Roberto Cornelli. Paura e ordine nella modernità.

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Corso di formazione alla politicaIl testo di Cornelli cerca incessantemente una base teorica al discorso sulla paura – e nello specifico sulla paura del crimine – e l’ordine nel mondo moderno. Smascherando nella paura la sua struttura di dispositivo, il suo spessore individuale e collettivo di emozione strutturante, e il suo essere luogo di emergenza della crisi del mondo moderno, delle sue istituzioni politiche e della socialità stessa, Cornelli opera un ribaltamento fecondo della percezione delle nostre paure e incertezze: mostra come senza la paura della violenza – così come ci ha insegnato Hobbes – non sarebbe sorto lo stato moderno e le sue istituzioni, e come esso possa e debba ristrutturarsi sulla base di una ricomprensione della paura non più solo in rapporto alla concessione al sovrano dell’esercizio della violenza di vendetta, ma anche come possibilità di rifondazione di un diritto che abbia quali valori fondanti non più solo la libertà e l’uguaglianza ma anche la fraternità.

Roberto Cornelli. Paura e ordine nella modernità.

1. leggi il testo dell’introduzione di Marica Mereghetti

2. leggi la trascrizione della relazione di Roberto Cornelli

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

presentazione di Giovanni Bianchi (10’38”) – introduzione di Marica Mereghetti (13’03”) – relazione di Roberto Cornelli (35’55”) – prima serie di domande (15’16”) – risposte di Roberto Cornelli (22’56”) – seconda serie di domande (49’22”) – risposte di Roberto Cornelli (13’31”) – chiusura di Giovanni Bianchi (9’07”)

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Testo dell’introduzione di Marica Mereghetti a Roberto Cornelli

“Ha mai letto il testo di un criminologo? … Si ha l’impressione che il discorso della criminologia abbia una tale utilità, sia richiesto con tanta forza e reso così necessario dal funzionamento del sistema, che non ha avuto nemmeno bisogno di darsi una giustificazione teorica, o anche semplicemente una coerenza o un’armatura. È interamente utilitario.”1

Il testo di Cornelli fortunatamente procede nella direzione contraria alla battuta di Foucault, ovvero cerca incessantemente una base teorica al discorso sulla paura – e nello specifico sulla paura del crimine – e l’ordine nel mondo moderno. Smascherando nella paura la sua struttura di dispositivo, il suo spessore individuale e collettivo di emozione strutturante, e il suo essere luogo di emergenza della crisi del mondo moderno, delle sue istituzioni politiche e della socialità stessa, Cornelli opera un ribaltamento fecondo della percezione delle nostre paure e incertezze: mostra come senza la paura della violenza – così come ci ha insegnato Hobbes – non sarebbe sorto lo stato moderno e le sue istituzioni, e come esso possa e debba ristrutturarsi sulla base di una ricomprensione della paura non più solo in rapporto alla concessione al sovrano dell’esercizio della violenza di vendetta, ma anche come possibilità di rifondazione di un diritto che abbia quali valori fondanti non più solo la libertà e l’uguaglianza ma anche la fraternità.

Il tema sociale e politico della paura e più nello specifico della paura del crimine è diventato sempre più centrale rispetto alle politiche di sicurezza degli stati: l’emergenza del discorso sulla paura nasce nel mondo occidentale e si struttura (l’esempio degli Stati Uniti è paradigmatico) innanzitutto come progressiva rinuncia a spazi di welfare, come progressiva chiusura individualista e come commercializzazione dei servizi di sicurezza (le cittadelle chiuse, le villette dotate di sistemi di sicurezza sempre più raffinati, la privatizzazione delle carceri).

La paura del crimine tocca tutti (o almeno così pare leggendo i dati grezzi delle ricerche sociologiche o giornalistiche) come paura di essere vittima di un crimine sia verso la propria persona sia verso la proria estensione proprietaria.
Questa paura indifferenziata si inserisce in una più generale insicurezza e paura tipica della crisi del mondo contemporaneo: ci si sente privi di difesa nei confronti di ogni tipo di male: la paura economica e la paura della perdita del lavoro e del benessere raggiunto, la paura della solitudine, la paura della malattia. La comunità statale non riesce più a gestire le opportunità e le politiche di welfare, schiacciata da quei meccanismi economici del neocapitalismo individualista che è il Moloch del nostro tempo, come abbiamo sottolineato in questo corso nell’incontro con Magatti. La paura del crimine diventa una delle cifre della crisi.

Contemporaneamente l’enfatizzazione sulla paura del crimine (sovente non supportata da dati di ricerca scientifica) da parte della politica è diventata strumentale alla distrazione rispetto a problemi più urgenti della vita quotidiana: si deve avere più paura di subire violenza che di perdere il lavoro (ipotesi peraltro più probabile). Su questo gioco alcune forze politiche e gli organi di stampa sicuramente intervengono pesantemente.

