Edmondo Berselli. Post Italiani. Evoluzione del quadro politico italiano.

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 Forse l’Italia è il paese che ha suscitato, a partire da Giacomo Leopardi, la più grande biblioteca di saggi su i malesseri della nazione, credo che non esista nessun paese, in Europa almeno, che abbia fatto una caterva di saggi su se stesso e sul suo malessere. Negli ultimi vent’anni credo che ne siano usciti almeno 50. Però, ogni volta qualcuno si mette a fare la morale contro la storia. Secondo me Berselli la morale non la fa con questo libro, prende esattamente la società com’è e cerca di descriverla, di generalizzarla e forse anche di  ridicolarizzarla in alcuni punti ma con grande capacità e, sopra tutto, senza dimostrare la stoffa dell’intellettuale.

Edmondo Berselli. Post Italiani. Evoluzione del quadro politico italiano.

1. leggi il testo dell’introduzione di David Bidussa

2. leggi la trascrizione della relazione di Edmondo Berselli

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introduzione di David Bidussa – relazione di Edmondo Berselli

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Testo dell’introduzione di David Bidussa a Edmondo Berselli

Io vorrei partire da un dato, ma a volte il caso, come il diavolo ci mette la coda. Quando ho detto di sì a questa giornata, ho pensato ad una serie di cose, a tante cose ma essenzialmente a questo giorno, ricordiamocelo bene questo giorno: 17 febbraio. Ci ho pensato a lungo, pochi giorni fa, ci ho pensato a lungo, è pertinente su questo libro, scusate questa diversione, ma è pertinente vi  garantisco. Intanto stamani ho comperato una bella serie di giornali pensando si trovare una notizia. L’ho cercata in tutte le pagine dopo di che va beh, forse, siccome esiste una rubrica sul un giornale Italiano che si chiama Memoria forse lì la trovo e sono andato a prendere il Riformista dove, all’ultima pagina c’è appunto una rubrica che si chiama Memoria, che è prendere una data e riferirsi a quella data. Allora vi leggo le prime due righe di questa data: 17 febbraio 1776: lascia Londra, l’Inghilterra, il primo ministro (?),ecc. ecc. Benissimo! Ora però, scusate però, il 17 febbraio sono 15 anni dall’arresto di Mario Chiesa. Questo ha significato qualcosa nella storia italiana.

Non è una data a caso. Nessuno l’ha scritto oggi sul giornale. Non c’è. A mio modo di vedere, questa è una bella fotografia della società italiana e dice anche, credo, l’elemento di fondo di questo libro, in qualche modo. Forse non so nemmeno se lo spiega, ma certamente lo fonda. La notte del 17 febbraio. Allora il punto qual è?. Lo so perché io abito a 150 metri dal Pio Albergo Trivulzio, me la ricordo bene quella sera, con una macchina della polizia, qualcuno che non passava, cioè un bel caos, ve lo garantisco, Allora il punto è: lì dentro, indubbiamente da quella data…. Nella prima pagina di questo libro c’è un ragionamento come dire noi ci siamo dimenticato tutto a partire dal muro dei Berlino, cioè anche dal punto di vista della letteratura, della prosa, vi è la capacità di fotografare un’istantanea, ed è questa la caratteristica, secondo me, di questo libro, fantastica, cioè io invidio Berselli per la capacità di scrittura italiana, cosa che io non sono mai capace di fare, nemmeno  ora a 52 anni posso pensare di diventarlo, uno è quello che è.

Lui dice, noi in Italia eravamo tutto democristiani, comunisti, poi improvvisamente c’è stata una sorta di nebbia come in Amarcord quando il nonno si gira e non sa dove si trova, disperso in mezzo alla nebbia della Pianura Padana e non sa assolutamente dove è il Nord, dove è il Sud, dove è casa sua, dov’è. Bene. Poi con apparente semplicità la società italiana ha cancellato il suo passato politico,  e all’occorrenza il relativo vissuto con le care memorie annesse. E’ una delle più strepitose mutazioni vissute da una comunità moderna. Bene, è un segreto. Diciamo, quindi anni prima ci poteva essere stato Pier Paolo Pasolini che descriveva una condizione, come dire, di leggerezza incosciente, sotto certi aspetti . E questo libro parte esattamente da questa cosa; secondo me se voi partite da questa data che nessuno ricorda e che nessuno ricorderà nella giornata di oggi, perché si ricorderanno altri 17 febbraio, altrettanto significativi, per carità, che sono, per esempio l’espulsione di Luciano Lama dalla Università di Roma, dove ritrova, per una strana nemesi della storia, la CGIL di nuovo al centro di una discussione del rapporto, diciamo per non usare la parola  terrorismo, usiamo almeno la parola violenza nel nostro italiano, e il governo della violenza, o il confronto con  l’istanza estremistica violenta.

