Essere cristiani nel mondo contemporaneo

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Si può essere cristiani soltanto in questo mondo perché è pensabile che Dio, padre di tutti gli uomini, non vorrà distinguere tra confessioni e percorsi religiosi negli esiti dell’eternità. Non gli si addice certamente una dimensione etnico-confessionale dei suoi figli, dai quali La Scrittura suggerisce perfino che Egli ami farsi battere. Diceva sul letto di morte don Lorenzo Milani al piccolo gregge dei ragazzi della  Scuola di Barbiana, presso Firenze: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho fiducia che Lui non badi a simili sottigliezze e metta tutto a suo conto”.

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 L’articolo è disponibile in versione integrale e versione ridotta

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Essere cristiani nel mondo contemporaneo (versione integrale)

Il rapporto con la contemporaneità

Si può essere cristiani soltanto in questo mondo perché è pensabile che Dio, padre di tutti gli uomini, non vorrà distinguere tra confessioni e percorsi religiosi negli esiti dell’eternità. Non gli si addice certamente una dimensione etnico-confessionale dei suoi figli, dai quali La Scrittura suggerisce perfino che Egli ami farsi battere. Diceva sul letto di morte don Lorenzo Milani al piccolo gregge dei ragazzi della  Scuola di Barbiana, presso Firenze: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho fiducia che Lui non badi a simili sottigliezze e metta tutto a suo conto”.

Il Dio dei credenti non fa distinzione tra verticale ed orizzontale, non segna un confine netto per le sue creature tra natura e sopranatura, dice anzi che il giudizio finale ci vedrà interrogati sul rapporto con i nostri fratelli, perché è scritto nella Prima Lettera di Giovanni[1] che chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Dunque: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere”[2]… Le domande dell’esame finale ci sono infatti note perché ci sono state anticipate.

E si può essere cristiani soltanto in questo mondo perché soltanto questo mondo ci è dato in dono di vivere. Il nostro cristianesimo cioè si gioca tutto nella contemporaneità. Il che tuttavia non lo condanna ad essere prigioniero della contemporaneità perché il credente e tutti i figli di Dio vivono la comunione dei santi. La Chiesa pellegrina si salda con quanti, nella chiesa trionfante, ci hanno preceduti nella luce della visione beatifica. Sant’Agostino non a caso può dirci: “I morti sono esseri invisibili ma non assenti. Non li vediamo perché siamo avvolti in una nube oscura, mentre loro sono nella luce e ci vedono. I loro occhi, pieni di gloria, sono fissi sui nostri, pieni di lacrime. Ci sono vicini, felici, trasfigurati. In questo misterioso cambiamento non han perduto né la delicatezza del loro cuore né la preferenza del loro amore. I nostri morti sanno pregare e ricordare meglio di noi”.

Anche questa è una dimensione della Chiesa che abbiamo purtroppo archiviato, presi come siamo dal fascino di una vita lunga che non giungerà comunque mai ad essere vita eterna. Non a caso siamo in una fase storica di grande allungamento della speranza di vita e di progressiva robotizzazione di parti del corpo umano. Tuttavia non è solo l’apocalittica a ricordarci che passa questo mondo, passano i secoli, ed è pensabile in una fase storica precipitosa e in una società liquida (Bauman) che abbia ragione Il Manifesto del 1848 a sentenziare: “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. La sorte eterna si gioca dunque per il credente nella peribilità dello spazio contemporaneo.

Compito del cristiano è fare i conti con la storia nel momento del suo farsi. Che è l’impegno del testimone e il carico di una inevitabile profezia, anche modesta. Anche il nostro cristianesimo feriale non ha sempre fortunatamente bisogno di eroi. In questo senso la vita contemporanea presenta un pericolo di sviamento nel nulla perché ha progressivamente sostituito ai testimoni i testimonials, che sono la caricatura del testimone autentico e credibile. Il Vangelo li accuserebbe d’essere “falsi profeti”.

Il problema

Qual è il problema dei cristiani nel mondo contemporaneo? L’attualità? L’identità? L’efficacia? Il successo? La grazia? La sequela? La tensione all’eterno? Scegliere il tema implica scegliere un punto di vista. Pare a me che ciò che caratterizza il cristiano é, come sempre, la realizzazione di ciò che è impossibile all’uomo, ma possibile a Dio. Una realizzazione non garantita, giocata nel confronto con le difficoltà storiche e l’imprevedibilità di un futuro incerto. Con la garanzia tuttavia che la parola del Vangelo, il lieto annunzio ai poveri, interviene in situazioni che non si aggiusterebbero comunque da sole.

Un impegno necessario e dovuto

Si tratta in ogni caso di un impegno necessario e dovuto. Per il patto solidale che lega fin dai tempi antichi i cittadini. Il grande Aristotele, che pure non veniva considerato eccessivamente pio, affermava non a caso che il fondamento del governo della città è l’amicizia. Non la competizione oggi esaltata in tutti i campi e gli schieramenti contrapposti. Non quella che gli americani chiamano “la corsa del topo in carriera”. L’amicizia di chi vuole condividere non soltanto un territorio, ma il bene comune della comunicazione, e si sforza, nonostante tutto e controcorrente, di rimettere al primo posto, dentro e fuori i confini del proprio Paese, non tanto le cose e il loro possesso, ma la relazione tra le persone. Diceva bene qualche decennio fa il domenicano francese Jean Cardonnel: “Quando i prezzi s’alzano, gli uomini s’abbassano.”

Un impegno necessario e dovuto perché la vocazione del credente non si circoscrive nell’individuo; per lui non esiste società se non tenuta insieme dal cemento della comunità. Lo ha teorizzato in epoca moderna il sociologo tedesco Troeltsch, e ne ha scritto diffusamente da ultimo Zygmunt Bauman.

Affrontare questo tema significa domandarsi che cosa voglia dire essere cristiani nella città di oggi. Noi tutti abbiamo conoscenza storica del fatto che il cristianesimo scosse fin dalle origini la società del tempo. Non a caso le parole di Gesù il Nazareno risultarono da subito eversive per la teocrazia giudaica. Esistono infatti modalità proprie d’essere solidali da parte dei cristiani. Anzi, dopo una prima fuga dalla città, della quale dà conto Tertulliano, i primi cristiani vennero man mano elaborando un approccio diverso.

All’inizio l’autoesclusione faceva parte di una lotta anti-idolatrica, dal momento che l’appartenenza piena alla città implicava l’ossequio anche religioso nei confronti dell’imperatore di Roma. Per questa ragione i cristiani non entrano nell’esercito e non fanno parte dell’amministrazione imperiale. Non mancano ovviamente le perplessità e le critiche, rappresentate in particolare da Celso. Ma le cose progressivamente evolvono e nella lettera A Diogneto (da collocare tra la metà del II secolo e l’inizio del III ) i cristiani vengono descritti come coloro che condividono i beni di tutti i cittadini. Non condividono però i letti e non espongono i figli. Col linguaggio odierno potremmo affermare che essi si erano andati man mano radicando nel tessuto della società civile.

