai socialisti potranno subentrare gli uomini della sinistra radicale, e così via con tutta una serie di trasformazioni, ma senza una dicotomia la democrazia che conosciamo non funziona. E questo è un grande lascito, poi puoi chiamarla destra e sinistra, ma comunque hai bisogno di una dicotomia. E questo credo sia un elemento.

La cosa sulla quale voglio richiamare l’attenzione nell’oggi – poi ci sono tutte quelle osservazioni che troviamo al capitolo quinto – è tra una destra che viene soprattutto considerata più naturale, più vicina alle passioni come sono, e una sinistra più artificiale ossia che ha bisogno di più formazione politica, e di più studio per essere tale perché la destra in genere, e la conservazione in particolare che normalmente si colloca a destra, mantiene quel che c’è, non ha bisogno di spirito critico (il giudizio dato sulle elezioni di aprile); e una sinistra invece che ha bisogno di presentare un’altra Italia, un altro paese, che An other world is possible. Questo è uno dei caratteri della sinistra, dei punti di vista e ha quindi bisogno nelle diverse fasi storiche di crearsi criticamente un punto di vista, che è quello che io credo oggi manchi alla sinistra, al fronte riformista italiano; potete chiamarlo un punto di vista dove le diverse culture possano incontrarsi, dialettizzare, mischiarsi, meticciarsi, eccetera eccetera.

Qui c’è una categoria in genere misconosciuta ma che è stata introdotta nei primi anni ’90, siamo al 1991, con un saggio sulla rivista che facevamo allora Baillame, da Salvatore Natoli il quale dice: state attenti che in Italia più che destra e sinistra vince il trasformismo. Questo trasformismo, Andrea Rinaldo l’ha già richiamato opportunamente, questa capacità di adattamento, se volete un corifeo del trasformismo soprattutto in chiave storico-economica è De Rita; i cespugli, l’adattamento, è lui che ha coniato quella frase che è tutta dentro al trasformismo italiano, la sua filosofia: secondo me, l’Italia non va avanti per riforme ma per evoluzione, che è un modo per dire la medesima cosa.

Ecco io credo che questo sia vero, ovviamente Natoli dice: “Il padre della politica italiana, la fonte, non è tanto Machiavelli quanto Guicciardini”, e appunto tutto questo per inquadrare storicamente e filosoficamente. Io penso che per la nostra ricerca, per il nostro dibattito, sia più utile mettere nell’oggi la cosa. Cosa vuol dire questo trasformismo nell’oggi. Io credo che in questi giorni abbiamo superato una soglia. Al di là del fatto in sé, la legge sul reato di immigrazione rappresenta il giro di una boa, rappresenta una nuova fase dove il trasformismo cambia, come dire, diventa più feroce, più barbaro. E il populismo a sua volta cambia.

Io non le sto a rileggere, me le sono prese. Stella ieri ha fatto un’operazione molto bella ritornando a una dichiarazione degli anni ’90 governo di Romano Prodi quando una motovedetta della nostra finanza con una manovra sbagliata speronò una nave albanese facendone annegare molti. Il Berlusconi che allora si esprimeva, che invitava gli italiani alla generosità, all’accoglienza, che si offerse di ospitare lui stesso personalmente una dozzina di questi, eccetera eccetera, non è certo il Berlusconi di oggi. Qui il problema però politico, diciamocelo una volta per tutte, non è dirci che Berlusconi è come Fregoli, non serve a niente tutto questo, ma perché quelle dichiarazioni e perché quelle di oggi? Questa è la domanda politica.

Perché è cambiata la fase. E la fase è cambiata nel senso che la categoria del politico che è stata gestita in questi anni, che non trovate in quelle di Carl Smith se non in maniera…. che è quella della sicurezza, perché questa che è la categoria del politico che ha attraversato la politica di questi anni ed è arrivata a una fase di svolta.

Cos’è che è cambiato? Ogni tanto bisogna andare per tedeschi per capire, perché non è cambiato soltanto in Italia, ci sono anche elementi che potete prendere come punti di riferimento e che vi suggerisco: l’11 settembre, Guantanamo, la dottrina Bush, Sarkozy e la risposta alle banlieu, una legge del ’55 estesa a tre mesi mentre là valeva soltanto per 12 giorni. Cosa c’è dietro tutto questo? Qual è l’interpretazione politica di questa categoria del politico che è la sicurezza e delle sue trasformazioni? Ho detto andiamo per tedeschi. Jacobs, tedesco, ha detto che siamo passati da un Burger Rest, da un diritto dei cittadini a un diritto del nemico.