Allora, il libro di Berselli è sostanzialmente un libro che in qualche modo è implicito rispetto a quella giornata, al dato sconvolgente di quella giornata. Ora, noi possiamo ragionare su quel dato sconvolgente, sulle conseguenze di quel dato sconvolgente in due modi. Possiamo ragionare, come dire, in termini di istantanea, cioè a dire, nella storia italiana sono successe molte altre volte delle istantanee, come dire, di metamorfosi, altrettanto veloci. Cosa accadde, la differenza fra il mattino e la sera, se ci fermassimo un attimo nella storia italiana, cioè il 25 luglio 1943 si direbbe la stessa roba. Vi direbbe un paese apparentemente ordinato  e alla sera alle dieci totalmente un altro paese, per cui non riesco a capire qual è la realtà del paese, se la realtà è quella che io vedo alla mattina o quella che io incontro la sera. Probabilmente tutte e due, in qualche modo.

Bene, il libro di Berselli  parte da questo crollo sostanziale per fare due cose. Guardandolo ora, che strumenti abbiamo per capirlo? O meglio quali sono i sintomi, i termometri, i sismografi che in qualche modo registrano la mutazione? Secondo me, Berselli ha una chiave di accesso su cui ragiona, la cita anche, la mette fra le prime pagine di questo libro, poi la diluisce lungo tutto il libro e la ritrova verso la fine. Vediamo una figura essenziale della cultura italiana che nessuno chiamerebbe figura essenziale delle cultura italiana, ma come al solito i paesi si misurano nel profondo sono, come dire, i nomi e i cognomi  degli  attori che apparentemente sono marginali.

Questo attore, secondo me, sociale, culturale del nostro presente, su cui in qualche modo Berselli insegue un po’ lungo tutto l’asse del libro è Gianni Boncompagni. Se voi andate a prendere all’indice dei noi, perché è lì che si vedono le cose, ebbene voi andate a prendere le pagine 19 e 20 dove si parla di Gianni Boncompagni, voi avete esattamente, come dire, l’idea di chi è il facitore dei sentimenti  della ratio (?), cioè di un individuo che con grande cinismo, giustamente osserva Berselli, ma anche con grande acume capisce che per fotografare la crisi strutturale di questo paese  fa una trasmissione che è appunto “Non è la Rai”, dove accumula e conserva, lo dice in una intervista che rilascia all’Espresso che Berselli cita, tutti i provini che fa perchè quello sarà l’album, la fotografia di un pezzo su cui 20 anni dopo, se vogliamo, o se vorremo, forse potremo capire quali sono le mutazioni, così come 20 anni prima, nel 1972, nel dibattito culturale italiano tutti ci siamo, o si sono (io allora avevo 17 anni), scannati o confrontati sul volume di Paolo Silos Labini “Il saggio sulle classi sociali” in cui, in qualche modo, qualcuno poneva a piene mani come era cambiata la società italiana e di fronte alle parole che vengono utilizzate tradizionalmente dalla società classicamente industriale, Paolo Silos Labini diceva alcune cose dei processi di trasformazione; un libro che è stato discusso in Italia per almeno sei sette mesi nel corso del ‘72-’73, di cui oggi non abbiamo nemmeno più memoria ma che ha segnato un pezzo del linguaggio pubblico italiano.

Ebbene, Boncompagni secondo me, con acume Berselli lo individua, è un costruttore di psicologie, è uno che ci dice che se noi non capiremo questo paese, può piacere o non piacere, se noi non analizzassimo tre fenomeni di passioni di massa che sono la trasmissione di Antonio Ricci, la sera su Canale 5, che sono, secondo me. Federico Moccia , “Aaffermarsi sopra il ciel” (?), e che sono sostanzialmente i fenomeni, come dire, radiofonici, magari forse più bassi, della quantità di individui che telefonano, a telefoni aperti, alle trasmissioni di intervento che si spiegano con un linguaggio che se volete è sostanzialmente standardizzato. Ma se uno vuol capire cosa sono i post-italòiani, secondo me, le tracce sono lì, non sono se io faccio semplicemente l’analisi economica, della povertà, della miseria. Quelli sono tutti dati, diciamo, intorno, però se vogliamo capire i sentimenti profondi di questo paese dobbiamo in qualche modo  affrontare dei temi ed anche forse dei campi di indagine che apparentemente sembrano banali, sembrano marginali, come dire, poco dignitosi, se volete poco intellettualmente alti ma profondamente veri dal punto di vista della descrizione della società.

