Dossetti: la vita e il percorso politico di uno dei padri della Repubblica

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Ritratto-Dossetti

Così Giovanni Bianchi ha trattato questa tematica all’interno del seminario “Incontri riformisti 2009 – Come usciremo dalla crisi? – Idee, proposte per i democratici – Per costruire l’alternativa di governo al centrodestra” svoltosi a Bagni di Val Masino (Sondrio) dal 10 al 12 luglio 2009 su iniziativa delle associazioni “Libertà Eguale” e “Democratici per Milano”


La contesa su Dossetti 

Se oggi è troppo presto
Domani sarà tardi.

 Clemente Rebora, Poesie Sparse e Prose liriche

 

La sconfitta

Ero tentato, per la pressione di questa monsonica stagione, di partire da una riflessione sulla sconfitta. In Dossetti c’è materia. Prendendone atto nel famoso discorso all’Archiginnasio don Giuseppe si sforzava di far osservare che talune sconfitte si erano tuttavia con il tempo rivelate delle  “mezze vittorie”. È vero. E del resto gli esiti di una politica non possono essere divisi come su un campo di basket tra vincenti e perdenti. E però resta la circostanza che agli occhi di amici e detrattori la vicenda dossettiana non appare certamente né una vie en rose né tanto meno una marcia trionfale. Per questo, volendo dare ragione della difficoltà e intenzionato a provocare, all’inizio del Congresso dei popolari che vide l’avvicendamento alla segreteria tra Gerardo Bianco e Franco Marini, iniziai la commemorazione di Giuseppe Dossetti con la frase più antihegeliana che mi sia capitato di formulare: “Anche la storia può sbagliare”.

Credo sia questa la ragione per la quale, in una fase politica che idolatra la vittoria e danna perfino la memoria delle sconfitte, l’aggettivo dossettiano, per iniziativa di Rocco Buttiglione, sia diventato un insulto. Eppure Dossetti, per rigore, quale si addice al credente non clericale, e per la frequentazione delle scienze umane (nessuno mette in dubbio il suo genio giuridico), è in cima a “quella specie di laburismo cristiano” del quale ha scritto in maniera quasi esaustiva Vincenzo Saba. Laburismo che, rivendicato agli inizi dallo stesso Alcide De Gasperi in una memorabile intervista al “Messaggero” concessa alla vigilia della grande vittoria democristiana del 18 aprile 1948, e poi continuato da Dossetti, Giulio Pastore, il fondatore della Cisl, e Mario Romani, l’intellettuale della Cattolica che ha veicolato in Italia la concezione del sindacato contrattuale all’americana,  costituirebbe, a mio modesto avviso, una componente teorica non trascurabile per la fame di cultura del Partito Democratico. Per capacità di misurare vicinanze e distanze, continuità (non continuismo) e discontinuità.

A dire il vero la discussione in atto più che su Dossetti verte su quel che di Dossetti si dice. So di affermare  una banalità, ma ho l’impressione che Dossetti rischi di essere criticato dai più e osannato da un piccolo gregge più che studiato. Significativa tra le altre la parabola  ermeneutica di Pietro Ingrao, che tra il 1949 e il 1950 non poco contribuì a costruire con i suoi interventi su “Rinascita” il mito del Dossetti integralista. Ebbe modo di ricredersi Ingrao durante la comune (e vincente) battaglia per la difesa della Carta Costituzionale del 1948, e scrisse al Dossetti defunto una lettera commovente dichiarando di ignorare da ateo se l’interlocutore sarebbe stato in grado di averne notizia e ammettendo di non sapere a quale indirizzo eterno potesse essere recapitata. Poco male, se è vero che sulla toponomastica dell’aldilà conosciamo più cose dalla Divina Commedia che dalla Bibbia.

