Fabio Milana, Bianca Beccalli, Maria Grazia Meriggi discutono l’operaismo degli anni sessanta.

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Corso di formazione alla politica“È una ricerca cominciata alla fine degli anni ’90 attraverso la raccolta di alcune testimonianze orali dei protagonisti della vicenda dell’operaismo degli anni ’60 e se ne trovano qui dentro 13, che poi sono diventate 13 interviste. Le prime furono pubblicate su Bailamme, la rivista all’interno della quale fecero da brodo di cultura per questo tipo di interessi. Ricordo quelle pubblicazioni  degli anni ’98, ’99 e 2000, delle prime testimonianze di Mario Tronti, Rita di Leo e Romano Arquati come minimo, perché  ricordo che circolarono abbastanza e credo abbiano fatto da modello anche per successivi libri di memorie e di testimonianze che negli ultimi anni non sono mancati. Quindi si è creato un materiale abbastanza importante, abbastanza interessante ma credo di poter dire che forse fu anticipata questa stagione proprio dall’intuizione di Pino Trotta di raccogliere e pubblicare per primo le testimonianze di questo genere.”

Fabio Milana, Bianca Beccalli, Maria Grazia Meriggi: l'operaismo degli anni sessanta.

1. il testo dell’introduzione di Giovanni Bianchi non è disponibile

2. leggi la trascrizione della relazione di Fabio Milana

3. leggi la trascrizione della relazione di Maria Grazia Meriggi

4. la trascrizione della relazione di Bianca Beccalli non è disponibile

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introduzione di Giovanni Bianchi (11’26”) – relazione di Fabio Milana (22’24”) – relazione di Maria Grazia Meriggi (28’22”) – relazione di Bianca Beccalli (44’09”) – domande (50’13”) – risposte Maria Grazia Meriggi (12’50”) – risposte Bianca Beccalli (9’46”) – chiusura di Giovanni Bianchi (2’28”)

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Trascrizione della relazione di Fabio Milana

Intanto ringrazio Giovanni per questa giornata e voi per la vostra presenza. Io quello che posso fare è di presentare questa ricerca, la sua storia interna, diciamo, perché poi nel merito, in modo più penetrante di me possono parlare appunto le gentili relatrici di oggi.

E’ una ricerca che è cominciata alla fine degli anni ’90, mi pare proprio nel dicembre del 1995, e quindi sono passati 12 anni da allora, ed è stata una ricerca abbastanza complessa e tortuosa come questa tempistica può fare intendere, articolata anche al suo interno dalla venuta meno  di chi l’aveva ideata, cioè di Giuseppe Trotta che mi piace ricordare all’inizio come del resto faceva Giovanni,  di questo nostro incontro.

Questa ricerca cominciò attraverso la raccolta di alcune testimonianze orali dei protagonisti della vicenda dell’operaismo degli anni ’60 e se ne trovano qui dentro 13, che poi sono diventate 13 interviste. Le prime furono pubblicate su Bailamme, la rivista all’interno della quale fecero da brodo di cultura per questo tipo di interessi. Ricordo quelle pubblicazioni  degli anni ’98, ’99 e 2000, delle prime testimonianze di Mario Tronti, Rita di Leo e Romano Arquati  come minimo, perché  ricordo che circolarono abbastanza e credo abbiano fatto da modello anche per successivi libri di memorie e di testimonianze che negli ultimi anni non sono mancati. Ne ho presenti almeno due. abbastanza importanti su questa stessa materia, talvolta con gli stessi personaggi, con tagli diversi eventualmente, però nell’ultimo decennio la produzione di memorie sull’operaismo degli anni ’60, e non solo, è stata abbastanza feconda. Quindi si è creato un materiale abbastanza importante, abbastanza interessante ma credo di poter dire che forse fu anticipata questa stagione proprio dall’intuizione di Pino Trotta di raccogliere e pubblicare per primo le testimonianze di questo genere.

D’altra parte, accanto a questo, c’era  l’archivio messo a disposizione da Mario Tronti e quindi di colui che, in modo riconosciutissimo, di quella vicenda fu il protagonista, in particolare di quella denominata “operaismo” e operaismo degli anni ’60. Dentro il quadro della frequentazione di queste persone (in parte questo riguardava anche me ed un altro di noi, Paolo Ribella,  che ha seguito questa vicenda nel corso di questi 12 anni) impegnate nella rivista Bailamme fu possibile anche per Mario Tronti affidare in qualche modo questo materiale del tutto inedito, non conosciuto, e quindi  per questo di primo ordine come si può capire, alle cure di Pino.

