Johnny Dotti. Buono e giusto, il welfare che costruiremo insieme.

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Corso di formazione alla politica

Come reimpostare il senso della nostra democrazia all’interno di quella grande declinazione del politico e del sociale che è, è stato e ci auguriamo possa continuare ad essere, il welfare.

Se è vero che la crisi che stiamo vivendo non è solo economica, ma anche sociale, antropologica ed etica e – in Italia – anche e soprattutto di sistema politico, è altrettanto vero che una delle vittime di questa crisi è lo stato sociale: ovvero quell’edificio di diritti, partito da Bismarck, e strutturatosi per tutto il il XX secolo e in particolare nel secondo dopoguerra nel vecchio continente che si ricostruiva e tentava vie nuove per declinare nuovi diritti e un nuovo modo di prendersi cura della democrazia e dei cittadini.

La democrazia si ristrutturava, a partire dalla dignità di ogni singolo attraverso il lavoro, nella ricerca di nuovi diritti e soprattutto nel tentativo di instaurare l’uguaglianza delle possibilità.

Johnny Dotti. Buono e giusto, il welfare che costruiremo insieme.

1. leggi il testo dell’introduzione di Marica Mereghetti

2. leggi la trascrizione della relazione di Johnny Dotti

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

1. premessa di Giovanni Bianchi 5’16” – 2. introduzione di Marica Mereghetti 13′ 29″ – 3. relazione di Johnny Dotti 1h 20′ 34″ – 4. domande 9′ 00″ – 5. risposte Johnny Dotti 34′ 05″ – 6. domanda, risposta e chiusura 8’58”

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Testo dell’introduzione di Marica Mereghetti a Johnny Dotti

“Buono e giusto. Il welfare che costruiremo insieme”
di Johnny Dotti e Maurizio Regosa

La sfida che i due autori raccolgono è quella relativa a come reimpostare il senso della nostra democrazia all’interno di quella grande declinazione del politico e del sociale che è , è stato e ci auguriamo possa continuare ad essere il welfare. Se è vero, come è vero, che la crisi che stiamo attraversando non è solo economica, ma anche sociale, antropologica ed etica e – in Italia – anche e soprattutto di sistema politico, è altrettanto vero che una delle vittime di questa crisi è lo stato sociale: ovvero quell’edificio di diritti, partito da Bismarck, e strutturatosi per tutto il XX secolo, e in particolare nel secondo dopoguerra nel vecchio continente che si ricostruiva e tentava vie nuove per declinare nuovi diritti e un nuovo modo di prendersi cura della democrazia e dei cittadini. La democrazia si ristrutturava , a partire dalla dignità di ogni singolo attraverso il lavoro, nella ricerca di nuovi diritti e soprattutto nel tentativo di instaure l’uguaglianza delle possibilità.

Il testo di cui oggi discutiamo scommette sulla necessità di una rivoluzione alla luce di un tempo in cui “la comunità si è consunta” nell’ubriacatura della convinzione, ormai trentennale, che la grande rivoluzione liberale ha imposto rispetto al fatto che solo l’individuo bastasse e che lo stato non avesse più un senso se non come detentore della sola violenza secondo hobbesiana memoria. La cisi economica degli ultimi anni poi non ha fatto altro che peggiorare la situazione di chiusura sul presente della società, e della perenne mancanza di risorse statali per sostenere la conquista dei diritti e la forma di democrazia che in Europa si è inverata attraverso il welfare.

Nella grande mutazione non esiste più la persona con il suo insieme di relazioni, ma solo l’individuo con i suoi egoismi o, quando in difficoltà, con i suoi bisogni; non esiste più l’economia come nomos, ma solo come risultato monetario; non esiste più la comunità che viene sostituita da flussi di merci, denaro, individui; non esiste più la politica intesa come capacità di progettare e costruire il bene comune, anzi si tenta di eliminare anche il concetto stesso di bene comune; non esiste più una bellezza capace di essere anche buona e quindi giusta. Tutto è ridotto all’utile momentaneo mentre dono e interesse sono separati, laddove l’interesse non si trova più ad essere etimologicamente il luogo che separa e insieme unisce le persone, il luogo che crea comunità. Non esiste più, infine, una dimensione contemplativa in cui parola e silenzio convergano: solo rumore o deserto.

Se la sfida è quella di tenere unite queste polarità diventa ancora più grande la sfida di ricostruire uno spazio – che una volta si definiva prepolitico e comunitario – capace di ridare senso e costruire futuro. La sfida raccolta è quella di connettere l’economia e la solidarietà, creando anche una capacità diversa di creare cultura del lavoro attraverso le imprese sociali, che non operino nella esclusiva visione della massimizzazione del profitto, e che sappiano uscire dalla dipendenza del denaro pubblico. La proposta è insomma quello di uno scouting sociale che, senza pregiudizi, recuperi le esperienze territoriali positive, che ricostruisca la capacità di fare comunità e di far sì che le comunità si prendano cura dei beni comuni attraverso sistemi di governance pubblica fortemente controllate da cittadini di nuovo consapevoli di diritti e doveri che sorgono dal vivere in comunità. Ricostruire il welfare secondo una definizione di sussidiarietà in cui siano i cittadini gli attori e non solo più i fruitori.

Oserei dire che la proposta è quella di una “conversione” dei singoli, delle collettività, degli enti, dei paradigmi di riferimento per tutto quello che concerne il welfare. Innanzitutto allargando la definizione di welfare a generale sistema dello stare bene insieme in questo luogo e in questo tempo, operando concretamente la democrazia nel quotidiano di ciascuno, un welfare che diventa un prendersi cura collettivo delle comunità (un genitivo che è sia oggettivo che soggettivo all’interno del percorso proposto), per uscire da un’idea di semplice erogazione di servizi e giungere a un sistema progressivamente generativo di benessere sociale che sia sostenibile nel tempo anche da un punto di vista economico, nella sua capacità di poter essere anche sistema produttivo di ricchezza, nella consapevolezza che la rinuncia al welfare è una diminuzione della democrazia, non certo un suo miglioramento.

Gli esempi positivi già in essere e perciò paradigmatici nella loro possibile generatività per i territori sono molti e tutti interessanti: attraversano tutti i campi della gestione collettiva del bene comune: dall’ambiente, alla salute fisica psichica e sociale, alla cultura, alle tematiche abitative, anche alla capacità di impresa tesa anche al benessere dei propri dipendenti e dei propri territori in senso olivettiano e tanto altro. In questa grande speranza e positività del testo, che fa sicuramente anche bene al cuore, pare riverberare quella grande progettualità tipicamente italiana tra tardo ottocento e primi del novecento che si declinava nel “mutuo soccorso”, sia di stampo cattolico che di stampo socialista: un tentativo di essere e fare comunità capace di mettere in comune bisogni e risorse per prendersi cura delle persone e dei luoghi, una modalità che nel paese dei mille campanili partiva dai territori e dalle loro tipicità per costruire comunità migliori in un tempo di crisi e di grandi mutamenti sociali , politici ed economici.

Certo le politiche messe in atto sono spesso balbettanti e contraddittorie, non solo per l’endemica mancanza di risorse (ma poi onestamente è proprio vero che si deve tagliare sempre e solo nel welfare? E non magari anche in una revisione più generale degli sprechi), ma spesso per mancanza di progettualità, per il ricatto egoistico di lobbies di categoria e di privilegio (se un parlamento è fatto di avvocati, imprenditori o dirigenti, giornalisti e medici non è difficile capire quali saranno le categorie più tutelate), per l’endemico problema della corruzione. Anche leggi nate con buone intenzioni e direzionate verso mutamenti auspicabili vengono mal gestite quando non addirittura tradite nel percorso di attuazione.

Paradossalmente e provocatoriamente la sfida per gli autori sta nel provare a bene-dire questa crisi, a trovare in essa i semi di speranza per un nuovo modello di comunità e per un nuovo modello anche economico, nella scia di un personalismo (e qui intendo proprio la corrente filosofica) rinnovato e foriero di frutti nuovi.

Occorre a questo punto enucleare quali sono le tesi che il testo sostiene:

  • Innanzitutto la necessità di mantenere la tensione universalista del welfare, reso sostenibile anche attraverso la feconda diversità di ricchezze dei territori e una costante cura dei processi partecipativi: una prospettiva glocal, globale e locale insieme.
  • Recuperare il valore della persona come nodo di relazioni, e insieme recuperare un processo educativo profondo capace di attivare la condivisione partecipata dei bisogni.
  • La necessità di uscire dallo s-paesamento, nel senso letterale di ricostruire un modo dell’abitare che crei comunità attraverso una nuova (rinascimentale?) prospettiva urbanistica, attenta anche al bello.
  • Immaginare e agire politiche di creazione e distribuzione del valore sociale, attraverso la capacità libera e responsabile di creare nuove istituzioni di comunità, i vecchi e mai sopiti corpi intermedi.
  • La capacità di definire un progetto di felicità comunitaria indipendentemente dalle situazioni di partenza che possono essere di bisogno, ma non devono necessariamente esserlo.
  • riscoprire una modalità dell’impresa sociale, ma anche dell’impresa tout court, rendendo compatibili gli obiettivi sociali e le sostenibilità economiche: in questo senso il welfare torna ad essere pubblico e non solo un modo dell’amministrazione
  • Creare occupazione attraverso l’impresa sociale e l’innovazione dei beni comuni.