Necessaria preliminarmente una operazione di screening. In effetti la poliedricità e le numerose svolte, talune a gomito, della biografia di Dossetti consentono ben più di un’interpretazione e, soprattutto, consigliano ben più di un punto di vista.  C’è il Dossetti partigiano. Il Dossetti  intellettuale cattolico del Nord e vice segretario della Democrazia Cristiana. Il Dossetti oppositore fiero e geniale di Alcide De Gasperi. Il Dossetti oppositore di Giuseppe Dozza sindaco comunista di Bologna. Il Dossetti monaco. Il Dossetti che accompagna come perito il cardinal Lercaro al Concilio Ecumenico Vaticano II. Il Dossetti che, come San Saba, lascia il silenzio di Dio e torna in città per l’ultima battaglia politica… Un succedersi di uscite e di rientri, mai dalla comune, che rende problematico l’approccio alla vita.

Il monaco

In effetti, per Dossetti farsi monaco non è un ritrarsi dal mondo, ma un vivere da credente la laicità secondo una lunga radice ecclesiale. Messe così le cose, Dossetti non si è mai ritirato e quindi non è mai neppure rientrato, neanche al tempo del referendum per la cosiddetta riforma costituzionale  proposta dal centrodestra.

E’ interessante ricostruire l’occasione e le ragioni per le quali incontrammo Dossetti. Le Acli, all’inizio degli anni novanta, tornano dal Papa. Grande è il lavorio spirituale e grande il lavorio diplomatico. Il mio cruccio di presidente era che le gerarchie vaticane chiedessero un qualche auto da fé, un qualche aggiustamento revisionistico di una linea considerata troppo spericolata. Per questo cercai Dossetti. E dovetti battermi, senza risultato, contro  il filtro efficacissimo rappresentato dalle monache telefoniste delle sue comunità sparse sull’Appennino reggiano. Finalmente, una mattina, alla messa, prestissimo, l’incontro. Il consiglio di Dossetti fu immediato e laconico: se ti chiedono di ridefinire le Acli, ti offro un consiglio fondato sulla lettura quotidiana della Scrittura e sulla mia esperienza di canonista. Dirai così: “Le Acli sono un’associazione di lavoratori cristiani, nota e non disconosciuta dalla Chiesa.” Il resto viene dal Maligno…

Dossetti, allora, ci interessa ed aiuta in tre cose: la forma partito, cui notoriamente crede molto più di De Gasperi; il personalismo costituzionale; la riforma della Chiesa.

Credo ai maestri, perché sono convinto che liberino. Dossetti accettò implicitamente di essere il consigliere delle Acli che allora presiedevo. Non si sottrasse ad alcuna richiesta d’incontro.

Salii a Monte Sole pochi giorni dopo l’insediamento del primo governo di Romano Prodi. Come al  solito fu subito esplicito: “La squadra di governo è debole. Non ci sarà una seconda generazione di cattolici al potere.” Sulla medesima lunghezza d’onda l’incontro con tutta la redazione di Bailamme, inclusi ovviamente Salvatore Natoli e Mario Tronti: “Convocate giovani menti!”

In ambito cattolico abbiamo letto Dossetti attraverso Lazzati. Poi abbiamo letto Lazzati attraverso Dossetti, e tutti e due ci hanno guadagnato. Davvero interessante l’intervista rilasciata a metà degli anni  ottanta dai due dioscuri, Dossetti e Lazzati, a Pietro Scoppola e Leopoldo Elia. Un’intervista che tra l’altro trasuda fastidio per gli stereotipi ostinatamente degasperiani dei due intervistatori.

Venendo a Milano per pronunciare il famoso discorso dall’incipit biblico: Sentinella, quanto resta  della notte?, Dossetti diceva di sé: “Non sono uomo da canzonette”. E infatti ha passato la vita cercando di riformare le istituzioni delle quali si è trovato partecipe, sempre esercitandovi un evidente protagonismo. Non a caso, messo di fronte alla sua decisione di farsi monaco nel 1952, papà Dossetti disse al figlio caparbio: “Ho capito, non riuscendo a riformare la politica, hai pensato di riformare la Chiesa.”