Questo erano un po’ le due fonti di questo materiale, di questa documentazione scritta, ripeto del tutto inedita, e poi la raccolta delle testimonianze orali, che in un certo senso ha preceduto lo studio dell’altra, e ha orientato un po’ inizialmente anche le pronunce, gli accenti su questo materiale che si venivano annotando.

Poi questa vicenda si interruppe nei rapporti con l’editore che in quel periodo sosteneva questo nostro lavoro e che lo ha sostenuto anche in seguito, salvo poi tirarsi indietro all’ultimo. Ciò ha consentito il subentro di una sigla molto pertinente come Derive Approdi che ha una collana che si chiama “Biblioteca dell’operaismo” e che ha pubblicato di recente “Operai e capitale”, cioè il classico di Mario Tronti su questa materia, abbandonato da Einaudi 40 anni dopo la prima edizione. Quindi, diciamo che la sede in cui compare questo studio è la più appropriata. Il rapporto con l’editore che indubbiamente ha sostenuto negli anni tutto questo è stato importante anche con i suoi stop and go e poi, nel 2004, quando ha capito di essere impossibilitato a proseguire questo lavoro ha dato le consegne a noi e da lì abbiamo poi proceduto  Nel rapporto con l’editore è anche nata fisicamente la forma che ha preso questa ricerca:  questo librone.  Il modo di editare questi materiali è stato sotto la mia responsabilità necessariamente, non però la paternità, e su questo poi ritornerò, la paternità e la costruzione lenta di questo lavoro  è da attribuire interamente a Pino Trotta.

Ricordo questo perché il libro come lo vediamo si è strutturato nel rapporto appunto con l’editore che poi non l’avrebbe sostenuto nel senso che mirava ad un’altra cosa. Però da subito, direi, dato il tipo di materiale, molto pregiato da un certo punto di vista, questa non intendeva essere una mera ricerca erudita ma, non intendeva neanche essere una ricerca di tipo militante, come poi cercherò di dire, ma certamente voleva avere….adesso sembra un po’ paradossale data la stazza,  un taglio un po’ divulgativo e farsi leggere,

E questo è stato importante nella storia interna e nella storia editoriale di questo lavoro, raggiungere insomma questa consapevolezza, chiarire, dare al testo la sua forma attuale che è in sostanza una vera materializzazione dei vari materiali che, accompagnata da una sinossi, aiuta il lettore  a rendersi conto di cosa sta leggendo o di che cosa leggerà, e anche da un commento che segue ciascuno dei testi antologilizzati, un commento tale che dà l’inquadramento, il contesto, l’informazione. Il modello che ho seguito è in forma di materiale scolastico: c’è un’introduzione storica, un’antologia. di testi commentati, mentre poi le testimonianze orali si leggono molto facilmente, molto volentieri. Sono molto ricche di particolari perché non si cercava assolutamente il ritratto della personalità o la sintesi della sua intera esperienza, ma si cercavano dati, eventi, circostanze, persone degli anni ’60 e  credo che queste interviste siano valide e preziose.

D’altra parte poi abbiamo aggiunto una cronologia in modo tale che il lettore che si avventurasse non si perdesse frastornato da questi eventi, date, ecc. Questa è la forma appunto che la materia ha assunto nel periodo in cui si è entrati nella fase di produzione,.

Ma vorrei tornare al momento in cui è stato recepito questo progetto. Capisco che questo magari non aiuterà nel nostro dibattito, ma  le correlatrici sono più in grado di me di sintetizzare, di criticare e di proporre. Penso che sia invece doveroso fare questo richiamo alle persone e alle circostanze che hanno prodotto questo lavoro tornando appunto ad una decina di anni fa, agli anni ’90 e rispetto a questo credo che possa dire, necessariamente in sintesi, questo. Quando Tronti ha accettato, o forse proposto lui per primo, questo non lo ricordo, un lavoro di questo genere siamo negli anni ’96-’97, era da poco uscito un suo volume  “Quale strada per il futuro”  che raccoglieva qualche suo scritto sulla rivista Bailamme, ed era poi il Tronti che noi avevamo frequentato più da vicino in quel decennio della rivista. Era un autore perplesso, in ricerca, curioso, non il Mario Tronti del ’98-’99 quando ha firmato un testo che pare essere un piccolo capolavoro che è “Politica al tramonto” che ha un’intonazione, direi così apocalittica, e dove comunque il taglio di chi scrive è uno sguardo retrospettivo sul novecento, e forse anche oltre il novecento, sull’avventura della modernità, un taglio di un autore estremamente deciso, preciso nei suoi giudizi, tagliente ed anche implorante  per certi aspetti, ma comunque tutt’altro  di quello che ci potessimo aspettare da lui come continuità alle esperienze di laboratorio politico intrapreso  negli anni ’80.