Cos’è accaduto? Ricordate quando chiamammo Ciotti qui e ci parlò… Noi spesso facciamo dei riferimenti con il nostro passato, noi che siamo un paese di emigrazione, noi che siamo un paese di immigrazione, pensiamo agli anni ’50, i meridionali. Ricordo le battute di Ciotti, di quella sua inchiesta, i meridionali che a Torino guardavano le gambe alle donne, solo i meridionali, non lo so, e solo alle torinesi, spero di no. Che cosa è cambiato rispetto a questo?

Che comunque la visione giuridica e politica che stava dietro era che l’altro era un altro ma era un concittadino. Qui invece il diritto che sta passando è che convivono nella medesima nazione, nel medesimo stato il cittadino e il nemico. Questo è il salto. E quindi il diritto di cittadinanza si accompagna a un diritto del nemico considerato come tale. Questo è il salto che anche l’Italia, e probabilmente non solo l’Italia, non sono in grado di fare a meno dell’impronta degli studi comparati da questo punto di vista, però il fatto che i tedeschi, come al solito, ci arrivano, sono precisi, codificano, accanto a un diritto convivono; per gli italiani irregolari c’è un diritto di cittadinanza, per l’altro il diritto del nemico dentro i confini del medesimo stato.

Ecco allora configurato come reato l’immigrazione clandestina, ecco perché le espulsioni, ecco perché quei luoghi di accoglienza con l’estensione nel tempo per poi il respingimento, il respingimento fatto manu militari, poi attraverso le motovedette della finanza, della marina e quant’altro. Questo è per la prima volta: dentro lo stato non trovi soltanto dei cittadini, trovi anche dei nemici codificando un loro diritto, ovviamente con la distanza, con il pregiudizio che il nemico comporta. Questa è la soglia che anche l’Italia ha superato in questi giorni.

Badate con un mutamento delle sensibilità e delle rispettive culture, anche questo vorrei farvi notare perché la cosa l’ho vissuta anche personalmente. Come sapete, io ho fatto il relatore della legge italiana per la remissione del debito estero, volevo far passare questa legge, giustamente, come una legge di tutto il paese e quindi trovare le ragioni anche nelle culture politiche, che non sono la mia e che stavano all’opposizione, per portarle su questo terreno. Perché la politica è di parte, ma si rende conto anche del cosa sia l’altra parte, perfino delle ragioni dell’altra parte, della sua cultura per condurla a una mediazione. Ma devi partire anzitutto dalla tua parte, se no dove diavolo medi. Ecco perché io non sono d’accordo con le uscite di Fassino, di Chiamparino e anche quelle di Penati. Non è vero che in questo senso la sicurezza non sia né di destra, né di sinistra: poi la pratica devi renderla una pratica di cittadinanza, ma le posizioni si devono confrontare nell’interpretazione. Se no intorno a che cosa medi? Perché le cose cambiano è da dove tu le interpreti, tanto è vero che il totus politicus D’Alema non perché sia buonista (è lui che ha legittimato i bombardamenti sulla ex Yugoslavia senza passare per il Parlamento e io gli ho fatto l’opposizione coi 101 contro la guerra in Kossovo), ma siccome D’Alema è totus politicus uno scivolone del genere non lo fa. E sa benissimo che poi potrà fare tutte le mediazioni necessarie ma, dice, il mio punto di vista è diverso rispetto a questo. Dove esiste la politica. Quegli altri probabilmente sono grandi amministratori. Però c’è una grande distanza tra l’amministrare bene e il fare politica, e in questo momento la scopri.

Perché ho detto questo? Perché quando feci quella legge io avevo di fronte due culture essenzialmente con le quali dovevo cercare di dialogare avendocela messa tutta: quella della Lega e quella di Alleanza Nazionale. Fu più facile con Alleanza Nazionale perché introdussi un articolo, il VII o VIII della legge, nel quale si dice che i paesi debitori possono accusare di usura i paesi creditori rivolgendosi alla Corte dell’Aia. L’argomento che usai fu quello culturale del loro più grande poeta, che è un poeta che io amo moltissimo, uno dei testi che leggo e rileggo sono i Canti Pisani di Ezra Pound che è un poema contro l’usura. E dissi: come, voi che … c’è questa componente di sinistra in AN; Er Pecora ha sempre fatto battaglie per gli inquilini insieme a quelli di Rifondazione in Parlamento; anche Alemanno viene da quel versante. Ci sono. E quindi l’usura…e questo argomento, messo anche bene, avendo chiarito che avrei tenuto la legge fuori da un uso elettoralistico dalla mia parte, fu approvata.