Leggiamo infatti nell’A Diogneto: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale”.[3]

Stile di vita paradossale e minoritario che finirà per produrre quel rovesciamento epocale che porterà i fedeli ad essere assunti come paradigma di una nuova cittadinanza e ad ottenere il pieno riconoscimento imperiale. Semmai – osservava il Priore di Bose Enzo Bianchi – siamo noi nella condizione di doverci chiedere che cosa abbia potuto significare l’aver avuto per cinque secoli un imperatore cristiano, quando i fondi vennero tolti alle fondazioni pagane e dati nelle mani delle comunità cristiane, con qualche tentazione forse di passare da perseguitati a persecutori…

Molta acqua è passata da allora nei secoli sotto i ponti della cristianità ed è probabile che i cristiani si sentano abilitati nella costruzione della città da una lunga e provata esperienza che ne rende lo stile di vita più adatto a fare i conti con le trasformazioni in quest’ora di globalizzazione. Mi pare si possa leggere così il n. 55 dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI.  E se è vero che i credenti si sono trovati poi a fare conti durissimi con la modernità, è altresì vero che la loro testimonianza è risultata tale da rendere accessibile la santità a tutte le persone. Perciò diciamolo una volta per tutte: il compito del credente non è soltanto proclamare che l’impegno civico è doveroso, ma testimoniare che questo medesimo impegno non è cosa opposta o diversa dalla santità della vita quotidiana.

Ho sentito ripetere lungo tutta la mia esistenza che la politica non può essere ridotta a testimonianza. E’ certamente vero. Ma è altrettanto vero che per il cristiano il punto di partenza è la testimonianza. Le sfide sono andate nel frattempo rinnovandosi e crescendo di intensità, ma proprio per questo non è venuto meno lo stile di una presenza che interroga se stessa e il costume complessivo sugli esiti del processo di sviluppo e di secolarizzazione.

È davvero difficile essere santi in una vita tutta di corsa. In essa il concetto di tempo è stato rivoluzionato: ogni individuo non vive la propria storia in svolgimento tra passato, presente e futuro, ma si auto-percepisce soltanto nel presente. Gli uomini del fare sembrano del tutto incapaci di sottrarsi alla tirannia del tempo e delle informazioni. Passiamo infatti gran parte del nostro tempo a difenderci dal 99% delle informazioni inutili ai fini della nostra esistenza. E il medesimo ritmo ossessivo ha invaso le nostre abitudini al consumo. Buttare le cose acquistate risulta oramai  più gratificante che acquistarle. Questa è dunque una società che esige che la strada dal negozio al cassonetto sia la più breve. Assediati ovunque dai rifiuti, a Napoli, ma anche a Milano, ma anche a Edimburgo, ma anche a  Tokio e credo anche a Mosca. E il paradosso è tale che stiamo oramai narrando più cose di noi stessi con i rifiuti che con i cibi che stanno sulla tavola.

Quale santità dell’impegno quotidiano sarà mai possibile in un mondo siffatto? C’è in giro una qualche ipotesi di lavoro?

L’osservazione da fare è che non è la prima volta che ai cristiani accade di attraversare una sorta di terra di nessuno senza poter fare riferimento ad una mappa precisa. Con una teologia che non ha ancora trovato le parole. Non è tuttavia una buona ragione per sedersi sul ciglio della strada o per lasciarsi andare alle mormorazioni: è dimostrato infatti che le comunità lamentose non vanno da nessuna parte e non forniscono alcun contributo. E’ la voce dello Spirito che tuttavia va colta in ogni situazione, perché da ogni situazione lo Spirito ha modo di parlare ed è più volte detto nelle Scritture che lo Spirito si fa beffe delle nostre recinzioni confinarie.

La sfida di Martini

Si è detto all’inizio che l’impegno dei cristiani riguarda l’impossibile. Impossibile ovviamente per quel che attiene allo specifico della vocazione del credente nello spazio  pubblico: la santità della vita quotidiana. E’ il cardinal Martini a proporre in tale guisa la questione e a condurci sulla via della soluzione. Scrive infatti: “Tale apparente contraddittorietà è il paradosso della nostra vita cristiana: un eroismo semplice, una normalità esemplare, una sublimità a noi vicina, una santità popolare”[4]. Prendo le mosse da una meditazione del Cardinale tenuta al Centro Pastorale Paolo VI di Milano il 17 dicembre 1989. Sono passati venticinque anni, eppure la sua puntualità appare bruciante.

Martini richiama l’attenzione sul capitolo undicesimo di Matteo, là dove Gesù di Nazareth fa rispondere al Battista: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11, 4-6).

Chiosa Martini: “La risposta di Gesù non è diretta bensì allusiva, biblica, pregnante, concreta, che obbliga a pensare e a riflettere: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete”. E’ una riposta affidata all’esperienza intelligente dei fatti, di sei fatti: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella. Sei eventi che richiamano alla memoria degli uditori le parole dei profeti”.

Siamo così chiamati a riflettere sul paradosso di sei risanamenti impossibili. Una risposta che tende a stupire, a provocare, ad aprire interrogativi più che a chiudere domande, che viaggia appunto lungo il percorso dell’impossibilità. Martini ci invita pertanto a sostare, a provare una comparazione. Scrive infatti: “Per penetrare nel messaggio biblico, ci chiediamo se nella Scrittura ci sono altri casi in cui condizioni di impossibilità naturale vengono capovolte. Uno di essi è espresso dallo stesso Matteo quando Gesù, dopo aver visto che il giovane ricco se ne era andato via senza ascoltare la sua parola dice: “Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt 19, 24)”. L’insistenza non è fuori luogo: “Al contrario, coloro che vogliono arricchire cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L’attaccamento al denaro è infatti la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono tormentati da se stessi con molti dolori (Tm 6, 6-10)”.

Tutto concorre nel procedimento martiniano a preparare e formulare l’interrogativo di fondo perché la domanda che nasce dal Vangelo si fa bruciante: è possibile la santità nella vita del cristiano impegnato nel mondo contemporaneo? Dovremmo rispondere che concretamente non è possibile. Così come non è possibile che i sordi odano e che i ciechi vedano. Che non è per nulla sufficiente un po’ più di buona volontà, un po’ più di darsi da fare. Le circostanze storiche della vita sono tali che l’essere in possesso di certe capacità, prerogative, poteri è molto difficilmente compatibile con la santità della vita e col regno dei cieli: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”.

La logica del procedimento pare non lasciare scampo: “Già non è facile essere cristiano e vivere il Vangelo nelle relazioni brevi, quotidiane, immediate, della famiglia, del lavoro. Già non è facile essere santi nelle decisioni riguardanti la propria sfera privata. Tuttavia nella sfera privata si può dare spazio all’ascetismo, per esempio, alla rinuncia, proprio perché questo tocca solo me e le mie abitudini. La radicalità del Vangelo nella vita privata non disturba troppo gli altri nell’ordine esterno delle cose. […] Ma occuparsi della cosa pubblica, avere a che fare con livelli non ordinari di denaro, di decisioni amministrative significa entrare in qualche modo nel campo della ricchezza, nelle spine della parabola; anche se privatamente uno può essere molto distaccato, però è ingabbiato in un sistema che gli rende tutto difficile”.

Ci si chiede come procedere, e se procedere sia possibile. L’indicazione di Martini è ancora una volta chiara: “Che cosa dire allora? La parola evangelica non cade su situazioni che andrebbero bene anche da sole.” Se è chirurgica, non è chirurgia estetica. Chiede  sequela e testimonianza. Tanto è vero che stiamo imbrogliando le carte. Invece di testimoniare, si organizzano convegni sui valori. Ma è una parziale e cattiva riduzione quella che considera il Vangelo un prontuario etico. I credenti non sono semplici sentinelle dell’etica. Il cristiano non è neppure un apocalittico o un impaziente; è più semplicemente un perseverante. Per questo il Cardinale insiste nel sottolineare che la parola evangelica “cade su situazioni impossibili, umanamente disperate, su situazioni in cui un realismo sobrio si accontenterebbe di tenere in alto gli ideali lasciando poi a ciascuno di fare ciò che può. Il Vangelo cade su una situazione in cui si è colta la condizione dei ciechi, dei lebbrosi e dei morti e su questa situazione rifulge come buona notizia la novità sconvolgente della parola di Dio: è possibile che i ciechi vedano, che i sordi odano, è possibile la santità come grazia, come dono dall’alto, e non come rimedio a qualche cosa che andrebbe già abbastanza da sé”. La soluzione del problema è proprio nel brano del giovane ricco, quando Gesù dice: “Ve lo ripeto, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” e poiché i discepoli sono costernati e gli chiedono chi potrà salvarsi aggiunge: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile” (Mt 19,26)”.