La fine della cristianità

Pensare contemporaneamente la radicalità religiosa e praticare una politica che non fosse soltanto un modo di conquista: questa la sfida che Don Giuseppe lanciò a se stesso. Spiritualità e politica trovano tra loro una congiunzione ed insieme la misurazione di una distanza, e talvolta di una estraneità. Così la gratuità cristiana si confronta con la potenza del politico moderno. Potenza tragica e pessimistica dal momento che parte dalla constatazione o comunque dalla convinzione che il male, come la zizzania evangelica, non sia estirpabile ed eliminabile. Perché il campo del Signore è il medesimo di Satana.

La democrazia non a caso ha “sempre oscillato tra la rassegnazione nei confronti del “legno storto dell’umanità” e la fede nella sua perfettibilità. Vive anzi della tensione tra la modestia delle sue pretese, che la porta ad accettare gli individui come sono (nella lLoro ignoranza, passività ed egoismo), e la volontà di renderli migliori. Per principio ha attribuito capacità politiche a tutti, anche a coloro che non fanno parte delle élites, esaltandone le virtù quotidiane: la mitezza, il dubbio, la tolleranza e l’umiltà (in quanto coscienza dei limiti propri e altrui).”[1] Così la democrazia si appropria della propria religione, la interiorizza, la autonomizza, la esibisce e propaganda. “La democrazia è il regime in cui il popolo ama essere adulato, piuttosto che educato.”[2] Non sfugge però a questa democrazia l’importanza del suo fattore spirituale.

C’è in Dossetti quella che Enzo Bianchi, in un fortunato libretto pubblicato da Einaudi, ha chiamato “la differenza cristiana”. Il libro La differenza cristiana del Priore di Bose ha infatti rappresentato una svolta importante nel dibattito sullo spazio etico del Paese.

Per Enzo Bianchi è necessario lasciarsi alle spalle l’atteggiamento di “alcuni cristiani che negano la possibilità di un’etica a chi non è credente in Dio, quando vedono nella società odierna solo frammentazione di valori, nichilismo e cultura di morte”, perchè “allora contribuiscono non al confronto ma allo scontro e acuiscono le lacerazioni interne alla stessa comunità cristiana”.[3] Nessun Vangelo cioè che si presti a fornire comunque un’anima alla società, e in quanto tale declinato come “religione civile”,  acconciandosi a diventare quella morale comune che oggi sembra deducibile solo a partire dalle religioni. E d’altra parte, si interroga Enzo Bianchi, “se la chiesa è una riserva di etica, perché non lasciare che altri vi attingano?”.[4] Compito della differenza cristiana è di evitare la deriva di una mondanizzazione della fede, della religione, della chiesa.

Dossetti nel 1993 diceva le stesse cose che diceva nel 1953. In lui era sempre stato vigile il  sospetto   che le mediazioni in corso servissero a sintetizzare il Vangelo in una cultura e in una cristianità, così facendo violenza alla parola di Dio.

E infatti la riflessione dossettiana prende le mosse a partire da due crolli: la tragedia della seconda guerra mondiale e il tramonto  della cristianità. Fine della cristianità che coincide con una dispiegata secolarizzazione. Un impressionante dislocarsi. Nell’area metropolitana di Manila vengono battezzati più bambini di quanti ne vengono battezzati in tutti paesi cattolici del mondo.

In questa fase storica del cattolicesimo Dossetti legge tratti evidenti di irreversibilità. Assistiamo bensì a risposte difensive della cristianità. Il continuismo è diventata una teologia, e non solo perché tutti gli ultimi papi sono fatti santi in sequenza. Sono molti che leggono il cristianesimo non come rapporto con il mistero del Nazareno, ma come segno storico dilatato, capace di fornire ai tempi una comune  base razionale. Visto in questa luce il dialogo tra Ratzinger e Pera non è un semplice scambio di cortesie.  Ma che significa che è finita la cristianità? È venuto meno il bisogno di salvezza, e quindi questa umanità secolarizzata nei consumi non vive la catastrofe come catastrofe. Quella che è stata chiamata la secolarizzazione della secolarizzazione, la sua seconda fase…