Le ondate di “panico morale” non sono solo un ricordo del passato, ma – anche quando partono da fatti concreti fruendo di leggende metropolitane e di antichi stereotipi – ridisegnano il colpevole di tutti i mali nello straniero, nel diverso, nel delinquente che non è più il povero, ma il confliggente: colui che attenta alla nostra cultura, alla nostra religione, alla nostra ricchezza, alle nostre donne e ai nostri figli.
Il paradosso è evidente: i crimini più efferati degli ultimi anni in Italia dovrebbero aver sviluppato il terrore nei confronti dei figli e dei vicini di casa o dei colleghi di lavoro, non è così: permangono antiche paure (gli zingari rapiscono i bambini) e nuove avversioni e intolleranze verso i nuovi arrivati.

Di fatto queste paure sono lo specchio di una società sempre più individualizzata, che sente di aver perso le proprie radici, incapace di ridisegnare un universo di valori condivisi e di disponibilità verso l’altro che non ricada nell’immediata vicinanza. L’insieme delle solitudini chiuse nelle proprie case, che accettano una limitazione delle proprie libertà, che chiedono il controllo perpetuo, in qualche modo si autorinchiudono in una prigione e nemmeno ne percepiscono i limiti. Si accetta di essere controllati persino al parchetto con i propri bambini, sperando che le videocamere informino di sicurezza l’ambiente. Provate a far capire che le telecamere non evitano i crimini al massimo possono aiutare a risolverli; provate a dire che non si posssono criminalizzare i bambini nomadi o semplicemente a far appello al minimo comun denominatore della pietà cristiana: anche le vecchiette del rosario vi guarderanno come un pericoloso rivoluzionario. Si richiede la tolleranza zero, anche se le ultime notizie da New York parlano di dati contraffatti, di arresti immotivati per rispettare i parametri dati, di risultati non sempre correlati alla sola tolleranza zero, ma anche ad azioni politiche positive di intervento urbanistico e sociale.

Anche l’universo popolar-culturale trova riscontro in questa paura: aumentano le fiction e i libri gialli sono i più venduti.: non è solo la necessità di esorcizzare la paura che ci fa leggere e guardare crimini efferati: forse – con minor evidenza rispetto al discorso scientifico – quei libri e quei video sono il nuovo linguaggio della crisi. I gialli scandinavi sono di fatto dei trattati sociologici sulla crisi del welfare e della società civile nelle socialdemocrazie del nord Europa. Gli eroi più amati sono dei sociopatici vendicatori: Dexter in televisione e Lisbeth Salander in letteratura: individui solitari, geniali e a dir poco problematici, criminali e insieme “teneri”. L’esatta rappresentazione volgare di una società talmente esausta di se stessa da diventare sociopatica e incapace di operare con giustizia: solo la vendetta personale diventa il giusto contrappunto alla violenza subita.

Attenzione però a leggere la paura come una semplice emozione, Cornelli giustamente sottolinea come il discorso sulle emozioni, e la paura tra queste. debba essere condotto secondo prospettive che non siano legate al semplice percepire più o meno in maniera razionale ciò che ci avviene: le emozioni sono il substrato complesso del nostro percepire e modificare la realtà che ci circonda.
Le emozioni – potremmo dire – sono parole e sono cose, sono un tutt’uno rivelatore del nostro essere personale, sociale, culturale, ci leggono e ci fanno leggere il contesto di cui siamo parte: non sono indifferenti alla crisi della modernità, né indifferenziate rispetto ad essa.

L’ispirazione letteraria diventa più cinematografica all’interno del testo di Cornelli: se “America oggi” di Robert Altman è la rappresentazione del concreto qui ed ora, le trasposizioni cinematografiche dei libri di Philip Dick sono la rappresentazione del mondo che verrà e che già si sta trasformando. Lo stato moderno si trasforma in uno stato penale, dove le funzioni di polizia sono onnipresenti e addirittura onniscienti, e si verificano nuove forme di totalitarismo postideologico incarnate dal perenne stato di eccezione e dalla negazione delle libertà individuali che la paura della violenza e dello scontro di civiltà giustifica. Pensiamo a cosa sono diventate le politiche di governo dei fenomeni migratori, dove la condizione di clandestinità (e quindi di non- cittadinanza) incarcerata e criminalizzata diviene il simbolo dello stato di eccezione della sospensione e della negazione della libertà individuale, libertà di movimento e libertà di ricerca della felicità.

Ma, mentre Dick trova speranza (poca a dir la verità) nell’azione del singolo individuo, Cornelli apre alla speranza in una dimensione comunitaria e di diritto, una speranza che si articola come capacità politica di “ripartire proprio dalla paura per costruire un nuovo progetto istituzionale di cittadinanza”, ovvero di ripartire da Hobbes per destrutturare di nuovo il rapporto paura-violenza in maniera altra e nuova, per scardinare il circolo vizioso della violenza sia nel suo volto vendicativo sia nel suo volto giudicante.

