Luciano Gallino. Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia.

linea_rossa_740x1

Corso di formazione alla politicaDa oltre dieci anni a questa parte Luciano Gallino si è dedicato con volontà indefessa a contrastare i luoghi comuni di carattere economico e politico sullo sviluppo della società, del lavoro e dell’economia, quasi sempre nel silenzio generale dei media e con il successo, più o meno, in termini di recepimento da parte dell’ establishment che ebbe Cassandra rispetto ai suoi concittadini troiani circa il triste destino finale della rocca di Ilio. Non che i testi di Gallino siano dei samizdat semiclandestini o che il loro autore sia personalità marginale rispetto al mondo delle opinioni che contano: non si potrebbe dire così di un professore emerito dell’ Università di Torino, di una delle figure più eminenti della sociologia italiana, in particolare della sociologia del lavoro, di uno degli ultimi superstiti della covata di Adriano Olivetti, di un autore i cui libri sono regolarmente pubblicati da case editrici quali Laterza ed Einaudi, di un ex collaboratore della “Stampa” ed attuale editorialista di “Repubblica”.

Luciano Gallino. Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'economia.

1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani

2. leggi la trascrizione della relazione di Luciano Gallino

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

introduzione di Lorenzo Gaiani (35’10”) – relazione di Luciano Gallino (32’35”) – domanda con risposta Gallino (11’44”) – domande (26’35”) – risposte Gallino (40’58”) – conclusione Lorenzo Gaiani (9’03”)

linea_rossa_740x1

Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Luciano Gallino

LA MAIONESE IMPAZZITA DELL’ECONOMIA
note di lettura di “Con i soldi degli altri” di Luciano Gallino

Da oltre dieci anni a questa parte Luciano Gallino si è dedicato con volontà indefessa a contrastare i luoghi comuni di carattere economico e politico sullo sviluppo della società, del lavoro e dell’economia, quasi sempre nel silenzio generale dei media e con il successo, più o meno, in termini di recepimento da parte dell’ establishment che ebbe Cassandra rispetto ai suoi concittadini troiani circa il triste destino finale della rocca di Ilio.

Non che i testi di Gallino siano dei samizdat semiclandestini o che il loro autore sia personalità marginale rispetto al mondo delle opinioni che contano: non si potrebbe dire così di un professore emerito dell’ Università di Torino, di una delle figure più eminenti della sociologia italiana, in particolare della sociologia del lavoro, di uno degli ultimi superstiti della covata di Adriano Olivetti,   di un autore i cui libri sono regolarmente pubblicati da case editrici quali Laterza ed Einaudi, di un ex collaboratore della “Stampa” ed attuale editorialista di “Repubblica”. Eppure, intorno alla sua opera è venuta a crearsi una cortina di silenzio e di indifferenza che, se non corrisponde ad un ostracismo vero e proprio, è comunque la migliore controprova di quella censura più o meno “soft” che il sistema cosiddetto del “pensiero unico” è riuscito a creare intorno a coloro che esprimono opinioni sgradite, tanto più sgradite se non provengono da sindacalisti di base, teorici dell’antiglobalismo ed altre figure marginali per definizione, ma da un membro rispettato dell’accademia e del mondo scientifico di sterminata erudizione e sorprendente, ancora in età avanzata, capacità di lavoro.

Ma quali sono queste opinioni così ostiche alle delicate orecchie dell’establishment? Innanzitutto, ed è la più eversiva, che il lavoro non è una merce che si può gestire con indifferenza rispetto alla sorte delle persone che concretamente tale lavoro esercitano e che ne traggono sostentamento per la loro vita; che una crescita economica drogata dalla mancanza di vincoli e di controlli prepara un presente di corruzione e crescenti diseguaglianze ed un futuro di dissesto ed instabilità; che una società incapace di puntare sulla ricerca e sullo sviluppo e che si lascia costantemente alle spalle le eccellenze industriali di cui era capace fino a pochi decenni fa è condannata al declino; che la radice dell’insicurezza non sta in problemi di ordine pubblico ma è espressione del disordine costituito in termini economici, politici e sociali.

L’ultimo anello della catena di queste opinioni che ormai non sembrano più così “eretiche” è il libro  Con i soldi degli altri che Gallino ha pubblicato lo scorso anno per i tipi di Einaudi e che, come dice il sottotitolo, si propone di esaminare come “il capitalismo per procura” sia sostanzialmente “contro l’economia”.

Dalla “bolla” al crollo

Ovviamente il punto di partenza del testo sta nella constatazione della gravissima crisi dell’economia globale apertasi nel 2007 con il crollo dei tassi USA ed esplosa nell’autunno del 2008 con il collasso di venerande istituzioni bancarie, trasferendosi poi sull’economia cosiddetta reale in termini di venir meno dei crediti, pesanti tagli al personale e fallimenti veri e propri.

Da qui prende l’avvio la riflessione di Gallino, il quale non perde tempo a inquadrare la situazione nei suoi termini reali, rilevando come nelle stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) tre miliardi di persone al mondo, su di un totale di 6,5 miliardi della popolazione globale, abbia un lavoro, e che tuttavia 1,5 miliardi di essi appartiene all’economia informale, e quindi è priva di garanzie e sicurezze di sorta circa il proprio avvenire, mentre altri 1,3 miliardi, ivi compresi molti appartenenti all’economia formale, non guadagna abbastanza per superare la linea di povertà globale fissata in due dollari al giorno di reddito.

