Economia: Oggetti e Idee.
Enrico Minelli, Knowledge and the Wealth of Nations, presentazione del libro di David Warsh.

Corso di formazione alla politica

L’obiettivo che ci poniamo in questo ottavo e penultimo appuntamento del 19° Corso di Formazione Politica dei Circoli Dossetti di Milano 2017-2018, I Luoghi del Potere nella Società Contemporanea, è quello di affrontare il tema della conoscenza in termini economici.

Lo sviluppo dell’Economia della Conoscenza, la formazione di una nuova classe costituita dai Lavoratori della Conoscenza e la tecnologia di Internet annunciano il possibile passaggio dal capitalismo speculativo a un nuovo modo di produzione, basato sulla cooperazione e la democrazia economica. Infatti paradossalmente la conoscenza, su cui si fonda il capitalismo più avanzato, ha caratteristiche intrinseche difficilmente compatibili con il capitalismo stesso, perché è un bene economico Non Esclusivo e Non Competitivo. L’emergente knowledge Economy sta dunque scardinando dall’interno i meccanismi produttivi attuali, che invece si basano sulla ipercompetizione e sulla proprietà esclusiva dei beni.

Locandina della lezione di Enrico Minelli. Economia: oggetti e idee.

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Presentazione di Luca Caputo 07′ 03″

Introduzione di Vincenzo Sabatino 35′ 19″

Relazione di Enrico Minelli  1h 23′ 34″

Domande del pubblico 13′ 20″

Risposte di Enrico Minelli 16′ 21″

Domande del pubblico 08′ 39″

Risposte di Enrico Minelli e chiusura 16′ 12″

Luca Caputo, Vincenzo Sabatino, Enrico Minelli

Luca Caputo, Vincenzo Sabatino, Enrico Minelli


Introduzione di Vincenzo Sabatino a Enrico Minelli

Introduzione

L’obiettivo che ci poniamo in questo ottavo e penultimo appuntamento del 19° Corso di Formazione Politica dei Circoli Dossetti di Milano 2017-2018, I Luoghi del Potere nella Società Contemporanea, è quello di affrontare il tema della conoscenza in termini economici.

Lo sviluppo dell’Economia della Conoscenza, la formazione di una nuova classe costituita dai Lavoratori della Conoscenza e la tecnologia di Internet annunciano il possibile passaggio dal capitalismo speculativo a un nuovo modo di produzione, basato sulla cooperazione e la democrazia economica. Infatti paradossalmente la conoscenza, su cui si fonda il capitalismo più avanzato, ha caratteristiche intrinseche difficilmente compatibili con il capitalismo stesso, perché è un bene economico Non Esclusivo e Non Competitivo. L’emergente knowledge Economy sta dunque scardinando dall’interno i meccanismi produttivi attuali, che invece si basano sulla ipercompetizione e sulla proprietà esclusiva dei beni. Protagonisti di questa rivoluzione “lunga”, graduale e complessa, dagli esiti ancora imprevedibili, sono i “lavoratori della conoscenza”. Pur subendo le caotiche speculazioni finanziarie, che generano precarietà occupazionale, stress, riduzione dei redditi e dei servizi sociali, essi stanno sviluppando autonomamente, grazie alla rete, nuove dinamiche produttive della conoscenza aperte, cooperative e democratiche. Il free software, l’open source, Wikipedia, i blog, i social media, l’Impresa 4.0, e l’open science non sono che i primi passi di una “rivoluzione lunga” nel campo scientifico, tecnologico e delle comunicazioni. Una rivoluzione innanzitutto culturale, economica e tecnologica, destinata però a trasformare radicalmente anche le istituzioni politiche e sociali.

Manca un chiaro racconto del percorso che i sistemi economici occidentali hanno imboccato e del progetto comune che propongono alle società. Una difficoltà densa di conseguenze per la vita quotidiana, per il consenso sociale, per l’incentivazione dell’innovazione, per la coltivazione delle speranze dei giovani, per la costruzione di scenari in base ai quali investire. Una delle interpretazioni più convincenti sostiene che l’epoca post-industriale è destinata ad essere governata dall’economia della conoscenza.