Certo è che il welfare ben temperato così come tratteggiato avrebbe positivi effetti sia economici che di partecipazione democratica. Il terzo settore dovrebbe in tal senso avere la capacità narrativa di esprimere la propria esperienza e di renderla pubblica, rigenerando la democrazia attraverso la partecipazione (tesi che già era propria del MOVI alla fine degli anni ottanta!) e contribuendo ad una diversificazione dell’economico attraverso un cambio di paradigma sul valore dell’inter-esse.

Il welfare in fondo non è altro che il bene comune e proprio perchè bene e perchè comune non può essere abbandonato a se stesso, o ad una mera burocratizzazione, o reso asfittico dalla mancanza di risorse. Ciò che per noi è bene, ha una fragilità che necessita di cura amorevole e costante e necessita che tutti ne prendiamo a cuore la fragilità.

Mi sia permesso esprimere a questo punto delle resistenze di carattere personale : ho trovato che il libro sia una buona maieiutica per una nuova ridefinizione del welfare, ma ogni maieutica dovrebbe essere preceduta dall’ironia, ovvero dalla capacità di critica dell’esistente per ogni soggetto che partecipi della necessità di un cambiamento: in parole povere mi è mancata molto – vivendo in Lombardia e avendo operato come amministratrice – una capacità di critica verso i molti errori, quando non gli inganni di parte del mare magnum della cooperazione, e di tutti i suoi addentellati. Sarebbe stato utile ricordare forse che molte “cooperative” nulla hanno a che vedere con la storia e con l’idealità sicuramente positiva espressa nel testo. Che molto resta ancora da fare rispetto allo sfruttamento della posizione di socio cooperatore (ancora più nello specifico con il ruolo di socia cooperatrice in tante cooperative che lavorano in appalto pubblico nella sanità e nel sociale). Che il sicuro aumento dei posti di lavoro nelle cooperative dipende dalla crisi ormai ventennale delle risorse degli enti locali e della follia di leggi che prevedeno modalità di esternalizzazione al minor prezzo e che spesso non consentono neppure agli enti più volenterosi di creare progetto con le realtà cooperative – magari piccole – del territorio o almeno con quelle più serie e più capaci di progettualità. Che con la scusa del “più società e meno stato” spesso non si è certo creata comunità, anzi si sono erose le risorse delle comunità, ottenendo posizioni di privilegio economico e politico. Che tanta parte di consumo del territorio con relativo problema di gestione delle infrastrutture (soprattutto nella macroarea lombarda) e creazione di brutture sono dovute al sogno di una edilizia residenziale pubblica (non edilizia popolare, quella è una bruttura non meno peggiore) su lottizzazioni fatte anche dalle cooperative, per cui tutti avevano diritto alla villetta (i famosi 120 mq su tre piani: una follia che non prevedeva evidentemente invecchiamento). Che sicuramente una delle modalità della diminuzione dei costi sanitari è quella della cura domiciliare: ma per farla non occorre solo un progetto politico serio, bensì occorre superare i tanti, troppi egoismi dei tanti opoeratori che dovrebbero intervenire sul territorio ( a partire da medici e pediatri di famiglia che dal venerdì sera sino al lunedì mattina risultano essere assolutamente irreperibili – motivo per cui ad esempio spesso si riempiono i pronto soccorso con spesa e disagio per gli utenti realmente bisognosi di cura e per gli operatori ospedalieri). Lei non ha toccato il grande tema dell’istruzione e della formazione, che sono un problema di risorse e di redistribuzione, ma vivendo in Lombardia non possiamo non gridare allo scandalo di una regione che taglia i finanziamenti alle scuole pubbliche per aumentare i contributi alle famiglie che scelgono le scuole private gestite da “imprese sociali” che spesso fanno ottime operazioni di marketing scolastico, ma che di fatto spesso non hanno lo “spazio” per il bambino disabile. Perdoni la critica anche aspra, ma non porre sul tavolo questi temi assolve come semplici errori di percorso grosse mancanze di parte di un mondo che proprio nelle sue espressioni migliori e più feconde dovrebbe essere in grado di prendere le distanze e denunciare i tradimenti di un’idealità e di una intenzionalità che potrebbe veramente provare a cambiare la realtà nel senso da lei , ma anche da me glielo assicuro, auspicato.

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Trascrizione della relazione di Johnny Dotti

Faccio una breve premessa, diciamo di natura biografica per capire poi che tipo di libro stava uscendo, adesso è un anno e mezzo che è lì che bolle. Allora, io sono del 1963, porto questo nome perché mio papà era un emigrante australiano, quindi io mi porto dietro questa roba di essere un po’ border line: uno che si chiamava Johnny, coi capelli rossi, col papà tornato dall’Australia, all’inizio degli anni Sessanta, fidatevi, che era un vero casino, cioè una roba complicata, mia sorella è nata in Australia. Lo dico perché le biologie, le biografie contano sempre, hanno delle derive lunghe, dei messaggi lunghi. Tra queste cose, io sono cresciuto a pane, don Mazzolari, don Milani, Cronache Sociali adesso, e, quindi, in un periodo, tra la metà degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, dove tu cominciavi a 12-13 anni a fare le cose.

Le dico queste cose perché poi sono dei portati… Mi ricordo della prima raccolta fondi fatta nel ’76 per il terremoto del Friuli, mi ricordo che avevamo 13 anni e tirammo su 20 milioni di lire e li abbiamo portati fisicamente a Gemona col treno. Poi uno rimane fregato da questi preti qua, capisci? Cioè io sostengo storicamente che il movimento del volontariato lo si deve, dal punto di vista dell’epifenomeno storico, ai due grandi terremoti, quello del Friuli e quello dell’Irpinia che furono due crisi telluriche che fecero uscire ciò che ribolliva, diciamo dal Vaticano II e dal ’68 in Italia. Perché lì in maniera totalmente auto-organizzata si resero evidenti… C’era stata una premessa prima con l’alluvione di Firenze, però lì si mossero centinaia di migliaia di giovani senza che ci fosse, diciamo, una prefettura, un responsabile. Ma poi ci tornerò sul fatto che le nostre istituzioni hanno sempre fatto molta fatica a interpretare lo spirito italiano. E viceversa, poiché, chi si è trovato di là, si è troppo schiacciato su forme e su modelli istituiti che non erano armonici con lo spirito che muoveva quelle esperienze istituenti. E su cui ci sono tanti pezzi di dialettica tra i quali le cose giustissime che hai detto.

Avendo avuto la fortuna di fare queste esperienze, anche a volte tragiche, non sono state solo felici, ci sono stati anche dolori, morti, cioè cose serie, la mia premessa è: uno, io non riesco a non benedire la realtà, e la realtà è visibile e invisibile nella mia cultura. Anche qui, tutta la tecnoscienza ci ha portato solo a rendere evidente ciò che è visibile, ma io sono un povero cristiano e la realtà è fatta anche di tantissime cose invisibili che sono altrettanto reali delle cose visibili. Tra l’altro, sostanzialmente, io appoggio la speranza, il valore della speranza e la virtù della speranza sono invisibili, non il futuro, io sono poco interessato al futuro dal punto di vista astratto. Anche perché la psicanalisi ci ha insegnato tante volte che il futuro in salsa occidentale non è niente altro che la proiezione di ciò che abbiamo rimosso nel passato. Cioè io tendo ad appoggiarmi sull’invisibile. Poi direte: ma te sei matto, ma vi ho spiegato che sono nato nel viaggio dall’Australia a qui e quindi mi posso permettere queste cose. Quindi questa cosa va benissimo.

La seconda, per fortuna varie storie familiari, adesso vivo in una comunità di famiglia da 27-28 anni, che non è nulla, non è né una cooperativa, né un’associazione, sono delle famiglie che cercano di vivere insieme con 3 o 4 parole; noi viviamo di 4 parole: terra, ospitalità, essenzialità e preghiera, punto. Non abbiamo un regolamento, abbiamo un letto per chi passa, se qualcuno va in difficoltà economica ci diamo una mano, le cose che per me sono basiche, come dire, normali, ecco. Ad esempio, stando in una situazione così quotidiana, poi avendo fatto anche l’imprenditore sociale, avendo fatto nascere qualche centinaia di cooperative, avendone dirette qualche migliaia, avendo avuto rapporti internazionali, per me la fragilità è un valore. La fragilità è una condizione umana che ti avvicina al mistero, non c’è niente da fare, e quindi ti avvicina a quell’invisibile che per me, come dire, è un punto sostanziale, uso una parolona, della mia ontologia.

Questa questione della fragilità invece è stata, poi lo vedremo nei modelli di valore, completamente rimossa dentro un tecnicismo, dentro un’idea di riparazione, dentro un’idea che bisogna essere sempre belli precisi, belli puntuali, belli interi, che non è il catholicos, non è l’idea dell’integro del cattolico; l’integro del cattolico ha a che fare con le dimensioni della vita, quindi comprende anche la morte, ad esempio, che non viene rimossa, diciamo che è la mamma della fragilità; per me è San Francesco, sorella morte, capito?

Cito queste questioni spirituali perché altrimenti non si capiscono alcune cose che possono sembrare completamente folli. Ma va bene così, ho 51 anni, sono felicemente folle, non ho voglia di tornare indietro. Però quella della benedizione, quella della fragilità è un punto fondamentale per essere felici. La dico proprio così: chi non comprende la propria fragilità come un elemento di felicità, perché è la fragilità che ti avvicina agli altri, non è la potenza che ti avvicina agli altri. La potenza ti fa conquistare gli altri, la fragilità ti fa avere rapporti di amicizia con gli altri, perché ti accorgi che tu hai strutturalmente bisogno dell’altro, non come qualcuno da conquistare, da convincere, ma qualcuno che è te, appunto il prossimo. Se tu non ti senti fragile, il prossimo non sai assolutamente che cazzo é. È appunto qualcuno con cui fare delle cose, come un pezzo di te.