A ciò si aggiunga che ogni anno circa 2,2 milioni di persone muoiono per incidenti sul lavoro, e molte altre vengono ferite più o meno gravemente, che la qualità dell’abitare è pessima per oltre un miliardo di persone, che un altro miliardo di persone soffre regolarmente la fame, che la diseguaglianza economica globale non ha fatto altro che crescere (fra i Paesi più ricchi e quelli più poveri il differenziale è ormai 120:1) , mentre nel contesto dei Paesi più ricchi, compreso il nostro, il differenziale fra gli stipendi dei top manager e gli stipendi degli impiegati di medio livello è cresciuto esponenzialmente senza che a ciò, rileviamo noi, sia corrisposta una crescita in capacità gestionale ed intelligenza dei top manager stessi, come la cronaca quotidiana dimostra.

Questo sguardo cursorio sulle condizioni economiche globali serve a Gallino per dimostrare come la crescente deregolamentazione dei mercati finanziari e la concentrazione delle risorse economiche in poche mani, fra cui quelle di pochi tycoon che ancora più o meno direttamente gestiscono i loro imperi globali, e quelle dei cosiddetti investitori istituzionali, su cui ci soffermeremo fra poco, abbia condotto ad una situazione insana in cui la crescita economica viene finanziata dal moltiplicarsi di castelli di carta finanziari che regolarmente dimostrano di essere “infettati” e quindi incapaci di mantenere all’infinito la promessa di remunerazione che contengono al loro interno e che in fondo è la loro ragion d’essere.

In questo senso una particolare responsabilità la assumono gli investitori istituzionali, termine generico con il quale si indicano quegli enti che operano professionalmente nell’investimento di denaro altrui sui mercati finanziari, e che hanno assunto nel corso degli ultimo vent’anni un peso sproporzionato nell’ambito dell’economia globale. Il fenomeno in verità non è nuovo,  e Gallino ricorda di aver tratto il  titolo del suo libro  da quello di una raccolta di saggi  del noto giurista statunitense Louis Brandeis, che nel 1914 (due anni prima che il Presidente Woodrow Wilson lo chiamasse alla Corte suprema, scelta doppiamente contestata da destra sia per le idee di Brandeis sia perché si trattava del primo giudice di origine ebraica a far parte del supremo tribunale costituzionale dell’Unione) aveva denunciato il ruolo di quelli che adesso vengono appunto definiti investitori istituzionali rilevandone da un lato la capacità di   concentrare un potere economico abnorme non solo in ragione delle loro fortune personali ma anche per la loro influenza sistematica sul ruolo di altri soggetti mediante le concentrazioni ed i cartelli finanziari, e dall’altro la loro sostanziale irresponsabilità rispetto agli esiti delle loro speculazioni sulla vita delle persone.

D’altro canto, la descrizione minuziosa che Gallino fa delle strategie degli investitori istituzionali per produrre denaro a mezzo di altro denaro, con le varie forme e modalità di strumenti finanziari che sono stati costituiti a tal fine, delinea un quadro amplissimo di responsabilità in cui non manca un ruolo specifico – ahimè in negativo- degli stessi sindacati USA i quali fin dalla fine degli anni Settanta , sulla scorta delle esortazioni di autorevoli economisti fra cui Jeremy Rifkin, decisero di impegnarsi nella gestione dei fondi pensione come un mezzo strategico per riprendere un’ influenza sociale ormai declinante. E tuttavia la logica interna al meccanismo della finanza globale, anche in presenza di una polverizzazione del capitale sociale che teoricamente avrebbe reso possibile quel “socialismo pratico” che alcuni autori indicavano come una delle conseguenze del diffondersi di modelli di proprietà distinti da quelli del capitalismo tradizionale.

In realtà, non solo il modello del comando capitalistico non è stato in alcun modo infranto, semplicemente spostandosi dai capitani d’industria tradizionali ai manager, ma è soprattutto la logica di base che non è cambiata, ed è andata anzi peggiorando in quanto il modello redistributivo tradizionale basato sul ruolo dello Stato sociale e delle organizzazioni dei lavoratori è stato infranto dalla globalizzazione, che da un lato ha messo in discussione in modo crescente il ruolo stesso dello Stato e dall’altro ha favorito la maggiore capacità del capitale di operare nella nuova logica transnazionale assai più delle forze sindacali.

In questo senso Gallino è assai critico nei confronti di ogni tipo di strategia volontaristica di autolimitazione delle brame degli operatori finanziari, pur riconoscendo l’importanza di iniziative internazionali come quelle legate ai cosiddetti Principi dell’Investimento Responsabile o ai Principi Equatore : al netto della comprensibile volontà di alcune grandi società multinazionali di ripulire un po’ la propria facciata promuovendo a tambur battente codici etici magari ispirati a principi di responsabilità ambientale o di tutela del lavoro minorile, pare al nostro autore che tutte questi principi, anche qualora fossero effettivamente applicati, non solo metterebbero molto tempo ad assumere efficacia, ma non metterebbero in discussione un sistema che, per sua stessa natura “ha promosso e consolidato il dominio della finanza sull’economia reale” e “redistribuisce in misura mai vista nella storia la ricchezza dal basso verso l’alto. Erode sistematicamente i sistemi pubblici di protezione sociale  per farne, tramite le privatizzazioni, un terreno su cui mietere  sempre maggiori rendite e profitti. Ha trasformato le imprese da istituzioni sociali in cui si intrecciano gli interessi dei lavoratori, dei proprietari, delle comunità territoriali, dello Stato, dei fornitori, in meri flussi di cassa” (pagg. 78-79).

Una classe sociale transnazionale e le sue strategie politiche

Ma non è da credere che questa “maionese impazzita” a cui sembra ridotta l’economia globale sia semplicemente il prodotto di azioni dissennate, di errori anche criminali, di calcoli sbagliati: al contrario essa si inserisce in un percorso logico e sistematico che ha avuto i suoi teorici, i suoi strateghi, i suoi intellettuali organici, i suoi ausiliari politici e, prima di ogni altra cosa, una capillare strategia di egemonia culturale, almeno in quelle parti (non maggioritarie) del nostro pianeta in cui l’opinione pubblica conta qualcosa, volta ad inculcare nelle menti delle persone che quello presente è il migliore dei mondi possibili e che l’oggettivo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro non era che il temporaneo prezzo da pagare alle magnifiche sorti e progressive della nuova era del capitalismo globalizzato.