L’intenzione di questo libro cosa fa a questo punto, prende, secondo me,una serie di figure: sono Bossi, Fini, D’Alema, Romano Prodi e analizza lungo il percorso, dei loro percorsi politici, dei loro percorsi sociali, il complesso della trasformazione della società italiana negli ultimi 20 anni, quelli che sono, come dire, i loro modi di esprimersi, i tic nervosi, i luoghi, se volete, anche un po’ macchiettistici a destra e a sinistra che sono esattamente, come dire, i punti critici di un paese che a questo punto ha un problema di sua fisionomia. Qual’è la sua fisionomia o il problema della sua fisionomia?

Forse l’Italia è il paese che ha suscitato, a partire da Giacomo Leopardi, la più grande biblioteca di saggi su i malesseridella nazione, credo che non esista nessun paese, in Europa almeno, che abbia fatto una caterva, un ripiano sulla libreria, di saggi su se stesso e sul suo malessere. Negli ultimi vent’anni credo che ne siano usciti almeno 50. Però, ogni volta il problema è in qualche modo qualcuno si mette a fare la morale contro la storia. Secondo me Berselli la morale non la fa con questo libro, prende esattamente la società com’è e cerca di descriverla, di generalizzarla e forse anche di  ridicolarizzarla in alcuni punti ma con grande capacità e, sopra tutto, senza dimostrare la stoffa dell’intellettuale, di guardarla come se fosse il suo anti-sé, a partire da un occhio che è, come dire, misurandosi e rapportandosi in una tradizione che è classica dell’intellettuale italiano, a partire almeno da Piero Godetti che è quella di pensarsi come l’anti-Italia, cioè godersi di essere l’anti-Italia e di guardare quel paese come l’immagine calco-negativa di sé. Ma, dico bene,  questo è un paese il cui marchio. forse con i vizi ma con i pregi che ha,  ma certamente per i grandi conti che non riesce a fare i conti con se stesso.

Dopo di che, secondo me,  fa una lettura di quello che noi leggiamo, cioè non semplicemente di quello che vediamo, ma di come ci viene presentato questo paese attraverso dei filtri  interpretativi di grande spessore, secondo me, e individuo in due pagine, poi ci sono altre 4 pagine nell’altro libro che si intitola “Venerati maestri” che secondo me sarebbero da antologia, se in questa paese avesse il coraggio, come dire, di rompere in qualche modo dei tabù, di riuscire a rompere dei tabù. Le due pagine che sono  in questo libro riguardano Ilvo Diamanti e il perché e qual è la funzione, su un giornale come Repubblica di Ilvo Diamanti? Cioè di un analista sociale, un analista di costumi che in un qualche modo conia un linguaggio, ci permette settimanalmente di guardare, come dire, un panorama, forse anche in qualche modo di arricchire un linguaggio per fare un’analisi, non semplicemente riprodurla.

E dall’altra parte il riferimento è invece al direttore del più grande giornale italiano, questo in “Post Italiani” Berselli lo affronta molto rapidamente, lo affronta più decisamente in 4-5 pagine, secondo me, brucianti dentro “Venerati maestri”, e cioè Paolo Mieli, e lui dice a un certo punto, e qui chiudo, mi pare di aver finito con questo strano elogio se volete; lui dice  il mestiere che Paolo Mieli si è scelto quando dirige il Corriere della Sera è quello di produrre, come dire, dei grandi litigi pubblici, di poter governare con i litigi e dove i litigi sono di solito dentro le famiglie, non tra famiglie. Cioè lui mette in discussione e fa confrontare in maniera scandalizzata, scandalosa, un pezzo del sindacato con un altro pezzo del sindacato, un pezzo di destra con un altro pezzo di destra, un pezzo di sinistra con un altro pezzo di sinistra. E’ un meccanismo se volete, come dire, molto divertente, si da la sensazione di essere padrone dello spirito pubblico.