L’insistenza sul paradosso da parte di Martini non dà tregua: “Questa parola, che riassume in sé il senso di tutte le Scritture, è la parola detta a Maria dall’angelo: “Nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). E’ la parola che caratterizza la fede di Abramo che “credette che Dio dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono” (Rm 4,17). Qui si fonda la possibilità della santità cristiana, non solo privata, ma pure pubblica, sociale, non solo personale, ma civile e religiosa: sulla intuizione della forza sconvolgente del Vangelo”.

Mi viene in mente che il poeta Machado ricorda che solo a chi cammina si apre il cammino.

La lezione di Bonhoeffer

Il cristiano su questa terra cerca dunque Dio, che è l’equivalente della sua felicità e di quella dei fratelli. La speranza, i grandi progetti e la concretezza della diaconia, capace di ricostruire comunità, sono i segni della sua presenza nella storia. Nessuno ha meglio posto il problema in epoca contemporanea del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, impiccato dai nazisti dopo l’attentato fallito ad Hitler.

In Italia gli anni Sessanta e Settanta hanno visto una lettura di massa dei testi bonhoefferiani, in particolare delle lettere dal carcere di Tegel raccolte nel volume di Resistenza e Resa.[5] Proprio perché in Bonhoeffer la fede e l’intelligenza della fase storica si incontrano  nella testimonianza della sequela, che implica comunque sempre un rapporto con la comunità ecclesiale. Qui la sua attualità.

E oggi, quando è in gioco una civiltà e una visione della vita?

Chi in Occidente ha posto con più lucidità e drammaticità del problema è ancora una volta il teologo tedesco. Suo è anche l’ammonimento su Resistenza e Resa, divenuto non a caso il titolo del suo libro più celebre, contenente, come si è detto, le lettere dal carcere.

Proprio Bonhoeffer, interrogandosi verso la fine della seconda guerra mondiale, pone il tema in tutte le sue profonde valenze: “Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al “destino”. Don Chisciotte è il simbolo della resistenza portata avanti fino al nonsenso, anzi alla follia… Sancho Panza è il rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato”.[6] È in gioco una civiltà, una visione della vita, un quadro di valori, ma non soltanto.

Bonhoeffer dice che c’è di più, molto di più: Dio stesso è in gioco e ci viene incontro o si allontana da noi. Scrive infatti: “Dio non ci incontra solo nel “tu”, ma si “maschera” anche nell’”esso”, ed il mio problema in sostanza è come in questo “esso” (“destino”) possiamo trovare il “tu” o, in altre parole, come dal “destino” nasca effettivamente la “guida”. I limiti tra resistenza e resa non si possono determinare dunque sul piano dei principi; l’una e l’altra devono essere presenti e assunte con decisione. La fede esige questo agire mobile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione che di volta in volta ci si presenta”.[7]

La condizione che stiamo attraversando

La fase storica che stiamo attraversando è segnata da una crisi profonda, prima finanziaria e poi sociale e quindi antropologica, caratterizzata da una mobilità crescente. Tanta mobilità implica mescolanza, anche di culture, incontri di confessioni religiose, meticciato e, soprattutto, pone un problema di accoglienza, mai storicamente presentatosi in maniera tanto estesa ed anche profonda. Noi tutti viviamo, qualsiasi sia la nazione di appartenenza, un mondo oltre i confini e le sovranità. Oltre gli ordini antichi. Circostanze e problemi che toccano tutti gli ambiti sociali, la comunicazione, i media, facebook, twitter… Il mondo cioè ci si presenta come un processo irreversibile di nuove mobilità e nuove mescolanze.

La domanda non è se vogliamo fermare questi processi, ma se in quanto credenti abbiamo l’intelligenza e il coraggio di prendere sul serio questo innegabile segno dei tempi, contrastando le insorgenti paure che dentro di noi e fuori di noi ci spingerebbero a viverlo come una pericolosa minaccia per il nostro benessere e il nostro futuro. Non stiamo seduti sul cratere di un vulcano e neppure su un pacco contenente una bomba a orologeria.

Si tratta peraltro di fenomeni e trends che in maniera non del tutto inedita hanno attraversato i secoli, ma che oggi  per quantità e qualità  hanno superato ogni soglia fin qui sperimentata. Mai prima d’ora l’umanità è apparsa così collegata e così conflittuale, così mobile, così interdipendente e così poco solidale. In essa il rifiuto dell’altro (si pensi ad esempio alla tragedia siriana dove in un medesimo Paese il concetto di lotta di liberazione si è presto imbastardito) si accompagna a una prossimità fisica e tecnologica che crea fastidio e conflitto. Le legislazioni nazionali e gli organismi creati nell’immediato dopoguerra a Bretton Woods dall’Onu sono impotenti a controllare la nuova qualità e intensità della vita che abita il pianeta. Lasciando drammaticamente spazi internazionali alla malavita e alle mafie, il cui potere va crescendo in maniera esponenziale.

Vi è chi – con acutezza – ha paragonato la condizione attuale a quella che suggerì a Galileo l’intuizione che la terra non era una superficie piatta, ma un globo rotondo testimoniato dalla curvatura dell’orizzonte. Certamente la scoperta galileiana non ha mutato di un centimetro il verso e la rotazione dei pianeti, ma ha contribuito a sconvolgere la visione del mondo scolastica e le menti dei contemporanei ed anche le nostre. La mobilità umana non può dunque essere fermata. Rende anzi urgente una nuova mobilitazione delle nostre menti ponendole in grado di prendere atto di tutti gli elementi della situazione e di progettare un futuro dal quale non siano esiliate la speranza e la promessa del Regno.

Si tratta di uno sguardo e di una forma mentale chiamati ad accompagnarci dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, che segna la fine del mondo bipolare, della guerra fredda, delle ideologie ottocentesche. Una caduta che non ha aperto tranquille autostrade al libero pensare e alla democrazia. Fu illusione legittima, ma dobbiamo constatare che è presto svanita. Perché i punti di riferimento e di possibile coesione di questa umanità sono anche i punti che la dividono. L’attuale mancanza di governance internazionale ha quindi ragioni e radici che vengono prima delle ragioni politiche e della volontà di potenza.

Tutto ciò evidentemente, dal momento che interroga i cittadini del nuovo mondo, non può non interrogarli in quanto credenti. Non a caso i tentativi di governo si scontrano quotidianamente con nuove e impreviste emergenze. Al punto che governare significa confrontarsi, per sincopi successive, con sempre nuove e molto spesso impreviste emergenze. Laddove la discussione politica e i ritmi della democrazia hanno bisogno di un tempo almeno medio nel quale confrontarsi, capire, progettare, programmare.

Rispondere alle emergenze in tempo reale significa quindi reagire più con l’istinto che con la ragione, attrezzarsi a una provocazione, rabberciare piuttosto che amministrare. Un affanno che attraversa lo spazio pubblico e globale insieme alle nostre vite quotidiane. Per questo abbiamo l’impressione di passare da un disordine all’altro e che i nostri giorni siano inevitabilmente disordinati.