In questo ambiente il valore si concentra nel territorio delle Idee: informazione, immagine e senso. Si compra, si produce, si desidera il significato che si legge nei prodotti molto più di quanto non si compri, non si produca e non si desideri la materia della quale quei prodotti sono fatti. Questa nuova consapevolezza abbatte le vecchie barriere che separavano l’economia dalle altre scienze sociali, dalla psicologia all’antropologia, dalla storia alla geografia. Perché se il valore è nel senso generato da chi produce è riconosciuto da chi acquista, allora, il baricentro della questione economica si sposta dal mondo del capitale a quello della persona: alla dinamica della competizione si affianca la dinamica della collaborazione. Le conseguenze sono concettualmente rilevantissime. La smaterializzazione dell’economia post-industriale e l’avvento dell’economia della conoscenza implicano una grande trasformazione nelle forme della proprietà, dell’organizzazione produttiva, del rapporto tra pubblico e privato e cambiano il concetto di scarsità, che non si applica più soltanto ai mezzi, ma anche alle molteplici dimensioni della relazione umana: fiducia, attenzione, comprensione. Il prezzo si determina tanto nella conversazione quanto nella contrattazione. La visione diviene la questione strategica dell’azienda; il laboratorio di ricerca entra a far parte integrante del processo produttivo; la tecnologia cessa di essere il limite del possibile per trasformarsi nel suo costante superamento. Il design diventa progettazione e racconto, i media diventano distribuzione e conversazione, gli autori diventano generatori di valore e di motivi di connessione tra le persone. E la complessità prende il posto della linearità: perché nella smaterializzazione della produzione, la cultura diventa il luogo dell’economia, molto più di quanto non lo sia la fabbrica, il mercato o l’ufficio.

Tutto questo sottende una grande quantità di problemi:

  1. Dal punto di vista storico: è davvero corretta la convinzione secondo la quale all’economia industriale succede indubitabilmente l’economia della conoscenza?
  2. Dal punto di vista epistemologico: siamo arrivati alla consapevolezza sufficiente per conoscere la conoscenza intorno alla quale l’economia si starebbe riorganizzando?
  3. Dal punto di vista antropologico: stiamo costruendo una cultura sufficientemente dinamica, aperta e consapevole da consentirci di convivere con il prodotto della nostra evoluzione sociale?
  4. Dal punto di vista umano: la sostenibilità dell’economia industriale è dubbia, ma la sostenibilità dell’economia della conoscenza è certa?

Il passaggio storico di questa economia della transizione verso l’ipotizzata epoca della conoscenza è tutt’altro che garantita. Storicamente vediamo che l’economia post-industriale non significa necessariamente economia della conoscenza, anzi: la finanziarizzazione e l’iperconsumismo si candidano a perpetuare le modalità economiche fondamentali dell’epoca industriale anche dopo la fine della centralità della fabbrica. La finanza e l’iperconsumismo manipolato dalla pubblicità possono apparire in crisi, negli ultimi anni, ma non sono certo fenomeni deboli. Antropologicamente la velocità di aggiornamento della cultura è sottoposta a sollecitazioni immense, posto che si tratta di un elemento della società che si muove invece da sempre a ritmi lentissimi. Ma il problema centrale è che produrre idee intorno all’economia delle idee implica un salto di astrazione senza precedenti, che porta la migliore filosofia a diretto contatto con l’analisi economica: un’epoca di transizione verso l’economia della conoscenza.

Alcune proprietà basilari dell’economia della conoscenza rispetto alla classica economia di mercato sono:

  • il sapere è un bene comune quindi non esclusivo e non competitivo, ha costi di riproduzione molto bassi e si produce grazie alla comunicazione e alla cooperazione volontaria;
  • è un’economia immateriale e produce beni tendenzialmente immateriali;
  • manca il concetto di profitto di breve periodo; il lavoro è flessibile, ma si è contemporaneamente imprenditori di sé stessi;
  • il knowledge worker è altamente istruito, tendenzialmente viene dal mondo della ricerca o dell’istruzione;
  • ricerca e istruzione sono i due veri mercati derivati dell’economia della conoscenza;
  • non ci si può permettere di non essere laureati. Qui l’Italia ha ancora molto da fare rispetto alla media europea;
  • non ci sono banche, ma venture capitalist (persone facoltose, mecenati e fondi privati).