La parola-cosa che Cornelli recupera dalla tradizione occidentale è la fraternitè: “Paura e ordine vanno tematizzati nella loro relazione politica originaria: l’evocazione dello stato di barbarie e di violenza diffusa in cui cadrebbe un’umanità composta da individui atomistici invita a restituire centralità alla costruzione di un progetto politico che affronti direttamente – non potendo più darlo per scontato – il tema della fraternità”2.

Viene spontanea una riflessione mitica sulla fraternità, o su quel rapporto particolarissimo che, in almeno due miti all’origine dell’Occidente, pone dei problemi e contemporaneamente offre delle vie d’uscita. L’origine dell’umanità nel racconto biblico è originata da un fratricidio, eppure Dio non compie la vendetta del sangue di Abele, e stabilisce una pena terribile per chi colpirà Caino: la catena crescente del male non può essere interrotta che dalla pietà verso il colpevole.
Anche la fondazione di Roma nasce dal fratricidio, ma Romolo subito delimita il pomerio, il cerchio sacro all’interno del quale la violenza è bandita e chiunque può rifugiarsi, indipendentemente dal suo passato violento, per cercare la propria felicità e costituire una nuova cittadinanza (interessante notare come questo mito fu fondamentale per i costituenti americani).
I due miti a fronte di un omicidio orribile offrono delle soluzioni di mediazione e compensazione: se nella fede la pietà offre il perdono rispetto a ciò che è irreversibile e insieme mantiene una promessa di perdono rispetto all’imprevedibilità di ciò che potrebbe accadere, nella fondazione civile non si chiede conto del passato e si costruisce una novità, un nuovo patto di cittadinanza.

Quello che Cornelli auspica è la capacità di rompere il cerchio della violenza utilizzando due paradigmi antropologici: il paradigma del capro espiatorio, della vittima sacrificale che secondo Girard rompe la catena della vendetta e contemporaneamente ripara un debito; e il paradigma dello spirito del dono che secondo Mauss è certo un atto gratuito, ma che insieme richiede una reciprocità: rischiando il dono ci si apre alla fiducia della costruzione di un nuovo rapporto di reciprocità.

Non si tratta evidentemente di riproporre formule premoderne al tema della violenza, ma di diffondere il paradigma della giustizia riparativa che “lavorando sui conflitti originati da un reato o che si sono espressi attraverso un reato, intende avvalersi non della pena o di alcune sue sottoarticolazioni sanzionatorie tradizionali, bensì di strumenti che tendono a promuovere la riparazione del danno cagionato dal fatto delittuoso e forme di riconciliazione tra autore e vittima”3. La giustizia riparativa non è più il processo vendicativo, ma una modalità di mediazione tra la vittima il reo e la collettività per promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo: si tratta insomma di ricercare e di ritrovare regole minime di convivenza e di condividerla: “… la giustizia riparativa riconosce la violenza, ma tende a non reiterarla nelle forme del diritto… è l’offerta della possibilità di deporre le lance e, attraverso una forma di riparazione concordata, consentire allo scambio e all’attivazione del circolo virtuoso del dono. È la proposta di un rito in cui la riparazione sacrificale avviene attraverso il dialogo sulle condizioni per cui ha senso con-vivere”4.

Questa potrebbe essere una speranza, sicuramente potrebbe essere il disegno di un mondo migliore rispetto a quello di chi miticamente invoca una violenza tribale di compensazione delle proprie paure.

Trascrizione della relazione di Roberto Cornelli

Innanzitutto, grazie a Giovanni Bianchi per le parole di introduzione e di premessa che ovviamente, lo dico non retoricamente, mi lusingano perché ho sempre considerato Giovanni uno dei nostri punti di riferimento politico, culturale, di cultura politica, e quindi quelle parole mi riempiono veramente di emozione e anche di affetto verso di lui.

E questa introduzione di Marica Mereghetti mi sembra un’introduzione che ha già detto tutto, insomma per me perfetta nel senso che è riuscita a toccare tutti i temi che in questo libro del 2008, un po’ – possiamo dire – difficoltoso per chi lo ha approcciato perché non è certo un libro divulgativo e lo si capisce anche, fra l’altro, dalla copertina, che proprio non invita a essere comprato e letto velocemente; però questo è un testo soprattutto universitario che cercava nella mia intenzione originaria di colmare un grandissimo vuoto che c’è in Italia: il vuoto è quello di una riflessione teorica, che però ha delle ricadute politiche, come è l’ultimo capitolo in cui parlo di paura politica e speranza, che è innanzitutto un discorso teorico sulla paura della criminalità, cercando di fissarla in alcuni aspetti fondamentali e cercando di capire prima di tutto da dove viene questa paura della criminalità.

Da dove viene significa capire se è sempre esistita, se ha sempre caratterizzato la vita delle persone e come l’ha caratterizzata; e poi capire anche come si inserisce all’interno dei dispositivi politici, cioè delle politiche della paura, e che cosa produce questa paura oggi. Perché altrimenti rischiamo sempre di rimanere avvitati in una discussione sulla paura della criminalità per cui il dato di fondo, diciamo l’assioma, è che le persone hanno paura e da lì non se ne esce perché non si può costruire nessun tipo di politica se non quella che prende per buona le risposte che le persone danno alla loro paura.