Come attrezzarci

Pare a me perciò evidente che la generosità della nostra fede e l’acutezza della nostra intelligenza saranno giudicate per la capacità di interpretare i cambiamenti, che vanno studiati e accompagnati dall’accoglienza e dalla coesione sociale, andando oltre gli alibi del “villaggio globale”. Allo stesso modo i nostri sistemi politici, le nostre democrazie verranno giudicate con lo stesso metro. Da qui l’interrogativo inevitabile: nel mondo che non cessa di cambiare a quali scelte prioritarie siamo chiamati?

La qualità delle nostre esistenze e delle nostre comunità verrà valutata intorno alla capacità di accoglienza, di inclusione, di apertura. È infatti compito evidente dei cristiani – insieme agli uomini di buona volontà – rendere il mondo un posto migliore per le generazioni future. Non lasciandoci scoraggiare dalla durezza delle difficoltà.

Basterebbe in proposito dare uno sguardo alla demografia europea che mostra un quadro preoccupante. Nel 1950 la popolazione in Europa rappresentava il 21,6% della popolazione mondiale. Oggi rappresenta solo il 10,7% e nel 2050 sarà solo il 7,7%. Questo significa che i giovani in Europa nel 1950 erano il 20% della popolazione, mentre oggi sono soltanto il 6,2%. Dati che dicono ovviamente quanto sia in crescita il numero degli europei anziani, con tutti i problemi in termini di sanità e di cura che la condizione comporta.

È  a questi uomini che va presentato il lieto annunzio ai poveri e vanno offerte le attenzioni di una nuova diaconia. Un modo molto concreto per ricordare e testimoniare che le nostre città – come diceva nel dopoguerra in Italia il sindaco “santo” di Firenze Giorgio La Pira – “sono vive”: vive per la loro storia relazionale ed umana, non soltanto per i muri e i monumenti, per una realtà cittadina che preesiste alla sovranità dello Stato Nazione.

Né dobbiamo temere che la nostra azione e l’impegno appaiano minoritari. Perché il cristianesimo degli inizi viaggia per minoranze che hanno il coraggio di testimoniare “fino al sangue”. (Il martirio non è infatti definitivamente escluso dall’orizzonte dei credenti.) E per tutte queste ragioni l’accoglienza non è soltanto l’evidenza di una diaconia che effonde la carità, ma la bussola del nostro futuro.

La responsabilità verso la storia

Tanto più in una fase come l’attuale dove la crisi globale, incominciata in quanto crisi finanziaria, si è via via trasformata in una sorta di imbuto delle crisi: economica, sociale, politica, culturale, etica. Davvero non basta una sola chiave per interpretarla. Davvero appare scadente teologia quella che attraversa talune assemblee di cristiani dove si ripete, quasi a cantare di notte per farsi coraggio, che “il credente ha una marcia in più”.

Bonhoeffer non fornisce ovviamente soluzioni, ma strumenti. Ripete, quasi a spaventare i benpensanti, che il suo intento è farsi uomo, non santo. Nessuna rincorsa dunque agli stereotipi di una impensabile canonizzazione, e del resto il Dio del quale si parla è un Dio che chiede semplicemente discernimento, coinvolgimento, responsabilità e decisione, senza tralasciare alcuna delle istanze trascendenti che accompagnano l’esistenza umana di quanti si professano non-credenti.

E infatti, se è vero, come scrive, che se il capo “permette al seguace che questi faccia di lui il suo idolo allora la figura del capo si trasforma in quella di corruttore… “, è altrettanto vero che vale per Bonhoeffer l’affermazione che troviamo nelle prime pagine di Fuga dalla libertà[8] di Eric Fromm: troppo comodo sarebbe concentrare colpa e responsabilità soltanto su Hitler per la Germania e Mussolini per l’Italia, senza tenere conto che alla loro smodata voglia di potere corrispondeva una altrettanto smodata voglia di asservimento nei rispettivi popoli. I conti con la libertà del resto si confrontano con unico vincolo: obbedienza a Dio e compassione per il prossimo. Non come faccio ad essere a posto, ma come posso essere utile.

Chi sa allora resistere? Solo chi sa liberarsi dalle ideologie. Senza fuggire la colpa e l’idea di colpa. Bonhoeffer ha piena coscienza di aver partecipato alla congiura per l’assassinio del Führer, e questa è posizione compiutamente luterana, tuttavia più colpevole sarebbe stato non fare nulla! Posizione che ritroveremo poi nella teologa Dorothee Solle. L’imperativo è di cercare il bene nella città nella quale si vive. Per questo l’assunzione di responsabilità è il principio dell’azione. Il Vangelo di Matteo è del resto inequivocabile: “Non chiunque mi dice  Signore Signore…”. Si intende allora quale sia la via: l’origine dell’azione non è il pensiero ma la disponibilità alla responsabilità. Un pensiero completamente al servizio del fare.

Tutto ciò non nasce né da improvvisazione né dal nulla. E’ ancora Bonhoeffer a rintracciarne le radici storiche nella splendida lettera dell’8 giugno 1944 ad Eberhard Bethge: “Il movimento nella direzione dell’autonomia dell’uomo (intendo con questo la scoperta delle leggi secondo le quali il mondo vive e basta a se stesso nella scienza, nella vita della società e dello Stato, nell’arte, nell’etica e nella religione), che ha inizio (non voglio entrare nella discussione sulla data precisa) all’incirca col XIII secolo, ha raggiunto nel nostro tempo una certa compiutezza. L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’“ipotesi di lavoro: Dio”. Nelle questioni riguardanti la scienza, l’arte e l’etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza “Dio”, e non meno bene di prima. Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano “Dio” viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno”.[9]

Si chiude la lunga stagione del “Dio-tappabuchi” e della religione come abito così fuori moda, opulento e pesante da soffocare la fede. E’ quel che definiamo “processo di secolarizzazione”, iniziato prima ad ovest e poi man mano propagatosi ad est del globo. Fino a de-cristianizzare e poi paganizzare società considerate profondamente religiose, come quella polacca. “Tanto più – chiosa Bonhoeffer – questa stessa evoluzione si autocomprende come anticristiana. Il mondo che ha raggiunto la consapevolezza di se stesso e delle leggi che regolano la sua vita è talmente sicuro di sé che la cosa ci risulta inquietante; qualche difetto di crescita e qualche fallimento non possono trarre in inganno il mondo sulla necessità della sua strada e della sua evoluzione; tutto questo viene messo in conto con virile freddezza e nemmeno un evento come questa guerra rappresenta un’eccezione”.

La trasparente, tragica ironia del teologo tedesco mette il dito nella piaga: il problema del “destino” continua a starci di fronte e ad interrogarci drammaticamente, sul piano individuale e su quello comunitario. Da una parte, una grande leggerezza, come di chi ha sottratto alla cultura illuministica dosi esagerate di ottimismo che pronosticano soltanto sorti   progressive… Dall’altra, gli uccelli del malaugurio e i profeti di sventura, che assegnano alla fede la funzione del lenimento quando non la professione del becchino, e che per farla intervenire hanno bisogno di dimostrare ogni volta che le cose volgono al peggio.