Terza cosa. Anche qui la dico perché è una premessa importante, per me l’esperienza viene sempre prima delle istituzioni e non esistono istituzioni vitali che non tengano al proprio interno esperienze vitali. L’uomo ha bisogno (questa è una questione sociologica per quel che mi riguarda) di istituzioni. Il problema vero, il punto complesso è che se l’istituzione non è più la custode dell’esperienza originaria, l’istituzione diventa diabolica, in salsa italiana poi cinque volte più diabolica, perché, lo dirò dopo, noi abbiamo, diciamo, un’antropologia dell’unicità che è molto diversa dall’antropologia nordica del soggettivismo che conosce l’idea del collettivo, come dire l’idea della comunità è sempre fine del sentirsi unici insieme agli altri: Se l’istituzione perde questo rapporto con l’unicità, in senso anche forte, come dire, che devi avere anche un’autorità in grado di riportare l’unicità messa disposizione degli altri, pensate ai fenomeni mafiosi, perché sono esattamente così, perché sono derive del localismo e dell’unicità. Ma quello lì è il nostro modello antropologico, ma quella lì è la chiesa cattolica, sono le parrocchie, cosa sono i parokos, così tanti campanili vicini… Sono la necessità di far sentire uniche le relazioni primarie.

Ecco, vorrei solo che mi tenete in sottofondo queste vicende: la benedizione, la fragilità e che l’esperienza viene prima dell’istituzione. Provo a dire così: a me piacciono le esperienze istituenti, esperienze che si tendono dentro l’aspirazione a istituire, che non si consumino in un’emotività, in una, come dire, soddisfazione per il godimento delle cose che fai, ma che abbiano dentro questo respiro. Viceversa, chiedo sempre alle istituzioni di tenere sempre uno spazio al proprio interno in cui si ricordino il fuoco in cui sono nate e non la cenere che sono diventate.

In questi anni, quando dico queste cose, mi è capitato di tutto: sono diventato comunista, leghista, ciellino… No, no! Ho amici tra i comunisti, ho amici tra i leghisti, ho amici tra i ciellini, ho amici tra gli anarchici, ma per me il problema è fare un percorso di verità nella libertà, questo è. Poi ci confrontiamo, sapendo che quello che posso dire è che io qui ci metto la mia vita, non ci metto solo la mia testa, ci metto il mio matrimonio, il mio lavoro, i miei amici, la mia casa, non solo le aziende costruite, o le politiche o le cose che hai scritto. Poi ci tornerò su questo, sul tornare, sull’integrità di ciò che si è dentro la vita. Che non è la coerenza ideologica, è sapere che la verità ti sfida esattamente nella vita, non ti sfida solo nel pensiero. Chiuso.

Allora, in parte credo di non essere in grado di rispondere ma le tue critiche me le tengo nel cuore, perché alcune sono vere e io non riesco a darti risposta; in parte perché questo libro è stato, diciamo, il desiderio di finire un ciclo e di cominciarne un altro e quindi è stato con un amico, che è Maurizio, che fa il giornalista, è stato stare un mese in una baita, vederci ogni tanto e cercare di riportare anche a linguaggio il più semplice possibile alcune cose che sono state il problema di questi tempi, e che rischiano tutte le volte di finire sempre in nicchie linguistiche o, diciamo, in contesti superspecialistici.

Infatti, alcune parti non le avrei scritte così, poi il mio amico dice: dobbiamo forzarla perché l’idea è di parlare, non so, settimana prossima sono in un liceo a parlare con i ragazzini di 18 anni, o di parlarne al circolo delle ACLI di Pianzano, piuttosto che con l’associazione GAS che è nata a Mogeve (?). Perché sentivamo, io sento l’urgenza, l’importanza, come dire, di interpretare questo tempo come il nostro tempo. Non c’è un altro tempo, abbiamo questo tempo. Addirittura, in salsa spirituale, per me questo è il tempo più bello che Dio poteva pensare per me. È stato lì, ci ha pensato miliardi di anni, adesso il Johnny che è fatto su in questo modo, quand’è che lo faccio nascere? Lo faccio nascere lì, in quel periodo, in quel casino, in un casino dove negli anni Sessanta c’è il boom e dopo succederà che… E se Dio ha pensato a me, che questo è il tempo più bello per me, io devo capire che cosa succede e devo riuscire a comunicarlo. Quindi, scusate anche l’imperfezione, ma sono poco preoccupato di essere, diciamo, non capito. Se lo sforzo è massimo per cercare di trasmettere quello che abbiamo sentito, ecco, lo divido in tre.

Una cosa riguarda strettamente il sistema di welfare, la seconda invece tocca i punti di crisi evidenti ormai negli ultimi 7-8 anni, secondo me evidenti in Italia da almeno 15 anni, cioè dalla fine degli anni Novanta. E la terza cosa come si vanno ricomponendo questi punti di crisi e quindi con impatti anche su ciò che è welfare, dicendo due cose anche sulla forma:l’ha detta Giovanni Bianchi che tra l’altro ringrazio per la stima e l’invito, e l’ha ulteriormente approfondita anche Marica Mereghetti: cioè il welfare non è un problema tecnico, strutturale, oppure, come direbbe il mio grande maestro Illich, una cosa, un sistema che ci siamo inventati, no, il welfare è esattamente contenuto nel mito democratico europeo.

Io sono convinto che se noi non ricentriamo questo punto che è simbolico prima di essere, diciamo, un dispositivo, prima di essere un regolamento, una legge: è esattamente il pezzo con cui l’Europa ha cercato di contemperare libertà e giustizia (uso parole un po’ altisonanti). Ma questo è stato, tanto è vero che voi lo ritrovate nel tedesco Bismarck e nell’inglese Beveridge e poi lo ritrovate con le traduzioni italiane di natura mutualistica e poi lo ritrovate con tutte le riforme. Poi ci sono leggi e regolamenti, ma secondo me appartiene al metodo europeo, il welfare. È la traduzione tra fine Ottocento e Novecento del tenere insieme libertà e giustizia. Badate bene, destra e sinistra, non ci si deve mettere in testa che la libertà era una roba soprattutto di destra, mentre la giustizia è una roba sopratutto della sinistra. Tant’è vero che voi non trovate modelli di welfare in giro per il mondo all’europea, diventati elementi sostanziali della fiscalità, come accennava prima Giovanni Bianchi, o come elementi sostanziali delle politiche del lavoro, delle politiche ridistributive, ecc. ecc.

Quindi per me, toccare questo tema è cosa che negli ultimi vent’anni è stata impossibile da far capire ai politici italiani, veramente scandaloso il livello elementare, ignorante di questo tema qui nella politica. Non capivano quello che facevano, tuttora non capiscono, compreso il mio amico Letta non capisce cosa sta toccando, mentre qui si va a toccare un punto… una delle robe da ricontrattare a livello europeo questo, cioè ha a che fare con il modello di sviluppo, ha a che fare con la crescita, ha a che fare con un’idea di convivialità. Non è, ripeto, un dispositivo da tagliare, poi possiamo parlare di quelle cose, ma prima dobbiamo dire: ma sì, ma per far che? per far che cosa? per essere chi?

Questo ci tengo a dirlo. Quando si tocca simbolicamente questo nodo, si toccano questioni politiche, si toccano questioni economiche, si toccano questioni sociali. Si toccano tutte e tre queste questioni, mentre tutte le volte è stato segmentato e distribuito il dibattito: le pensioni sono una cosa, la salute è un’altra cosa, la scuola è un’altra. Cioè esattamente, che tipo di convivialità ha in mente il prossimo futuro? Io ho 4 figli, che cosa penso per loro? Che vita gli auguro? Questo è esattamente il welfare: diciamo infrastruttura che si mette a disposizione per quell’augurio. O diciamocela più chiaramente per quella maledizione perché bisogna che ce la diciamo, prima o poi, se consegniamo una benedizione o una maledizione. Io quando guardo in faccia Elia di 9 anni, ho qualche cosa da consegnargli?

La seconda questione, per spiegarla un po’ nel merito, è che è stranissimo quando si tocca questa storia del welfare perché la cosa che dovrebbe riguardare naturalmente la vita di tutti è diventata, anche nel linguaggio, una cosa quasi incomprensibile; cioè, sembra una roba per tecnici. Sembra che stiamo parlando, come dire, di un sotto capitolo, di una sotto area della scienza che devi possedere, come dire, tutti gli algoritmi giusti e li devi possedere per poterne parlare se no non puoi parlare. Che è esattamente la deriva su cui questo tema ha seguito, più degli altri, pensate alla sanità, la deriva tecnico scientifica che ha avuto il mondo, cioè il pensiero dominante. Io non sono contro la scienza, ho una moglie medico e quindi non lo posso essere, se torno a casa oggi mi mazzola. Ma è chiaro che noi abbiamo consegnato a un unico linguaggio la declinazione della complessità del vivere che è molto più ricca, che è fatta di tante cose.

L’Alzheimer non è solo un problema neurologico, la dipendenza dal gioco, cosa di cui parlerò per dirlo come dato patologico, non è solo una questione, diciamo, legata al contrario a un tema di povertà materiale, richiede da parte di tutti la messa in campo della propria vita, , di che cosa sai, e quindi anche devi studiare, devi approfondire, devi capire, devi ascoltare, devi vedere.