Knowledge and the Wealth of Nations
(Conoscenza e la Ricchezza delle Nazioni)

E’ un testo che tratta, con un linguaggio accessibile ed esaustivo e con uno stile giornalistico, l’importantissima tematica della conoscenza, pilastro fondamentale della scienza economica corrente al pari di argomenti come la libertà e la disuguaglianza. Lo scopo primario del libro è quello di spiegare la teoria principale, fondante della Economia della Conoscenza, la c.d. Romer ’90, concepita dall’economista dell’Università di Chicago Paul Romer nel 1990, e più in generale il pensiero economico della Nuova Teoria della Crescita, e di fornirci degli strumenti per muoverci nella direzione di una politica economica diversa, integrativa, rispetto ai classici e più noti interventi di politica monetaria e fiscale per stimolare la crescita di un sistema economico chiuso o aperto.

Glossario

Economia della conoscenza

L’economia della conoscenza è un’espressione coniata da Peter Drucker[1] con la quale si intende l’utilizzo delle informazioni per generare valore, con particolare attenzione a natura, creazione, diffusione, trasformazione, trasferimento, e utilizzo della conoscenza in ogni sua forma. La conoscenza dal un punto di vista aziendale è una risorsa scarsa che consente, a chi la possiede, di trarre un vantaggio competitivo. È considerata una risorsa, se applicata alla risoluzione di problemi, perché può essere una fonte di guadagno.

L’economia della conoscenza evidenzia i legami tra i processi di apprendimento, l’innovazione e la competitività, sempre più basata sulla conoscenza e di conseguenza sulle risorse intangibili, sul know-how e sulle competenze distintive. Alla base della conoscenza vi sono i processi cognitivi e di apprendimento dell’uomo: l’economia è fatta di scelte e le scelte sono il risultato dei processi neurobiologici che avvengono nella mente dell’uomo.

Possiamo distinguere molti tipi di conoscenza: conoscenza soggettiva e oggettiva (Popper), implicita (tacita) ed esplicita (codificata), organizzativa, incrementale, comune, specializzata. In particolare la conoscenza implicita è quella che si basa sull’esperienza e appartiene alla sfera “personale” dell’individuo; quando questa viene elaborata diviene conoscenza codificata e quindi esplicita, incrementa lo stock di conoscenza, diviene accessibile a tutti e facilmente scambiabile sul mercato tecnologico. Al contrario, la conoscenza tacita per essere scambiata necessita di rapporti di fiducia, e pertanto della creazione di specifiche istituzioni che ne facilitino la diffusione dei flussi.

Il presupposto di base è costituito dall’osservazione che la conoscenza è un bene pubblico in senso economico, e questo comporta tipicamente il verificarsi di fallimenti di mercato, sotto forma di esternalità.

La presenza di esternalità fa sì che la conoscenza non venga prodotta spontaneamente dal mercato in quantità socialmente desiderabile. Questa circostanza giustifica l’intervento dello Stato a supporto della creazione di nuova conoscenza (ad es. i finanziamenti alla ricerca scientifica), ed a garanzia degli istituti che consentono l’appropriazione privata dei benefici derivanti dalle idee (i diritti della proprietà intellettuale).

La Globalizzazione è caratterizzata da uno sviluppo che non può essere definito lineare, e il cambiamento che esso ha apportato non è stato di certo simultaneo e generalizzato, come l’avvento di qualsiasi tecnologia, ma nel mondo “globalmente interconnesso” tra locale e globale, i suoi effetti sono ben visibili, e i dibattiti che la vedono da protagonista sono svariati. Tra questi quello sul cambiamento dei modelli produttivi: il superamento del sistema lavorativo organizzativo fordista – la grande realtà industriale caratterizzata dalla distribuzione interna di funzioni e ruoli sviluppati tramite una apposita gerarchia verticale – per giungere ad una struttura produttiva orizzontale “a rete” che assume dimensioni di tipo transnazionali.

Bene pubblico

In economia, un bene pubblico è un bene che è difficile, o impossibile, produrre per trarne un profitto privato.