Ci siamo bloccati in questi anni in una sorta di tautologia della paura per cui la società prende le risposte che le persone che hanno paura danno per risolvere i problemi della paura. Quindi, in qualche modo, rimaniamo vincolati a uno schema di gioco per cui non si ha più nulla da dire: la politica non ha più nulla da dire, non c’è spazio per il pensiero alternativo e non si può più produrre politiche che vadano invece in altre direzioni che probabilmente sono anche più utili.

La prima cosa da dire è che il dato di partenza, che è un dato innegabile a mio avviso, è che c’è una diffusione, una pervasività della paura della criminalità nelle società contemporanee. Voglio dire che di paura della criminalità si parla spesso, se ne parla nei telegiornali, se ne parla nei bar, è diventato un discorso quotidiano che – una volta ho scritto – sembra quasi che, quando si prende l’autobus certe volte alla mattina, la paura della criminalità sia un discorso rompighiaccio, alternativo alle condizioni meteorologiche. Ogni tanto si sentono sull’autobus: hai sentito che quello lì ha ammazzato quell’altro, e questo argomento diventa quasi un modo per intessere delle relazioni con persone sconosciute che si incontrano casualmente, come si dice guarda che bel tempo, forse domani piove, proprio con quella funzione lì.

E quindi in questo, lo dico non con troppa ironia, perché già in questo fatto secondo me si capisce che la paura e il discorso sulla paura hanno una valenza sociale, cioè costituiscono delle relazioni sociali, non sono neutre rispetto a ciò che accade. E quindi già questo, poi lo riprenderemo quando parleremo di Hobbes, mostra come nella paura ci sia una fondamentale ambivalenza: è qualcosa che distanzia gli individui, ma è qualcosa anche che può avvicinare gli individui se viene considerata da un altro punto di vista, in un’altra prospettiva.

Se ne parla ovunque, oltre che spesso, perché appunto se ne parla nelle assemblee, nei bar, per strada, in televisione e il discorso sulla paura rimbalza costantemente in tutti questi luoghi, sostanzialmente costruendo un’immagine della società, di chi è il cittadino meritevole di essere considerato dalla politica, proprio in questo continuo gioco di rimandi. E anche su questo penso che valga la pena puntualizzare il fatto che io non ritengo che i mass media abbiano l’intera colpa della costruzione della paura nella nostra società. Sono un fatto importante perché cristallizzano le paure delle persone, però io penso che sia proprio questo gioco di rimando tra i luoghi quotidiani e i luoghi mediatici che si costruisce una paura della criminalità che poi condiziona fortemente la politica. Quindi, è un gioco continuo di rimando fra tutti i livelli in cui si discute di paura.

Ovviamente, la paura entra poi così pesantemente nella vita delle persone, e quando dico paura intendo il discorso sulla paura, cioè le modalità con cui viene raccontata tra le persone e nei mass media la paura della criminalità, entra così tanto della vita delle persone che costituisce un elemento imprescindibile per poterlo poi affrontare politicamente. Voglio dire che la paura non rimane solo all’interno del discorso che riguarda le persone, ma entra anche nelle istituzioni in maniera molto pesante.

Chi fa il sindaco sa che, o descrive il proprio quartiere come un quartiere che è insicuro e ci mette qualche dato a supporto di questa insicurezza, oppure i soldi dalla provincia, dalla regione, dallo stato per riqualificare quel quartiere ormai non li otterrà più. Cioè, non basta più mettere i dati sulla dispersione scolastica, sui problemi sociali che riguardano quel quartiere, bisogna dire che è insicuro, e se è insicuro allora sì che si possono ottenere i finanziamenti. Voi capite che questa insicurezza, questo discorso, entra nelle istituzioni, le condiziona nel loro agire, nel loro modo di narrare la comunità.

E in più, la paura è diventata, qui soprattutto grazie agli urbanisti americani, possiamo dirlo – Oscar Newman, l’architetto che ha teorizzato lo spazio difendibile, ma anche antropologi urbani americani come Jane Jacobs, che in maniera molto meno evidente ha però inserito nel discorso sulla propria città anche il tema della paura in maniera molto innovativa – attraverso di loro la paura è diventata il criterio di progettazione della città, di progettazione degli edifici. E chi fa urbanistica sa che la progettazione degli spazi urbani è una progettazione della vita quotidiana delle persone, lo spazio urbano è uno spazio che può essere costruito in un modo o nell’altro a seconda della visione di città che si ha,