Quel che resta indubitabile ed in estensione è il processo di secolarizzazione. Con una sorpresa: la secolarizzazione non si presenta come l’epifania della ragione strumentale trionfante, bensì come un pieno di idoli. La gente non frequenta il confessionale e le guide spirituali della religione tradizionale, ma consulta (e paga) maghi e fattucchiere. Il bisogno del sacro, scacciato dalla porta, rientra da mille finestre. La circostanza cioè ci insegna due cose: la nostra sensibilità è diversa rispetto a quella di Bonhoeffer e alla tragica stagione che a lui è toccato vivere; in secondo luogo, il tema dei valori rimette in gioco una serie di rapporti che, a partire dal costume, riguardano fede, religione, cultura, spazio pubblico e potere. In particolare assistiamo al ritorno sulla scena pubblica delle religioni e delle chiese, con la riproposizione inevitabile della domanda di quale debba essere un corretto rapporto fra Stato e Chiesa, fra Stato e religioni diverse. L’idea, quindi, che la secolarizzata Europa costituisca il futuro degli altri popoli ancora immersi nella religione sembra oggi ribaltarsi. È l’eccezione europea invece che si trova a dover fare  i conti con il risveglio delle religioni.

Un bisogno di comunità

Quel che più preoccupa l’uomo e il cristiano moderno e postmoderno è lo sfarinarsi di queste società. In effetti senza elementi di comunità le nostre società appaiono  incapaci di coesione – cioè di consistere in quanto società – e di sviluppo. Tutto ciò obbliga in particolare il credente a cercare gli strumenti del discernimento della realtà e della costruzione comunitaria. Una comunità che d’altra parte non può essere idealizzata, né per l’origine, né nel suo concreto svolgersi. Nella comunità cioè si danno inevitabilmente elementi eterogenei e non facilmente riconducibili ad armonia.

Osserva in proposito Luigino Bruni: “La non-elettività e l’interdipendenza sono la sostanza della comunità… La non-elettività della comunità inizia già nella prima comunità originale, la famiglia. Non  scegliamo né i genitori, né i figli, né fratelli e sorelle. E anche se è vero che scegliamo la moglie o il marito, è ancora più vero che ciò che negli anni dell’innamoramento scegliamo dell’altro coesiste con tutta una parte dell’altro che non abbiamo scelto, perché  sconosciuta a entrambi”.[10]

Va da sé allora che non tutti nella comunità ci sono simpatici. Dal momento che i gruppi umani dove esercitiamo le dimensioni più significative della nostra umanità non sono elettivi, nel senso molto palese che non li scegliamo e non siamo generalmente in grado di sceglierli.

Per questo sta dilagando lo sforzo di costruire gruppi e consorzi dai quali vengono espulsi diversi e dissimili, gruppi più propensi a discriminare e comandare che a condividere. In questa prospettiva il danaro, il Web, le nuove caste del privilegio e della tecnocrazia stanno già edificando un nuovo feudalesimo dove l’omogeneità dei soggetti partecipanti evita la “ferita” del diverso e si rivolge agli uomini con un comando da sopra e da fuori. È il modo attraverso il quale i nuovi poteri si autolegittimano estraniandosi dai corpi dei fratelli che faticano e soffrono.

Dall’Antico Testamento non ci abbandona la tentazione di costruire nuovamente la Torre di Babele (Genesi 11): un edificio che oggi concentra il massimo delle tecniche con il massimo della supponenza e della superbia che intendono dare l’assalto al cielo. E che neppure dissimula il massimo dell’avidità. Mentre invece la gioia del vivere comunitario non prescinde dalle diversità e dalle difficoltà che queste inducono, sovente alimentandosi di qualche confronto e qualche litigio. Per questo il credente preferisce la confusione dell’Arca che solca il diluvio alle simmetrie delle nuove Torri di Babele. Per questo l’accoglienza non fa rima con uniformità. Una tendenza che si esprime anche in quei gruppi che nascono attorno a interessi comuni, dallo slow food agli hobbies, dalla passione per il medesimo cantante al tifo per la stessa squadra di calcio. “La comunità senza diversità si trasforma presto in una forma di fondamentalismo, di idolo a se stessa”.[11]

Come Cristo stesso

Bonhoeffer, come è risaputo, non fa sconti né nell’impostazione né nello svolgimento. “Il contenuto del messaggio cristiano non sta nel diventare simili a uno di quei personaggi biblici, ma nell’essere come Cristo stesso. Nessun metodo conduce a questa meta, ma soltanto la fede. Altrimenti l’Evangelo perderebbe il suo prezzo, il suo valore. La grazia che costa diventerebbe grazia a buon mercato”.[12]

E infatti il cristiano che vive di fede muove i suoi passi quotidiani in quella che comunemente si definisce “realtà profana” e che Bonhoeffer ribattezza “cose penultime”, per rapporto, appunto, alle “ultime”, cui sono relative e dalle quali traggono senso e illuminazione. Un relativismo “dichiarato”.

Quindi ci troviamo a parlare “anche delle realtà penultime, non perché abbiano un qualsiasi valore in sé stesse, ma per mettere in luce il loro rapporto con le cose ultime. A motivo delle realtà ultime bisogna parlare di queste penultime. Ciò va spiegato. Poniamo, senza subito rispondervi, alcune domande: l’uomo può vivere soltanto delle realtà ultime? E’ possibile estendere, per così dire, la fede nel tempo? Oppure essa diventa reale sempre e soltanto come fatto ultimo di un periodo o di vari periodi della vita? Non stiamo parlando del ricordo di una fede passata né della ripetizione di formule dogmatiche, bensì della fede viva che giustifica una vita. Ci chiediamo se questa fede è e dovrebbe essere realizzabile giorno per giorno e ora per ora o se anche in questo caso si debba sempre di nuovo percorrere la via delle realtà penultime prima di giungere alle ultime. Ci poniamo dunque il problema delle realtà penultime nella vita del cristiano: negarle è una pia menzogna? o è una colpa il prenderle sul serio? Con questa domanda se ne presuppone un’altra: è possibile estendere nel tempo la parola, l’Evangelo, cosicché lo si possa annunziare in qualsiasi momento nello stesso modo? ovvero bisogna distinguere anche in questo caso tra cose ultime e penultime?”.[13]

La gamma degli interrogativi difficilmente riuscirebbe ad essere più puntuale. Ma la rigorosa barra bonhoefferiana evita gli scogli contrapposti della radicalizzazione e del compromesso per riaffermare l’esigenza di attenersi alle realtà penultime proprio a motivo del riferimento alle ultime, dal momento che “la vita cristiana non è fatta né di radicalismo né di compromesso”. E dunque “non è seria né l’idea di un cristianesimo puro né l’idea del prendere l’uomo così com’è; seria è soltanto la realtà di Dio e la realtà dell’uomo divenute una cosa sola in Cristo. Quel che è serio non è un cristianesimo o l’altro, ma Gesù Cristo stesso; in lui il radicalismo e il compromesso lasciano il posto alla realtà di Dio e dell’uomo. Non esiste un cristianesimo in sé, distruggerebbe il mondo; non esiste un uomo in sé, escluderebbe Dio. L’uno e l’altro sono soltanto idee: solo il Dio-uomo Gesù Cristo è reale e mantiene in vita il mondo finché sia maturo per la fine”.[14]

Da questa posizione si evidenzia come il radicalismo nasca sempre da un odio conscio o inconscio per ciò che esiste, mentre il compromesso nasce sempre dall’odio per le realtà ultime.

“Il radicalismo odia il tempo, il compromesso odia l’eternità; il radicalismo odia la pazienza, il compromesso odia la decisione; il radicalismo odia la prudenza, il compromesso la semplicità; il radicalismo odia la misura, il compromesso l’immensurabile; il radicalismo odia la realtà, il compromesso la Parola”.[15]

E invece? Invece “la vita cristiana è partecipazione all’incontro di Cristo con il mondo”.[16]

Un rapido attraversamento

Perché questo rapido attraversamento di Bonhoeffer? Perché nell’Etica l’autonomia delle realtà terrene (“penultime”) è affermata nella sua inscindibile relazione con le cose ultime. E proprio in questa relazione essa consiste corposamente, con una irriducibilità che la dispone al trascendente (dal quale è disposta).

