Il Diritto di Cittadinanza nei paesi dell’est europeo. Cristina Carpinelli, Massimo Congiu: l’Unione Europea e le minoranze etniche e nazionali

linea_rossa_740x1Corso di formazione alla politica

Quando parliamo di minoranze siamo abituati a pensare a qualcosa di lontano, tanto forte è il nostro essere calati in uno spazio culturale discretamente omologato.
Ci pare, in effetti, che proprio in questa supposta conoscenza, del tutto empirica, risieda la questione della definizione del concetto di minoranza: in quella area concettuale, cioè, in cui si fondono l’idea di confine, di limes, linea immaginaria di demarcazione tra un “di qua” e un “di là”, e l’idea della diversità possibile anche tra prossimi, tra un “noi” e un voi”.

Cristina Carpinelli, Massimo Congiu

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2. leggi la trascrizione della relazione di Massimo Congiu

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1. premessa di Giovanni Bianchi 10’38” – 2. introduzione di Luca Caputo 18’36” – 3. relazione di Massimo Congiu 25’14” – 4. relazione di Cristina Carpinelli 50’37” – 5. domanda + audio da filmato 9’16” – 6. domande 2’25” – 7. risposte di Carpinelli e Congiu 16’19” –  8. domande 14’38” – 9. risposte di Carpinelli e Congiu 16’24” – 10. domande 8’59” – 11. risposte di Carpinelli, Congiu e Caputo 8’57”


Luca Caputo, Cristina Carpinelli e Massimo Congiu nella sala Lazzati del Centro Cardinale Schuster di Milano

Luca Caputo, Cristina Carpinelli e Massimo Congiu

Testo dell’introduzione di Luca Caputo a Cristina Carpinelli e Massimo Congiu

L’ Unione Europea e le minoranze etniche

 

Introduzione al concetto di minoranza

Quando parliamo di minoranze siamo abituati a pensare a qualcosa di lontano, tanto forte è il nostro essere calati in uno spazio culturale discretamente omologato.

Ci pare, in effetti, che proprio in questa supposta conoscenza, del tutto empirica, risieda la questione della definizione del concetto di minoranza: in quella area concettuale, cioè, in cui si fondono l’idea di confine, di limes, linea immaginaria di demarcazione tra un “di qua” e un “di là”, e l’idea della diversità possibile anche tra prossimi, tra un “noi” e un voi”.

La fusione tra il limes geografico e quello etnico, sociale, linguistico, culturale, nazionale, rappresenta la semplice ma efficace suggestione dalla quale si può essere colpiti nell’approcciarsi a questo lavoro; che, nello spiegarsi grazie al riferimento pratico a dei casi di studio, si rende apprezzabile: perché ha la forza di rendere visibile soprattutto a noi, abitanti di un Paese da poco uscito dal novero dei Paesi oggetto solo di emigrazione, ed entrato pienamente tra quelli meta di immigrazione, la straordinaria complessità del concetto di minoranza.

L’ Italia verso una società multietnica

Siamo così poco abituati a confrontarci con il problema delle minoranze, così tanto omologati da una dimensione tutto sommato rassicurante, ma certamente ascrivibile ormai tutta al passato, di quasi completa identità tra l’Italia geografica, quella etnica e quella politica, da non accorgerci delle pur tante differenze tra di noi, delle tante minoranze da sempre esistenti nel nostro Paese:
(Albanesi, Catalani, Serbo-Croati, Tirolesi, Ladini, Sloveni, Greci, Zingari, Occitani).

Peraltro, dopo la fine della seconda guerra mondiale è iniziato un sessantennio in cui alcune differenti dimensioni dell’ essere “Italia” (linguistica, sociale e culturale) hanno avuto una forte tendenza alla corrispondenza; persino sotto il profilo economico le varie Italie, geografiche ed economiche, hanno avuto una costante tendenza (poi cessata) ad avvicinarsi.