Ben altrimenti andavano le cose nella prima fase, che è l’epoca di ferro e di fuoco del grande Novecento. L’epoca dei totalitarismi che si sono presentati come eserciti salvifici. La pretesa di fondo comune, nell’antagonismo delle ideologie, era di chiudere la storia. Nella prima secolarizzazione il conflitto era di carattere religioso. Nessuno contro Dio se non Dio stesso, secondo la sentenza di Goethe. C’era in quella tragedia ideologica uno sfondo di pathos religioso. Oggi questo pathos non c’è più. La gente non cerca più salvezza, ma benessere. E’ un giudizio di Natoli che condivido. Non la vita eterna, ma una vita interminabile, il più possibile dilatata, lunghissima…

Il confronto con De Gasperi

Collocherei a questo punto il rapporto esaltante e difficilissimo con Alcide De Gasperi. Mentre De Gasperi intendeva garantire la laicità dello Stato, Dossetti intendeva rispondere ai comunisti, colla coscienza che per essere presenti in maniera efficace e vincente nella società era necessaria la potenza di un grande partito di massa. E’ il contrasto, sul territorio bolognese, con Giuseppe Dozza. Ma già la Dc era tutto e il contrario di tutto. La Dc da partito di cattolici era diventata partito cattolico che dialogava con tutti per la spartizione del potere e dello Stato. Puntuale in proposito la diagnosi di Enrico Berlinguer. Proprio per questo il progetto dossettiano risultava ineseguibile sul piano della politica. Le realizzazioni concrete che ne discendono sono drastiche riduzioni, insopportabili nella visione  di Dossetti. Si chiamano Fanfani. Si chiamano Enrico Mattei…

Con De Gasperi era stata tutt’altra musica. Nella pubblicistica  corrente la figura di Giuseppe Dossetti è in genere contrapposta a quella di De Gasperi, così come alla sconfitta politica di Dossetti si contrappone la vittoria politica di De Gasperi. E’ un’immagine che coglie indubbi elementi di verità, ma che non restituisce la complessità di un confronto, la sua profondità non solo politica ma umana. La lettura delle poche lettere che abbiamo (e forse la ricerca potrebbe darci ulteriori elementi) ci rivela un rapporto alto, serrato, tra personalità forti, accomunate entrambe da una intensa vita cristiana. Elemento quest’ultimo non marginale e per molti versi decisivo e a suo modo esemplare di come una profonda divergenza politica non abbia mai fatto venir meno l’attenzione e la stima tra i due protagonisti.

E’ difficile dire quando Dossetti conobbe per la prima volta De Gasperi. Il primo incontro di Dossetti con i quadri dirigenti nazionali del partito lo si ebbe nel luglio del 1945.

Io non ho per niente cercato di entrare in politica. Lo dico sempre, ed è una verità sacrosanta: sono entrato in politica attraverso una rottura di testa per un incidente d’auto. Mi hanno chiamato a Roma i grandi della Democrazia Cristiana nel luglio del 1945 per il primo Congresso Nazionale del partito. Io non conoscevo nessuno, non ero conosciuto da nessuno. Sono arrivato a Roma con ritardo, perché avevo avuto un incidente d’auto a Grosseto. Appena arrivato Piccioni mi ha detto: Tu sarai vicesegretario della Democrazia Cristiana” “Ma chi? Io? Ma mi conoscete? Io non vi conosco, non ho mai visto De Gasperi, e voi non conoscente me” .“Sta cheto, sta cheto, stasera vedrai De Gasperi”. De Gasperi non si è fatto vedere, si è andati alle votazioni e mi hanno eletto.[5]

E’ un primo accenno ad un incontro che non ci fu: “vedrai De Gasperi”, ma De Gasperi non si fece vedere. Iniziava così una vicenda intensissima ai massimi vertici del partito, iniziava con questo un incontro che sarebbe durato a lungo. Il rapporto fu da subito conflittuale. Non era in gioco solo una questione di caratteri, ma l’incontro tra due generazioni profondamente diverse per cultura politica, economica, sociale, e anche per formazione religiosa.