Se mi permettete faccio un’ultima parentesi perché secondo me è importante. Io credo che Paolo Mieli abbia preso un’enorme cantonata dieci giorni fa. Che l’abbia fatto con un giornale su un problema di estrema delicatezza, l’abbia fatto su un tema molto pericoloso e l’abbia fatto con assoluta incoscienza culturale. Il tema è il libro di Ariel Toaff. Vedete non voglio discutere di questo libro.“Pasque di sangue”. Non voglio discutere di questo libro, ma è lo stile di come si discute in questo paese ed è sulla irresponsabilità di come si suscitano discussioni in questo paese e di come, in maniera del tutto, come dire, non inconsapevole, ma incosciente e se volete anche di in cultura, si affrontano problemi di profondità culturale e dove alla fine uno degli elementi non è semplicemente……perché alla fine nessuno è onnisciente in questa storia, il problema non è come al solito che il giornalista, tra virgolette, ha sodomizzato  l’intellettuale, in questo caso lo storico, in questo caso sono statti fatti nomi e cognomi perché è giusto farli,  Sergio Luzzato,  che ha fatto una pagina assolutamente fuori dalle righe su quel tema, ma è anche, ed è un altro aspetto di costume della post-Italia, il fatto che esistano intellettuali, in gergo giornalistico si chiamano così di solito nella redazione dei giornali, le firme saltellanti, che qualcuno gli dice fai un pezzo e quello lo fa. Semplicemente per bellismo, per esibizionismo, per il gusto della provocazione, ma senza idee di ciò che sta scrivendo.

Allora un post-paese invaso anche dall’incapacità di riflettere su se stesso, di sapere darsi un limite, di trovare un senso morale, se volete, prima ancora che politico, di ciò che sta scrivendo e quindi dell’impegno che si dà, e quindi di pensare che domani è un altro giorno come direbbe Rossella Ohara. E quindi che quello che tu fai oggi non ha alcun peso su ciò che verrà domani e  che tutto è molto divertente.

Ecco, secondo me, dentro questo libro c’è in qualche modo il dato anche di rendersi conto che forse non è più tanto divertente, che forse bisogna prendere un po’ su serio un paese che in alcuni tratti rischia di considerare che ciò che non è serio sia l’unica cosa seria di cui occuparsi.

Trascrizione della relazione di Edmondo Berselli

Grazie a Giovanni Bianchi, grazie a David Bidussa per la presentazione, grazie a tutti voi di essere qui; sono contento di essere qui questa mattina, in una giornata anche bella dal punto di vista atmosferico, a me piace Milano quando c’è il sole, mi trovo bene nonostante la levataccia.

Ma sono anche vagamente preoccupato per le modalità della presentazione perché sia Giovanni Bianchi sia Bidussa mi hanno presentato come una specie di eccentrico, una sorta di mitomane (?) che parla di calcio, che parla di canzoni, parla di Gianni Boncompagni….Ebbene sì. Gianni Boncompagni, io non è che ritagli tutte le interviste che gli fa Stefania Rossini (?) dell’Espresso, ma mi aveva molto colpito perché raccontava in modo fenomenologicamente forte la realtà delle ragazze, di quelle che oggi pensano, o sperano, o ambiscono  di diventare veline, schedine, paroline e l’ideologia di fondo, la visione del mondo che c’era dietro di loro. Parlava Boncompagni con molta nettezza, come una specie di entomologo, di questa realtà e diceva vengono da paesi in cui il maschio è ancora, mi sembra, antico e forte, antico e arcaico, che l’unica verità, l’unica certezza che trasmette alle figlie o ai figli è che quella che non te la dà è una stronza, quella che te la dà è una troia. E le donne e gli uomini maschi, ragazzi e ragazze devono fare il loro apprendistato erotico, sociale dentro canoni che appartengono ad una Italia così ferocemente, davvero non è sbagliato quell’aggettivo nella quarta di copertina, così ferocemente legata ai comportamenti primari che noi oggi potremo noi, almeno noi che rappresentiamo una posizione culturale di un certo tipo, consideriamo un sfasati rispetto ad una società civile incivilita, moderna, capace di organizzare rapporti autentici nel proprio interno.