Avevo il problema della Lega. Anche la Lega si è incattivita. Cosa fa questo diritto codificato in questi giorni che a  Senato è prevedibile che passi? Realizza quel principio che la Lega nella sua pedagogia ha chiarito: padroni a casa nostra. Ci siamo? Oggi hai questo, tanto è vero che per l’altro se non… è considerato non  un cittadino, no, ma è considerato (io credo che l’espressione di Jacobs sia corretta) un diritto del nemico. C’è un sospetto, non può dichiarare i figli, il medico dovrebbe denunciarlo. Tutte queste cose le legittimi, riesci a capirle soltanto se capisci che c’è un altro diritto, non è più dal punto di vista della tua cittadinanza, ma è un altro tipo di cittadinanza, quella del nemico che viene ad abitare sotto il tetto del medesimo stato. Io vorrei che questo fosse estremamente chiaro.

La Lega però aveva anche il versante buono dei padroni a casa nostra che era aiutiamoli a casa loro. Che è giusto come slogan e io lo usai. Cè fece un primo intervento in aula dicendo che avrebbe votato contro. Gli dissi: “Guarda, ripensaci, ci sono queste cose” e devo dire che Cè rifece un intervento (del tutto inusuale il dibattito in aula ma comunque importante) e disse: “Mi hai convinto, lascio libertà di voto”. I leghisti hanno votato tutti a favore. L’argomento con il quale li avevo convinti era bisogna anche pensare, secondo me è giusto, aiutiamoli a casa loro. Anche perché a casa loro più disastri degli europei chi li fanno? Gli americani con le loro tre linee che sono quella del Dipartimento di Stato, della Cia e delle multinazionali. Poi i profughi arrivano in Europa. Quindi hanno un problema anche là.

In questo caso, intorno al ruolo della Libia bisogna pensarci. Anche su quel territorio ci sono tutte una serie di cose, non si possono by-passare, però bisogna guardarle da questa logica. Quindi anche la Lega si è incattivita da questo punto di vista. La risposta l’ha data Bossi. Qual è? “La gente sta con noi, andiamo noi. Franceschini ascolta il Presidente della Repubblica che paventa accenti xenofobi, noi invece ascoltiamo la gente.”

E la gente la pensa così, perché l’uso della categoria della sicurezza fatta in un certo modo… ecco perché non è vero che non è di destra o di sinistra. Perché sopra tutto lo scontro con le difficoltà avviene nei quartieri popolari. Tronchetti Provera è ben contento di condividere la sua casa con una immigrata quale Afef. Il massimo che arriva nei quartieri alti di Milano è il domestico filippino, la badante ucraina, altre cose… queste stanno nei quartieri popolari. E in un periodo di crisi è addirittura un classico la guerra tra poveri, che anzi è il criterio col quale capire alcuni elementi di xenofobia che emergono negli strati popolari di questo paese. E quindi il mutamento della Lega radicata in quelle cose, ha a sua volta un indurimento. Non a caso il ministro Maroni che non è uno dei più beceri leghisti, non è né Borghezio, non è Castelli, anzi è uno dei più dialoganti anche come cultura, però volendo interpretare la fase, volendo lucrare anche elettoralmente: questa è la cosa.

Io credo che questo muta il vissuto di cittadinanza in questo paese e le culture politiche non possono non confrontarsi in ordine a questo; è qui che ci si divide sui punti di vista, sinistra o destra, poi chiamatelo motociclismo o automobilismo, non mi importa, ma per dire che ci sono due posizioni, o più, dalle quali guardare il problema. Noi stiamo, a mio parere, esattamente qui, E quindi il recuperare tutta una tradizione, un punto di vista è fondamentale. Le sbandate by partisan non servono in una fase come questa: bisogna aver chiaro dove ti collochi, le difficoltà. Poi c’è chi decide di incassare tutto e subito elettoralmente come sta facendo il centro destra, tu puoi lasciare che il tuo grano marcisca un po’ per avere la spiga tra qualche tempo anche perché in questa fase è molto difficile muoversi diversamente, visto che negli Stati Uniti si sono mossi così e dopo il disastro è emerso addirittura il presidente meticcio che sembra nero. Quindi io credo che qui davvero le categorie del politico debbano confrontarsi. Chiudo.