Dico questo perché penso che Mario Tronti abbia suggerito, o comunque sollecitato, questo lavoro con un’ottica che è già quella della “Politica al tramonto”, cioè un’ottica testamentaria. Cioè desiderava vedere sistemata e sistemare lui stesso quell’interpretazione, autentica dell’esperienza di 40 anni sulla quale non era più tornato. Ha voluto tornare per darne un’interpretazione più autorevole ma, diciamo, con le spalle al futuro, cioè collocandola in un tempo e, in un certo senso, volendo anche chiuderla, così come chiusa gli sembra la parabola del movimento operaio e la storia del secolo operaio. Questo penso che lo faccia, in particolar modo nell’introduzione che penso sia, il gioiellino di questo libro, vale da solo la pena, senza le restanti 800 pagine.

Ecco io credo che Pino Trotta fosse in una intonazione non differente, perché anche lui in quel momento c’era lo slancio del pensiero, della ricerca. Pino Trotta veniva dalla doppia fatica su Dossetti  (negli stessi anni ’95-’96): gli scritti politici da un lato e la biografia politica di Dossetti dall’altro. Aveva messo a punto, aveva raggiunto la sua maturità politica di studioso e quindi affrontava questo lavoro con grande entusiasmo.

Il  ’96 è l’anno dell’affermazione dell’Ulivo ed è anche un’affermazione che inverava le ipotesi di lavoro della rivista Bailamme, ma contemporaneamente la metteva in crisi necessariamente, e anche metteva in crisi  i suoi aspetti accessori, importanti per noi,  D’altra parte poi, Pino veniva proprio de questo incontro con Dossetti, col Dossetti politico e quindi era molto influenzato, penso, da questa idea, proprio da questa idea catastrofistica che era del Dossetti dei primi anni ’50 e che l’aveva convinto a cambiare completamente il proprio campo d’azione, a trasferirsi da un campo politico giudicato non più praticabile ad un altro, completamente diverso, come quello ecclesiale, dove secondo lui era il caso di condurre, in modo altrettanto tagliente, virilmente, , una battaglia che veniva però spostata su una dimensione diversa. E appunto questo senso di impraticabilità del terreno polito-pratico, della necessità di spostarsi ad un livello diverso, anche per vederlo, per giudicarlo, credo che fosse in lui molto presente.

Ecco, credo che appunto i due si siano incontrati in un atteggiamento che era molto retrospettivo. Per questo ho parlato di una ricerca non militante, non c’era l’intenzione di spendere questi materiali, una riflessione su di essi, nella politica pratica, nell’attualità. Certo che ogni ricerca, quella storica per definizione, parte dall’oggi, si misura con l’attualità, si spegne in un contesto. Qui non si trattava tanto di intervenire, per esempio, nelle polemiche che hanno diviso lo stesso campo operaista nel corso dei decenni, e non si trattava neanche di riproporle, magari oggi ne riparleremo, sarebbe utile riuscire a farlo, non si trattava neanche di rivendicare una qualità, una spendibilità.

Penso che ci fosse da parte di Trotta un intento, ripeto, testamentario, quello che lo ha condotto in questi decenni a testi tra i suoi che ritengo essere tra i più brillanti, i più lucidi e che tanto più sono interessanti quanto meno sono spendibili sul piano della politica pratica Chi volesse ispirarsi ad essi per qualunque tipo di azione sarebbe disperato, ecco. D’altra parte ritengo che Pino riguardasse a questi materiali come ad un capitolo della storia della pietà.  Non entro in questa categoria che è appunto così decisiva per l’esperienza di Bailamme, non entro in questo, però penso che la riguardasse come un episodio del passato su cui si trattava di salvare i dettagli, le persone, le biografie, le esperienze minute per sottrarle all’oblio e trattenerle nella memoria. Un’esperienza che è un’esperienza di radicalità. Cioè una grande passione di verità ed anche, come dire, una grande passione di giustizia, con un intervento necessariamente votato, se vogliamo, al fallimento, ma proprio per questo il piacere di trattenere, proprio per fede in qualche modo, non votata ad un successo  per le novità mondane, ma per l’immaginifico per cui sono capace di esprimere, di trattenere, di rilanciare un di più.