L’approccio è semplicemente disarmante: Dio sta con gli uomini, e se la religione si svuota di umanità, Dio sta con gli uomini e tralascia la religione. L’interpretazione non-religiosa significa in Bonhoeffer che Dio vuole essere creduto in Gesù Cristo Crocifisso, senza alcuna utilità. La vera trascendenza sta qui.

Non ci aiutano molto gli approcci troppo dotti. Bonhoeffer ha solamente mantenuto fede a una sua affermazione iniziale: che Dio non può che essere in mezzo al mondo, anche se il mondo è senza Dio, perché Cristo si rende responsabile del mondo davanti a Dio. La struttura fondamentale della religione consiste dunque nel completare la realtà con Dio. L’impossibile all’uomo che – secondo il cardinale Martini –  Dio rende possibile.

La struttura fondamentale dell’irreligione è di presentare la realtà senza Dio. La struttura fondamentale della fede è di mantenere la realtà davanti a Dio. In questo senso la fede è concreta e la “mondanità” è per la fede nel medesimo tempo necessità e dono.


[1] Giovanni1, 4,20.

[2] Matteo 25, 35.

[3] A Diogneto, cap. V.

[4] Citato da Michele Giacomantonio in  Florenza che ha svegliato l’aurora, San Paolo, Torino, p. 403.

[5] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo, Milano 1988.

[6] Ivi, p. 289.

[7] Ivi, pp. 289-290.

[8] Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano 1994.

[9] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, op. cit., pp. 398-399.

[10] Luigino Bruni, La buona città dei “diversi” e la Babele delle caste chiuse, in “Avvenire”, domenica 26 gennaio 2014, p. 3.

[11] Ibidem.

[12] Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1983, p. 106.

[13] Ivi, p. 107.

[14] Ivi, p. 110.

[15] Ivi, p. 111.

[16] Ivi, p. 113.

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Essere cristiani nel mondo contemporaneo (versione ridotta)

Il rapporto con la contemporaneità

Si può essere cristiani soltanto in questo mondo, perché è pensabile che Dio, padre di tutti gli uomini, non vorrà distinguere tra le varie confessioni e i diversi percorsi religiosi quando ci interrogherà nel Giudizio finale. Diceva sul letto di morte don Lorenzo Milani ai ragazzi della  sua Scuola di Barbiana, presso Firenze: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho fiducia che Lui non badi a simili sottigliezze e metta tutto sul suo conto”.

Il Dio dei credenti non fa distinzione tra verticale ed orizzontale, non segna un confine netto per le sue creature tra mondo naturale e sopranaturale, dice anzi che il Giudizio finale ci vedrà interrogati sul rapporto con i nostri fratelli, perché è scritto nella Prima Lettera di Giovanni[1] che chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Dunque: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere”[2]… Le domande dell’esame finale ci sono infatti note perché ci sono state anticipate da Lui.

E si può essere cristiani soltanto in questo mondo perché soltanto questo mondo ci è dato in dono di vivere. Il nostro cristianesimo cioè si gioca tutto nella contemporaneità. Il che tuttavia non condanna il cristiano ad essere prigioniero della contemporaneità, perché il credente e tutti i figli di Dio vivono la comunione dei santi.

Compito del cristiano è fare i conti con la storia nel momento del suo farsi. Che è l’impegno del testimone e il carico di una inevitabile profezia, anche modesta. Il nostro cristianesimo di tutti i giorni non ha sempre fortunatamente bisogno di eroi. In questo senso la vita contemporanea presenta un pericolo di sviamento nel nulla perché ha progressivamente sostituito ai testimoni i testimonials, che sono la caricatura del testimone autentico e credibile. Il Vangelo li accuserebbe d’essere “falsi profeti”.

Il problema

Qual è il problema dei cristiani nel mondo contemporaneo? L’attualità? L’identità? L’efficacia? Il successo? La grazia? La sequela? La tensione all’eterno? Scegliere il tema implica scegliere un punto di vista. Pare a me che ciò che caratterizza il cristiano é, come sempre, la realizzazione di ciò che è impossibile all’uomo, ma possibile a Dio. Una realizzazione non garantita, giocata nel confronto con le difficoltà storiche e l’imprevedibilità di un futuro incerto. Con la garanzia tuttavia che la parola del Vangelo, il lieto annunzio ai poveri, interviene in situazioni che non si aggiusterebbero comunque da sole.

Un impegno necessario e dovuto

Si tratta in ogni caso di un impegno necessario dovuto. Per il patto solidale che lega fin dai tempi antichi i cittadini. Il grande Aristotele, che pure non veniva considerato eccessivamente pio, affermava non a caso che il fondamento del governo della città è l’amicizia. L’amicizia di chi vuole condividere non soltanto un territorio, ma il bene comune della comunicazione, e si sforza, nonostante tutto e controcorrente, di rimettere al primo posto, dentro e fuori i confini del proprio Paese, non tanto le cose e il loro possesso, ma la relazione tra le persone.

Un impegno necessario e dovuto perché la vocazione del credente non si circoscrive nell’individuo; per lui non esiste società se non tenuta insieme dal cemento della comunità.

Affrontare questo tema significa domandarsi che cosa voglia dire essere cristiani nella città di oggi. Noi tutti abbiamo conoscenza storica del fatto che il cristianesimo ha scosso fin dalle origini la società del tempo. Non a caso le parole di Gesù il Nazareno risultarono da subito eversive per la teocrazia giudaica.

All’inizio l’autoesclusione faceva parte di una lotta anti-idolatrica. Ma le cose progressivamente evolvono e nella lettera A Diogneto (da collocare tra la metà del II secolo e l’inizio del III ) i cristiani vengono descritti come coloro che condividono i beni di tutti i cittadini. Non condividono però i letti e non espongono i figli. Col linguaggio odierno potremmo affermare che essi si erano andati man mano radicando nel tessuto della società civile.

Da allora è passato molto tempo. E se è vero che i credenti si sono trovati poi a fare conti durissimi con la modernità, è altresì vero che la loro testimonianza è risultata tale da rendere accessibile la santità a tutte le persone. Perciò diciamolo una volta per tutte: il compito del credente non è soltanto proclamare che l’impegno civico è doveroso, ma testimoniare che questo medesimo impegno non è cosa opposta o diversa dalla santità della vita quotidiana.

Ho sentito ripetere lungo tutta la mia esistenza che la politica non può essere ridotta a testimonianza. E’ certamente vero. Ma è altrettanto vero che per il cristiano il punto di partenza è la testimonianza.

È davvero difficile essere santi in una vita tutta di corsa. Gli uomini di oggi, basati e giudicati sul fare,  sembrano del tutto incapaci di sottrarsi alla tirannia del tempo e delle informazioni. Passiamo infatti gran parte del nostro tempo a difenderci dal 99% delle informazioni inutili ai fini della nostra esistenza. E il medesimo ritmo ossessivo ha invaso le nostre abitudini al consumo. Buttare le cose acquistate risulta oramai  più gratificante che acquistarle. E il paradosso è tale che stiamo oramai narrando più cose di noi stessi con i rifiuti che con i cibi che stanno sulla tavola.

Quale santità dell’impegno quotidiano sarà mai possibile in un mondo siffatto? C’è in giro una qualche ipotesi di lavoro?