Allora, il primo punto lo dirò con frasi semplici. Noi, non so se consapevolmente o inconsapevolmente, secondo me inizialmente consapevolmente, parlo soprattutto dell’Italia, e mi riferisco dal dopoguerra agli anni Settanta, quando comunque avevamo una classe politica che uno poteva contestare, ma che aveva come dire, uno spessore dal punto di vista della visione della realtà. A me Fanfani non è stato particolarmente simpatico, ma se voi leggete le riflessioni di Fanfani negli anni ’40-’50 che poi porteranno le famose case Fanfani, sono riflessioni sulla povertà che avercene oggi qualcuno che fa riflessioni del genere, capito? Diciamo che però noi abbiamo avuto una lunga fase in cui il welfare è stato molto interpretato, io la dico così, come moneta e prestazione di servizi. Attenzione, in una società che si terzializzava, in una società che diventava sempre più immateriale, in una società che era la famosa società dei servizi, questo è stato un grande movimento: attraverso la fiscalità generale noi ridistribuiamo un po’ di denaro, pensate all’assegno di accompagnamento, tutto il tema pensionistico, la pensione di invalidità. Badate bene che io non maledico e non voglio distruggere, dico solo che questa è stata la via. Pensate nei nostri paesi, io sono un povero contadino, ma a me ha sempre colpito l’assessore ai servizi sociali del paese, generalmente la maestra in pensione che era l’unica donna presente allora nelle giunte comunali, e cosa faceva? Al sabato mattina distribuiva qualche assegno, pagava un po’ di case di riposo, siamo negli anni Settanta e visto che abbiamo un’età… Era molta moneta, molta moneta.

A un certo punto, la moneta si trasforma in servizi perché grande stagione dei diritti, qui abbiamo un maestro, Giovanni Bianchi, che però, ricordo, erano diritti collettivi, non diritti individuali. Eh no, qui abbiamo un esempio culturalmente con una storia pazzesca. Questi diritti quindi erano i diritti della esigibilità, c’era la questione della accessibilità, c’era la questione della risposta concreta che le persone dovevano avere – e allora lì c’è l’infrastrutturazione vera del welfare state italiano, mentre già andava in crisi quello svedese, perché già qui siamo andati in difficoltà, sempre un po’ dopo. Lo dico perché ho molto esempi avendo lavorato per il centro Federico Caffè, avendo fatto cose anche in Svezia.

E questo che cosa ha voluto dire? Ha voluto dire che, se andate a vedere i bilanci dei comuni l’anno scorso (ho fatto un lavoro per la Camera di Commercio di Milano), checché ne dicano tutti il tema del welfare nei comuni è diventato la seconda o terza voce. Diciamo, dalla maestra elementare che distribuiva qualche assegno, il Comune di Milano è a mezzo miliardo di euro. Non sono patatine: 250 milioni in proprio, 250 milioni in affidamenti, cioè stiamo parlando di robe mica da ridere… Dietro a questa questione dei servizi che, badate bene, seguendo il pensiero unico della specializzazione, sempre più specializzati, sempre più puntuali, sempre più su quel versante, diciamo, della parola terapeutico, sempre più puntuali. E tra l’altro appunto, con il montare di là della coniugazione, qua il grande Lees sarebbe da rileggere alla grandissima, tra bisogni e diritti e individuo, che sono arrivati a paradossi.

Per cui oggi voi non sapete se viene prima un’operazione oncologica (lo dico spesso questo, scandalizzando) oppure la risposta a una ragazzina che se non le rifate il seno vi dice che farà l’anoressica. Casi incontrati! Che gli dici, che gli dici quando fai il budget? A chi rispondi? È chiaro che poi può saltare fuori quello che dice: se io non ho i capelli blu mi sento a disagio quando vado nel mio gruppo e tu mi devi dare i capelli blu. Sto facendo dei paradossi…

Allora, questa tendenza, moneta e prestazioni dava per scontato due cose, dava per scontato che la socialità è un bene infinito, la socialità come l’acqua non è un bene finito. Cioè quando la si è pensata negli anni Settanta, siamo al passaggio ai servizi, l’idea era che io metto un po’ di servizi però dentro ad una rete sociale familiare che sostanzialmente, diciamo, ha una sua tenuta e io rispondo a quei picchi a rischio di emarginazione da una parte, oppure aiuto a incanalare: l’assistenza domiciliare è nata così, mica si immaginava allora, anche se i politici potevano leggere un po’ di più i trend demografici… Va bene, ci sono 100 anziani, 5 o 6 li aiuto domiciliarmente per qualche anno, poi muoiono… Sono un po’ crudo, ma mica era immaginabile quel che è successo, ma non solo come condizione fisica, come condizione psichica. Cioè uno oggi, arrivato a 70-75 anni, immagina di sposarsi un’altra volta, magari si sposa con la badante e uccide pure la moglie in molti casi. Ma andate a vedere i dati degli omicidi, che è difficilissimo trovare ma adesso meno con l’ISTAT, e il contesto in cui avvengono: ormai il 40% degli omicidi, perché ogni anno hai una salita di 3-4 punti, sono esattamente i contesti familiari. Più omicidi della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta messi assieme. E se andate a vedere l’età, è un’età che tende a salire spaventosamente. Io dico: ma hai 80 anni, cosa stai a uccidere la moglie di 70, stai tranquillo, devi morire, stai sereno, vai un po’ più al bar… ma questo ha le sue fantasie, dell’io infinito, ha le sue fantasie espansive.

La metto un po’ così perché al sabato mattina bisogna essere un po’ allegri, no? No, perché è la vita… Andate a leggere un po’ di Georg Simmel, di sociologi totalmente rimossi, cioè la vita, c’è bisogna di riguardare la vita se no che istituzioni pensiamo se non guardiamo la vita? E, al limite, il senso della morte. Però attenzione, parlo anche in salsa diciamo dei dossettiani, attenzione che tutti siamo andati su prestazioni e servizi, più servizi, più soldi, cioè tutti siamo andati lì, immaginando che così lì si risolvesse la cosa. Poi in salsa ciellina la traduzione è stata: facciamo sussidiarietà coi soldi pubblici e li diamo agli amici. Io da tempo spiego ai ciellini che non si fa sussidiarietà coi soldi pubblici, semplicemente non si può fare. La sussidiarietà non è una ridistribuzione dei soldi pubblici, è variazione di ricchezza socio-economica per conto tuo, con cui poi contratti la tua esistenza con gli altri. Non sono i soldi presi dalla fiscalità generale e ridistribuiti alle cooperative, no!

Per questo mi hanno cacciato ovunque, mi hanno cacciato dalla Confcooperative… Dopo di che mi ascoltano, perché grazie a Dio ho spiegato che la cosa è diversa. Cioè,per fare un po’ di autocritica, perché anche noi siamo finiti lì, perché allora soffiava un grande vento, soffiava un grande vento. E cosa è che è venuto meno? Che invece è fondamentale alla base di quei ragionamenti semplici che ci sono nel libro? Senza legami e senza senso non regge nessun welfare, ma lo dico più chiaro, non regge nessuna società di cui il welfare, diciamo, è un’interpretazione in termini solidaristici e conviviali, per quel che è nella mia interpretazione. Che è un po’ diversa da quella delle case farmaceutiche, per capirci. Ma con cui io vado incontro e vi devo dire che in questa fase trovo più attenzione nel grande capitale su questi temi che non nei nostri mondi. Perché è chiaro che il grande capitale ha un problema di riposizionamento dei consumi. Dopo vi farò alcuni esempi molto semplici. Per quello ci dobbiamo un po’ svegliare. Ci troveremo che i nostri linguaggi verranno usati da altri e guardate bene dentro dei bei format, tra l’altro.

Allora, cosa dico legami? Ma cosa intendi tu per legami? Non vi do tutti i dati di che cosa è successo, diciamo, al nucleo familiare senza giudicare bene o male, ma è chiaro che le strutture sono cambiate, le strutture familiari, le strutture parentali, le strutture associative. Giovanni Bianchi prima diceva: “Dove sono i giovani?”. Ma voi pensate che cosa è successo alle grandi, le chiamo così senza offesa, alle grandi cinghie di trasmissione di questo paese. Perché così era: tu avevi una selezione della classe dirigente che le tre grandi ideologie, non parlo di fede, ma avevi la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, il Partito Socialista, avevi sotto, con lotte varie, in salsa, la Confcooperative, la CISL, la Coldiretti, le ACLI… Faccio l’eretico, di là avevi l’ARCI, la Lega Cooperative e questo produceva un meccanismo di mashing, di scontro di dialettiche che selezionava la classe dirigente e uno entrava… Abbiamo ottenuto la selezione degli individui, abbiamo perso completamente il senso di quella roba lì.

Cioè il mio amico Andrea Olivero che è finito in Parlamento, è un po’ diversa la tua storia, ha perso il lumen, che ci faccio qua, ma pensava di aver salvato il popolo, capito? E Gigi Bobba uguale. Che cosa fa? Ha tentato dei teoremi… ma cosa fa lì? So che Giovanni Bianchi mi capisce. Ma no, è la stessa roba; tutti i miei amici del terzo settore società sono finiti là come dei cani morti. E adesso Poletti? Cosa farà Poletti, cioè? È ministro ma è l’onda lunga del vecchio modello della cinghia. Che però non porta giovani. Io sono molto contento di voi, che siamo ancora qui, alla nostra età, roba da matti.