Bene, posso soltanto aggiungere che si deve attribuire a Tronti, e Trotta ,naturalmente, la posizione dell’oggetto, questa posizione non è affatto neutrale, come è ovvio, cioè di raccontare la vicenda del movimento operaio che va dal ’60-’51 al ’67 scartando da altre ipotesi di lettura; una, per esempio continuista, che riguarda l’operaismo abbraccia ampiamente gli anni ’70 e poi si prolunga nel cosiddetto posy-operaismo e arriva ai giorni nostri. E’ scartando da questo tipo di lettura, che per altro di recente è rilanciato da un bel libro, secondo me, da un bel libro “L’assalto al cielo”, pensate scritto da uno scrittore australiano e poi tradotto Lo dico perché questa storia qui non è stata narrata, il nostro è un contributo, una raccolta di materiali, lì invece c’è già una sintesi, una trattativa, una lettura però su un ventennio. Ripeto, noi abbiamo invece in Italia discusso, ed ancora oggi è così attiva, così vitale questa tradizione che non è stata guardata con distanza, con sguardo storico. Lo ha potuto fare uno straniero. In questi giorni è stato appunto tradotto in italiano questo “Assalto al cielo” di Steve      (?) ed è una lettura che abbraccia gli anni ‘60-’70. Questa però è una cosa che Mario non voleva fare, Mario voleva dire no! questa è una storia che si chiude nel ’67, poi ci sono le eredità.

D’altra parte si scartava anche rispetto ad un’altra lettura, che è anche questa molto vitale, molto autorevole, che in fondo  interpreta questa vicenda come un errore di percorso, rispetto al fondo sano, maturo che è quello dei Quaderni Rossi, e quindi una lettura minimizzante e veramente riduttiva. Appunto, Mario Tronti voleva affermare questo sguardo che coincide con quello de proprio percorso. Io penso di poter dire, naturalmente non si può lavorare senza un’ipotesi, però se si lavora onestamente poi si sottopongono le ipotesi anche a verifica, alla verifica documentaria dei testi, ecc., penso di poter dire che quelle ipotesi, che legittima a priori, è anche confermata da tutto quello che ho letto; cioè questo oggetto quì, così isolato dal continuum della tradizione, cioè gli anni ’60, ’61-’67 grosso modo,, ha una sua coerenza interna che è riconducibile effettivamente a quella che già all’epoca era conosciuta                   (non si capisce) appunto Tronti stesso.

Bene, questo era quanto. Come vedete io sono entrato ben poco nel merito, però qui abbiamo una storica che conosce molto bene questa materia ed una testimone diretta che, oltre a tutto quello che ha ricordato Giovanni, è un’erede nell’ambito della sociologia del lavoro, un’erede diretta di Panzieri, (?), di quell’esperienza lì, e di quegli anni per altro una testimone diretta, una protagonista di quegli anni lì. Io penso, la mia idea è che se Maria Grazia interviene e  chiarisce meglio le dinamiche di quel momento

Trascrizione della relazione di Maria Grazia Meriggi

Io voglio dire molto brevemente innanzi tutto che sono qui per varie regioni, ma anche per testimoniare l’importanza straordinaria del lavoro di Pino Trotta, non solo per la costruzione di questa ricerca, ma più in generale per la tessitura di una rete di relazioni inconsueta, rara e piuttosto eccezionale.

Io sono entrata in contatto con Bailamme senza prevedere la raffinatezza, la complessità culturale a cui prima alludeva Milana. Mi ha colpito, per esempio, quando ha parlato di pietà nella raccolta della memoria, del ricordo, dell’esperienza militante, perché c’è un’analogia con l’atteggiamento di uno storico come Antinori nella discussione degli anni ’50 di come si scrive la storia di quello che allora si chiamava storia del movimento operaio e che oggi chiamiamo  più pudicamente storia del mondo del lavoro. Anche lì si tratta di raccogliere senza dare freni alle vicende vincente perdente, senza eccessivi finalismi, acquistare e raccogliere in patrimoni di sapere sperando che poi con l’intervento di qualcun altro questo sapere filologico possa essere riattivato.