L’osservazione da fare è che non è la prima volta che ai cristiani accade di attraversare una sorta di terra di nessuno senza poter fare riferimento ad una mappa precisa. Con una teologia che non ha ancora trovato le parole. Non è tuttavia una buona ragione per sedersi sul ciglio della strada o per lasciarsi andare alle mormorazioni: è dimostrato infatti che le comunità lamentose non vanno da nessuna parte e non forniscono alcun contributo. E’ la voce dello Spirito che tuttavia va colta in ogni situazione, perché da ogni situazione lo Spirito ha modo di parlare ed è più volte detto nelle Scritture che lo Spirito si fa beffe delle nostre recinzioni confinarie.

La sfida di Martini

Si è osservato all’inizio che l’impegno dei cristiani riguarda l’impossibile. Impossibile ovviamente per quel che attiene allo specifico della vocazione del credente nello spazio  pubblico: la santità della vita quotidiana. E’ il cardinal Martini a proporre in questo modo la questione e a condurci sulla via della soluzione.

Martini richiama l’attenzione sul capitolo undicesimo di Matteo, là dove Gesù di Nazareth fa rispondere al Battista: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11, 4-6).

Dice Martini: “La risposta di Gesù non è diretta bensì allusiva, biblica, pregnante, concreta, che obbliga a pensare e a riflettere: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete”. E’ una risposta affidata all’esperienza intelligente dei fatti, di sei fatti: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella. Sei eventi che richiamano alla memoria degli uditori le parole dei profeti”.

Tutto concorre nel pensiero del Cardinale a preparare e formulare l’interrogativo di fondo perché la domanda che nasce dal Vangelo si fa bruciante: è possibile la santità nella vita del cristiano impegnato nel mondo contemporaneo? Dovremmo rispondere che concretamente non è possibile. Così come non è possibile che i sordi odano e che i ciechi vedano. Che non è per nulla sufficiente un po’ più di buona volontà, un po’ più di darsi da fare. Le circostanze storiche della vita sono tali che l’essere in possesso di certe capacità, prerogative, poteri è molto difficilmente compatibile con la santità della vita e col regno dei cieli: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt 19, 24).

Ci si chiede come procedere, e se procedere sia possibile. L’indicazione di Martini è ancora una volta chiara quando insiste nel sottolineare che la parola evangelica “cade su situazioni impossibili, umanamente disperate, su situazioni in cui un realismo sobrio si accontenterebbe di tenere in alto gli ideali lasciando poi a ciascuno di fare ciò che può. Il Vangelo cade su una situazione in cui si è colta la condizione dei ciechi, dei lebbrosi e dei morti e su questa situazione rifulge come buona notizia la novità sconvolgente della parola di Dio: è possibile che i ciechi vedano, che i sordi odano, è possibile la santità come grazia, come dono dall’alto, e non come rimedio a qualche cosa che andrebbe già abbastanza da sé”.

Poiché i discepoli sono costernati e gli chiedono chi potrà salvarsi Gesù di Nazareth aggiunge: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile” (Mt 19,26)”.

L’insistenza sul paradosso da parte di Martini non dà tregua: “Questa parola, che riassume in sé il senso di tutte le Scritture, è la parola detta a Maria dall’angelo: “Nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). E’ la parola che caratterizza la fede di Abramo che “credette che Dio dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono” (Rm 4,17). Qui si fonda la possibilità della santità cristiana, non solo privata, ma pure pubblica, sociale, non solo personale, ma civile e religiosa: sulla intuizione della forza sconvolgente del Vangelo”.

La lezione di Bonhoeffer

Il cristiano su questa terra cerca dunque Dio, che è l’equivalente della sua felicità e di quella dei fratelli. La speranza, i grandi progetti e la concretezza del servizio, della ”diaconia”, capace di ricostruire comunità, sono i segni della presenza di Dio nella storia. Nessuno ha meglio posto il problema in epoca contemporanea del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, impiccato dai nazisti dopo l’attentato fallito ad Hitler.

Proprio perché in Bonhoeffer la fede e l’intelligenza della fase storica si incontrano  nella testimonianza del “seguire Gesù” , che implica comunque sempre un rapporto con la comunità ecclesiale. Qui la sua attualità.

È oggi in gioco una civiltà, una visione della vita, un quadro di valori, ma non soltanto. Bonhoeffer dice che c’è di più, molto di più: Dio stesso è in gioco e ci viene incontro mentre si allontana da noi. Scrive infatti: “Dio non ci incontra solo nel “tu”, ma si “maschera” anche nell’”esso”, ed il mio problema in sostanza è come in questo “esso” (“destino”) possiamo trovare il “tu” o, in altre parole, come dal “destino” nasca effettivamente la “guida”.[3]

La condizione che stiamo attraversando

Sentiamo ripetere con insistenza che la fase storica che stiamo attraversando è segnata da una crisi profonda, prima finanziaria e poi sociale, e quindi antropologica, caratterizzata da una mobilità crescente. Tanta mobilità implica mescolanza, anche di culture, incontri di confessioni religiose, meticciato e, soprattutto, pone un problema di accoglienza, mai storicamente presentatosi in maniera tanto estesa ed anche profonda. Noi tutti viviamo, qualsiasi sia la nazione di appartenenza, un mondo oltre i confini e le sovranità. La domanda non è se vogliamo fermare questi processi, ma se in quanto credenti abbiamo l’intelligenza e il coraggio di prendere sul serio questo innegabile segno dei tempi, contrastando le insorgenti paure che dentro di noi e fuori di noi ci spingerebbero a viverlo come una pericolosa minaccia per il nostro benessere e il nostro futuro. Mai prima d’ora l’umanità è apparsa così collegata e così conflittuale, così mobile, così interdipendente e così poco solidale.

La mobilità umana non può dunque essere fermata. Rende anzi urgente una nuova mobilitazione delle nostre menti ponendole in grado di prendere atto di tutti gli elementi della situazione e di progettare un futuro dal quale non siano esiliate la speranza e la promessa del Regno.

Tutto ciò evidentemente, dal momento che interroga i cittadini del nuovo mondo, non può non interrogarli in quanto credenti.

Come attrezzarci

Pare a me perciò evidente che la generosità della nostra fede e l’acutezza della nostra intelligenza – ossia il nostro discernimento – saranno giudicate per la capacità di interpretare i cambiamenti, che vanno studiati e accompagnati dall’accoglienza e dalla coesione sociale. Allo stesso modo i nostri sistemi politici, le nostre democrazie verranno giudicate con lo stesso metro.

La qualità delle nostre esistenze e delle nostre comunità verrà valutata intorno alla capacità di accoglienza, di inclusione, di apertura. È infatti compito evidente dei cristiani – insieme agli uomini di buona volontà – rendere il mondo un posto migliore per le generazioni future. Non lasciandoci scoraggiare dalla durezza delle difficoltà.

Né dobbiamo temere che la nostra azione e l’impegno appaiano minoritari. Perché il cristianesimo degli inizi era una minoranza che aveva il coraggio di testimoniare “fino al sangue”.  E per tutte queste ragioni l’accoglienza non è soltanto l’evidenza di un servizio, una “diaconia” che effonde carità, ma la bussola del nostro futuro.

La responsabilità verso la storia

Tanto più in una fase come l’attuale dove la crisi globale, incominciata in quanto crisi finanziaria, si è via via trasformata in una sorta di imbuto delle crisi: economica, sociale, politica, culturale, etica. Davvero non basta una sola chiave per interpretarla.

Bonhoeffer ripete, quasi a spaventare i benpensanti, che il suo intento è farsi uomo, non santo. L’imperativo è di cercare il bene nella città nella quale si vive. Per questo l’assunzione di responsabilità è il principio dell’azione. Il Vangelo di Matteo è del resto inequivocabile: “Non chiunque mi dice  Signore Signore…”. Si intende allora quale sia la via: l’origine dell’azione non è il pensiero ma la disponibilità alla responsabilità. Un pensiero completamente al servizio del fare che però non nasce né da improvvisazione né dal nulla.