Poi qualcosa è cambiato: quella costante rappresentata dalla emigrazione non compensata, che lasciava una Italia via via sempre più simile a sé stessa, meno ricca di uomini e di spinta propulsiva, si è interrotta.
Il ruolo giocato dalla globalizzazione finanziaria in questo senso è stato determinante, inserendo stabilmente il nostro Paese in un contesto tutto nuovo e diverso: tanto grande da determinare un fenomeno, parimenti grande, di spostamento di masse di popolazione, in tutto il mondo.
Basta già questo a mettere in luce uno dei punti caldi della questione: chi sono queste persone, e perché si spostano? Si tratta di singoli individui in fuga dalla miseria, o piuttosto sono leggibili come esponenti di taluni, ben precisi, ceti sociali, accomunabili trasversalmente rispetto alla lingua, all’etnia, alla religione, alla cultura di partenza?
Impossibile dare una risposta univoca data la vastità del fenomeno e la sua complessità. Tuttavia tendiamo a vedere dei punti in comune tra l’emigrazione di occidentali senza sbocchi occupazionali a dispetto all’alta formazione scolastica ed universitaria che hanno conseguito, verso Paesi in cui le prospettive di lavoro nel loro settore specifico sono maggiori, e il semplice coltivatore diretto non scolarizzato che abbandona una terra, magari poco produttiva, o espropriata alla sovranità nazionale col land-grabbing, per andare a fare l’unica cosa che sa fare nell’ unico posto in cui può metterla frutto senza rinunciare a coltivare aspettative di vita migliori.

Tutto sommato, ci pare molto appropriata ed esaustiva la definizione resa da T.H. Bagley, rappresentante dell’Assemblea generale dell’ ONU, già all’ inizio degli anni Cinquanta:

“Il problema delle minoranze è in realtà una congerie di singoli e specifici problemi ognuno dei quali gravante su un complesso di fattori politici, etnici, economici, sociali e, non ultimo, storici”.

In ogni caso l’immigrazione, generando minoranze, comporta la necessità di relazionarsi con persone dotate di un bagaglio personale anche molto diverso da quello dei residenti.
Ed è in effetti vero ciò che si rileva in questo lavoro, cioè che sono proprio le grandi migrazioni internazionali il principale fattore di genesi delle società multietniche.
Per quanto riguarda l’ Italia, la crescita dell’ immigrazione (ma anche dell’emigrazione) dice che il nostro è un Paese in movimento, probabilmente in mutazione; non possiamo più esimerci dal compito non solo di confrontarci con il concetto e le caratteristiche delle minoranze ma anche di guardarci dentro, senza dare più per scontata la dinamica della integrazione per omologazione delle minoranze presenti sul territorio nazionale italiano. E’ infatti impossibile, alla lunga, praticare qualunque tipo di relazione (che sia di integrazione, assimilazione, accoglienza o multiculturalismo) senza avere prima imparato a costruire un punto di vista su di noi e sugli altri.

Ed è impossibile fare questo senza affrancarsi dalla retorica dell’ emergenza migranti, dell’ invasione culturale, della colonizzazione religiosa, dell’ impatto economico di masse di disperati che pesano sul nostro bilancio: non perché non esistano questo genere di problemi, ma semplicemente perché si alza una cortina di fumo multicolore che ci penetra e di impedisce di vedere innanzitutto quello che siamo, e che siamo stati fin qui.

L’ Europa, le migrazioni da e per le colonie, le minoranze

Siamo sì di fronte a problemi emergenti di grande portata, ma è l’ intera storia d’ Europa, ad essere caratterizzata da sempre dalla questione di gruppi etnici in movimento, di maggioranze che diventano minoranze, di migranti diventati indigeni nel corso dei secoli che vengono poi a confronto con nuovi gruppi provenienti da tutto il mondo vicino.
Basti pensare ad uno dei simboli con cui è rappresentata l’Italia nell’ iconografia classica, lo Stellone d’ Italia: l’ elemento centrale dell’ emblema della Repubblica Italiana è, secondo la tradizione, Venere, la “stella” visibile dopo il tramonto guardando verso occidente.
La guida, cioè, degli antichi navigatori Ellenici nelle loro traversate verso la Magna Grecia.

La storia dell’ impero romano, la straordinaria civiltà che ha modellato e permeato l’Italia e l’Europa, è quasi interamente fatta del rapporto tra i conquistatori e popoli interi, molto diversi tra di loro, in qualche caso portatori di culture molto più antiche, che via via sono stati inclusi all’ Impero. Quella particolare società multietnica ben sapeva riequilibrare, con alti livelli di inclusività, le ferite generate dalle guerre di conquista.