Faccio un esempio molto semplice, visto che ormai è passato al centro-destra lo posso dire. Il municipio di Bollate, non so quanti lo conoscono, è la tipica architettura degli anni ’90, italiana che è l’architettura degli anni ’70-’80 americana, cioè un’architettura fondata sul fortino fortificato. Il municipio di Bollate se uno ci entra sembra quasi di entrare in un piccolo carcere perché ha le pareti completamente impermeabili verso l’esterno, ha proprio la struttura quadrata, è un cubo diciamo, in cui sostanzialmente ci sono due aperture ma non ci sono finestre che affacciano sulla strada. Quando si entra si ha l’idea di essere in un panocticon, proprio come in un carcere nel senso che si entra nello spazio dove c’è l’ufficio del cittadino e ci sono, mi pare due o tre piani di ringhiere fatte così che si affacciano sullo spazio comune. La prima volta che ci sono andato, ormai 10 anni fa, e stavo appunto scrivendo un articolo post lauream, perché era il ’99-2000 mi pare, l’ho subito inserito in questo articolo perché non mi sembrava vero di trovare così vicino a casa un’architettura che è quella che veniva descritta, per esempio, da Mike Davis nella Città di quarzo su Los Angeles, sulla trasfigurazione che ha avuto lo spazio urbano a Los Angeles negli anni ’60-’70 fino a diventare uno spazio totalmente privato in cui sostanzialmente non esisteva più l’idea di spazio pubblico e anzi le persone cercavano sempre di più di vivere nelle ghetto communities, in queste comunità fortificate che stanno all’esterno della città e che costituiscono dei micromondi, dei microcosmi in cui persino la giustizia viene amministrata separatamente rispetto alla giustizia statuale. Cioè nel senso che quando succede qualcosa lì dentro c’è la sicurezza privata che gestisce la situazione e spesso (racconta Mike Davis ma anche tanti altri come Lopez e il Gruppo de Le Monde Diplomatique che aveva studiato molto queste…), però lì si vede come, anche gli stessi fatti criminali spesso trovino le modalità di gestione senza andare a riferirsi alla giustizia formale. Tanta è la separatezza di questi luoghi dallo stato.

Noi non abbiamo esempi così evidenti; abbiamo Milano 2, Milano 3, abbiamo le Varesine, abbiamo forme molto embrionali di questa voglia di separazione dalla società, dalla città, dalla città intesa come luogo di incontro di tutti, dalla città come spazio pubblico. Però, secondo me, alcuni esempi cominciamo ad averceli molto chiari.

Ecco, poi un altro esempio molto evidente di che cosa significhi lo spazio pubblico, lo diceva già anche Marica Mereghetti, la progettazione urbana che prende a criterio la paura, è per esempio la progettazione dei parchi come luoghi, anche questi, come dire, cintati e controllati in ogni loro punto. Non è il caso tanto del parco Sempione su cui ci potrebbe essere anche un’altra visione, anche se è stato giustificato in questo modo, ma è soprattutto quell’idea per cui i parchi debbano essere pieni di telecamere con spazi sostanzialmente esclusivi per categorie di persone senza che ci sia poi la possibilità di contaminazione. Questa è una parola, penso, chiave per reimpostare un po’ la nostra vita nelle città, la contaminazione che poi è feconda di evoluzione, di innovazione. È sempre stato così e non vedo perché in questo periodo dovrebbe essere diversamente.

Per esempio, ci sono dei parchi che sono progettati in modo tale che certe categorie di persone non ci entrino: i giovani, per esempio. I giovani non devono frequentare i parchi. Per giovani intendo dai ragazzini fino a coloro che hanno 20-25 anni, cioè gruppi di persone che non possono entrare nei parchi perché, per esempio, non ci sono le panchine, oppure addirittura ci sono ordinanze che vietano a due o più persone di sedersi sulle panchine dei parchi, l’ordinanza di Novara se non sbaglio, o di Varese, adesso non ricordo, e quindi già questo limita.

Poi ci sono gli spazi che non possono essere fruiti dalle persone perché, per esempio, sull’erba non si può andare, ma non perché l’erba si rovina, l’erba si rigenera se uno la utilizza bene, ma perché il fatto di avere dei gruppi di ragazzi che si mettono nel parco costituisce già un elemento di rischio, di pericolo percettivo per altre categorie di persone.

Allora, su questo, io penso che ci sia proprio una modalità di pensiero sulla paura che è entrato profondamente nelle amministrazioni locali. Penso che noi ci dobbiamo rendere conto che non è più una questione legata solo a un livello culturale e generale. È entrato proprio nel modo di amministrare le nostre città, è entrato nelle modalità istituzionali con cui ci si confronta con i problemi e sta producendo, e questo è forse l’elemento che a me sta più a cuore, sta producendo una continua frammentazione della nostra comunità. Una frammentazione che non si fonda sul conflitto, altra parola chiave secondo me da recuperare, perché la contaminazione come il conflitto possono essere generatori di evoluzione e di innovazione, ma produce semplicemente, lo diceva benissimo Giovanni Bianchi, la logica delle piccole patrie che non è solo una logica, diciamo, di tipo istituzionale, è una logica di tipo comunitaria. La logica delle piccole patrie significa che ciascuno rivendica per il proprio gruppo di appartenenza l’esclusività dell’utilizzo della città senza possibilità di confronto, senza volersi confrontare anche in maniera conflittuale, ma confrontandosi, con gli altri gruppi e senza riconoscere il diritto di tutti ad utilizzare la città.