Perché non ci sono giovani dentro l’associazionismo. La lista di quest’anno solo il 7% dei giovani fa qualche esperienza di volontariato. L’età di volontari è over 55 anni. Diciamo che abbiamo qualche problema. Ebbene cosa vuol dire questo? Aggiungete che sotto i 24 anni abbiamo i tassi di disoccupazione di cui sopra. Dove sono questi? Dove sono? Lo sono anche i miei figli. Attenzione, non è che io voglio….Certo, sottoscrivono l’appoggio alle balene attraverso Facebook e dicono: ma io papà faccio questo. Io mando a fanculo te e la balena, ma tua nonna? Attenzione, dopo ci arrivo sulla società piatta. Ma noi che eravamo tutti là, su soldi e prestazioni, ci siamo dimenticati dell’essenziale, per me, della vita e di che cosa succedeva dentro la vita e quindi i legami sono andati frantumandosi.

Attenzione, anche lì, ne parlo da tanti anni col mio amico Magatti con cui condividiamo tante cose, compreso il lavoro sulla generatività all’Istituto Sturzo, però è chiaro che quando noi abbiamo liberato la libertà, è un giro di parole, abbiamo liberato la libertà, questa è stata immediatamente percepita dal punto di vista individuale e si è espansa dal punto di vista individuale. Questo ha portato a intendere ogni legame come un impedimento. È un altro problema. L’altro non è più diventato te, non è il tuo tu, tu non sei il suo tu, l’altro è un altro io, capite? Scontri tra io! Io espansi, tra l’altro, che dovevano moltiplicare emozione, dovevano moltiplicare esperienze nel senso del consumo immediato di ciò che è epidermico e che ti dà soddisfazione.

Il grande capitale è stato un genio, non ha messo al consumo questa roba, veramente geniale. Il meccanismo è veramente… intanto il consumo è una dimensione antropologica e, ricordatevi, noi mangiamo Dio; ci sono degli archetipi profondi, non è che sono delle cose… cioè non è che il consumo è una roba… no, no, il consumo è una dimensione della vita ma l’abbiamo, come dire… Per me, nessun servizio e nessun soldo che non alimenta legami va fatto. Andrebbero chiusi moltissimi servizi, delle mie cooperative, prima di tutto, non servono proprio a niente. Servono a dare qualche posto di lavoro però dopo c’è tutto un meccanismo che non genera valore, fai rendita su una posizione. Secondo me, questioni politiche, che siano fatti economici o che siano istituzionali pubbliche, non va messo nessun soldo e non va aperto nessun servizio se tu non guardi, o non vedi, o non sei certo che quello è un agente che alimenta, cura e moltiplica i legami.

Ma questo lo dico anche in termini, diciamo, propri professionali: nessun problema moderno, dalle patologie della terza età, ai problemi della dipendenza, ai problemi della povertà materiale può star fuori dai legami. Semplifico molto: mamma con l’Alzheimer, tu puoi essere la persona più ricca di questo mondo ma nessuno ti vede e ti sputa in faccia, o tu vedi tua mamma che è sempre andata a messa e che si mette a bestemmiare, tu puoi essere ricco, avere 5 mila euro al giorno, avere quattro infermiere, ma tu vai nella merda più totale se non hai intorno amici con cui condividere quella situazione. Cioè il problema non è solo della mamma, diventa tuo, diventa tuo con tua moglie, diventa tuo e non sai più se portagli lì i nipoti, se non hai luoghi, contesti… Ma la stessa cosa te la dico professionalmente: si è scoperto che moltissime delle questioni legate alle patologie generative sono patologie legate al rapporto tra emozioni, memoria, relazione, esperienze psicoemotive fatte con gli altri.

Adesso non potrei citarvi cose fatte da chi segue l’Alzheimer o dagli amici di Firenze sul teatro fatto con malati di Alzheimer: hanno momenti di lucidità quando stanno sul palco, interessante. Ma che cosa è quella roba lì? Pensate alle dipendenze. Non so voi a Milano sarete fortunati, dalle mie parti il problema delle slot-machine è un problema pazzesco. A parte che è la terza industria del paese, più di 100 miliardi il fatturato nell’anno scorso. Ma voi dite: chi sono quelli che giocano alle slot-machine? Esattamente la nonna Giuseppina, che sta facendo fuori il suo patrimonio, che è rimasta là appesa da sola e l’unica cosa che ha è che continua a immaginare è che se avrà più soldi potrà lasciare più soldi al Johnny. E nel frattempo fa fuori quei 40-50 mila euro e li fa fuori in un mese.

Sono un immigrato, marocchino, che prima di andare al lavoro in bicicletta -, vi dico casi a casa mia, fisici, sono dovuto andare in banca a coprire buchi – prima di andare al lavoro in bicicletta passava alla slot-machine, col bancomat, 200-250 euro nel giro di mezz’ora. Perché è chiaro che se tu hai l’idea che puoi afferrare alla svelta, tu hai l’idea che l’anno prossimo tornerai in Marocco con la Jessica guarita. Nel frattempo buco alla BCC di Ghisalba di 7 mila euro. Scusate se vi do cose molto concrete, ma questo è un fenomeno pazzesco. E sta erodendo i patrimoni, i patrimoni su cui c’è stato il passaggio generazionale e su cui si mantengono molte famiglie oggi.

Potrei fare altri esempi su cosa vuol dire legame. Quindi tu non metti a budget 100 mila euro di investimento su quei servizi se non mi fai vedere da quei servizi che tipo di legami stai implementando e che tipo di durata hanno quei legami, che tipo di cura hai di quei legami e che tipo di società…Noi dobbiamo ripensare alla socialità come l’acqua, che non è infinita, è finita e, o la socialità la facciamo diventare una cosa di cui aver cura, se no ci troveremo aridi.

Ma posso vivere in termini di spesa sanitaria? Secondo una ricerca dei miei amici ciellini della fondazione sussidiarietà, il 60% dei ricoveri ospedalieri è improprio in Lombardia, fonte del mio amico Vittadini. Sapete perché? Perché ci vanno i cronici. Sapete perché economicamente? Perché c’è un bel giro dal punto di vista economico. Ma cos’è quel cronico che finisce all’ospedale? Non c’è più la vicina che fa la puntura, come c’è sempre stata nella tradizione italiana. Voi non avevate una vicina che vi faceva la puntura, la sciura Maria, amica della mamma? E no perché adesso ci deve essere l’infermiera superspecializzata che viene lì dall’ora all’ora con il protocollo X/800K. Per fare una puntura? Noi la sciura Maria l’abbiamo buttata via. Ma abbiamo creato qualche posto di lavoro: per l’amor di Dio, è un po’ problematico sostenere il meccanismo.

Mi state seguendo o è troppo complicato? E poi mi dicono: la grande fortuna italiana è fatta dei legami nella sua storia millenaria, esattamente sempre esperienze istituenti. Comprese le banche. Le banche italiane sono esattamente figlie di legami sociali. La metà delle banche sono San Bernardino da Siena, Monte dei Pegni. Eh, si! Nascono esattamente dai legami sociali e dalle letture del tuo bisogno, del tuo valore. Secondo me, questa è la cosa che l’Italia ha portato nel mondo, perché la Cina e l’India a breve si troveranno con questi problemi perché se incorporano il modello tecnico capitalista sui temi sociali sono morte. Non ce la faranno mai.

Allora, l’altro è il senso? direte voi: Il senso? C’è il tema della morte, c’è il tema della felicità, della gioia, del dolore, dell’avere un alfabeto delle proprie emozioni, qualsiasi cosa che riguarda il welfare, in senso ristretto o allargato, senza senso, e anche qui il senso è esattamente il lavoro culturale dell’uomo. Non si riproduce da sé. Il senso è, diciamo, il matrimonio tra mitos e logos, dico io, cioè tra il portato culturale che ti viene dall’aver vissuto in quel contesto e il tuo sforzo intellettuale e comunitario nel riprodurre quel senso, il senso non si riproduce da solo.

Torno all’Alzheimer, ma potrei dire di mio cugino bancario con la cocaina. Sì, il problema tecnico, il problema comportamentale, ma se non c’è il senso? Invece noi no, abbiamo ridotto tutto a professione, oggettività, prestazione. No, non è possibile.

La crisi della scuola. Sintetizzo, qui l’abbiamo lasciata perdere perché finivamo in un altro libro, ma io sono un pedagogista di natura, quindi immaginate l’interesse; e sono un pedagogista nella mia povera miseria contadina. E questa è una questione del senso. Il senso è sempre con-senso. E questa è una delle ragioni dell’impoverimento della politica, perché non si ricorda mai che con-senso ha bisogno di un senso prima e che senso e con-senso vanno insieme in salsa italiana. Ma non sono la maggioranza e la minoranza il senso e il consenso: sono la costruzione di una base comune su cui poi ci possiamo differenziare dal punto di vista delle idee per metterle in atto, ma prima ci deve essere un consenso. L’Italia non vive senza consenso per la sua storia, per la sua conformazione, per le sue piazze, per i suoi campanili.

Quindi proposta numero uno: qualsiasi cosa si faccia sul welfare, la si faccia da assessore della regione, da Majorino di turno, da Johnny Dotti responsabile dell’impero sociale, da Guzzetti della Fondazione Cariplo, dalla Luxottica con il welfare aziendale (e qui ci tornerò, e questo potrebbe essere un punto buono per il fatto che noi abbiamo una pluralità di punti di partenza), ma mi raccomando prima legami e significato, dopo moneta e prestazioni.