No, una strategia esiste, ed è stata perseguita lucidamente, anche se non razionalmente, e viene da lontano, dallo choc petrolifero del 1973 che segna la fine di quelli che in Francia sono stati definiti i trentes glorieuses, i trent’anni di  crescita generalizzata dell’economia che succedettero alla seconda guerra mondiale e che si tradussero anche nell’allargarsi del potere d’acquisto e dei diritti civili e sociali delle classi lavoratrici fino ad allora subordinate, grazie anche agli sforzi congiunti dei sindacati e delle forze politiche riformiste e democratiche, le quali concorsero a far diventare senso comune il principio per cui le pubbliche istituzioni dovevano farsi carico dei problemi assistenziali, sanitari, previdenziali e scolastici delle persone. La seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso rappresenta il giro di boa, il tornante in cui parte, già ben oliato da una propaganda tambureggiante e bene oliata di denaro – come dimostrano fra gli altri i recenti saggi di Paul Krugman (1) e Susan George (2) sull’egemonia culturale della destra negli USA – il percorso di rivincita delle classi dominanti che viene simboleggiato, alla fine di quel decennio, dalle vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli USA.

Il senso comune cambia, e ogni tipo di limite allo sviluppo dell’economia capitalistica nelle sue forme più innovative (innovative quanto ai mezzi, perché lo spirito rimaneva quello già analizzato da Brandeis sessant’anni prima) viene percepito come un intollerabile ostacolo sulla strada del progresso e della prosperità. Il colpo di grazia, in termini ideologici e di immagine, viene dal crollo del Muro di Berlino, dal “meraviglioso 1989” che, insieme a regimi retrogradi ed autoritari, abbatte anche ogni idea di cambiamento radicale della società capitalistica, costringendo non solo i comunisti (maggioritari a sinistra solo in Italia), ma anche i socialdemocratici a ripensare radicalmente le proprie posizioni avendo smarrito i loro termini di riferimento tradizionale.

Di questo smarrimento delle forze riformiste approfitta la nuova classe capitalistica globale, la quale, secondo l’analisi di Gallino, si  articola in quattro soggetti fondamentali: i 10 milioni di persone che al mondo possiedono almeno un milione di dollari di attivo finanziario, e che sono concentrati quasi per intero nel Nord del mondo (anche se incominciano ad affacciarsi sulla scena miliardari indiani e cinesi); i soggetti del capitalismo familiare, che è ancora ben lungi dall’estinguersi in Italia come nel resto del mondo, come dimostrano le vicende dei Walton, Gates, Cargill, Pinault, Albrecht, Lagardere, Agnelli, Ferrero, Berlusconi e così via, che Gallino stima all’incirca, in tutte le loro derivazioni, intorno ai 2,5 milioni di persone; gli alti dirigenti assunti dagli azionisti per governare le grandi corporations, i cui poteri, almeno finché continuano a produrre utili, sono pressoché sconfinati, come sconfinato è il livello delle loro retribuzioni, e la cui entità numerica viene quantificata all’incirca in 3 milioni di componenti in tutto il mondo; infine, gli amministratori e dirigenti degli investitori istituzionali, banche incluse, che rappresentano la frazione meno numerosa (circa 120 mila persone in tutto il mondo) e meno ricca di questa “nuova classe” che è andata consolidandosi nel tempo.

Le interconnessioni politiche di questa élite sono evidentissime, e per questo basta semplicemente vedere in che modo i suoi componenti saltino con grande disinvoltura da posti di comando in imprese transnazionali a posti di comando politici. Esemplari in questo senso sono stati i due Gabinetti presidenziali di George W. Bush, a partire dallo stesso Presidente, rampollo (per la verità alquanto degenere) di una dinastia di petrolieri, e poi il  Vicepresidente Cheney , ex consigliere d’amministrazione di società come la Halliburton (ancora petrolio) e la Union Pacific, il Segretario di Stato Rice, ex CdA della Chevron (sempre petrolio), il Segretario alla Difesa Rumsfeld e molti altri. Ciò spiega, peraltro, come le guerre in Afghanistan e soprattutto in Iraq siano state una tale sagra di ruberie, corruzione, favoritismi e scandali.

Ma il problema non è ristretto solo ai repubblicani, se si pensa alla presenza di molti ex dirigenti della Goldman Sachs nell’Amministrazione Clinton, e soprattutto al fatto che la maggior parte dei componenti del Congresso, quando lascia la carica elettiva, si dedica alla ben più remunerativa carriera del lobbista presso i suoi ex colleghi al soldo delle grandi corporations (e niente fa pensare che costoro di fatto non esercitassero tali funzioni anche mentre erano ancora dei rappresentanti del popolo). Numerosi altri esempi in questo senso sono riscontrabili in tutti i Paesi occidentali, compresi quelli governati da forze di sinistra, come hanno dimostrato le ottime relazioni fra il New Labour di Blair e gli esponenti del big business (alcuni dei quali, come Lord Sainsbury, padrone dell’omonima catena di grande distribuzione, entrarono a far parte di Gabinetti laburisti), ovvero il legame strutturale fra Nicolas Sarkozy e le maggiori famiglie del capitalismo francese. La vicenda italiana della coincidenza del potere politico con quello economico e mediatico nella persona di Silvio Berlusconi è un caso a se stante, ed è da vedere se non segni una nuova tappa nella presa di potere di questa classe sociale transnazionale in modo da trasformare definitivamente i Governi democratici, per dirla con Marx, nei suoi comitati d’affari.