Per cui dico, dopo questa presentazione sono piuttosto lievemente inquietato nel senso che effettivamente io sono una figura di confine nel senso che non sono un accademico, e non sono neppure un giornalista. Lavoro sugli eco-fenomeni, non so come dire, lavoro sui sintomi della società italiana, più che sulle ragioni profonde, ho una cultura prevalentemente di seconda mano nel senso che leggo i giornali, anche Paperino di tanto in tanto, ma a un certo punto mi sono convinto  di una cosa che ho vissuto personalmente. Io sono di famiglia cattolica, di origine e di cultura piuttosto ibrida, ma comunque proveniente da una matrice cattolica e mi è sembrato di accorgermi che il nostro paese, nel corso soprattutto degli anni ’90, io non sono convintissimo da lì che, se fosse il 17 febbraio, e veramente non era il 16, mi ponevo il problema, e non ho messo la data proprio perchè allora avevo lo stesso dubbio, e probabilmente avrai ragione tu,…..….c’è da dire sulla ricostruzione di tangentopoli di Filippo  Faci  (?), credo sul Foglio di questi giorni, che è piuttosto ovviamente giustificazionista, o negazionista (?) non so come si possa dire di questi tempi.

Nel corso degli anni ’90 a me è sembrato, dico a noi perchè vivendo dentro il Mulino ero in compagnia di persone molto più qualificate di me, avevo un dialogo intellettuale, di amicizia, con Arturo Parisi, anche con Angelo Panebianco, con Nicola Matteucci (?) che è stato uno dei miei  maestri liberali, se vogliamo dire così, e tutti quelli che frequentavano la Strada Maggiore a Tutta Sette (?) a Bologna, avevo un dialogo tutto teso a vedere come era possibile, se c’era la possibilità di uscire dal blocco della democrazia italiana, dallo stato di paralisi, dall’incapacità di prendere decisioni , da quella palude in cui c’eravamo cacciati e non sapevamo uscire.

E siamo stati tutti presi non in contropiede perché le premesse, i sintomi, gli indizi c’erano già stati anche in precedenza , ma siamo stati presi da uno shock autentico con tangentopoli perché ci è sembrato, parlo al plurale perché rappresento anche una comunità di dialogo in quel momento,  ci è sembrato che la crisi di tangentopoli rappresentasse una specie di sigillo, una specie di leva che comunque, che conduceva a mostrare un cambiamento profondissimo della realtà italiana, un cambiamento così profondo che noi non avevamo sondato, non avevamo esplorato in modo efficace. O meglio,. la domanda era: l’abbiamo esplorato in modo efficace? La mia risposta è stata no, non l’abbiamo esplorato in modo efficace.

Il titolo di questo libro è “Post Italiani” perché nasce dalla consapevolezza di quei giorni, di quegli anni, di quel momento storico possiamo dire adesso, che eravamo diventati tutti post-qualche cosa, eravamo tutti post-comunisti, post-democristiani, post-fascisti.  Il senso era che le culture, o sub-culture come le definiscono i politologi principali della vita politica italiana e anche della vita civile, erano state spazzate via dal momento che erano state spazzate via i partiti che le avevano Incarnate, i partiti storici; il partito socialista era crollato, il partito comunista aveva affrontato la trasformazione che l’aveva portato comunque a perdere la sua anima ideologica, la democrazia cristiana si era disgregata o si stava disgregando in quel momento e alla fine tutto quello che aveva plasmato, il modo di porsi di fronte alla realtà italiana, un modo anche di giudicarla, un modo anche di intervenire o anche di bloccare certi processi, di frenarli, comunque di vederli e di metterli dentro ad una griglia di valori, in quel momento erano praticamente scomparsi e noi ci eravamo trovati dentro un paese, se è possibile il gioco di parole, spaesato.

Era avvenuto qualche cosa che potremo interpretare sotto il criterio molto largo della secolarizzazione, che non è soltanto una secolarizzazione sotto il profilo religioso, ma anche la secolarizzazione dal punto di vista politico, la perdita delle gradi relazioni, delle grandi ideologie, chiamiamole come vogliamo, ha portato a che cosa? Ecco, da quella domanda nasce un po’ la riflessione complessiva di post-italiani.

Un paese che perde in modo rapissimo, tanto è vero che lo stesso cambiamento, la stessa secolarizzazione, la perdita del sacro, la perdita dei valori, la perdita dei criteri di riferimento pubblico, ci sono stati anche in altri paesi europei, in altri paesi avanzati; la mia impressione èp stata che in Italia questo sia avvenuto con una rapidità formidabile, probabilmente dentro la società italiana nel corso del dopo guerra ci sono stati dei cambiamenti che hanno predisposto il risultato conclusivo, ma il risultato conclusivo è stato così spettacolare da risultare davvero stordente .