Io sono arrivata a Bailamme attraverso David Bidussa che mi ha presentato Pino Trotta. Mi avevano chiesto un testo da pubblicare in una sezione della rivista dedicata proprio a questi materiali. Infatti in quella occasione ho ripreso in mano degli studi sul Partito Operaio, che è un’organizzazione fra il politico ed il sindacale che negli anni ’80 dell’ottocento  ha agito sopra tutto nel Nord Italia, Piemonte e Lombardia. Dunque questo è stato il passaggio.

Però rapidamente mi sono resa conto di questa ricchezza straordinaria,  una persona il cui discorso era da una parte assolutamente partecipe di un orizzonte (i problemi della storia, i problemi del senso della storia e poi anche della sinistra) e dall’altra parte che aveva delle pieghe, delle complessità culturali che però erano stimolanti; non una persona che diceva fino a qui puoi capire ed oltre no, ma anche di una grande generosità. Io questo lo voglio documentare perché credo che persone così siano molto rare e preziose e oggi ne avremmo ancora bisogno in questo sfangamento generale delle culture che, come diceva giustamente Bianchi all’inizio, le culture si incontrano solo se esistono,….perché se non esistono…come nel trattamento degli interessi li puoi mediare solo se riconosci che sono diversi, se no cosa medi? Se in un partito, metti  sindacalisti e imprenditori, come puoi mediare? Il partito deve appartenere o all’uno o all’altro  e poi  si media. Dunque avremmo bisogno di più di questa tranquilla radicalità.

Detto questo, perché sono qua anche per testimoniare questa esperienza,  questo lavoro alla cui elaborazione per un certo periodo ho partecipato, perché appunto il processo di costruzione di questo oggetto è stato lunghissimo, risale ancora a quando Mario Agostinelli  apparteneva alla segreteria  regionale della CGIL, quindi andiamo a più di 10 anni fa. E’ un oggetto assai complesso; non è un manuale scolastico, o meglio non è un oggetto complesso in sé, è una ricchissima raccolta di documentazioni di materiali con un’introduzione culminante, come spesso i testi di Tonti, ma è, diciamo, forse complesso capire l’uso che se ne può fare. In questo senso varrebbe forse anche la pena di riflettere insieme a voce alta su che cosa è per noi, e per noi ritengo noi lettori, che cosa è l’operaismo, la sua importanza ed il suo peso nel passato, ma anche il suo significato e l’utilità interpretativa che alcune idee forza dell’operaismo storico possono avere per noi.

Premettiamo anche che, come tutti, forse tutti coloro che si sono occupati di operaismo, anch’io sono stata, pochissimi anni dopo, ma allora pochi anni voleva dire essere una giovane donna o una ragazzina, adesso siamo tutti coetanei…,l’età ci ha resi quasi tutti uguali, ma io appartengo ad una generazione lievemente successiva, anch’io però ho fatto parte della grande galassia operista, ma quella esperienza politica l’ho fatta on un grippo che si chiamava“Potere Operaio” di Pavia sono stata nel PSIUP, in DP e dunque credo che ci sia stato uno stile dell’intervento operista molto più ampio, molto più generalizzabile di quello che non sia stato l’esperienza a cui appunto gli operaisti storici, e Tronti in particolare, tengono tanto, limitata  a quegli anni

Questo vorrei dire, che forse oggi  i lettori possono prendere questi materiali e vederli come qualcosa che ha un maggior peso, un maggior impatto forse di quello che gli tessi testimoni oggi non vogliono attribuire loro. In questo senso, per capire un po’, forse, come si trovava la relazione tra sinistra politica, sindacato, movimento operaio e mondo del lavoro, negli anni ’50 c’è un testo che veramente consiglio (purtroppo non è più in commercio ma si può trovare in qualsiasi biblioteca) di Acornero che tra l’altro è un testimone, “Gli anni ’50 in fabbrica” che è il diario di quello che adesso è forse un caso unico in Italia, un sociologo del lavoro che è stato veramente un operaio; non ha fatto l’0peraio per imparare la sociologia, ma ha fatto l’operaio perché a questo lo aveva destinato la sua origine sociale e lo ha fatto per più di 10 anni, fino al licenziamento. Ci sono anche alcuni casi in America di storici che hanno origini,,,,,che so un camionista,ma sono rarissimi, cose e veramente inconsuete. Nel caso di Acornero è proprio l’operaio che è diventato lo studioso della classe operaia, che descrive gli anni ’50 in fabbrica e le difficoltà in tutto, e il ruolo che il tipo di sindacato consentiva di avere ai militanti.