È chiaro questo? Ecco siamo in quattro che la pensiamo così, scusate, a sinistra in particolare, perché la criticità con cui si ripetono parole come diritti non ti porta più a vedere nulla. Vi faccio due esempi materiali. Allora, io sono convinto che il problema della non autosufficienza lo si risolve con forme nuove dell’abitare, non con l’iperspecializzazione degli interventi, o riprendiamo da lì o se no non è risolvibile. Dal punto di vista della tendenza universalista: è quello che ho detto più volte, della tendenza universalista, perché quando abbiamo avuto il welfare state è sempre una tendenza all’universalismo, non è mai, diciamo, una cosa conchiusa, non può esserlo, è una fantasia se no, capito? È con le forme nuove dell’abitare, non c’è niente da fare, che facciano uscire dagli appartamenti, perché appartamento vuol dire separazione, giusto? Lo spiego sempre ai miei amici della sinistra. Avete fatto le marce per la liberazione di Mandela? Contro cosa le facevate? L’apartheid. Che è l’apartheid? È esattamente l’appartamento, cioè separazione, allora fate delle belle marce contro le villette a schiera coi nani. Basta, non sta in piedi, quel modello non sta in piedi.

Rispondo alla tua: Ma tu sogni il comunitarismo! No, no, sogno solo, e questo lo dico anche ai preti quando fanno i corsi per i fidanzati, spiegate che sposarsi non è star dentro a un appartamento, se no quelli dopo tre mesi sono separati. Tanto più se parliamo di matrimonio come sacramento cristiano. Ma in generale spiegare a due che sposarsi è star dentro una rete di relazioni e costruire quella rete di relazioni, e contribuire che sia bella, viva, solida, ognuno ci metta un pezzo di ospitalità, un pezzo di gratuità, cioè vuol dire ucciderli, io e te, che poi sono due io, e torno al punto di prima, e uno diventa Dio e l’altro non è in grado di accontentarti, non c’è nulla da fare.

Ma la stessa cosa la pensate a fine vita. Se tu non hai intorno una rete di relazioni a cui hai contribuito, a cui continui a contribuire, con cui condividi e perpetui i tuoi bisogni, non è una risposta individuale ai tuoi bisogni, è ingestibile la vicenda. Guardatevi i tassi: tra 7 anni noi avremo i sessantacinquenni che avranno superato gli under 20 e mi spiegate come staremo in piedi? Poi qui c’è la fantasia che uno….adesso qui devo dire che tutta quella gentaglia lì, Berlusconi, don Verzè che hanno alimentato un immaginario pazzesco, e qua c’è l’idea che tu vivrai di più, 120-130 anni e il problema è che ci arrivi scopando come un grillo. È una fantasia erotica veramente pazzesca.

Io ho il mio papà bravissimo, papà Fermo e mamma Franca, capite perché sono così, e poi c’è mia moglie che si chiama Monica e io volevo fare il monaco fino a 20 anni, è un casino, ma la vita è bella così, dai. Ma vi dicevo: immaginare mio papà che è bravissimo, ha resistito alla perdita della mamma per tumore a 70 anni e per mio papà da lì in avanti è stata durissima, questa sua fantasia di risposarsi con una badante, ma vi cito, perché la vita ha tanto da insegnare e io lo capivo il mio papà e lui è stato lì questi 12 anni sospeso affettivamente, con un po’ di noi figli, poi lui ha l’associazione “Bergamaschi nel mondo”, meno male, ha scritto a tutti, al papa perché voleva delle cose… Meno male che aveva queste modalità, di sublimare, direbbe Freud, ma se mi sposava la bulgara a 75 anni, ma per la bulgara, non per mio papà. Adesso mio papà da 3-4 anni la mente… Quindi se papà andrà avanti fino a 90 anni io son contento, ma è un vero casino, ve lo posso assicurare. E penso di essere una persona, avete visto, abbastanza appassionata che vuole bene, con mia sorella, i cugini, i parenti, adesso siamo una comunità, ma dopo una certa età è dura.

Questa fantasia che va avanti dritta, che è tutta uguale, che tanto c’è l’aereo, che tanto puoi andare a Lourdes, che il giorno dopo vai in nave… Io non so voi, le vostre storie… Sappiamo quanto le istituzioni stanno ascoltando. Cosa vuol dire questa cosa qua? Vuol dire che aumenti le RSA di De Benedetti? Si, perché noi abbiamo questi film all’italiana, i grandi mercati questi. Il pubblico copriva un bel pezzo, 3.000-3.500 euro costa una persona nelle RSA, metà la pagate voi, metà la paga… È quella lì la soluzione? Otto anni mio padre in una RSA?

Domanda: ma se ci rifossero anche tutti i soldi… e guardate che il grande capitale sta già andando sul sanitario e sarà il primo investimento dei tre grandi fondi, lo dico perché il nome mi ha portato ad avere molti rapporti internazionali, il Johnny è una fortuna. I tre grandi fondi internazionali fanno del sanitario il primo investimento riposto in 30 anni. Chiaro? Dove stiamo andando allora? Ci siamo capiti su questo punto? Che è un punto che riguarda le persone che sono in questa stanza, non riguarda chi è fuori da questa stanza. Ricordatevi che il welfare è stato sempre pensato per chi stava fuori dalla stanza, per chi non ce la faceva. La mia proposta è che qui poveri siamo tutti, fragili siamo tutti. O la prendiamo come una benedizione, o la prendiamo come una maledizione.

Secondo passaggio veloce. Scusate la passione, ma riesco a vivere solo appassionato, mi costa anche un po’ e costa a chi vive con me. Allora. Ecco vorrei far presente cose che per me sono state cose concrete queste della vita, cose poi fatte, perché poi c’è l’universale concreto che però vanno insieme, non sono due cose separate. Secondo: questa cosa si appoggia esattamente su quelli che io chiamo i 4 grandi punti di crisi che poi il mio amico Mauro Regosa potrebbe spiegare meglio, io li spiego un po’ come fa il Johnny.

Allora, una grande crisi della democrazia, una crisi della verticalità dell’autorità, una crisi esattamente dell’individuo e una crisi di ciò che è produzione di valore. Diciamo: un tema politico, un tema antropologico, un tema sociale e un tema economico che sono esattamente la crisi in cui siamo noi, secondo me. Che però possono essere anche, diciamo, le doglie di un parto, io vi invito a viverla così. Io non sto a spiegarvelo per tanto tempo, ma non è che nei passati trent’anni eravamo tutti tanto felici, ecco sinceramente. Io con gli scarti che venivano prodotti ci avevo a che fare tutti i giorni, cioè dei begli scarti. E guardate i tassi di depressione che abbiamo prodotto: l’uso degli psicofarmaci. Guardate la quantità di badanti, un milione e seicentomila badanti, anche i miei amici della CGIL non mi rompono più le balle quando dò questi dati. La più grande emersione del mercato nero e la dichiarazione di occupazione in Italia negli ultimi 15 anni sono state le badanti, lo sapete. Beh, la famiglia si è auto-organizzata.

E guardate la soluzione non era solo l’autosufficienza, 15 miliardi all’anno di fatturato non valgono una finanziaria, ma la questione è che nessuno ha accompagnato quel fenomeno lì, l’ha messo dentro un legame, l’ha portato a valore, ognuno si faccia i cavoli suoi. A partire dalla mia amica Bindi e dai parlamentari che hanno fatto passare la legge perché avevano già le badanti in nero loro, è andata così. È andata così. Nel ’99 io portai a Sestini e alla Bindi questa cosa, poi perché è andata così con un rapporto individuale è perché il 60% dei parlamentari aveva già la badante in casa. È stata una delle leggi più rapide che sia stata fatta in Italia quella lì. Con la consapevolezza di ciò che hai prodotto, zero

Allora, il primo punto, siccome è il più forte, noi siamo passati, la dico così, da una società verticale a una società piatta, non dico ancora orizzontale, piatta. La tecnologia ha fatto da driver a questo tipo di percorso che viene prima dell’interpretazione democratica di questo percorso, e questo è innanzitutto quello che dico il grande tema dell’autorità. La domanda è: in una società piatta che cos’è l’autorità? Chi ha l’autorità, non il potere, l’autorità? Autoris vuol dire far crescere. Nessuna società cresce se non c’è autorità, nessuna persona cresce se non c’è autorità. Poi che questa autorità la mettiamo, diciamo, nel cielo, o la mettiamo nel sangue, o la mettiamo… noi siamo dentro a una grande crisi dell’autorità.

Mia figlia, dico spesso, ha 2.500 amici in Facebook, ha 16 anni e giuro che fino alla prima superiore non aveva neanche il telefonino, quindi si è prodotta 2.500 amici. Voi direte che non sono amici, sì lo so che non sono amici, ma si chiamano amici, sono tutti amici. Le parole. Le parole sono il logos. Le parole segnano, o possono uccidere. Eppure ha un papà come me, capite? Cioè non è che mia figlia abbia una vita facile, però giuro che mantenere quel filo di senso con lei è molto complicato perché lei tende ad appiattire tutto, a rendere tutto equivalente. Cos’è l’autorità se siamo in una società dell’equivalenza? Dove ogni parola è uguale a un’altra, dove nessuno fa la differenza?