Solo due cose rapidissime. Perché ho scelto Alexander Langer. Avevo il problema, ma in politica hai sempre bisogno di testimoni. Attenzione, testimoni non testimonial. È una cultura di destra quella dei testimonial. Testimoni, esperienze, saperi che nascono sul territorio e così via. E ho trovato questa figura di Alexander Langer, più di confine: genitori evangelici, già dal liceo bisogna trovare qualcuno per il problema delle etnie, tedesca, austriaca e italiana; bisogna trovare qualcuno che tradisca da una parte e dall’altra, bisogna trovare coloro che mettono ponti, quella stupenda cosa che secondo me tiene il passo con la lettera a Pipetta di Don Milani, che è la lettera a San Cristoforo, che aiutava ad attraversare l’acqua, questo stupendo pezzo di letteratura. E la tragedia, io credo per un filone di depressione che attraversa il suo albero genealogico. Questa è la mia convinzione sul suicidio di Alexander, che avevo incontrato più volte anche Tusla  quando andavamo durante la guerra nella ex Yugoslavia. E ho voluto prendere questa icona più inquietante, non una di quelle figure già un poco canonizzate che sono i La Pira, i Lazzati, no, Alexander Langer. Più inquietante, meglio riflettere…. E ti lascia dicendo: “Non ce la faccio più, continuate a fare la cosa giusta” e io chiudo dicendo: fosse facile capire cosa è la cosa giusta da fare oggi.

E poi la conclusione. Mi sono inventato questa categoria della generosità. Perché? Questo deriva dall’esperienza. D’altronde bisogna riflettere sugli uomini e sui fatti, oltre che sui libri e sui classici. Del resto è un insegnamento di Hobbes questo qua. E l’esempio che porto è quello di Gandhi, credo che sia davvero uno degli uomini più generosi in politica e proprio questo gli ha concesso di fare la marcia del sale, di portare quel grande continente in fondo che è l’India a livello della più grande democrazia del mondo, poi ci mettono un mese a votare, come è successo anche adesso, però è una democrazia; con tutte le contraddizioni, le caste, i ramini, gli intoccabili, i maraja ancora. Che cosa è quest’India? Una democrazia. Ecco quello che non ci deve far paura delle democrazie è la complessità. Anche della democrazia americana, perfino Kissinger ha scritto: “Non riusciamo a capire come funzioni” però alla fine viene fuori la decisione democratica. Ecco, la cosa che non deve spaventare è la complessità delle democrazie, che non a caso ci oppone alle semplificazioni dei populisti.

Poi ecco questa categoria della generosità: io credo, e chiudo su questo, che anche l’esperienza fatta politicamente mi ha convinto di due cose. Le difficoltà della politica, della politica di centro-sinistra, della politica di sinistra, della politica critica, della politica dei riformatori in questo paese sono due: una la mancanza di un punto di vista di cultura politica che si costruisce anche con mattoni presi dalle vecchie culture. Invece trovi spesso la gran parte dei politici che sono in fuga dalle rispettive culture. Questo non serve assolutamente a nulla, è disastroso. L’altro elemento è questo personale politico; è vero, questo è l’unico paese che a far data dall’89 ha azzerato tutto il precedente sistema dei partiti di massa, eccetera ma adesso praticamente chiamiamo partiti cose che partiti non sono più; abbiamo una partitocrazia senza partiti. Partiti personali. Cito ancora Norberto Bobbio; il partito personale è una contraddizione di termini perché il partito è un’impresa collettiva e non si può definire così e non può essere così.

Nella pratica abbiamo ormai delle corporazioni per il mantenimento delle rendite politiche di un ceto politico che proprio perché fatto così non riesce a essere classe dirigente; questa mi sembra la situazione. E quella che è la categoria generosità che vuole criticare e inquietare è proprio questo. In Italia le stime che vengono fatte da Stella, dagli altri politologi, ormai sono parecchi, è che circa 700 mila persone vivono di politica, dal Presidente della Repubblica, dalla più alta magistratura dello stato, a quanti stanno, che so, nelle comunità montane, nel consorzio per l’acqua potabile della Provincia di Milano, intutta una serie di cose delle quali non sappiamo neppure l’esistenza, ma che sono occasioni di rendita politica.