La commissione interna aveva certe competenze da cui continuamente eccedeva se voleva far passare certe cose, ma ricentrarsi nelle competenze non era sempre semplice e poi, sopra tutto, i militanti della FIOM non godevano di quella agibilità di cui godevano i militanti degli altri sindacati.  Allora, negli anni ’50, il PCI  è il partito che è sempre al centro della preoccupazione degli operaisti; e questo lo si vede in questo libro molto bene, il PCI è un  partito a forte presenza operaia tra i militanti, tra gli iscritti e tra i votanti, era un partito che aveva ancora un quid (?), c’era una grande sovrapposizione tra votanti ed iscritti, un vero partito di opinione, certo i votanti erano molti di più, ma c’era una forte presenza militante che non aveva subito a livello di voto, e quindi di consenso nel mondo del lavoro, la crisi del ’56 che in realtà fu una crisi forte e profonda ma relativamente limitata ad ambienti intellettuali, ma dal ’58 in poi, e ancora prima dai licenziamenti e dalla riduzione dell’occupazione, ma sopra tutto a partire dal ’58 viene allontanato fisicamente dai luoghi di lavoro, viene impedito di fare politica dentro le fabbriche.

Cioè, c’è questo grande paradosso di un partito che è, certo per linea togliattiana, indotto a fare un discorso di funzione nazionale di grandi alleanze, ma p anche costretto nel territorio delle difficoltà di agibilità dentro luoghi di lavoro. A questo punto nasce la grande esperienza operista, con l’esigenza di riportare il partito in fabbrica in una fase di trasformazione radicale della composizione della classe operaia.

Adesso non vorrei dire delle cose più che scontate, ma sono gli anni della grande emigrazione in cui per la prima volta, in Italia è noto, è forse l’unico paese in Europa in cui l’emigrazione verso l’estero ha continuato ad essere forte, anche dopo il così detto decollo, fase che coincide con gli anni dieci del novecento, che sono gli anni del grande balzo industriale, dell’ingresso dell’Italia fra i paesi industriali e sono gli anni del massimo picco di emigrazione.

Negli anni ’50-’60 per la prima volta c’è una stabilizzazione al Nord della classe operaia, c’è una classe operaia che entra in fabbrica senza una tradizione e una cultura precedenti, senza una socializzazione. Questa non è una situazione nuova: nella storia lunga della classe operaia, gli operai  sono fatti in parte da qualificati ex artigiani di città e, on fortissima misura, da ex contadini. Non è la prima volta che questo accade, ma in Italia è la prima volta che accadeva con questa importanza. La Lombardia si era alimentata dalla crisi agraria delle campagne circostanti. Anche negli anni dieci, Milano aveva conosciuto una grande immigrazione. Ma non ora era un’immigrazione dal Sud e quindi da sub-culture profondamente diverse.

Inizialmente l’incontro fra gli operai di tradizione e di cultura operaia, qui Acornero è forse l’esponente dei più tipici, che cultura, modalità e tono di cui, per esempio,(non vorrei essere troppo attualizzante) in un dirigente politico come Bruno Casati, assessore alle attività produttive della Provincia, suona ancora come un’eco perfetta; la cultura dell’operaio qualificato sia politicamente che professionalmente, insomma, quel tipo di cultura.

 L’incontro fra questa cultura e la cultura dei giovani operai non è inizialmente facile, ci sono profonde incomprensioni ed un evidente difficile adattamento e al tempo stesso, per la prima volta in Italia emerge come protagonista del movimento operaio la grande fabbrica che, come meglio d me potrà spiegarvi Bianca Beccalli, non è solitaria, la grande fabbrica resta sempre una grande realtà relativamente minoritaria quantitativamente, ma diventa centrale, come giustamente Tronti ha sottolineato nella sua introduzione.