Sempre ricorrendo alla terminologia marxiana, Gallino si chiede se questa classe esista solo in sé, nel senso di essere delimitata da alcune caratteristiche comuni ma non interamente probanti, ovvero se non debba essere considerata come una classe sociale per sé, ossia provveduta di una propria coscienza specifica e di una chiara visione dei propri interessi e degli strumenti per perseguirli. Il nostro autore propende per la seconda tesi, poiché l’esperienza di questi anni dimostra come si siano sviluppate reti d’interconnessione fra i diversi (e nemmeno tanto numerosi) soggetti che compongono questa classe transnazionale da permettere loro di riconoscersi gli uni gli altri sotto tutte le latitudini e, soprattutto, da avere chiari quali siano i loro interessi al punto tale da costituire delle organizzazioni specifiche per sostenerli come la Camera di Commercio Internazionale di Parigi, la Commissione Trilaterale e , soprattutto, il Forum Economico Mondiale che annualmente si raduna a Davos. Queste organizzazioni hanno un tale peso che anche nel colmo della crisi originata dalle strategie dissennate degli organismi che hanno dato loro vita riescono ancora a determinare il punto di vista dei Governi: come Gallino dimostra (pagg. 181- 185) , le conclusioni del cosiddetto G 20 convocato a tambur battente da George W. Bush a Washington nel novembre 2008 (e al quale il Presidente appena eletto Barack Obama si astenne saggiamente dal partecipare, anche se purtroppo non si è poi astenuto da altri errori) ricalcavano in sostanza un documento redatto pochi mesi prima dall’ Institute of International Finance , un centro di ricerca promosso dalle più potenti istituzioni finanziarie del mondo. La volpe a guardia del pollaio, si potrebbe dire….

L’alternativa possibile

Le conseguenze della finanziarizzazione dell’economia ed in particolare dell’impresa sono sotto gli occhi di tutti, e Gallino le enumera brevemente: promozione dei contratti di lavoro flessibili, e, in sostanza, della precarietà del lavoro; pressione sui sindacati per politiche di moderazione salariale che nel caso specifico del nostro Paese ci hanno portati ad avere la media retributiva più bassa d’ Europa senza che ciò sia stato remunerato in termini di servizi o di garanzie; mancata distribuzione ai lavoratori dei guadagni di produttività; chiusura delle unità produttive i cui livelli produttivi, pur elevati, siano inferiori a quelli di unità analoghe di imprese concorrenti ( il recente caso dell’impresa milanese INNSE, che tanto clamore mediatico ha suscitato, è istruttivo in tal senso).

Il portato di tali politiche non è misurabile solo alla luce del crollo delle Borse e dei miliardi di dollari bruciati dal 2007 ad oggi, ma ha un’immediata ripercussione sul tenore di vita di miliardi di persone, manifestandosi essenzialmente nella crescita di uno stato di insicurezza e di malessere che spesso viene indirizzato più o meno coscientemente contro bersagli fasulli, come gli immigrati, talvolta con la giustificazione veramente ipocrita e stomachevole della “difesa dell’occidente” o dei “valori cristiani”   , il che qualifica questi argomenti retorici per quello che sono , armi di distrazionedi massa secondo la bella espressione del già citato Krugman.

D’altro canto, come ebbe a scrivere Gallino in una sua opera precedente, il mercato è un’istituzione di Stato, nel senso che le condizioni in cui gli operatori economici svolgono la loro attività è definito da un quadro di leggi e di regolamenti che dipendono dalla potestà legislativa e da quella esecutiva dello Stato, e se è vero nel corso degli anni che la globalizzazione dell’economia ha ridotto lo spazio di intervento dei singoli Stati è altrettanto vero che ciò non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata una costante pressione nei confronti della politica perché adattasse la legislazione agli interessi delle grandi corporations.

Istruttiva in questo senso è la vicenda, che Gallino riferisce (pagg. 146- 149), dei coniugi Gramm: lei, Wendy, presidente della Commissione federale per il commercio dei contratti a termine ( i cosiddetti futures) sotto Reagan e Bush senior, operò efficacemente insieme ad altri burocrati e parlamentari per esentare i derivati attinenti all’energia dal controllo della Commissione stessa, agevolando gli interessi di alcune potenti società fra cui la famosa (e poi famigerata) Enron , che a tal fine distribuì qualcosa come 3.5 milioni di dollari fra i parlamentari democratici e repubblicani. Pochi giorni dopo questa cruciale deliberazione la professoressa Gramm si dimise dal suo incarico federale,e in capo a qualche settimana divenne parte del Consiglio direttivo della Enron, con stipendio più che onorevole. Nello stesso tempo la Enron fu il massimo finanziatore della campagna del marito, Phil, senatore repubblicano che fu uno dei massimi portavoce degli interessi di Wall Street in Campidoglio, al punto che a lui si deve la legge del 1999 che abolisce la norma Glass -Steagall del 1933 (uno dei primi atti del New Deal rooseveltiano) che distingueva nettamente fra le banche di deposito e quelle di investimento, proibendo alle prime di avventurarsi in attività speculative, con i risultati che si sono visti negli ultimi due anni. Svestiti nel 2003 i panni del legislatore Gramm ha poi indossato quelli del lobbista, e nel 2008 è stato uno degli esperti economici dello staff di campagna del candidato repubblicano John Mc Cain.

Se lo stato dell’arte è questo, appare chiaro che la soluzione possibile ai problemi evidenziati dalla crisi sta in un recupero di responsabilità generale: la responsabilità dei grandi investitori, ma anche quella dei milioni di proprietari di fondi pensione, i quali, a giudizio di Gallino, dovrebbero organizzarsi razionalmente per far sentire la propria voce e per controllare se i manager che hanno scelto per utilizzare i loro soldi stiano operando nel pubblico interesse.