E’ ancora Bonhoeffer a rintracciarne le radici storiche nella splendida lettera dell’8 giugno 1944 ad Eberhard Bethge: “L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’“ipotesi di lavoro: Dio”. Nelle questioni riguardanti la scienza, l’arte e l’etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza “Dio”, e non meno bene di prima. Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano “Dio” viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno”.[4]

Si chiude in tal modo la lunga stagione del “Dio-tappabuchi” e della religione come abito così fuori moda, opulento e pesante, da soffocare la fede.

Quel che resta indubitabile ed in estensione è il processo di secolarizzazione. Con una sorpresa: la secolarizzazione non si presenta come la vittoria della ragione, bensì come un pieno di idoli. La gente non frequenta più le guide spirituali della religione tradizionale, ma consulta (e paga) maghi e fattucchiere. Il bisogno del sacro, scacciato dalla porta, rientra da mille finestre.

Assistiamo dunque al ritorno sulla scena pubblica delle religioni e delle chiese, con la riproposizione inevitabile della domanda di quale debba essere un corretto rapporto fra Stato e Chiesa, fra Stato e religioni diverse. Sembra oggi ribaltarsi l’idea che la secolarizzata Europa possa essere il futuro degli altri popoli, ancora immersi nella religione, È l’eccezione europea invece che si trova a dover fare  i conti con il risveglio delle religioni.

Un bisogno di comunità

Quel che più preoccupa l’uomo e il cristiano moderno e postmoderno è lo sfarinarsi di queste società. In effetti senza elementi di comunità le nostre società appaiono  incapaci di coesione – cioè di consistere in quanto società – e di sviluppo. Tutto ciò obbliga in particolare il credente a cercare gli strumenti del discernimento della realtà e della costruzione comunitaria. Una comunità che d’altra parte non può essere idealizzata, né per l’origine, né nel suo concreto svolgersi: non tutti nella comunità ci sono simpatici… I gruppi umani dove esercitiamo le dimensioni più significative della nostra umanità non sono elettivi, nel senso che non li scegliamo e non siamo generalmente in grado di sceglierli come, ad esempio, nostra madre e nostro padre.[5]

Per questo sta dilagando lo sforzo di costruire gruppi e consorzi dai quali vengono espulsi i diversi e i dissimili: gruppi più propensi a discriminare e comandare che a condividere. È il modo attraverso il quale i nuovi poteri si legittimano e le élites globali si organizzano, staccandosi dai corpi dei fratelli che faticano e soffrono. Mentre invece la gioia del vivere comunitario non prescinde dalle diversità e dalle difficoltà che queste inducono, sovente alimentandosi di qualche confronto e qualche litigio. Per questo il credente preferisce la confusione dell’Arca che solca il diluvio alle simmetrie delle nuove Torri di Babele. Per questo l’accoglienza non fa rima con uniformità. Tuttavia la tendenza a raccogliersi tra affini si esprime anche in quei gruppi che nascono attorno a interessi comuni, dallo slow food agli hobbies, dalla passione per il medesimo cantante, al tifo per la stessa squadra di calcio. Resta però evidente che “la comunità senza diversità si trasforma presto in una forma di fondamentalismo, di idolo a se stessa”.[6]

Come Cristo stesso

Bonhoeffer (a lui dobbiamo tornare) non fa sconti né nell’impostazione né nello svolgimento. “Il contenuto del messaggio cristiano sta nell’essere come Cristo stesso. Nessun metodo conduce a questa meta, ma soltanto la fede. Altrimenti l’Evangelo perderebbe il suo prezzo, il suo valore. La grazia che costa diventerebbe grazia a buon mercato”.[7] E infatti il cristiano che vive di fede muove i suoi passi quotidiani in quella che comunemente si definisce “realtà profana” e che Bonhoeffer ribattezza “cose penultime”, per rapporto, appunto, alle “ultime”, cui sono relative e dalle quali traggono senso e illuminazione.

Quindi ci troviamo a parlare “anche delle realtà penultime, non perché abbiano un qualsiasi valore in sé stesse, ma per mettere in luce il loro rapporto con le cose ultime. Per conoscere le realtà ultime bisogna parlare di queste penultime. Ciò va spiegato. Poniamo, senza subito rispondervi, alcune domande: l’uomo può vivere soltanto delle realtà ultime? E’ possibile estendere, per così dire, la fede nel tempo? Oppure essa diventa reale sempre e soltanto come fatto ultimo di un periodo o di vari periodi della vita? Ci chiediamo se questa fede è e dovrebbe essere realizzabile giorno per giorno e ora per ora o se anche in questo caso si debba sempre di nuovo percorrere la via delle realtà penultime prima di giungere alle ultime. Ci poniamo dunque il problema delle realtà penultime nella vita del cristiano: negarle è una pia menzogna? o è una colpa il prenderle sul serio? Con questa domanda se ne presuppone un’altra: è possibile estendere nel tempo la parola, l’Evangelo, cosicché lo si possa annunziare in qualsiasi momento nello stesso modo? ovvero bisogna distinguere anche in questo caso tra cose ultime e penultime?”.[8]

Bonhoeffer riafferma l’esigenza di attenersi alle realtà penultime proprio a motivo del riferimento alle ultime, dal momento che “la vita cristiana non è fatta né di radicalismo né di compromesso”. E dunque “non è seria né l’idea di un cristianesimo puro né l’idea del prendere l’uomo così com’è; seria è soltanto la realtà di Dio e la realtà dell’uomo divenute una cosa sola in Cristo. Quel che è serio non è un cristianesimo o l’altro, ma Gesù Cristo stesso; in lui il radicalismo e il compromesso lasciano il posto alla realtà di Dio e dell’uomo. Non esiste un cristianesimo in sé, distruggerebbe il mondo; non esiste un uomo in sé, escluderebbe Dio. L’uno e l’altro sono soltanto idee: solo il Dio-uomo Gesù Cristo è reale e mantiene in vita il mondo finché sia maturo per la fine”.[9]

Un rapido attraversamento

Perché questo rapido attraversamento di Bonhoeffer? Perché l’approccio è semplicemente disarmante: Dio sta con gli uomini, e se la religione si svuota di umanità, Dio sta con gli uomini e tralascia la religione. Dio vuole essere creduto in Gesù Cristo Crocifisso, senza alcuna utilità. La vera trascendenza sta qui.

Bonhoeffer ha costantemente mantenuto fede a una sua affermazione iniziale: che Dio non può che essere in mezzo al mondo, anche se il mondo è senza Dio, perché Cristo si rende responsabile del mondo davanti a Dio. La struttura fondamentale della religione consiste dunque nel completare la realtà con Dio. L’impossibile all’uomo che – secondo il cardinale Martini –  Dio rende possibile.

La struttura fondamentale della fede è di mantenere la realtà davanti a Dio. In questo senso la fede è concreta e il mondo è per la fede nel medesimo tempo necessità e dono.


[1] Giovanni1, 4,20.

[2] Matteo 25, 35.

[3] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo, Milano 1988. pp. 289-290.

[4] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, op. cit., pp. 398-399.

[5] Luigino Bruni, La buona città dei “diversi” e la Babele delle caste chiuse, in “Avvenire”, domenica 26 gennaio 2014, p. 3.

[6] Ibidem.

[7] Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1983, p. 106.

[8] Ivi, p. 107.

[9] Ivi, p. 110.

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