Il movimento operaio italiano,  come movimento anche europeo, perfino in in Germania dove conosce enormi realtà produttive, è fatto anche, e da sempre della capacità di sintetizzare magari nel territorio, di portare unità, di interpretare i problemi di una classe operaia diffusa. Non è la prima volta che noi abbiamo di fronte un mondo del lavoro territorialmente diverso e separato. In quegli anni c’è stata questa straordinaria di un crogiolo di una unificazione fisica di storie sociali, di occasioni di conflitto. Gli operaisti intervengono a questo punto con l’esigenza di riportare in fabbrica il partito e c’è un incontro straordinario fra questa esigenza e una generazione di giovani  intellettuali, che sarebbero stati sopra tutto degli studiosi, ma in parte anche dei dirigenti sindacali e politici, che non contestando l’uso, l’opportunità di passare attraverso lo strumento dei partiti operai, perché in fondo sia Panzieri (?), che Tronti, che Acornero erano militanti dei partiti storici della tradizione socialista, gli operaisti di Classe Oeraia furono sopra tutto comunisti con dei rapporti molto difficili con il PCI, ma comunque comunisti, e allora quella generazione è la prima che legge, per così dire, Marx direttamente, cioè la prima generazione di studiosi, di dirigenti, di aspiranti dirigenti del movimento operaio che leggono la società italiana con gli strumenti del Capitale; è una generazione di intellettuali che non gliene importa niente di Gramsci, delle egemonie, delle alleanze, ma vuole vedere in diretta le autorità che gli operai riescono ad esercitare sulla società. E si pongono, in fondo, in ascolto della classe operaia ed è per questo che quella esperienza politica ha insegnato tanto nel lavoro intellettuale, cioè sia per i sociologi che per gli storici credo sia stata fondamentale quella capacità di ascolto, di interrogarsi su come le modificazioni capillari dell’organizzazione del lavoro possono produrre modificazioni dei comportamenti e delle percezioni di sé, del mondo e della società.

Da questo punto di vista, chi leggerà il libro non è assolutamente il caso,  le differenze fra classe operaia        (?)e classe operaia: si notano differenze molto profonde indubbiamente, in particolare si faranno profonde nella relazione con il movimento operaio organizzato, certamente con molti dirigenti, molti compagni e compagne dei Quaderni Rossi non hanno accettato la rotta di collisione che alcune scelte comportavano con i gruppi dirigenti delle Camere del Lavoro, in particolare a Torino dove la Camera del Lavoro era in parte ricettiva di alcune istanze.

Forse in altre occasioni sarebbe anche interessante ripensare come un uomo come Vittorio Foa, che non è mai stato operista, nel senso che non ha mai scritto sui Quaderni Rossi, e non ci ha mai voluto scriverci (magari), dopo l’editoriale del I numero, ma come nella sua riflessione sul mondo del lavoro, in particolare con questo suo fortissimo interesse, a volte con aspetti geniali, sul mondo del lavoro inglese, ha usato proprio strumenti dell’operaismo. L’ascolto del significato politico dei comportamenti conflittuali, per esempio, la storia del mondo del lavoro e delle sue organizzazioni non come storia minore, per riprendere, ma come storia centrale per capire una società.

Da questo punto di vista appunto, e quindi il passaggio tra Quaderni Rossi e classe operaia è stato radicale, ma secondo me oggi non è così importante ricostruirne, cioè è importante ricostruire i percorsi perché è importante sapere sempre le cose con esattezza, ma forse non è così importante per definire l’importanza di un punto di vista politico, intellettuale  sull’economia e sulla società. Infatti il libro di cui parlava Milana, cioè il libro di            (?), l’ “Assalto al cielo”, che è un libro di un australiano ma con una famiglia italiana, che è stato molti anni in Italia ed è entrato in presa diretta, anche quello è un libro tirato per i capelli perché è anch’esso in qualche modo tributario dei suoi testimoni. Infatti, a un certo punto lui negli anni ’70 racconta sopra tutto le vicende di Potere Operaio nel Veneto e documenta senza spiegare fino in fondo alcuni problemi particolarmente complessi del passaggio da un punto di vista che si poneva con una ambizione di dirigere, ma con una volontà di ascoltare il mondo del lavoro, ad un punto di vista che fa della direzione politica, e dell’interpretazione, la più estrema, della linea  di tendenza, la sua ossessione.