Vi è poi il problema degli obiettivi su cui indirizzare il risparmio così accumulato, che ovviamente deve essere accompagnato da scelte politiche acconce (e Gallino ne indica alcune, a partire dal ripristino della separazione fra banche di deposito e banche di investimento, adattato ai nuovi criteri della finanza globale, dall’obbligo per le banche di indicare nei loro bilanci il numero esatto ed il tipo di strumenti economici utilizzati …), e che tuttavia deve rispondere come criterio generale alla soddisfazione di interessi pubblici diffusi. In questo senso Gallino suggerisce l’inserimento di clausole nei fondi comuni di investimento che vincolino ad investire una percentuale più o meno rilevante degli attivi su attività come la ristrutturazione del trasporto ferroviario regionale, l’ampliamento delle linee metropolitane cittadine (120 km in tutta Italia, un quarto della sola rete urbana parigina), il risanamento di strutture scolastiche che nel nostro Paese risultano essere per il 50% gravemente insufficienti e pericolose. Probabilmente, chiosa Gallino, uno Stato con un debito pubblico superiore al 100% del PIL ha qualche problema a trovare i soldi necessari, ma i soli fondi comuni registrati presso la Borsa italiana avevano nel 2007 400 miliardi di euro in portafoglio, e somme di pari grandezza corrispondevano agli investimenti in Italia di fondi esteri.

Ecco, per far questo ci vorrebbe la politica. Certo, non quella di un Governo il cui Capo, pressato dalle vicende legate alla sua vergognosa vita privata, non sa che proclamare ad intervalli regolari finita una crisi che invece nel nostro Paese deve ancora probabilmente produrre i danni peggiori. E neppure quella di un Ministro dell’Economia che si bea della propria superiore dottrina e della sua capacità di previsione del passato, che mascherano essenzialmente la totale incapacità a fronteggiare in modo razionale la gravità della crisi in atto. Mi si lascia aggiungere che quando il fortunato saggio di Giulio Tremonti La paura e la speranza venne pubblicato nella primavera del 2008 la crisi del sistema finanziario statunitense era già in atto da circa un anno: che tale crisi avesse a produrre conseguenze disastrose sull’economia globale non richiedeva un particolare sforzo predittivo. La reputazione di genio superiore che Tremonti si porta dietro è solo l’espressione dell’inveterato provincialismo e dell’altrettanto inveterata cortigianeria che allignano nel nostro Paese.

Ma la politica appare mancante anche sul profilo dell’opposizione, anzi l’unica opposizione possibile , quella del Partito Democratico (le altre forze sono troppo deboli o marginali per poter essere considerate) non sembra prendere in considerazione queste problematiche, dimostrandosi incapace di comprendere quali spazi potenziali si aprano in una pubblica opinione che sotto l’impressione delle cattive notizie sta prendendo atto dell’esaurirsi di un modello di sviluppo economico ormai insostenibile ed ingiusto.

NOTE

  1. P. KRUGMAN La coscienza di un liberal  Laterza, Bari-Roma 2008
  2. S. GEORGE L’America in pugno Feltrinelli, Milano 2008

Trascrizione della relazione di Luciano Gallino

Buon giorno a tutti. Mi fa veramente molto piacere essere ancora una volta qui con voi, sono davvero grato per l’invito che mi è stato rivolto a rinnovare questo incontro che diventa ogni anno una gradevolissima consuetudine. Sono grato a Lorenzo Gaiani per la sua incisiva presentazione del libro e anche più della presentazione perché vi ha aggiunto molte considerazioni che condivido in pieno e che vanno al di là del testo.

Questo libro è uscito nel maggio scorso e contiene già molti riferimenti e molti temi che hanno a che fare con la crisi e i suoi effetti sui costi. Io ho continuato a occuparmene e ho scritto varie altre cose, quindi se vogliamo poi parlare di crisi e, in particolare, dei costi umani della crisi a livello nazionale e internazionale ben volentieri mi presterò.

Mi fermerò su due punti specifici: ho scritto questo libro per cercare di mettere in luce, cercare di far discutere di due temi tra loro collegati. Il primo tema è l’enorme peso economico che hanno assunto gli investitori istituzionali nell’economia mondiale, nella finanza mondiale, ma dato il sovrappeso della finanza sull’economia si può dire tout court nell’economia mondiale. Il secondo tema che volevo far discutere, che volevo porre in luce, è il fatto che circa l’80% del capitale degli investitori istituzionali viene dal risparmio di persone che lavorano o hanno lavorato, viene dal risparmio di insegnanti, tecnici, farmacisti, operai, ingegneri, funzionari pubblici e altre cose del genere. Però quel capitale viene poi investito in modi che negano, e spesso ledono, e spesso danneggiano gli interessi di quegli stessi che hanno effettuato l’investimento o di persone che appartengono alle stesse classi sociali, che condividono un comune destino. È quello che gli anglosassoni chiamano il paradosso del capitale del lavoro.

Procediamo con ordine per dire qualcosa sui due temi. Il peso degli investitori istituzionali si vede anzitutto nel rapporto tra il loro capitale e il PIL del mondo. Gli investitori istituzionali sono essenzialmente, anche se volendo fare un elenco analitico uno arriva anche 10 o 12 tipi, ma sono fondamentalmente fondi pensioni, pubblici e privati, personali, ma soprattutto quelli gestiti collettivamente, fondi pensioni, fondi comuni di investimento e compagnie di assicurazione. Poi vi sono i fondi speculativi che hanno la loro importanza, vi sono i fondi sovrani costituiti dagli stati altri ma gli attori su cui vale la pena di soffermarci sono gli investitori istituzionali.