Occasione di rendita politica e con un personale politico che cerca anzitutto di mantenere le proprie rendite, con un rimbalzo tra quelli che erano militanti che la gente dice che se loro si fanno i fatti loro, io mi faccio i fatti miei. Questa è l’origine della disaffezione politica. Hai bisogno di un personale politico giustamente che pensa anche alla propria famiglia, come è in tutte le categorie, e che però abbia anche quella generosità, un tempo l’avremmo chiamata senso del bene comune, quell’utopia senza la quale un ceto politico non si da. O meglio hai un ceto politico e non hai una classe dirigente.

Questo è l’empasse del nostro paese. Per questo faticano i partiti e credo che questo richiamo alla generosità serva almeno a porre questo tipo di problemi. La classe dirigente che ci sta alle spalle era piena di dorotei, di un sacco di cose, però c’era anche la generosità che veniva dall’incubazione dentro la guerra, dalla grande occasione della Costituente e questa secondo me è andata persa. Laddove per generosità definisco quello che Nino Andreatta definiva in termini negativi: quello che rovina questa politica è la tirchieria mentale. Io ho cercato di metterla in positivo. Io credo che questo sia davvero, insieme alla mancanza di cultura, il difetto di un ceto politico che non riesce a essere classe dirigente.

Va forzato. Io credo alle iniziative che vengono fatte, vi assicuro stanno moltiplicando. Il pomeriggio sono a Varese, in questo caso e il Partito Democratico ci ha invitato, l’altro è un giornalista di Famiglia Cristiana a discutere il problema dell’immigrazione, della democrazia, eccetera. Si moltiplicano queste iniziative le quali dovranno quanto meno inquietare il ceto politico che c’è.

Fa secondo me anche un calcolo sbagliato pensando semplicemente alla autoreferenzialità come difesa. Perfino il vecchio contadino aveva il buon senso di fare degli innesti di altri saperi che vengono dal territorio, dalle professionalità, sul vecchio tronco che a me sarebbe sembrata la via di sviluppo del personale politico di un partito che si definiva nuovo eccetera eccetera. Ecco, credo stiamo a questo punto e quindi l’invito finale alla generosità sta qui. Delle altre cose, quelle soprattutto che ha evocato Andrea Rinaldo relative all’ispirazione, siccome ne abbiamo già parlato altre volte, lascio stare; mi importa di più vedere come alcune delle categorie che stanno lì reagiscono rispetto alla fase che stiamo attraversando.

Morale della favola, a studiare la politica anche in una fase come questa si capisce. Poi ci sono le difficoltà a rimettere in moto, ma si capisce, perché le cose non accadono così per caso e spesso la confusione è nel nostro occhio che guarda perché le cose sono alle volte maledettamente chiare.

Quando un partito fa la riunione di un organismo alle 14,30 del lunedì pomeriggio, potete fare tutti i discorsi che volete, essere d’accordo con Guzzetta piuttosto che con Fassino, non è né un partito di quadri, né un partito di opinione, non è un partito di massa, né un partito elettorale: è semplicemente un partito di quelli che mangiano di politica. Perché solo coloro che mangiano di politica a qualche titolo (stato, parastato, eccetera), sono in grado di essere presenti a un organismo riunito in quell’ora.

Non c’è bisogno alle volte di grandi voli pindarici. Io credo che questo vada colto, credo anche che la fase si stia ulteriormente chiarendo e le vicende anche nella loro durezza lo dicano, quindi il continuare a dotarci delle categorie del politico serve anche a mettere mano a una organizzazione che ci vuole. La politica o la organizzi, o solo in termini formativi non regge. E credo che siamo in una fase come questa con grandi difficoltà però anche con la capacità di capire, soprattutto capire la svolta che sta avvenendo anche in questa fase e quindi quali siano gli elementi per muoversi in questa direzione. È vero che da noi c’è tutto questo ma è anche vero che, per esempio, un qualche magistero che nell’occidente, e non soltanto, senza stravedere, la leadership americana va in questo senso, influisce anche sul modo di affrontare, di sentire la democrazia e spinge nella direzione, non a caso di quelle che io continuo a pensare essere una strada meticcia che esalta le differenze delle etiche della politica contro le affermazioni che invece vanno nel senso contrario dei padroni a casa nostra, in questo caso, anche detto da Palazzo Chigi, di un paese che non è multietnico. Basta togliersi gli occhiali e guardare in giro per vedere che invece lo è. Risponde benissimo il Presidente della Camera dicendo che abbiamo addirittura quadri dell’esercito italiano che sono di colore, sono addirittura dentro la difesa di questo stato.

Eppure la battaglia è aperta perché la fase è appunto una fase di svolta e quindi cercare di capirla, secondo me, c’è gusto, anche se non sempre è consolante.

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