Per definizione, un bene pubblico è caratterizzato da:

  • Assenza di rivalità nel consumo – il consumo di un bene pubblico da parte di un individuo non implica l’impossibilità per un altro individuo di consumarlo allo stesso tempo (si pensi ad esempio a forme d’arte come la musica, o la pittura);
  • Non escludibilità nel consumo – una volta che il bene pubblico è prodotto, è difficile o impossibile impedirne la fruizione ai soggetti che non hanno pagato per averlo (si pensi ad esempio all’illuminazione stradale).

Beni pubblici puri possiedono in senso assoluto tali proprietà. D’altra parte, poiché i beni pubblici puri sono rari (sebbene includano importanti casi quali il sistema dei diritti di proprietà o la difesa nazionale), nel gergo degli economisti il termine bene pubblico è in genere riferito a beni pubblici impuri, o pubblici soltanto con riferimento a un particolare sottoinsieme di consumatori. È importante al riguardo osservare che un bene pubblico può essere fruito da parte dell’intera società, laddove un bene che è utilizzato soltanto da un suo sottoinsieme dovrebbe essere considerato un bene collettivo.

[1] Peter Ferdinand Drucker (Vienna, 19 novembre 1909 – Claremont, 11 novembre 2005) è stato un economista e saggista austriaco naturalizzato statunitense. Autore di fama mondiale per le sue opere sulle teorie di gestione aziendale.

Un bene pubblico puro può essere inoltre definito in opposizione a un bene privato, ossia un bene caratterizzato da rivalità nel consumo ed escludibilità. Una pagnotta è ad esempio un bene privato: il suo possessore può impedire ad altri di consumarla, e una volta che essa è stata consumata, non può esserlo nuovamente.

Il libero mercato è in genere incapace di produrre un ammontare ottimale/efficiente (in senso paretiano) di beni pubblici. Importanti beni, come il sistema dei diritti di proprietà, saranno “prodotti” in ammontare insufficiente, a causa di problemi normalmente associati ai beni pubblici, quali il free riding. Nella pratica, tali difficoltà sono normalmente affrontate e risolte tramite l’intervento dello Stato nell’economia. Questa soluzione non è tuttavia libera da critiche, in quanto alcuni argomentano come possa condurre alla produzione/erogazione di beni pubblici in quantità eccessiva; inoltre, una soluzione centralizzata che passi tramite l’intervento governativo non è l’unica possibile; almeno in via teorica, soluzioni decentralizzate quali tradizione e democrazia possono svolgere un ruolo analogo. L’Economia della conoscenza si occupa diffusamente di questi temi.

Endogenous growth theory

La teoria della crescita endogena sostiene che: 1. la crescita economica sia principalmente il risultato di forze endogene e non esterne; 2. gli investimenti in capitale umano, innovazione e conoscenza contribuiscono in modo significativo alla crescita economica. Il modello si concentra anche sulle esternalità positive e sugli effetti di ricaduta di un’economia basata sulla conoscenza che porterà allo sviluppo economico. La teoria della crescita endogena sostiene principalmente che il tasso di crescita di lungo periodo di un’economia dipende da misure politiche. Ad esempio, i sussidi per la ricerca e lo sviluppo o l’istruzione aumentano il tasso di crescita in alcuni modelli di crescita endogena aumentando l’incentivo all’innovazione.