Nel 2007 il capitale complessivo gestito dagli investitori istituzionali ammontava a circa di 63 trilioni di dollari: devo dire che nel mio libro c’è una cifra leggermente inferiore, perché proseguendo sempre con molta cautela ed essendo queste stime molto difficili da costruire, tendo a tenermi al valore più basso per non esagerare l’effetto, quindi la mia stima un anno fa, quando ho finito di scrivere il libro, era intorno ai 54 trilioni di dollari. Ma ho visto poi altri materiali, ho messo insieme altri rapporti che parlano di 63 trilioni di dollari nel 2007. Nel 2007 il PIL del mondo è stato di 54 trilioni di dollari: in altre parole, dico in astratto, se gli investitori istituzionali avessero voluto comprarsi la produzione di tutti i materiali, le merci, i manufatti, i servizi prodotti nel mondo nel 2007 potevano comprarseli e avanzava ancora qualcosa. Secondo le ultime stime che ho messo insieme avanzavano ancora 9-10 trilioni di dollari. Un trilione sono 1.000 miliardi.

Questa enorme massa di risparmio accumulato, appunto l’80% viene da persone che hanno lavorato o tuttora lavorano, non sta fermo, viene investito in diversi modi e uno degli investimenti più comuni degli investitori istituzionali sono azioni e obbligazioni di grandi imprese, con cospicuo trasferimento dalla voce obbligazioni alla voce azioni negli ultimi anni perché anche gli investitori istituzionali hanno scoperto che se si rischia si guadagna di più e allora, nell’interesse dei sottoscrittori, hanno accentuato la componente rischio perché cresce la componente rendimento, la componente guadagno.

Con l’investimento in azioni e obbligazioni gli investitori istituzionali sono diventati quelli che ormai vengono chiamati da molto tempo, da più di 10 anni, proprietari universali. Negli Stati Uniti posseggono più del 60% delle prime mille corporations americane, nel Regno Unito si arriva a circa il 75%, in Francia attorno al 55-60%. Ad esempio, le 40 aziende che fanno parte dell’indice CAC 40 della borsa di Parigi sono per il 60% di proprietà degli investitori istituzionali. La media mondiale supera abbondantemente il 50%.

È abbastanza raro, anche se vi sono molti casi a questo riguardo, che gli investitori istituzionali investano massicciamente in una singola azienda comprandone per esempio il 10-15 o il 20% o più del capitale. In media il capitale di ciascuno non va al di sopra di un 2 o 3%. Però in una moderna società per azioni 10 soggetti che hanno il 3% ciascuno fanno il 30% e con il 30% si controlla qualunque azienda se, come avviene spessissimo, il resto del capitale è frazionato. Questo vuol dire che in modo diretto o indiretto, tenuto conto anche della comunanza degli interessi, anche se il singolo investitore possiede soltanto il 2 o il 3%, ma 10 investitori posseggono il 20, 25 o il 30%, la voce, il peso, il parere degli investitori istituzionali non può essere ignorato da nessun dirigente, da nessun manager che si vede arrivare una mail o una telefonata, o intrattiene una conversazione nella quale si sente dire: non siamo soddisfatti del rendimento della vostra impresa perché noi vogliamo almeno il 15% (questo è il rendimento medio preteso dagli investitori istituzionali all’anno) e quindi se non fate qualcosa succede che o cacciamo i dirigenti o vendiamo l’impresa, ci alleiamo per vendere l’impresa, o ritiriamo i nostri capitali. E un ritiro di capitali da parte di un investitore importante significa come minimo un grave danno borsistico, un grave danno per il valore dell’azione in borsa.

In sostanza, nessun manager di una società quotata può ignorare il parere, le voci, le strategie di investimento, i desideri degli investitori istituzionali anche se sono un fondo pensione di tecnici, operai o funzionari, o di un fondo di investimento, o anche di una compagnia di assicurazioni.

Uno degli aspetti da sottolineare è la fortissima concentrazione non solo del risparmio mondiale nel portafoglio dell’investitore istituzionale, ma il fatto che gli investitori istituzionali sono essi stessi fortemente concentrati. Sebbene il loro numero sia di alcune decine di migliaia quando scrivevo questo libro, gli ultimi dati sono di marzo del 2009 eravamo attorno ai 30 mila fondi pensioni nel mondo e 66 fondi di investimento, però quelli che contano sono 2-300, gli altri costituiscono una massa importante come totale, ma la loro voce pesa meno perché hanno dei capitali, diciamo, di qualche milione di dollari, di qualche centinaia di milioni di dollari, ma quelli che stanno in cima alla lista, parlo soltanto di fondi pensione, hanno capitali che sono di parecchie centinaia di miliardi di dollari. Il più importante fondo pensioni del mondo che è quello degli impiegati pubblici e funzionari di Tokio supera il trilione di dollari. Ce n’è uno olandese, che è il secondo che è vicino, e poi altri giganti americani, anglosassoni che stanno tra 500-700 trilioni di dollari, una grande potenza è il CalPERS, che significa “personale prevalentemente insegnante e docenti universitari della California” che gestisce un portafoglio di circa 500 trilioni di dollari. Quelli che contano, sia come fondi pensione sia come fondi di investimento e anche come compagnie di assicurazione, sono i primi 2-300 della lista.

Una precisazione aggiuntiva è questa: che in molti casi dietro ai fondi pensione o sopra i fondi pensione c’è una grande banca, una grande istituzione finanziaria. L’istituzione finanziaria c’è in moltissimi fondi di investimento. Anche nel caso dei fondi di investimento, che nel 2008 erano 66 mila, quelli che contano sono alcune centinaia. Sulle prime 10 famiglie di fondi di investimento, perché si chiamano famiglie, che vogliono dire centinaia di gruppi di investimento, magari diversificati per rischio, tipo di investimento e altro, tra i principali fondi di investimento, tra i primi 10 investitori, le famiglie pure di fondi di investimento sono solamente due, le altre sono banche che gestiscono i fondi di investimento.