Come abbiamo cercato di inquadrare, come abbiamo cercato di reagire a questa condizione nella quale ci siamo trovati? Parlo sempre al plurale, perché mi sembra di essere il Papa, non so, ma come rappresentante in questo momento di alcuni amici che sono con me e di cui fanno parte con il loro intervento Bianchi e Bidussa con cui condivido per lo meno l’atteggiamento nell’analisi e nella descrizione, che mi interessa ancor più dell’analisi, della società italiana.. Noi abbiamo cercato di reagire in molti modi; il modo fondamentale è stato quello, fra il ’91 e il ’93,  di risolvere, di sbloccare la democrazia italiana con i referendum elettorali che, visti a posteriori, possono essere giudicati, e qualcuno certamente dell’ala conservatrice dello schieramento politico e dell’intellighenzia politica giudicherà la madre di tutti i mali italiani, ma in quel momento sembrava effettivamente uno strumento per ottenere due risultati.

Il primo, una razionalizzazione della vita pubblica, del confronto pubblico, un processo che doveva portare alla democrazia delle alternanze , alla maggioranza che governa, all’opposizione che controlla e si candida a governare, tutte cose che si sono raccontate in modo diffuso in quegli anni  E dall’altro lato era anche uno strumento, la campagna referendaria, per  tenere la disaffezione, il rifiuto, la possibile ondata di cinismo verso la politica , di tenerla dentro la politica. Cioè se non ci fossero stati i referendum, io mi sono detto molto spesso e l’ho anche scritto, se non ci fosse stato questo strumento, probabilmente grezzo, che poi ha portato a risultati che sono stati o sterilizzati o enfatizzati dalla vita politica in modo talvolta astruso, noi che cosa avremmo visto? Avremmo visto forse un rifiuto della politica ancora più forte di quello che si manifestava in quei momenti. Ricordate tutti a che cosa abbiamo assistito dopo il 17 febbraio, teniamolo per buono,.dopo la scoperta di tangentopoli, cioè di un sistema che si era diffuso nel paese e aveva coinvolto i partiti non si era limitato al finanziamento illecito, quello che raccontò in quel famoso discorso parlamentare Bettino Craxi, cioè tutti sapevano. E’ vero che tutti sapevano ma il problema di tangentopoli non era soltanto l’infezione della vita politica, ma era anche la distorsione del mercato, la creazione di oligopoli criminali, era, se uno vuole considerarla semplicemente dal punto di vista dell’economia, dell’industria, della concorrenza,della regolarità degli appalti, di quello che consente un po’ la messa in moto dell’economia, mentre che cosa abbiamo visto? La creazione di oligopoli illegali, e quindi la situazione della concorrenza, e anche sui prezzi che hanno avuto riflessi piuttosto preoccupanti anche sul funzionamento dell’economia pubblica e privata.

Bene, in quel momento allora sembrava che il referendum potesse mantenere dentro la politica quel rifiuto che si stava manifestando e, in terzo luogo, c’era l’elemento deficitario probabilmente per tutti noi che avevamo scommesso su quell’ipotesi e che forse in quel momento abbiamo sottovalutato, e cioè che noi, come è stato anche detto e ripetuto, stava cercando di risolvere un problema politico, che poi aveva riflessi etici e aveva tutte quelle cose che sappiamo, di risolvere un problema comunque politico attraverso una soluzione tecnica.

Io non ho una risposta per questo, sono convinto che a posteriori, si è vero è stata una soluzione tecnica su cui si sono accorciati, o allungati, i pantaloni per farli corrispondere alle gambe del bambino, e il bambino era piuttosto deforme, era la politica italiana. Ma mi sembra, ancora adesso, che in quel momento non ci fosse una soluzione diversa. Tutti quelli che auspicavano la rifondazione della politica intorno all’etica, la rigenerazione delle forze politiche, non facevano, secondo me, i conti con la realtà, in quel momento non c’era la possibilità, non si vedeva la possibilità di una autorigenerazione di una politica che era ridotta in quelle condizioni, forse in tempi lunghissimi, ma come sapete nei siamo in un organismo keynesiano da sempre  e nel lungo periodo, come si sa, siamo tutti morti e quindi in attesa di morire sembrava di poter praticare qualche riforma della politica per poter farla funzionare un po’ meglio.