Asimmetria informativa

Condizione che si verifica nel mercato quando uno o più operatori dispongono di informazioni più precise di altri. In generale, interferisce con il buon funzionamento dei mercati (efficienza economica), portando a situazioni di sotto utilizzazione delle risorse disponibili. L’asimmetria informativa, infatti, può indurre l’operatore meglio informato a comportamenti opportunistici (azzardo morale). Questi comportamenti portano, per esempio, al razionamento del credito da parte delle banche, all’impossibilità di ottenere copertura assicurativa completa a prezzi equi e a una minore occupazione oltre che a maggiori disuguaglianze correnti. In presenza di asimmetrie informative la produttività dipende anche da fattori di rischio pertanto il sistema economico raggiunge solo un uso delle risorse di second best. L’asimmetria informativa genera questo tipo di conseguenza anche quando non sia associata a opportunismo, ma semplicemente a selezione avversa. L’asimmetria informativa può essere affrontata con un’autorità di vigilanza, un’agenzia di rating, ecc. Ogni soluzione ipotizzata presenta però alcuni limiti: problema del conflitto di interessi e della frode benevola. Basti pensare alla valutazione dei titoli da parte delle agenzie di rating prima della recente crisi economica; d’altra parte, è molto difficile far pagare le informazioni a un utilizzatore, dal momento che questi cercherà di ottenerle, a sconto, da qualcuno che le ha acquistate. Si fa spesso riferimento a una situazione ideale, quella di un mercato completo in cui il numero dei prezzi è uguale a quello delle fonti di incertezza. In questo caso limite, studiato da K.J. Arrow, G. Debreu e J.E. Stiglitz, i prezzi trasmettono le informazioni a chi inizialmente non le aveva. Per esempio, un rincaro delle mele non rivela informazioni sul raccolto se può essere anche causato da un aumento del costo di trasporto. Viceversa, si capisce che il raccolto di mele è stato basso ‒ e sparisce l’asimmetria informativa rispetto al contadino ‒ se il trasporto non conta, oppure se si osserva che il prezzo delle mele non è cambiato. In un mercato completo, l’iniziale situazione di asimmetria informativa viene dunque eliminata consentendo il raggiungimento dell’efficienza.

Capitale umano

Il capitale umano oggi riveste un ruolo centrale nello sviluppo del sistema economico di ogni paese. Con il termine capitale umano si intende l’insieme di conoscenze, competenze, abilità, emozioni, acquisite durante la vita da un individuo e finalizzate al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici, singoli o collettivi. La formazione e crescita del capitale umano avviene tramite i processi educativi di un individuo che interessano:

  • l’ambiente familiare;
  • l’ambiente sociale;
  • la scolarità;
  • le esperienze di lavoro.

Per formare il capitale umano gli individui o le comunità sostengono dei costi – detti anche in economia costi di allevamento – di natura monetaria, come ad esempio la costruzione di scuole, o non monetaria, come il tempo che i genitori dedicano ai propri figli (altruismo sociale). Questi costi costituiscono degli investimenti che una comunità o un paese realizza per il proprio futuro ai fini del miglioramento delle condizioni di vita in una logica che dovrebbe essere di economia sostenibile. Fenomeni come l’emigrazione e conseguente fuga dei cervelli, la non valorizzazione dei talenti o l’insufficiente spesa pubblica per la scuola, costituiscono alcuni esempi di impoverimento del capitale umano con conseguenze sullo sviluppo economico di un territorio. Il capitale umano è alla base del sistema delle relazioni interpersonali, formali ed informali, che generano il capitale sociale di una comunità, di un territorio, di un paese. Il capitale umano è stato paragonato ad un investimento in un bene, che produce un certo rendimento. A tale proposito si è parlato di Rendimento Implicito o di Tasso Interno di Rendimento, indicatore che viene utilizzato dagli economisti per indicare in quale misura un anno di istruzione in più aumenta i benefici netti individuali. Si tratta di un parametro che rappresenta il risultato di un investimento e che ad esempio, in questo contesto del capitale umano, può valutare il differenziale salariale tra persone che hanno un diverso livello di istruzione o la diversa probabilità di occupazione, derivante sempre da titoli di studio differenti.