Io lo vedo molto forte questo senso di esclusione, di volere utilizzare lo spazio pubblico in modo esclusivo (vi faccio qualche esempio se no veramente il libro ci porta un po’ di stanchezza al sabato mattina, questi esempi che poi in realtà sono quegli stimoli che io ho avuto per andare poi a scrivere un libro molto teorico).

Da sindaco io vedo spesso le persone che vengono a rivendicare i diritti in modo esclusivo. Faccio un esempio. C’è qualche cormanese presente per cui sa di che cosa sto parlando. c’è stato qualche problema a Cormano sulle liste di attesa per gli asili nido. Le persone, una volta uscita la lista di attesa, venivano a chiedere al sindaco non l’ampliamento, la costruzione di un nuovo asilo nido per le persone escluse, ma di escludere gli altri dall’utilizzo dell’asilo nido. Questo è un mutamento possiamo dire paradigmatico, incredibile dal punto di vista della cultura istituzionale, perché se negli anni ’70 la domanda di servizi costituiva la premessa per un ampliamento dei diritti, oggi la domanda di servizi è sempre forte ma costituisce la premessa per una riduzione dei servizi solo ad alcuni.

Questo lo possiamo ripetere per asili nido, scuole materne, case popolari, utilizzo degli spazi pubblici, del verde; cioè, sono tutti all’interno di questa logica: lo spazio verde è poco, non c’è spazio per tutti, voglio che sia mio, non voglio che ci siano altri che mi disturbano.

Allora questo, ovviamente, non è un discorso che è lievitato così perché la gente è impazzita, ma perché sono successe delle cose in questi trent’anni. La prima cosa che secondo me è successa è, possiamo dire, l’avvento della new economy. So che ne avete già parlato, è già stato citato, però è fondamentale. La new economy non è solo una modalità organizzativa delle imprese o delle unità produttive nei confronti di una globalizzazione, quindi non è semplicemente una modalità di reazione del mondo produttivo a mercati che si sono evoluti in una certa direzione, ma è anche una cultura istituzionale, cioè è l’idea per cui le istituzioni devono fare un passo indietro rispetto alla gestione della comunità, quindi un ampliamento degli spazi del mercato senza regole, e nello stesso tempo anche l’idea per cui lo stato e le istituzioni pubbliche non sono in grado di gestire i servizi pubblici per la scarsità delle risorse a disposizione.

Che ci sia scarsità di risorse pubbliche lo vedo direttamente da sindaco, ma che ci sia anche però una gestione di queste risorse completamente orientata in una certa direzione, senza possibilità di riorientarla in altre, è altrettanto vero. Oggi noi abbiamo dei finanziamenti pubblici, lo ripeto, che vanno solo per la gestione di telecamere per esempio e si spendono a livello regionale, ma non solo della Lombardia (non sto facendo campagna elettorale, tanto siamo già passati) ma a livello generale, ci sono milioni e milioni di euro che vengono spesi per la installazione di telecamere nelle nostre città. Devo dire qualcosa sulla loro inutilità. Il punto vero è che lì c’è una scelta precisa. È una scelta di gestione delle risorse che va a vantaggio, guarda caso, del sistema produttivo, imprenditoriale. Noi ci troviamo di fronte al secondo settore che non sta subendo in nessun modo la crisi che è l’industria della sicurezza. Per industria della sicurezza intendo tutti coloro che producono beni o servizi rispetto al problema della sicurezza.

Ho visto il rapporto dell’anno scorso, del 2009, di Federal Sicurezza che è proprio la Confindustria dell’industria della sicurezza, che dimostra come il loro fatturato negli ultimi dieci anni sia aumentato quasi del 40%. Noi sappiamo in questo modo che le risorse pubbliche, che sono scarse come sempre, ce lo insegnano gli economisti, hanno una direzione di investimento. Diciamo che è il secondo settore perché il primo è quel settore che essendo più direttamente a contatto con la spesa dello stato, penso alla sanità, è un altro di quei settori che non sta subendo la crisi in nessun modo: le cliniche e gli ospedali privati della regione Lombardia sono sempre molto pieni nelle loro casse e infatti sono anche quelli che possono spendere di più nella ricerca, nella internazionalizzazione, penso alla clinica di Rozzano (non mi viene in mente il nome, sì, l’Humanitas) e penso ovviamente anche al San Raffaele, istituzioni che hanno una buona visibilità.