Tutte le principali banche italiane Unicredit, Intesa San Paolo, Monte dei Paschi, Unibanca ecc. hanno sotto delle famiglie di fondi di investimento. Mettendo insieme queste varie cose, ne deriva ad esempio che nel 2006 i primi dieci enti finanziari del mondo, di cui otto erano banche, avevano in portafoglio più della metà del capitale della totalità di questi fondi. I fondi di investimento valevano la metà del capitale complessivo, cioè 26-27 trilioni di dollari, 13 trilioni stavano nel portafoglio di 10 istituzioni finanziarie che poi potevano avere ciascuna 50, 100 o 200 fondi di investimento gestiti, mentre le famiglie pure erano appunto soltanto un paio.

Questo tema si collega alla questione della crisi perché la crisi è figlia della finanzializzazione del mondo, dell’enorme sovrappeso che ha assunto la finanza nell’economia mondiale, si collega alla ricerca di investimenti che presentano rischi sempre più elevati, che però si prevedeva di controllare perfettamente, mentre invece non si è riusciti a controllare, i modelli sono clamorosamente falliti e si collegano anche ai costi umani della crisi su cui poi posso dire qualcosa a parte. Basti dire che i fondi pensione ancora nel 2007 e 2008, a crisi ormai esplosa, sia i fondi di pensione che i fondi di investimento, si sono gettati per mantenere elevato il loro rendimento, e prevedendo anche la caduta dei titoli borsistici, si sono gettati sui mercati delle merci, sui mercati degli alimentari e hanno prodotto aumenti dei costo degli alimentari di base, grano, mais, soia, fagioli e altre cose del genere, essenziali per metà della popolazione del mondo, e hanno provocato con la loro speculazione aumenti che vanno dal 50 al 200%, il che ha voluto dire 120 milioni di affamati in più nel giro di un anno.

Ma sulla crisi possiamo tornare. Vengo all’altro tema, alla contraddizione del capitale del lavoro. Ho riassunto il peso immane delle politiche di investimento degli investitori istituzionali , ho accennato al fatto che hanno avuto un grande peso nella crisi, ho ricordato che dietro di loro ci sono i grandi istituti finanziari, le grandi banche, non in tutti i casi però, perché il fondo di Tokio o il CalPERS californiano sono enti autonomi, però in molti casi ci sono delle banche, ma avendo la contraddizione insita nel capitale dei lavoratori che riguarda sia i fondi pensione che i fondi di investimento, ma in primo piano vengono i fondi pensione.

I fondi pensione stanno diventando una realtà significativa anche in Italia; non sono ancora paragonabili a quelli anglosassoni, basti il fatto che i fondi pensione (bisogna vedere che cosa è successo con l’oscillazione delle borse nell’ultimo anno) ma non siamo lontani dagli 80-100 miliardi di Euro gestiti dai fondi pensione. I fondi pensione sono delle potenze finanziarie, lo stanno diventando anche nel nostro paese anche se siamo ancora lontani dai livelli americani, anglosassoni in genere, o giapponesi. Resta il fatto che sono una potenza finanziaria, stanno crescendo e questo si unisce al fatto che le strategie di investimento dei fondi pensione sono decise a loro totale discrezione dai manager che li gestiscono. Vi sono in Italia, come altrove, fondi pensione che fanno capo a dei sindacati ma i sindacati che fanno? Li affidano a una banca che li gestisce, tanto c’è qualche assicurazione che assicura una certa trasparenza, ma poi li investe come le pare con un fine del tutto razionale: massimizzare il rendimento a favore dei sottoscrittori, e anche massimizzare le commissioni a favore proprio, beninteso.

Nel mondo anglosassone questa contraddizione è stata discussa fin dagli anni ’70 perché si diceva: i fondi pensione sono una nuova forma di ricchezza emersa durante gli scorsi 30 anni: questo lo dicono due economisti R. Barber e J. Rifkin, lo dicevano nel ’78 e parlavano già di 30 anni prima. I fondi pensioni dicevano questi autori sono una nuova forma di ricchezza che è emersa durante gli scorsi 30 anni sino a diventare la maggiore fonte singola di capitale privato del mondo, essi valgono al momento (allora valevano 500 miliardi di dollari e già non era piccola cosa), oggi solo negli Stati Uniti valgono trilioni di dollari e rappresentano i risparmi differiti di milioni e milioni di lavoratori. In secondo luogo, i fondi pensione rappresentano al presente un quarto del capitale delle Corporations, oggi ne posseggono più del 60%, i fondi pensione sono oggi la più grossa fonte di finanziamento per il sistema capitalistico: tutte queste affermazioni pubblicate 32 anni fa sono cinque, dieci volte più vere oggi di quanto non fossero vere allora.

La contraddizione sta appunto nel fatto che i proprietari ultimi del capitale, i lavoratori stessi, chiunque siano, non hanno nessun controllo sul modo in cui questo capitale viene investito, mentre gli investimenti finiscono sovente per avere ricadute negative su altri lavoratori. Le politiche di investimento dei fondi pensione, e anche dei fondi di investimento, sono uno dei fattori chiave delle delocalizzazioni di ogni tipo, della pressione sui salari, sul peggioramento della distribuzione del reddito. Il reddito è stato fortemente ridistribuito negli ultimi 30 anni ma dal basso verso l’alto con punte che in Europa si aggirano sugli 8-10 punti di PIL passati dai salari alle rendite e in questo hanno peso anche i fondi pensione e i fondi di investimento.