Questo è un temone e c’entra molto con la questione del welfare. Fateci i collegamenti con le cose che ho detto prima. Certo, la guardo positivamente e dico dopo la Rivoluzione francese: liberté, egalité, fraternité, ma forse è un tempo del ripensamento della fratellanza. Forse devo immaginare che noi, o almeno io, la fratellanza non l’abbiamo mai avuta. Ma pensate, anche adesso, forse è indicativo che Renzi uccide Letta, è un primo punto… Sì, ma noi non ce l’abbiamo in positivo, noi abbiamo quasi sempre, invece, elaborato rapporti tra padri e figli che poi sono andati dentro la modernità, come dire, perdendo. Ricordatevi il mito della costruzione, anche organizzativa, della Chiesa cattolica che, a fondo di qualsiasi cosa si racconti, se vai indietro c’è quella roba lì. Pensate: curato, parroco, vescovo, cardinale, non torni mai indietro eh! Non torni mai indietro, vai sempre avanti. Perché i politici non mollano mai la poltrona? Perché pensano di andare avanti. In ultimo, il papa e non è che ritorni curato.

Voi ridete ma nelle aziende, il grande dramma delle aziende familiari è questo qui, col nonno di 90 anni che è ancora lì, non molla, e intanto il figlio gli ha fatto fuori tutto tra Ferrari… Adesso non vorrei trattare, ma in un società piatta, andiamo verso un’anomia totale, le polarizzazioni sono queste. O sarà l’occasione di un pensamento, di un senso della fraternità diversa, dentro la questione dei legami dei sensi che è una cosa più profonda. Oggi siamo lì, tutto l’occidente è lì. E il meccanismo, tra l’altro, su cui si produce perché senza autorità ci sono solo poteri vuoti, o poteri fascisti, o poteri autoritari, o poteri senza senso, figli del marketing, diciamolo.

Tutto oggi è sospeso lì, e non solo noi, andate un po’ in giro. E questa cosa si appoggia su una seconda che è la parte più politica. La prima per lo più sociologica antropologica, la seconda è politica. Nel massimo dell’espansione formale della democrazia nel mondo, noi in 2.500 anni di storia non abbiamo mai avuto così tanta democrazia al mondo, siamo partiti da 20 mila persone ad Atene, oggi stiamo parlando di alcuni miliardi di persone. Formalmente! E perché parliamo di democrazia? Perché ci sono due cose: voto e fiscalità dello stato, queste sono le due questioni. Noi abbiamo giocato l’idea democratica spingendo su queste due: suffragio universale, votare e contribuire come cittadini, attraverso la fiscalità, ai beni pubblici. Però noi diciamo che c’è la democrazia in Afghanistan, che c’è la democrazia altrove, perché ci sono queste due robe qui, quando è evidente che queste due robe qui non bastano più. Il nutrimento della democrazia, se spinge costantemente solo su questi due elementi, ma anche l’invenzione delle primarie del PD, va sempre a finire sul voto, capite? Io non sono contro il voto o la fiscalità, non mettetemi dalla parte della destra e di Berlusconi, però voglio farvi capire che la crisi è profonda e allora noi siamo di fronte a inseguire qualcosa d’altro?

Adesso che siamo più liberi, che siamo più benestanti, che accediamo a più informazioni, abbiamo qualche strumento, processo, contenuto? Il mito democratico contiene qualcosa d’altro? Il politeuma ateniese si chiudeva dentro alla questione voto e fiscalità? Banalmente, siamo in casa dossettiana e nella nostra Costituzione sarebbero contenute altre cose interessanti, peccato che non facciano per nulla parte del dibattito pubblico.

Perché insisto sui beni di comunità, per esempio? Perché sono esattamente un luogo della concretezza e dell’esperienza che può generare nuove istituzioni. Ma tu che cosa intendi per beni di comunità? Adesso vado oltre CL io: l’acqua, i trasporti locali, la sanità, la scuola non devono essere a gestione statuale. Lo so che dico cose pesanti, non devono però essere privatizzate; c’è uno spazio tra privatizzazione e statalizzazione? Sì, è quello della socializzazione che acquista un livello più alto di consapevolezza e di partecipazione, perché questo nella modernità è partecipare. Non basta più partecipare al voto, partecipare con l’Unico o col 740, ci sono pezzi di partecipazione che vanno esattamente a impattare sulla nostra convivialità.

Anche perché, diciamocelo chiaro, abbiamo verificato, ho molti amici in Romagna, in Puglia, e voi andate a vedere i dati delle municipalizzate. È un problema! Quelle che vanno bene sono andate in Borsa e stanno bene perché hanno aumentato i soldi degli utenti, diventati poi clienti, ma lì non sono entrati i cittadini. Ne ho discusso col mio amico Vendola: ma non rompermi con questo Acquedottio Pugliese, finché tu perdi il 45% di acqua mi spiace, c’è poco di pubblico! Allora vuoi privatizzare? No, voglios forzarmi di fare un pensiero più in là: quello è un bene che abbiamo a disposizione che non è solo materiale ma che è simbolicamente, e in qualche caso religiosamente, rilevante.

Siamo in grado di fare un pensiero fuori dal binario, noi trinitari? Perché ricordo che noi cristiani non siamo monoteisti, siamo trinitari, quindi non dualisti. siamo in grado in questo mondo di computer, di pensiero binario, si-no, destra-sinistra, di fare un pensiero trinitario, che è relazionale sostanzialmente, che è contemporaneamente testuale e contestuale, e che non è il centro. Secondo me, questo è quello che mi sento dalla mie esperienza, cioè noi abbiamo quest’area di ciò che è pubblico (qui c’è un problema di Codice Civile) che oggi potrebbe essere sanamente resa almeno un po’ più plurale per dare vita a esperienze istituenti che hanno fortemente a che fare con la democrazia. State capendo o è troppo difficile.

Pensate ai trasporti locali, ma possibile non fare un’alleanza tra chi li usa e chi ci lavora? Io ci vado tutti i giorni ma è mai possibile che quel parcheggio della Gobba sia una cosa così triste in uno spazio così interessante? Quante robe si potrebbero inventare e non solo infilare l’auto in un punto. Tanto è vero che gli immigrati ci hanno fatto un incontro di 10 mila persone tra venerdì e sabato: ortodossi, mezzi, salami… Io non ho capito chi gestisce, sono storie strane, perché poi la società si muove, per fortuna! si fa la salamella, voglio dire. Vita, vita, capite? Vita. Possiamo riportare i beni di comunità più vicine alla vita e non una finta burocrazia pubblica e poi anche gli scandali. Questa è anche economia.

Sul valore siamo in una fase, non so se si andrà di lì, io lo spero per mio figlio Elia, e fin che posso, e il buon Dio mi dà fiato cercherò di portarlo di lì, perché è chiaro che la tendenza alla privatizzazione… ma anche in salsa mantenendo il controllo pubblico, ma sempre privatizzazione, perché se va in Borsa come la 2A senza fare nessun pensiero di quale energia, quella lì è privatizzazione, di che cosa stiamo parlando? Distribuzione di dividendi?

Sul valore: qui il mio amico Magatti ha detto delle grandi cose: è chiaro che noi stiamo uscendo dal film in maniera drammatica e non so quanta schiuma ancora si produrrà. Ma intanto in questi anni ho fatto anche il consigliere in alcune banche, quindi ho visto dei film, il Credito bergamasco, piccola banca ma interessante, cioè vedere come vanno 13 miliardi di credito tra Bergamo e Varese. Ed è chiaro che il gioco, consumi finiti, produzione finita che si appoggia su debito infinito, è finito. Oh, ci hanno vinto due premi Nobel, non è che è una rovina, è proprio finito, lasciando a terra delle macerie pesantissime.

Guardate bene che tutti siamo andati di lì, anche il welfare abbiamo consumato. Quando vi dicevo prima, perché il gioco era massimizzare, non fare ciò che è ottimo, fare ciò che è massimo e, dal punto di vista dei bilanci, fare ciò che è massimo in fondo doveva esserci un risultato nella trimestrale… quanti utili, dimenticando che gli utili in un’azienda sono sostanzialmente gli indicatori di efficienza di quell’azienda e se la pensi dal punto di vista del corpo non è che se superi un certo numero di piastrine stai molto meglio, o superi un certo numero di globuli bianchi stai molto meglio, o superi un certo numero di battiti cardiaci… Cioè il quantitativo che è una bella storia, e anche qui è un derivato della scienza, in senso negativo, perché non ha avuto criticità e intelligenza su cui confrontarsi (e questo è un problema religioso, per quel che mi riguarda) e siamo scivolati di lì.

Però, di questo mi sento sicuro, è finito quel film lì. Gli incontri che ho avuto negli ultimi tre anni, vi cito l’Auchean, perché io a un certo punto mi sono messo a fare dei luoghi di cura dove tenere dentro il dentista… e poi quelle robe lì, lo psicoterapeuta mettendoci dietro una vecchia mutua dell’Ottocento, perché aver buttato via il sistema mutualistico è stata una follia pura, i francesi infatti non l’hanno fatto e infatti oggi si trovano perché ha un costo, un investimento più alto del welfare, se andate a vedere, perché ci sono delle mutue, non perché c’è lo stato… Va bene, comunque è interessante, i grandi centri commerciali nel giro di 6-7 anni riconvertiranno la vendita: voi avrete il piano terra che non venderà più cose, alimenti, oggetti. Sapete cosa fanno? Le poste, il dentista, il posto per te anziano… e hanno fatto le prove con tutti gli anziani che stavano al bar d’estate perché era l’unico posto dove si giocava a briscola, luoghi di socializzazione in cui si consumerà un po’ meno, ma più sul lungo periodo, più entrando in fiducia con il luogo. Capito? Questo è anche il centro commerciale davanti all’aeroporto di Orio.