A tutto questo si è aggiunto però lo shock tremendo delle elezioni del 1994 su cui ci si potrebbe anche soffermare perché le elezioni del ’94 non vedono soltanto l’avvento in politica di Silvio Berlusconi, ricordate mi pare fosse il 6 Febbraio, magari il 7 Febbraio, e alla fiera di Roma, con quel discorso Silvio Berlusconi, in piedi e col microfono in mano, come un kluner (?) americano quali egli era stato sulle navi, recita questo suo rap (?) lento in cui parla del nuovo, del grande, dello straordinario miracolo italiano. Alla fine di questo discorso e di questa frase parte l’inno di Forza Italia del maestro Serio, parole forse di Carlo Rossella, se le è sempre stata attribuite ma non c’è mai stata la definizione ufficiale, e Forza Italia per essere liberi, e in quel momento si vede sulla sinistra un maxischermo con le parole del karaoke, e i nipoti (?) non faranno il karaoke, e in quel momento anche Emilio Fede che fa la diretta, almeno per chi resiste, distoglie l’inquadratura e non fa vedere il maxischermo del karaoke, ma è il karaoke, è la politica del karaoke. E’ un elemento di trattenimento, di spettacolarizzazione, di coinvolgimento del pubblico che non ha precedenti per lo meno nella storia d’Italia, ma non credo che anche nella storia mondiale ci siano state cose di questo genere. Però in quel momento c’era una dichiarazione programmatica che forse equivale, dal punto di vista simbolico, a quello che diceva Gianni Boncompagni a proposito delle ragazze e del maschio antico, forte e cattivo.

Shock tremendo perché è una novità che coinvolge tutto il sistema della politica, ma anche tutto il sistema della comunicazione e vi vorrei ricordare, cosa che non è mai stata messa in luce  con chiarezza, che il formato delle elezioni politiche del 1994, il formato bipolare delle elezioni politiche del 1994, è stato costruito per via mediatica, sono stati i giornali ma anche le televisioni, e le televisioni di Silvio Berlusconi, a predisporre il formato del confronto basato sullo schema o di qua o di là, o a sinistra con la gioiosa macchina da guerra di Occhetto senza leadership riconoscibile, o di qua con noi, quelli che sono contro i comunisti.

C’era disgraziatamente il terzo polo, il Patto per l’Italia di Martinazzoli e Segni per cui io votai in quell’occasione, la prima volta che voi per qualche cosa che somigliasse alla D.C., almeno lì c’erano diversi democristiani. Il terzo polo è stato escluso dal dibattito pubblico; voi vi ricordate la scena finale in casa Mediast del confronto Occhetto-Berlusconi che è quello che qualifica, indirizza e orienta la scelta degli elettori: tra l’atro il Patto per l’Italia in quelle elezioni prende oltre 6 milioni di voti che oggi sarebbe un partito di notevole entità, il secondo partito in Italia a sinistra dopo i D.S.

Quindi io mi accorgo per lo meno in quel momento che la politica non è più quella di una volta, non solo mancano dei valori e siamo interpreti di valori presunti che si presenta sulla scena     e che sbanca il lotto con la fulminea intelligenza strategica, ma nello stesso tempo il nodo con una rottura profonda rispetto alla tradizione politica cui eravamo abituati, per lo sdoganamento del MSI – AN, sopra tutto per il modo aggressivo con cui si pone di fronte alla sinistra, sopra tutto per comincia il quel momento a   riprodurre quel discrimine, noi e gli altri, che determina alla fine il parossismo polemico delle elezioni del 2006. Le elezioni non so come le avete vissute voi, io ho vissuto le elezioni del 2006 al telefono con Arturo Parisi e altri miei amici, Giulio Santagata e altri esponenti politici che oggi sono al governo cercando di capire che cosa stesse succedendo in quella notte maledetta. Ma perché? Perché il livello dello scontro politico era stato portato ad una esasperazione tale per cui in quel momento sembrava che la sconfitta del centro-sinistra potesse essere un’autentica catastrofe, la sconfitta che si stava manifestando momento per momento con il recupero notevolissimo della Casa della Libertà.

Ecco fra queste due polarità, fra il 2006 ed il 1994, c’è quel campo di riflessioni che ho cercato di fare uscire in questo libro. Era successa poi una cosa piuttosto curiosa dal punto di vista esistenziale nel senso che avevo lasciato il Mulino nel 2001 e sono andato a lavorare all’Espresso, prima ancora di lavorare per Repubblica e dentro a un giornale laico, cinico mi è sembrato di capire qualche cosa che si attagliava al mio modo di guardare le cose. Mi è sembrato di capire che guardare la politica attraverso i sintomi qualche volta è più interessante e più rivelatore  che non guardarla attraverso le astrazioni; io sono cresciuto attaccato alle astrazioni con i miei amici politologi, con le discussioni sui massimi sistemi. E in quel momento mi è sembrato di capire che sapere che Umberto Bossi aveva partecipato al Festival di Castrocaro  con lo pseudonimo di   Donato (?) dicesse qualche cosa della sua personalità, così come leggere nel video di Gian Antonio Stella, che mi pare si chiamasse Tribù, la ricostruzione della sua biografia in cui raccontava che aveva dato tre feste di laurea senza mai essersi laureato, era un elemento che contribuiva a capire, a individuare questo personaggio che in quel momento stava puntando sull’ipotesi massimalista, diciamo così della secessione, sic et simpliciter.