Vi è stato qualche tentativo di attivismo dei fondi pensione che però ha finito per peggiorare la situazione perché i fondi pensione sono diventati sempre più attivi nel senso di pretendere rendimenti maggiori. Rendimenti maggiori di capitali azionari e obbligazionari che cosa significa? Significa far salire il corso delle azioni e delle obbligazioni e per far salire i corsi borsistici sono molto più importanti manovre finanziarie che non investimenti produttivi, è più importante il direttore finanziario che non il direttore della produzione. È più importante il comunicato che annuncia certe operazioni che non l’esecuzione di quelle operazioni.

Resta alta soprattutto nell’ambito anglosassone fino ad oggi, non si sono fermati dal ‘78 e fino a tempi recenti sono stati pubblicati fior di saggi e di studi su come si potrebbe fare per far sì che il capitale del lavoro non finisca per essere utilizzato contro gli interessi dei lavoratori, non sia utilizzato per favorire le delocalizzazioni, non sia utilizzato per abbattere il salario e altre cose del genere. I fondi pensione, e anche i fondi di investimento (nel caso di questi ultimi è più difficile) dovrebbero cambiare le strategie di investimento, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti industriali.

Le strade di cui si parla, seguite da qualche fondo pensione anglosassone (italiani non lo so e, se ci sono, sono certamente molto piccoli), le strade possibili sono una versione ammodernata dell’investimento socialmente responsabile, che è un tema di cui si parla da decenni, e la seconda è l’investimento economicamente mirato. Sono due strade piuttosto diverse anche se hanno dei punti di contatto.

Investimento socialmente responsabile significa che un fondo non investe in imprese che si comportano in modo lesivo degli interessi dei lavoratori, che producono armi, che producono ad esempio bombe a grappolo, le cluster bomb, le terribili bombe usate nell’ex Yugoslavia e anche nel conflitto arabo-israeliano. Questo è un impegno che viene da lontano, viene dalle associazioni religiose inglesi, soprattutto negli anni Venti, che si impegnavano a non investire i loro fondi in azioni del peccato e le azioni del peccato erano le azioni delle società del tabacco, dei liquori e delle armi. Il problema è che con l’enorme frammentazione ed esternalizzazione delle attività produttive di tutte le principali attività, sia industriali che di produzione di servizi, è molto difficile in una società che ha 200, 500, 3000 sussidiarie, non dico dei numeri a caso, andare a vedere quale delle sussidiarie produce o non produce oggetti lesivi, materiali lesivi, merci lesive o pratica il lavoro infantile, od offre condizioni di lavoro miserande e altre cose del genere. L’investimento socialmente responsabile richiede un grosso investimento per passare dall’ovvio “non investo in una grande marca di tabacco”, alle verifiche puntuali di chi fa effettivamente che cosa, che condizioni di lavoro e quali salari offre e cose del genere.

L’altra strada è quella, come dicevo, dell’investimento economicamente mirato. Investimento economicamente mirato significa fare rigorosamente i conti e poi investire, ad esempio a livello regionale, in infrastrutture pubbliche: scuole, trasporto pubblico, naturalmente comunicazione, istruzione, ricerca e altre cose del genere. Casi abbastanza interessanti riusciti esistono in Canada soprattutto e in alcuni casi degli Stati Uniti. In Italia non saprei chi si sia impegnato finora in investimento economicamente mirato. Resta il fatto che anche i fondi italiani stanno diventando una potenza economica.

Una frase di un autore a cui sono molto legato, cioè Brandice, da cui ho preso il titolo, c’è un’altra frase, un altro principio, un altro concetto importante suo, su cui ha scritto parecchio e su questo è stato scritto anche da qualche giurista americano in tempi recentissimi. Questo altro concetto dice che non esiste un azionista innocente: se un fondo pensione è azionista di qualche società che poi alla fine produce materiali velenosi, o oggetti bellici micidiali, o utilizza personale minorile, bambini, ecc., ebbene, secondo questo principio di Brandice (non esiste nessun azionista innocente) per il fatto di avere investito, uno avrebbe il dovere di andare a vedere come sono effettivamente impiegati i suoi soldi, i suoi capitali.

SI può fare un passo più in là senza voler provocare nessuno. Il principio “non esistono azionisti innocenti” vale anche nelle recenti elaborazioni che sono state fatte soprattutto da giuristi estremamente ferrati in questa materia, giuristi americani. Nemmeno chi versa quote nel fondo pensioni senza saper dove vanno a finire in termini di investimento, in qualche modo, è il proprietario ultimo, è il proprietario del capitale, in qualche modo è lui o lei l’azionista e quindi non solo il collettivo che investe, il sindacato ad esempio, ma anche chi versa e si disinteressa totalmente di dove vanno a finire quegli investimenti, perché l’unico scopo legittimo, razionale, che ciascuno di noi persegue, o a cui porta interesse, è che quando arriva la pensione essa sia decente, non sia svalutata, o che i fondi di investimento non abbiano perso o che magari abbiano aumentato il nostro modesto risparmio e altre cose del genere.

Sta di fatto che nelle contraddizioni del capitale del lavoro ormai anche le compagnie italiane, i sindacati italiani, i risparmiatori italiani sono pienamente dentro, non è una questione che riguardi soltanto l’America.

Sui costi umani della crisi economica che si stanno dipanando oggi, in questi giorni, in questi mesi, avrei ancora parecchio da dire ma lo posso fare dopo nella discussione. Per il momento vi ringrazio e mi fermerei qui.

Permalink link a questo articolo: https://www.circolidossetti.it/luciano-gallino-i-soldi-degli-altri-il-capitalismo-procura-leconomia/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.