Disuguaglianza economica

La disuguaglianza economica (nota anche come divario tra ricchi e poveri, disuguaglianza dei redditi, disparità di ricchezza, o differenze in ricchezza e reddito) comprende le disparità nella distribuzione del patrimonio economico (ricchezza) e del reddito tra gli individui di una popolazione. Il termine, di solito, si riferisce alla disuguaglianza tra individui e gruppi all’interno di una società, ma può anche denotare disuguaglianza tra paesi. La questione della disuguaglianza economica è collegata alle idee di equità, uguaglianza di risultato, e uguaglianza di opportunità. Esistono pareri discordanti sull’accettabilità morale e sull’utilità della disuguaglianza, e su quanta disuguaglianza sia necessaria o tollerabile in una società, e su come ci si debba comportare. Sostanzialmente, le opinioni di valore sulla disuguaglianza possono assumere una triplice veste. Da un lato, vi è chi elogia la disuguaglianza come necessaria e utile poiché fornisce uno stimolo proficuo alla crescita economica, in quanto innesca una benefica competizione, individuale e collettiva, tra soggetti diseguali: questo processo, però, può esprimersi solo a condizione che gli operatori si muovano in una situazione di libero mercato, priva di significativi condizionamenti e interventi pubblici. D’altro canto, vi è chi, pur auspicandone il superamento, considera la disuguaglianza come un elemento congenito alla stessa natura del sistema capitalistico, necessario al suo funzionamento: sarà lo stesso sistema capitalistico a determinare il superamento quando si producano laceranti disparità economiche e sociali. Vi è, infine, chi la considera invece come un problema sociale ed economico, soprattutto quando raggiunge particolari intensità: secondo questa visione, politiche di contrasto alla disuguaglianza si ripercuotono positivamente sull’intero sistema economico e sociale e non solo su coloro i quali sono gli immediati beneficiari di quelle politiche. Quest’ultima opinione, da un punto di vista economico, può essere ricondotta a un pensiero di matrice keynesiana; dal versante politico, è ricollegabile a una politica di tipo socialdemocratico. La disuguaglianza economica varia tra le società e nei diversi periodi storici: tra strutture o sistemi economici (come capitalismo e socialismo), guerre passate e future, differenze nella capacità degli individui di creare ricchezza, sono tutti fattori in grado di generare disuguaglianza economica. Esistono diversi indici numerici per misurare la disuguaglianza economica. Il coefficiente di Gini è un indice molto usato, ma ci sono anche molti altri metodi.

Disuguaglianza sociale

La disuguaglianza sociale è una differenza (nei privilegi, nelle risorse e nei compensi) considerata da un gruppo sociale come ingiusta e pregiudizievole per le potenzialità degli individui della collettività. È una differenza oggettivamente misurabile e soggettivamente percepita. Gli elementi che la compongono sono le differenze oggettive esistenti, ossia il possesso minore o maggiore di risorse socialmente rilevanti. Le differenze sono conseguenza dell’azione di meccanismi di selezione sociale più che del merito e sono interpretate dai soggetti e dai gruppi sfavoriti (o da coloro che li rappresentano) come ingiuste; il ritenersi vittima di ingiusta discriminazione è una componente soggettiva.

Indice di Gini

Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo.

Mobilità

Per mobilità sociale si intende il passaggio di un individuo o di un gruppo da uno status sociale ad un altro, e il livello di flessibilità nella stratificazione di una società, il grado di difficoltà (o di facilità) con cui è possibile passare da uno strato ad un altro all’interno della stratificazione sociale ossia la pluralità dei gruppi sociali presenti all’interno della società con ruoli diversi e diverso accesso alle risorse. Sono stati alcuni grandi del pensiero liberale (Tocqueville, Stuart Mill e Pareto) a richiamare l’attenzione sull’importanza della mobilità economica e sociale, cioè sull’indipendenza del futuro di ciascuno dalle condizioni alla nascita e nei primi anni di vita. Quell’indipendenza rappresentava il segno del definitivo superamento dell’Ancien Régime, una garanzia di democrazia e di equità. La stessa efficienza economica ne avrebbe tratto beneficio perché, finalmente, chiunque fosse stato dotato di qualità avrebbe potuto dare alla società e all’economia un contributo appropriato a quelle qualità, anche se per sventura la sorte avesse scelto di assegnarlo a una famiglia svantaggiata. Il capitalismo e il mercato sono stati considerati come gli strumenti attraverso i quali questo progetto di mobilità sociale ed economica, giusta ed efficiente, potesse essere correttamente realizzato.


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  1. Presentazione di Luca Caputo 07′ 03″
  2. Introduzione di Vincenzo Sabatino 35′ 19″
  3. Relazione di Enrico Minelli  1h 23′ 34″
  4. Domande del pubblico 13′ 20″
  5. Risposte di Enrico Minelli 16′ 21″
  6. Domande del pubblico 08′ 39″
  7. Risposte di Enrico Minelli e chiusura 16′ 12″

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