La piazza, capite, la piazza, l’agorà. Ma il capitale non è scemo. L’Advisor Review è da due anni, se la leggete, c’è anche in italiano in Internet, che la mena sul valore condiviso, cioè ci sta spiegando le cooperative. Valore condiviso tra azionisti e lavoratori, valore condiviso tra lavoratori e consumatori. Certo, perché quella storia dell’espansione è finita e consuma, ma gli devi dare qualche contentino. Quando ti dicevo che qua ci troviamo un circolo ARCI sotto forma di SpA multinazionale è un’ipotesi non barbina, mentre i comuni discutono il fondo sulla loro autosufficienza. Di che cosa stai parlando?

E qui avremmo molto, molto da fare. Ora io le chiamo imprese sociali. Abbiamo da andare a rivedere la tradizione Olivetti, ma no! ma stiamo qua, qua dove siete voi. Noi abbiamo sempre prodotto in contemporanea il buono e il bello, sempre, questa è la tradizione italiana. Andate a Napoli, dove sta il Caravaggio a Napoli? Quello che sta in città dove sta? In via della Misericordia e cosa è via della Misericordia? Era un orfanotrofio. Andate a vedere i Tiepolo, dove stanno in Veneto?

Cioè, noi siamo profondamente cattolici, non in senso ideologico confessionale, in questo impasto per cui poi il luogo diventa il genius loci, impasto delle dimensioni della vita, ma dobbiamo insegnare noi agli inglesi che cosa è lo share value? Qui c’è un grandissimo spazio di forme, da mettere assieme con quella roba della fraternità, con quella roba dei beni di comunità, di forme. Con un punto fragile, che è il nostro punto di forza. Che è il nostro senso dell’unicità, quello che dicevo in premessa, cioè noi facciamo dell’unicità in senso personale singolare e in senso personale plurale: non sono in relazione io-tu, ma anche in relazione noi-voi, il nostro punto di forza è che senza un’autorità, oggi si direbbe una leadership, o una forma istituzionale che sa ricondurre quell’unicità a un gioco di popolo, uso questa parola, noi implodiamo nel familismo morale, chiusure corporative.

Qual è stato il problema della rappresentanza oggi in Italia? Non parlo dei partiti, ma parlo, diciamo, delle vecchie cinghie: esattamente l’autoreferenzialità e la costruzione di punti di potere di contrattazione con chi stava sul versante istituzionale per portarsi a casa quello che ti serviva per vivere te. Parlo di me, non parlo della Confartigianato, non parlo delle ACLI, non parlo dell’ARCI, non parlo della Lega COOP, non parlo della Confindustria, parlo di me, va bene, di quello che ho potuto fare con il mio corso: il meccanismo è quello.

O tu hai una visione, io lo chiamo un mito costitutivo in cui ti riconosci, quindi la tua unicità va a disposizione degli altri… e anche qui pensate al ruolo che hanno avuto gli artisti in Italia nel connettere l’unicità tra loro in un meccanismo competitivo-collaborativo. Michelangelo che stava un po’ a Roma, poi se ne andava un po’ a Firenze, poi se ne andava un po’ a Milano. Leonardo! Che cosa erano quelli? Erano i connettori attraverso la “balletta” dell’unicità. Ma questa è la nostra grandezza.

La stessa cosa: cosa fa Sturzo all’inizio del Novecento? Che De Gasperi comincia a fare immediatamente in Trentino: connette esperienze per esempio di Casse Rurali, dentro la parrocchia, con una “cassettina” dove si risparmia, le connette tra loro, ne fa una federazione perché allora il modello era il capannone industriale, c’era l’idea fordista, quindi si facevano le federazioni. Cos’è il sindacato all’inizio, sopratutto la CISL, se non una mutualizzazione? Era una mutua, prima che un luogo di contrattazione con il padrone, era un luogo di solidarietà tra unicità.

Siete qua vicini, conoscete la storia della Popolare di Milano? Parallelamente alle BCC, che si muovono sul versante contadino agreste e agricolo, infatti si chiamavano Casse Rurali, si muove il mondo delle Popolari, la stessa radice, siamo in zona Rerum Novarum, qualche anno prima, qualche anno dopo. E cosa muovono? Muovono l’allora classe borghese che mette insieme le unicità e si costruisce le infrastrutture di sviluppo.

Questa è la nostra storia: non copiare il modello bancario che la McKinsey ha portato qua e che è lo stesso della G.P. Morgan. Cosa ce ne facciamo, noi? Voi dite: ma perché parli di finanza? perché c’entrano queste cose, perché banalmente poi, guarda caso le banche poi costruivano guarda cosa: si costruivano dietro le mutue, si costruivano dietro la Cassa della Beneficenza. Che cosa è oggi la Fondazione Cariplo se non, adesso non entro in polemica, aver accorpato quello che la Cariplo e le altre banche avevano come loro pezzo fondamentale, di statuto. Lo stesso Credito Bergamasco ha il 6% che andava allora ad attività meritorie di beneficenza.

Ma questa è la vita. E anche qui abbiamo tantissime chances, e se guardiamo la nostra storia e la reinterpretiamo non giocando una discontinuità stupida, ma giocando la trasformazione del valore, non difendendo la forma, ma trovando il valore da far rinascere, io sono convinto che la strada la riempi di ragazzini, perché gli spieghi che quello è il loro lavoro.

Sull’io, che è la quarta cosa che ho già detto, io sono convinto che, malgrado ciò che si vede, siamo sul finale di questo io ipertrofico narcisista, troppo costoso. Poi, i finali storici sono sempre complicati. Poi non si sa, che cosa spunterà, cosa viene dopo? E questo è un punto che riguarda esattamente la libertà: io sono convinto su questo. Quello lì è il punto. Se noi riusciamo a uscire da una libertà adolescenziale, la dico un po’ così, che sostanzialmente ha rotto qualsiasi confine, ha spinto l’io un po’ propedeutico su questa via del fare l’esperienza, ed entriamo in una fase di libertà un po’ più adulta, la libertà più adulta che è esattamente il riconoscimento dei legami che ti liberano, un paradosso. L’innamoramento a un certo punto entra dentro a un legame che si fa altro; il cerino deve accendere la legna, una fiamma più stabile, un più lenta.

Io sono abbastanza convinto che andiamo di lì, con due grandi rischi: uno, la tecnologia, che è una gran cosa, badate bene, io ho Facebook, Twitter, l’Ipad, però se noi non ci emanciperemo dalla tecnologia noi ci condanniamo al più grande schiavista che non abbiamo mai visto in diecimila anni, perché la tecnologia entra qui, tecno e logos; attenzione è l’unione di 2 punti quasi divini, capite? E poi il capitalismo tende sempre a legarla al godimento, costantemente al godimento, e la tecnologia si presta a questo gioco qui, perché c’è sempre qualche cosa dopo, perché appunto c’è il mito del futuro. Insomma, io penso di sì, credo di sì! Lavoro perché sia sì. Che sia regressiva, può darsi che diventiamo una massa di schiavi per un po’ di anni, l’Italia poi si presta particolarmente con la sua unicità; se ognuno starà lì immaginando nel suo piccolino, ah, io mi faccio le mie cose e sono a posto…

Sono stato lunghissimo. La cito solo alla fine: questa cosa in positivo riporta a ripensare come strutturalmente legate e non separate le tre grandi sfere della società; noi invece veniamo dal Novecento che le ha separate e le ha gerarchizzate: cioè la sfera politica, la sfera economica e la sfera sociale. Noi pensavamo che la politica stava sopra, l’economia stava in mezzo e la socialità stava in basso. C’erano gli specialisti della politica, gli specialisti dell’economia e gli specialisti della socialità, avevi delle forme che mettevano in connessione queste cose, non ci siamo accorti che nel frattempo l’economia ha preso il posto della politica e quindi sta sopra; e la politica si incazza ma è inutile che si incazzi, è il linguaggio della modernità. Io son convinto che oggi don Milani ai suoi ragazzini insegnerebbe economia, cosa che cominciava già a fare allora.

E qual è, secondo me, la sfida? Che nessuna di queste tre sfere ha l’esclusiva sulla missione di se stessa. Cosa intendo? Le soluzioni della politica non sono solo in salsa politica, le soluzioni dell’economia non sono solo in salsa (parlo di scienza politica applicata) economica; le soluzioni del sociale non sono solo soluzioni in salsa sociale. È la comunanza, la comunità che si deve creare anche dal punto di vista del pensiero, l’esempio che vi facevo prima. Se oggi volete affrontare un grave problema sociale con autosufficienza, dovete parlare con un architetto o con un urbanista, con un muratore, con un elettricista, con un idraulico, non solo con un sociologo o un assistente sociale, o uno psicologo. No, dovete spostarvi di là.

Se oggi volete ridare fiato alla politica italiana, dovete immaginare un’alleanza con la parte sociale e la parte economica su alcuni grandi temi: l’esempio che vi ho fatto sui beni comuni va esattamente di lì. Non è una ingegneria dentro il quadro costituzionale, parlamentare o comunale soltanto. Se stai solo lì non vai, non ce la fai. Per l’economia è la stessa cosa: stare nel mondo oggi richiede molta qualità alle nostre aziende, ma la qualità la sostieni solo se hai persone di qualità e le persone si mantengono di qualità solo se sono messe in condizioni di stare bene dentro l’azienda.

Si potrebbero dire tante cose concrete, ma mi fermo qui perché vi ho portato via tanto tempo.

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