E così ,tutta storia d’ Europa, attraversata da un millennio di guerre laceranti che hanno portato tanto alla scomparsa di numerosi gruppi etnici con le loro culture, quanto allo sviluppo di culture nuove, a volte particolari ma spesso condivise, al di là dei labili confini dell’ Europa medievale prima e anche dopo la nascita degli Stati nazionali.

L’ Europa che ha colonizzato il mondo, popolandolo e plasmandolo in maniera preponderante fino agli inizi del XX secolo, è uscita dalla Seconda Guerra Mondiale con un grande sogno, forse il più lucido: l’ ultima grande scintilla della civiltà europea, è quella di intraprendere un processo unificatore che fosse, peraltro, sono una tappa verso il governo mondiale.
Ciò che è successo dopo, la preponderanza del capitale finanziario oltre i confini degli Stati nazionali, ha dissolto quel clima dopo avergli fatto l’occhiolino: la sua grande corsa al di sopra dei confini non ha avuto come ricaduta positiva una analogamente veloce corsa della razionalità democratica verso forme diverse e più ampie; e ha lasciato agli Stati nazionali il difficile compito di andare oltre i modelli tradizionali (francese, tedesco, nordico) per ricercare nuove forme del rapporto ,con le minoranze, per far fronte alle grandi migrazioni attraverso il Mediterraneo.

L’ integrazione della Mitteleuropa e dell’ Est nell’ Unione: una questione di cittadinanza

Molteplici sono gli strumenti prodotti ed adottati dalle istituzioni europee nella tutela dei diritti delle minoranze: dai documenti e i rapporti sottoscritti dall’ Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, alla Carta Europea per le lingue regionali o minoritarie; dalla Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, alla Risoluzione sulla Protezione delle minoranze e le politiche contro la discriminazione nell’ Europa allargata.

Ed è proprio nell’allargamento ad Est che l’ Unione Europea raccoglie una delle sue sfide più grandi: l’accorciamento della frontiera con la Russia, l’ accoglienza nei propri confini di t,erritori recentemente costituitisi in Stati nazionali indipendenti, in qualche caso abitati da popoli frammentati al proprio interno in tante comunità nazionali, attraversati da grandi differenze linguistiche, etniche, religiose, rappresenta forse un punto di volta dell’ intera costruzione europea.

In questi Paesi, infatti, paradossalmente caratterizzati da una giovane identità nazionale a causa della lunga subalternità al Comunismo, nemmeno la cittadinanza si può dare per scontata: quello che rappresenta un punto peculiare dell’ Occidente, e dovrebbe essere una caratteristica fondamentale dell’ idea stessa di Unione Europea, ossia la pienezza della cittadinanza per tutti gli individui a prescindere dalla loro appartenenza a gruppi maggioritari o minoritari, nell’ Europa dell’ Est si rivela essere in realtà un punto in discussione: è emblematico il caso della c.d. lustrazione, quella pratica cioè di esclusione dai diritti politici per alcune ben precise minoranze legate a vario titolo ai passati regimi socialisti.

Si può empiricamente osservare, peraltro, che laddove questa pratica è stata attuata in maniera più indiscriminata, il periodo immediatamente post-comunista sia stato più travagliato e conflittuale rispetto a quelli nei quali è prevalso il metodo della rifondazione nazionale.
In Polonia, ad esempio, le leggi sulla lustrazione hanno assunto i connotati di una vera e propria arma volta all’eliminazione degli avversari politici.

Nei Paesi Baltici, invece, l’orientamento dell’ uscita dall’URSS ha assunto tratti spiccatamente nazionalistici anche nel trattamento di emarginazione dal potere. Qui, d’altro canto, l’elemento più sensibile era proprio l’ Occupazione, cioè la natura straniera del potere totalitario, probabilmente anche a causa dello stanziamento coatto di lavoratori russofoni al fine di dare impulso ai distretti industriali là costituiti dal regime sovietico.
In questi Paesi le pulsioni nazionaliste hanno prodotto una vera e propria apartheid nei confronti delle minoranze: appare incredibile, ad esempio, il fatto che ancora oggi, proprio in conseguenza della ritrovata indipendenza, in Lituania sia riesploso un -evidentemente mai sopito- sentimento anti-polacco che ne colpisce la minoranza interna, a secoli di distanza dalle guerre tra i due grandi regni dell’ est europeo. Tradotto prontamente in discriminazione.
E che qualcosa simile accada tra Ungheria e Romania.