De Gasperi riconosceva a Dossetti che “c’era una concezione diversa dei rapporti tra partito e governo che era forse quella dell’avvenire”. Queste frasi costituiscono il punto più alto di confronto tra i due leader politici. Sul versante internazionale si colloca la lunga lettera del ’49, una delle più complesse e umanamente accorate di Dossetti. Dice Dossetti della relazione di De Gasperi:

In particolare mi ha fatto sentire più acuta la nostalgia di una collaborazione con te, umile serena distesa, fatta solo di fiducia e di abbandono, al di fuori delle riserve e delle punte di vivacità che, da parte mia, qualche volta ti sono dispiaciute e che lasciano anche me – devi crederlo – non senza pungente rammarico.

In sostanza l’altra sera, come già tante altre volte, ho sentito che non è certo comoda e felice la posizione che spesso assumo nel seno del Partito e nei rapporti con te: posizione che ha per effetto quasi sempre di addolorare te, cui per tanti motivi devo devozione e riguardo, di contrastare molti amici, che non mi comprendono e che si allontano quasi ritenendomi solo un dottrinario, e infine di impedirmi di impiegare più utilmente e costruttivamente delle energie, che hanno per lo meno un pregio: quello di essere spese al servizio di questo nostro Partito con una intensità ed una esclusività non frequente (non sono, infatti, molti tra di noi quelli che, assolutamente liberi da ogni preoccupazione personale familiare e professionale, possono dedicare ogni loro ora  al Partito e che proprio adesso, in un momento in cui c’è lavoro per tutti, non abbiano come me, praticamente nessun compito).

Devi credermi se ti dico che corrisponderebbe molto di più ai miei desideri e al mio istinto rinunziare a qualche piccola, e per lo più vana, protesta, pormi in una linea di piena e cordiale conformità, trovare così – perché penso che non mi sarebbe difficile – il conforto di un consenso affettuoso di tutti gli amici e forse la soddisfazione di un qualche incarico che utilizzasse il mio tempo e la mia capacità di lavoro.

Sarebbe molto più simpatico e molto più facile. Ma, temo, sarebbe la via dell’istinto e non quella del dovere.[6]

Bisogna davvero aver sempre presente questo “istinto” di Dossetti, questo disagio e questo dolore per una polemica con un uomo cui voleva sinceramente bene e che stimava. Ma la responsabilità politica gli impediva di girare al largo delle questioni decisive e lo costringeva ad entrare nel merito di un dissenso che investiva senza mezzi termini una politica e un metodo di lavoro. La questione decisiva era questa volta quella internazionale. Non credo sia questa la sede per entrare nel merito della questione. Basti ricordare che Dossetti non sposò mai  posizioni terzaforziste. La progressiva lacerazione internazionale, comunque in sé negativa, non lasciava altra strada all’Italia che un saldo ancoraggio all’area occidentale. Il problema di Dossetti, almeno a partire dalla metà del 1947, non fu mai l’impossibile sogno di una neutralità, ma quello della qualità politica di una scelta. La scelta occidentale non poteva essere una scelta solo morale, doveva essere una scelta politica. Con quale politica l’Italia aderiva al Patto Atlantico? A questa domanda non ci fu risposta. Dicevo che non voglio entrare nel merito di questi temi ampiamente sviluppati nella lettera, ma nel merito dell’amicizia che la lettera esprime.

 “Spero che intenderai l’animo con il quale ti ho detto tutto questo e quanto mi sia costato espormi ancora una volta al rischio di dispiacerti! Non mi è occorso un piccolo sforzo. Appunto perché ti voglio bene e ti sono devoto”.[7]

La risposta di De Gasperi è di una commovente profondità:

“Ti ringrazio del tono affettuoso e delle espressioni amichevoli. Il mio dispiacere per le difficoltà intrinseche di una collaborazione, che sarebbe così augurabile e così feconda è grave come il tuo. Sarei felice se mi riuscisse di scoprire ove si nasconda la molla segreta del tuo microcosmo, per tentare il sincronismo delle nostre energie costruttive. Ma ogni volta che mi pare di esserti venuto incontro, sento che tu mi opponi una resistenza che chiami senso del dovere. E poiché non posso dubitare della sincerità di questo tuo sentimento, io mi arresto, rassegnato, sulla soglia della tua coscienza”.[8]

Questa soglia in effetti non fu mai superata. Mancò una comprensione vera dell’inquietudine di quel giovane amico coltissimo, ostinato in alcune idee di cui percepiva confusamente l’importanza ma non i confini.