Questo per dire semplicemente che quei milioni di euro (poi magari ci torniamo sulle telecamere) ma ci interessa dire che quei milioni di euro che sono soldi pubblici e potrebbero essere spesi in altro modo. Quindi, ci sono dei soldi da spendere. Il problema è che oggi non si ha la capacità di orientare la spesa pubblica in altra direzione. Non si ha più la capacità teorica, prima di tutto, di dire che magari mettere due telecamere in meno e aprire un asilo nido in più comporta una riduzione delle tensioni sociali in quel quartiere per cui la telecamera può anche non esserci e non cambia nulla. Ed è una cosa che è successa anche nella nostra comunità, lo dico ai cormanesi presenti, che riguarda l’asilo nido al Fornase di Cormano: ha prodotto quel risultato nel senso che eliminando la lista di attesa, in qualche modo si elimina anche il problema che veniva posto.

Perché spesso, e questa è l’altra cosa che volevo dirvi sulla paura, spesso la paura diventa anche un vessillo per poter veicolare diritti che sono reali, cioè non sono inventati. Che quella famiglia avesse bisogno che il proprio figlio andasse all’asilo non è che fosse un problema teorico, è un problema materiale. E se quella famiglia non trova una risposta a quel problema rischia magari la moglie di perdere il lavoro, o di non potersi più organizzare la vita. Cioè, son problemi che vanno considerati. Oggi però prendono tutti la forma di una domanda di sicurezza e di esclusione dai diritti di altri. Ed è questo il tema: non dobbiamo discutere del bisogno di fondo ma dobbiamo discutere la risposta, come si articola questo bisogno in domanda e come noi vogliamo rispondere al bisogno.

Vi faccio questo esempio molto semplice: se noi continuiamo a dare risposta alla riformulazione dei bisogni che è stata fatta, e che quindi è una riformulazione in termini di domanda di sicurezza, noi non ne usciamo più perché rispondere a quella domanda di sicurezza ci spinge necessariamente all’interno di quel tipo di risposte che continuano a creare questo circolo vizioso, per cui io rispondo alla domanda di sicurezza con una risposta che è quella di esclusione dai diritti che produce continuamente una domanda di sicurezza che produrrà ancora…

Allora, noi non ne usciamo, noi dobbiamo cercare di cambiare, ed è per questo che io penso come Giovanni Bianchi che abbiamo bisogno di trovare un punto di vista e abbiamo bisogno, come dice il mio amico Gianni Cuperlo nel suo ultimo libro che vi consiglio di leggere, è un libro tutto politico, però è un libro che da l’idea di che cosa potrebbe essere la politica, anche quella quotidiana. Gianni Cuperlo dice semplicemente che bisognerebbe svuotare sempre di più gli uffici stampa dei politici e riempire sempre di più gli uffici studi dei partiti perché, come diceva Giovanni Bianchi prima, bisogna riprendere a riflettere.

Allora, io penso che noi dovremmo innanzitutto lavorare su questa riformulazione politica dei bisogni delle persone; è lì che dobbiamo incidere, cioè cominciare a dire che per noi quei bisogni sono importanti, che però non devono prendere quella strada di domanda di sicurezza, ma devono prendere, per esempio, una strada di domanda di sociale, di cambiamento di certe modalità di risposta, e allora lì abbiamo uno spazio di lavoro.

Quello che si diceva tanti anni fa dai primi studi sull’insicurezza era che noi dobbiamo guardare all’insicurezza delle persone ma non alla domanda di sicurezza delle persone, che sono due cose completamente diverse. Ogni domanda è sempre una riformulazione in chiave politica dei bisogni delle persone. Allora noi dobbiamo invece riprendere il dialogo con i bisogni, con la materialità anche delle richieste di diritti.

Poi c’è un altro tema, e poi su questo forse chiudo così possiamo fare un po’ un dialogo tra di noi, che è il tema che è stato introdotto benissimo in questa introduzione di Marica Mereghetti, che è quello del fatto che la paura non è semplicemente un’emozione individuale ma può assumere anche un’altra forma. Su questo ovviamente sarebbe molto lungo parlarne, quindi cerco di toccarlo proprio brevemente, molto schematicamente.

Noi veniamo da una tradizione filosofica che è quella soprattutto platonica che vede le emozioni come un opposto rispetto all’intelletto, quindi c’è una dicotomia molto forte nella nostra tradizione occidentale, potremmo dire, tra passioni e ragione. A volte le passioni sono state incardinate nel corpo e sono state considerate come qualcosa da estirpare per raggiungere, diciamo, una visione alta; dall’altra parte le passioni sono state considerate a volte delle deviazioni dall’intelletto, però sono state riconosciute nel loro ruolo positivo di carica energetica (penso a Spinoza, appunto) carica energetica che deve essere, come dire, veicolata utilmente dall’intelletto per produrre il bene comune, per produrre la felicità, ecc.