L’inserimento poi del concetto di “non cittadino” nelle legislazioni dei Paesi Baltici è qualcosa che sfugge completamente dai valori su cui è stata pensata e costruita l’ Unione Europea: al punto che consistenti parti della loro popolazione sono state private dello status di cittadino e dei diritti connessi sulla semplice base della loro nazionalità.
Fino ad arrivare al 40% della popolazione della Lettonia.

Un nazionalismo di segno parzialmente diverso, ma anch’esso intriso di revisionismo e sciovinismo storici, pervade invece l’Ungheria di Orbàn: che con l’estensione del diritto di voto anche agli ungheresi che si trovano fuori dai confini nazionali (gli Ungheresi in Romania costituiscono la più consistente minoranza nazionale d’Europa) spinge decisamente sulle nostalgie della Grande Ungheria, per fondare il proprio consenso.

D’altro canto, se proprio la concessione o meno della cittadinanza, e dei diritti connessi, è sempre stata lo strumento principe della discriminazione, i connotati del concetto di minoranza ,non sono mai univoci: le tre tradizioni fondamentali nello studio delle minoranze (europea, nord-americana, sociale) ce ne danno altrettante idee certamente pregnanti ma non esaustive.

Si può essere minoranza involontaria o volontaria, si può appartenere a gruppi minoritari per lingua, religione, etnia, nazionalità, ed essere oggetto di discriminazione multipla a causa della contemporanea appartenenza ad altri gruppi minoritari quali l’orientamento sessuale, la disabilità o il genere.

Molto singolare, ad esempio, il caso dei Rom in Romania: le politiche di sedentarizzazione forzata e di inserimento coatto nel tessuto industriale ed agricolo del regime social-nazionalista rumeno, hanno prodotto una differenziazione tra di essi: quelli destinati a popolare le periferie delle città, dopo la fine del regime di Ceausescu hanno iniziato a soffrire una condizione di discriminazione ed emarginazione nettamente superiore a quelli rimasti nelle aree rurali, dove in qualche caso hanno potuto continuare a svolgere il proprio mestiere e mantenere, con esso, una migliore opinione da parte degli altri rumeni.

Contrariamente all’idea comune, invece, si può essere minoranza pur appartenendo ad un gruppo numericamente maggiore rispetto ad un altro: è il caso, ad esempio, dell’ apartheid sudafricana:
ciò che rileva è, in questo caso, la posizione non dominante del gruppo.

Si tratta peraltro di una esperienza che, come opportunamente evidenziato dagli autori potrebbe ritrovarsi ad essere in un futuro non troppo lontano ripetuta, magari in forme diverse, in Occidente, qualora permanga la tendenza delle maggioranze che lo abitano a perdere consistenza demografica a vantaggio degli appartenenti a gruppi provenienti da altre parti del mondo.

Vogliamo concludere, questo sguardo a volo d’uccello su un lavoro, di ricerca e di approfondimento, veramente ricco e stimolante, citando l’esempio della frastagliatissima comunità Rom di Ungheria, che si è andata via via incamminando su una strada proattiva, volta alla piena partecipazione alla vita produttiva e politica del Paese, e del più grande contesto europeo. Significativo il contributo di Lìvia Jàròka, prima eurodeputata Rom che, pur pienamente calata nelle problematiche interne della sua comunità, sposta la lente d’ingrandimento sulle discriminazioni dal fatto etnico a quello sociale e lavorativo.

Come abbiamo visto a proposito della comunità rom di Romania, difatti, proprio l’inserimento lavorativo in un contesto sociale particolare, e la mancanza di esso, hanno costituito il fattore determinante della discriminazione.

“Abbiamo leggi europee per combattere la discriminazione, ma spesso non vengono messe in atto nei singoli Stati membri. Comunque la discriminazione etnica è soltanto uno dei fattori. Esiste in Europa una povertà invisibile che non viene percepita neanche da coloro che assegnano i fondi europei”.

E’, forse, su questo tipo di energie che l’ Unione Europea può puntare nel tentativo di trovare la ricchezza e la fecondità culturali, necessarie a vincere questa sfida cruciale della propria storia.