Le ragioni di fondo

Lo sforzo dossettiano era di ritornare al clima di vita interiore di Civitas Humana del 1946. Si trattava di molto mantenere nella memoria, e mettere nel conto una profonda discontinuità. Viene in mente Paolo Conte che in Boogie  canta: Era un mondo adulto. Sbagliavamo da professionisti… Si trattava cioè di recuperare il rapporto tra testimonianza e politica dentro la sua  discontinuità. Questo perché la vicenda del rapporto tra spiritualità e politica muove dentro la stagione del tramonto della cristianità,  dove invece le aree di competenza erano da tempo codificate, così come le gerarchie e la natura dei rapporti, le reciproche convenienze… Huizinga aveva tematizzato il problema nel 1936. Marie-Dominique Chenu, il mio maestro domenicano, lo faceva a partire dalle sue riflessioni sul dodicesimo secolo, da grande tomista.

Per tutti costoro si chiude il “regime della cristianità”, inteso come simbiosi tra società e Chiesa in ordine a molteplici legami, tali da suggerire l’immagine della “chiesa costantiniana” (Chenu). E’ Alberigo ad osservare che si pensava a una sostanziale omogeneità tra religione e fede cristiana, e non di rado si tendeva confondere i due ordini. Pur di portare il corpo e la mente fuori dalla cristianità Dossetti rompe anche con la propria cultura, con la propria forma mentis giuridica: “Quel che dico ha valore in termini di vita, non in termini scientifici”. In Dossetti la problematicità del civile si accompagna alla criticità del mondo ecclesiale. E’  Paolo Prodi ad osservare che Dossetti ha progressivamente modificato il suo approccio, allontanandosi da una visione essenzialmente giuridica. Don Giuseppe gli dà esplicitamente ragione, 43 anni dopo il famoso intervento ai giuristi cattolici, parlando ai preti di Pordenone nel 1994. Per lui il percorso si è mantenuto in un’”area di ingenuità essenziale”. La Chiesa nel mondo non può più porsi come societas perfecta. Non c’è realtà postcristiana per chi ha fede. È invece finito il regime di cristianità.

Ripartire perciò dall’uomo interiore, dal primato della coscienza. Avendo chiara la difficoltà: un conto è parlare di catastrofi del mondo, e un conto di criticità della Chiesa. Scriverà Don Giuseppe nella introduzione a Le querce di Monte Sole: “Bisogna riconoscere che c’è più teologia ed ermeneutica nei libri di Elie Wiesel…” E’ necessario parlare alla storia con le parole stesse della storia ma, forse, alla storia non è possibile parlare se non con le parole di Dio. E’ da qui che Dossetti cerca di rimettere in asse la fine della cristianità, a differenza di quanti proponevano, quasi a prolungarne il tramonto, abiti attivisti cattolici. Dossetti invece invitava a rientrare in se stessi, agostinianamente, per riprendere la corsa dell’impegno e della politica.

Da questo punto di vista il monachesimo non solo aiuta, ma è essenziale. La regola non è un cilicio,   ma una strada, uno “stare” nel mistero. Non si tratta di una posizione estatica. Lo stare nel mistero è per don Giuseppe Dossetti un fatto contemplativo, come quello di Gesù che serve a Nazareth. Si tratta di “esprimere una vita”, avvolti da una vita che si dà a noi, senza alcuna pacificazione però, né tanto meno una sorta di pace dei sensi. Resta lì davanti l’ammonimento di Luca al capitolo 18 del suo Vangelo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”(Lc, 18,8).

Molte sono le possibilità e molteplici le localizzazioni in cui questa vita e questo giudizio possono esprimersi. Proprio perché lo stare nel mistero è resistere contro la molteplicità delle forme della idolatria.

Per queste ragioni Dossetti opera una frattura tra cristianità e storia, tra attivismo cattolico e vita contemplativa, tra spiritualità e politica. E dalla frattura guarda meglio all’uno e all’altro corno del dilemma. Non bisogna avere fretta nel gettare ponti né fretta di concordismi e concordati.