Le passioni sono state sempre considerate un po’ come qualcosa che non ha una grande utilità nella costruzione dei progetti di cittadinanza, nelle relazioni politiche… Mentre c’è un filosofo che ricuperando forse un’altra filosofia, un’altra corrente filosofica che è rimasta sempre un po’ minoritaria nella cultura occidentale, questo filosofo, Hobbes, ha ricuperato invece la paura nel suo ruolo fondativo addirittura delle relazioni politiche tra individui, fondativo dello stato moderno perché Hobbes che noi tutti conosciamo rispetto al tema dell’homo homini lupus, della barbarie dello stato di guerra continuo che non dà la possibilità alle persone in qualche modo di vivere serenamente, di costruirsi un futuro, ma le persone continuano a essere l’una contro l’altra. Quello che dice Hobbes è che le persone sviluppano una paura reciproca, cioè la paura dell’uno verso ogni altro, che in qualche modo blocca la situazione e rende le relazioni sociali ingestibili.

Da questo stato di barbarie, dice Hobbes, si può uscire se le persone tra di loro costruiscono patti di cittadinanza, patti civili. Ma che cosa fa comprendere – quindi siamo nell’ambito della ragione – cosa fa comprendere alle persone che occorre uscire dallo stato di guerra? Beh, Hobbes dice, la paura. È proprio la paura che stimola le persone a uscire da uno stato di guerra permanente e , in qualche modo, a investire un’autorità terza nel ruolo di gestire le conflittualità tra le persone. Questa autorità terza è lo stato, il Leviatano, verso cui la paura di tutti si convoglia; lo stato diventa il perno attorno a cui si costruisce, per esempio, la penalità moderna (per questo sono un criminologo e mi ha interessato molto Hobbes) che è lo strumento per eliminare la vendetta privata e convogliare la vendetta privata in un unico strumento, il giudizio penale, la pena, che diventa in qualche modo, come dire, quella forma che lo stato si dà per catalizzare la violenza della società e rendere in qualche modo più pacifica la società.

Cioè questo è lo schema di riferimento attorno a cui si è costruito il diritto penale moderno, perché è su questo schema di fondo che poi anche Von Foerster, che è stato uno dei più importanti giuristi penali, ha teorizzato la funzione deterrente della pena, la prevenzione generale; lo schema di riferimento è questo: bisogna costruire un diritto penale, un sistema penale che facendo paura alle persone evita che le persone si facciano paura tra di loro, in qualche modo si facciano violenza tra di loro.

La paura quindi, in Hobbes, è una paura che innesca un percorso razionale, è la paura che fa ragionare le persone; come dice Elena Pulcini, che è una filosofa sociale che considero su questi temi veramente imbattibile, la paura ha una funzione emancipativa delle persone, perché dalla paura si può capire, interpretandola in un certo modo, che le persone sono la società invulnerabile, che andando avanti in una certa direzione, quella della frammentazione continua, dell’esclusività dei diritti, eccetera, ci si trova in uno stato di guerra continua, in uno stato di barbarie.

Ma secondo voi, è casuale che noi ci troviamo a parlare proprio oggi, continuamente, di barbarizzazione, di balcanizzazione della società? Il tema chiave su cui si discute a livello criminologico ma anche sui giornali è quello dell’inciviltà. In-civiltà è proprio il ritorno a uno stato pre-civile, cioè il ritorno allo stato di guerra di Hobbes. Non è casuale, a mio avviso, che ci si trovi di fronte a uno schema di pensiero per cui ogni volta che succede qualcosa, il rischio che noi evochiamo è che si destrutturi completamente la società moderna come l’abbiamo conosciuta fino a oggi.

Allora io penso, e chiudo davvero su questo, che al di là dei numeri, delle statistiche, se le persone hanno più paura o meno paura (poi se volete vediamo anche qualche dato di quelli giornalistici), al di là di questo c’è un tema politico fondamentale sulla paura:

– primo, che la paura nella nostra società moderna è innanzitutto un tema politico, non è un tema individuale; la paura della violenza ha stimolato la nascita dello stato moderno, simbolicamente ovviamente, non storicamente, e noi continuiamo a rinvigorire le nostre istituzioni proprio sul tema della paura, che trovano nella paura della criminalità un nuovo modo per rilegittimarsi;

– secondo, che nessun concetto è un concetto che può essere chiuso all’interno di un unico modo di pensare; noi possiamo pensare alla paura in modo diverso nella sua carica emancipativa che ricorda la necessità di un legame sociale, piuttosto che interpretarla, come viene interpretata oggi, come qualcosa che deve necessariamente produrre frammentazione e separazione nella società.

Voglio dire, che anche qui, secondo me un po’ sbagliamo nel continuare a dire che la paura è il male, la paura c’è, esprime dei bisogni e il primo bisogno che noi dobbiamo capire che sta esprimendo è quello di una frammentazione che deve trovare una risposta politica in un nuovo progetto di cittadinanza.

Capisco che sono temi che non possono essere immediatamente articolati in progetti politici o in iniziative politiche, però come tutti i grossi temi sono quelli su cui poi si orientano, se passano culturalmente, le scelte politiche, anche le scelte politiche amministrative che spesso sono troppo viste come scelte neutrali e che invece devono essere sempre più viste come scelte che producono anche una cultura politica.

Ecco, io mi fermerei qua, se no ci sono anche altri temi.

 

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