Trascrizione della relazione di Massimo Congiu

Grazie, grazie. Buon giorno. Ringrazio gli organizzatori del Circolo Dossetti per questa giornata, per la possibilità di trattare degli argomenti che sono contenuti in questo libro. Mi scuso ancora per il ritardo dovuto a problemi di volo da Budapest.

Direi che io mi sono imbattuto personalmente per la prima volta nelle questioni nazionali nel 1994 in Bosnia Erzegovina e quindi all’epoca della guerra, e poi ho continuato, all’inizio della mia lunga storia con l’Ungheria, di questa lunga esperienza che ho maturato in Ungheria, quindi dal 1995, e quindi col tempo ho avuto modo di rendermi conto della complessità di questo tema, di un tema così frastagliato, di un tema poi del resto anche, come dire, pieno di articolazioni non soltanto in Ungheria, ma anche negli altri paesi dell’area ex socialista.

Il libro, L’Unione Europea e le minoranze etniche è, come dire, un’operazione che abbiamo deciso di fare noi che operiamo all’interno del CESPI, all’interno dell’osservatorio sociale del CESPI e dell’osservatorio sociale mitteleuropeo, che ha lanciato una collana di cui questo libro fa parte e che è introdotta proprio da questo libro.

Io personalmente mi sono occupato di due paesi che seguo da diverso tempo, l’Ungheria e la Romania, e ho dato spazio ad argomenti, come diceva appunto Caputo, quello delle condizioni delle comunità Rom che sono molto numerose in entrambi i paesi, e aperto anche una finestra così sulla situazione degli ungheresi in Romania. Abbiamo pensato, la concepiamo come un’operazione culturale che tende un po’ ad analizzare questo complesso concetto di minoranze, ma soprattutto a esplorarlo relativamente a determinate realtà, quelle baltiche curate da Cristina Carpinelli e quelle dell’Ungheria e della Romania.

Si tratta, come dicevo prima, di argomenti molto complessi, rispetto ai quali per esempio in Ungheria c’è un dibattito forse un po’ sotterraneo, non particolarmente sviluppato. I Rom costituiscono la maggiore comunità etnica presente in Ungheria, che è un paese che conta oltre 10 minoranze etniche nazionali. Ecco, i Rom sono grossomodo 800 mila, secondo alcuni calcoli un milione, e comunque si tratta di una comunità corposa che è situata soprattutto nella parte nord-orientale del paese, cioè in quella parte del paese più depressa dal punto di vista economico, meno beneficiata dagli investimenti che sono arrivati nel paese a partire dagli anni Novanta.

È parere di diversi studiosi che la comunità Rom sia quella che ha pagato il prezzo maggiore una volta avvenuto il cambiamento politico, la svolta del 1989 che ha portato a dei cambiamenti forti e radicali dal punto di vista della politica sociale e della politica economica, e aumentato in generale nel paese, come in tutti gli altri paesi ex socialisti, il tasso di disoccupazione, ma in modo particolarmente drammatico, in modo particolarmente accentuato nel caso dei Rom Oggi come oggi, i Rom in Ungheria sono una comunità piena di problemi di disoccupazione e di emarginazione sociale perché c’è effettivamente un elemento conflittuale tra la parte Rom e la parte non-Rom del paese.

In uno dei saggi che ho dedicato a questo argomento ho fatto anche menzione di un esperimento molto interessante avvenuto a Budapest non molto tempo fa: quello di Radioze, che è una radio, un’emittente radiofonica Rom, nata nel 2001, con l’intento proprio di provare a costruire un ponte tra la parte Rom del paese e la parte non Rom. Cioè di avviare una sorta di dialogo, di proporre una piattaforma perché avvenisse una migliore conoscenza tra le parti in questione, e poi naturalmente anche perché i membri di questa comunità potessero prendere coscienza della loro appartenenza, del loro essere Rom, dell’appartenere a una comunità che comunque fa parte del tessuto della popolazione ungherese da almeno 400 anni. Quindi, i Rom rivendicano il fatto di essere stati sempre, di aver partecipato alle fasi importanti della storia di Ungheria, di non essersi tirati indietro. Quindi citano, per esempio , il loro contributo durante la prima guerra mondiale e poi anche nei fatti dell’ottobre 1956 dei quali, scusate, lo scorso 23 ottobre si è ricordato il sessantesimo anniversario in maniera un po’ particolare, diciamo. Voglio dire che le manifestazioni, le celebrazioni organizzate dal governo sono state un po’ particolari, ma questo è un altro argomento.