La politica

Per Dossetti la politica non è riducibile all’attività politica, che ne è parte; e l’attività politica non è vocazione, ma occasione. Vi si prende parte in anni limitati, perché la politica, passione forte e da vivere intensamente, provvede a svuotarti di contenuti e di energie. Suor Agnese, tra le adepte della prima ora,  propone un’analogia interessante tra lavoro e politica. Dossetti, esplicitamente sulle orme di San Benedetto, sceglie il lavoro perché il lavoro è condizione in stretta connessione con la vita comune,  come anche la politica: è vita, dovrebbe esserlo. Non ha tanto senso l’oggetto del lavoro, ma il fatto che sia comune e compiuto in comunità. E’ curioso osservare che la medesima pratica si ritrova nella Nomadelfia di don Zeno Saltini.  Vivendo così lavoro e politica, un’altra vita è possibile, “if“. Un’altra vita è possibile, altrimenti il cristianesimo torna sulle nuvole. Per queste ragioni il rapporto tra spiritualità e politica resta aperto tra vita interiore e responsabilità dei fratelli. Né può essere evitato il tema della salvezza, l’unico che importi fondamentalmente al credente (o dovrebbe importare), anche se il mondo ha provveduto a sostituire alla salvezza il benessere. Ovviamente anche per Dossetti vale l’avvertenza di Luigi Sturzo: la politica eviti di proporre salvezza. Anche in questo caso lo stare nel mistero non è uno stare estatico, ma un resistere contro le rinascenti idolatrie che propongono salvezza come fine della storia, e proprio per questo hanno indotto  e legittimato i totalitarismi del Novecento.

È la radicalità dossettiana, attenta insieme alla durezza della storia e alla fine della cristianità, che conduce oltre l’integrismo. Chi pensa in termini di cristianità, di cristianità restaurata, alla rinnovata ricerca di una ragione occidentale come piattaforma comune dentro irriducibili differenze, ancora capace di ritocco e di restauro, finisce per sussumere la differenza cristiana nella civiltà d’Occidente, come fa  Marcello Pera, e ripropone le condizioni dell’integrismo. Perché l’integrismo continua  a consistere idolatricamente come il cortocircuito tra fede e politica, dove invece distanza e discontinuità devono essere affermate dal credente per dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare. Proprio perché sa che dare a Dio è più importante che dare a Cesare il monaco esce dal regime di cristianità. Proprio perché considera più importante dare (e ricevere) da Cesare il clericale, che pratica in tal caso una forma di ateismo cristiano, recupera e  riproduce integralismo. La vera distanza è quella che passa, probabilmente non soltanto per il monaco e neppure soltanto per il credente, tra radicalità del punto di vista, radicalità dell’esperienza vissuta, e politica e pratica della politica.

La cosa che mi pare di avere capito e di aver cercato in qualche modo di esprimere è che la radicalità dossettiana potrebbe funzionare in questa fase come efficace antidoto nei confronti degli integralismi. E la cosa che mi ha più sorpreso nella riflessione degli ultimi mesi è aver rintracciato nel giovane Dossetti, grande intellettuale e  partigiano mite, le stesse espressioni che proporrà, convinto che i tempi della riforma non siano ancora maturi nel civile e nella chiesa, nei primi anni novanta. E’ vero che per opporsi al tentativo fantozziano di riforma costituzionale proposto dal centro-destra Dossetti, come San Saba, lascerà l’eremo e scenderà in città a contendere, ma la politica, in un approccio di grande pulizia laicale, conviveva da decenni con la lettura delle ore nelle povere comunità  della “Piccola Famiglia dell’Annunziata” sparse sull’Appennino.


[1] Ibidem, p. 25.

[2] Ibidem, p. 4.

[3] Ibidem, p. 23.

[4] Ibidem, p. 25.

[5] Scritti Politici, p. LIII

[6] Scritti Politici,  p. 226

[7] Scritti politici, pag. 231

[8] Scritti Politici, pag. 231

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