Io non so quanti di voi ricordino che il 15 (o16) settembre 1996 si tiene la marcia sul Po preceduta dall’ascesa al Mon Viso per la raccolta dell’acqua nell’ampolla da versare poi a Venezia nell’Adriatico. E allora il motivo di preoccupazione era per gli effetti che poteva avere questa mobilitazione straordinaria delle popolazioni, dei popoli padani, come diceva Bossi, come dicevano i suoi seguaci. E allora io quel giorno ho fatto quello che di solito non si fa mai, ho preso la macchina e ho fatto una cinquantina di chilometri sul Po per guardare che cosa avveniva da Ostiglia fino a Borgo Po mi sembra, per guardare che cosa avveniva sui ponti. Intanto vedevo che il Po non era come era stato descritto qui dentro, è un sistema di golene, di sentieri, di spiaggette  che se fosse messo a posto si chiamerebbero gli svedesi per fare il bird-watching, per passarci le domeniche o ci si farebbero delle cose straordinarie per le biciclette in un paese civile.

In secondo luogo ho visto che la marcia sul Po era fallita nonostante quello che poi le televisioni hanno raccontato la sera; era fallita nel senso che era una marcia di popolo in cui di popolo ce n’era pochino, che non c’era festa popolare, che c’erano pochi pasdaran sui ponti a S. Benedetto Po, a Revere o a Ostiglia, ma di grande mobilitazione…. Allora, a quel punto, mi sono convinto che neppure Bossi era un pericolo, perché lo schema di Bossi, che è lo schema di qualche altro, era molto facile da spendere sul mercato politico. Si lo so che la Lega è il 3,9 – 4 %, il 10% a seconda delle aree geografiche che si prendono in considerazione, ma nel momento buono in cui ci fosse la rottura, un referendum, la scelta della secessione, tutto il Nord come un solo uomo si schiererebbe dietro le insegne del Carroccio, della Lega, e sceglierebbe di volare in compagnia della Svizzera, della Baviera e di tutte quelle realtà che più assomigliano a noi anziché Roma ladrona.

Ecco per questo ho cercato di vedere una realtà davvero dal punto di vista fenomenologico tenendo d’occhio se c’è forse una eco che può qualificare questo libro nichilista, nichilista che non ci fa vedere il nulla in cui siamo collocati o questi sintomi del nulla che si sono sviluppati ancora di più dal 2003 in avanti. Ho cercato di mostrare anche che a questa secolarizzazione politica, a questa perdita di valori principi e criteri, si è unita anche una straordinaria secolarizzazione religiosa. Se c’è una eco che il politico un po’ conosca (?) il giudizio in modo non esplicito perché non sono un moralista ne in senso della polemica, ne nel senso classico del termine, se c’è una morale fa riferimento alla perdita di un sentimento religioso;.è quello che è sintetizzato, lo dico con un altro esempio così viene più facile per tutti, dalla velina che interviene e dice “io c’ho una grande ammirazione per Paolo Intingua (‘)” e sul malessere sulla morale sessuale delle donne “quelli son fatti mia”, ma su questa sfasatura tra religione (?) mediatica, interpretata anche questa in chiave nichilista  e i comportamenti privati che vengono destrutturati rispetto a qualsiasi criterio di fonda mi sembra che cola, un po’ moralisticamente, da un libro che doveva dare un’istantanea, un film, un filmetto sulla società italiana cercando di vedere proprio anche questi aspetti, anche secondari, ma che in certa misura restituiscono qualcosa in più rispetto alla dinamica politica , alle riforme, a tutto quello che ci siamo raccontati per cercare di migliorare il sistema politico. Non ci sono ricette, non ci sono soluzioni qui dentro, l’ho detto prima che noi abbiamo fatto un’operazione che forse qualcuno definirebbe la diafonica (?) cioè cercando di risolvere un problema etico, un problema morale, un problema politico con soluzioni tecniche. Entro questa sfasatura probabilmente c’è il problema in cui siamo collocati anche  adesso e che non siamo ancora riusciti a risolvere.

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