Infatti se noi leggiamo il materiale dell’operaismo degli anni ’60 e poi guardiamo a che cosa succede ad una componente abbastanza importante dell’operaismo in Italia negli anni ’70, c’è qualcosa che non suona giusto, c’è una frattura, ed è una frattura forse derivante anche dalla mancanza di ascolto della complessità della classe operaia e di assunzione di un punto di vista unilateralmente di direzione. Cioè gli operaisti hanno sopra tutto interpretato la linea di tendenza principale presente nei conflitti sociali nella più ampia formazione economica sociale capitalistica, la linea di tendenza trascurando tutto quello che questa linea di tendenza aveva di necessariamente compromesso con quello che veniva prima e quello che veniva dopo. Gli operai combattono in fabbrica ma sono anche parte di una lunga storia, questa lunga storia li immerge più ampiamente nel popolo di riferimento, gli operaisti questo non lo hanno voluto vedere. Tutti quelli che hanno voluto andare avanti hanno dovuto per forza fare i conti con questa complessità dell’esperienza,

Però l’operaismo, come si vede negli anni ’60, ha dato, ha insegnato a chi ha fatto questi percorsi un punto di vista irrinunciabile, la leva centrale e particolare dalla quale si interpreta tutto il resto. Secondo me, dunque, forse l’introduzione di Tronti che, come Milana ha detto molto bene, è un personaggio anche carismatico e sentenzioso, tuttavia proprio per il tono di catastrofe incombente che c’è in questo testo, secondo me non è la cosa più importante del libro. A mio parere le cose più interessanti del libro sono quelle che vengono dalla descrizione dell’esperienza ed anche sono bellissime alcune interviste; per esempio sono bellissime le interviste di Rita Di Leo che spiega, fa seguire come una giovane intellettuale impara a sentire sopra tutto gli operai e non va neanche alla FIAT e a Roma, giustamente,va in giro giustamente per i cantieri e conosce dettagliatamente le gerarchie dove passano i poteri decisionali di un cantiere, il che non è così scontato. Questo ci fa vedere il laboratorio della straordinaria esperienza che l’operaismo ha dato a chi lo ha percorso, che è più importante, io credo, di alcune ossessioni interpretative delle linee di tendenza.

Una domanda che potremmo porci davanti ad un materiale così vasto è oggi cosa possiamo ricavare da questa esperienza, quali elementi interpretativi possono ancora essere preziosi. Esiste un  dibattito che per chi è interno a questo dibattito è addirittura ossessionante, ma in realtà, per carità, si può benissimo sopravvivere senza seguirlo, ma chi lo segue ne è ossessionato, ed è la discussione fra operaismo e post-operaismo. Cioè c’è una generazione di giovani, ex giovani, ma insomma più giovani degli operaisti classici che, sopra tutto a partire dai lavori del secondo Toni Negri, dall’impegno (?) in poi, e in particolare dal punto di vista economico dai lavori di Fumagalli, che hanno in fondo elaborato una teoria secondo la quale non c’è una distinzione vera fra vita e lavoro, che nella globalizzazione, e finalizzazione trasformazione simbolica e, secondo me anche immateriale, dell’economia, anche la vita è direttamente messa al lavoro. E questa secondo me è una lettura di massa assolutamente arbitraria  che non consente di dare una lettura analitica dei processi. Questo tipo di interpretazione  rivendica la continuità con l’0peraismo storico che gli operaisti storici negano con forza e Tronti, quasi tutte le volte che ci può tornare ironizza pesantemente sulla così detta biopolitica ed i          (?) di quarta e quinta mano.

Adesso non voglio entrare in questa discussione, però credo che l’operaismo degli anni storici sia ancora uno strumento importante anche per leggere i problemi e le contraddizioni della composizione di classe della  forza operaismo in una situazione nella quale, almeno in occidente, le grandi fabbriche non è che non esistono, ma comunque non hanno lo stesso ruolo, sono parcellizzate, i lavoratori sono distinti fra diversi contratti, diverse realtà, sono esternalizzati. In realtà l’unico luogo di sintesi del lavoro umano è la merce finale che ci troviamo in mano ma i luoghi dove è prodotta e consumata sono tutti dispersi e divisi. Ci troviamo in una situazione simile a quella dell’aurora del movimento operaio ma, naturalmente, con alle spalle una catastrofica sconfitta.

L’operaismo insegna l’ascolto non dei discorsi ma dei comportamenti  operai e la loro interpretazione. In questo senso mi sembra un’esperienza ancora fondamentale e questo lavoro ce la dà con una vivezza, con il brulichio anche delle sue storie che mi sembra meritorio e degno di una lettura attenta ed appassionata.

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