Quindi ecco, la radio è durata fino al 2010, se non ricordo male, dopo di che ha smesso di funzionare per mancanza di fondi poi non c’è stata un’operazione di salvataggio che il governo dell’epoca aveva promesso e quindi insomma è venuto a mancare questo tramite che effettivamente ha funzionato, perché non era soltanto una emittente che mandava in onda musica, ma aveva per esempio diverse trasmissioni, un filo diretto durante il quale la gente poteva partecipare, poteva dire la sua, poteva proprio partecipare a un dibattito, parlare di problemi e via discorrendo. Problemi derivanti naturalmente dalla pesante situazione dei Rom, disoccupazione e situazione difficile anche nelle scuole, non soltanto in Ungheria ma anche in Slovacchia e Repubblica Ceca. Anche per provare a combattere contro i pregiudizi di cui i membri di questa comunità sono fatti oggetto.

La riflessione che si può fare effettivamente, e che sicuramente hanno fatto i promotori di questa iniziativa che ha cessato di esistere, è quella che anche da parte comunque della comunità Rom si può pretendere uno sforzo maggiore per andare oltre a un certo vittimismo e per provare insomma a prendere in mano le redini del loro destino, ma certo in questo caso ci vuole la collaborazione del resto della popolazione. Quindi, si tratta proprio di un problema di integrazione sociale.

In Romania le cose non vanno molto diversamente perché come in Ungheria durante l’epoca del regime c’è stato un tentativo di integrazione, se vogliamo, forzata dei membri di questa comunità, comunque c’è stato un tentativo di integrazione nel tessuto sociale, nelle scuole e nel mondo del lavoro; ripeto, anche con delle contraddizioni, anche con delle forzature. Diceva appunto Caputo, anticipava il fatto che in Romania c’è stato un processo proprio di urbanizzazione delle comunità Rom che ha creato una situazione particolare, una comunità e all’interno di questa comunità trovavamo per esempio la parte che era rimasta nelle campagne, che era rimasta quindi legata ai mestieri tradizionali, il fabbro, il falegname, il pellaio e via discorrendo, mentre invece coloro i quali sono stati, come dire, fatti oggetto di questo processo di urbanizzazione, e quindi di assimilazione, di integrazione nel tessuto lavorativo del paese e quindi di inserimento nella fabbriche, hanno visto un po’ snaturato il loro essere. E dai non-Rom sono stati visti anche con un certo sospetto.

Non altrettanto si può dire dei Rom che hanno continuato la loro vita nelle campagne, che sono rimasti legati a tutta una serie di reti familiari, di reti solidali e che venivano percepiti quindi come più genuini, mentre corrotti erano invece quelli delle città. Del resto, comunque, è stato un processo epocale, pianificato dal regime e che ha creato queste dinamiche. Oggi come oggi le cose non sono cambiate nel senso che la tendenza in Romania è sempre quella di fare sempre questa distinzione tra i Rom delle campagne, più genuini, più ingenui, più legati alle loro tradizioni, e i Rom delle città.

Quindi ecco, questa dei Rom resta una situazione complessa estremamente complicata. Prima ancora dell’ingresso di questi paesi nell’Unione Europea ricordo che la Commissione Europea aveva fatto pressioni, aveva sollecitato i governi dei paesi ex socialisti, dell’Ungheria, della Repubblica Ceca, della Slovacchia, perché si impegnassero maggiormente sul fronte proprio della lotta contro della discriminazione contro questo tipo di minoranza e per dar luogo a dei programmi con i quali insomma avvantaggiare, incoraggiare una maggiore integrazione sociale dei Rom. E chiaramente ponendo fra le altre cose il lavoro in una posizione centrale come mezzo di integrazione, di inclusione sociale. Vediamo invece che oggi, per esempio in Ungheria, secondo le stime attuali, la disoccupazione tra i Rom va dal 60 all’80%, che è veramente tanto, e questo significa che una parte consistente della popolazione ungherese è esclusa dal mondo del lavoro.

Poi c’è stato il sistema dei lavori di pubblica utilità organizzati dal governo Orban, sottopagati e insomma condotti in condizioni non certamente ideali dal punto di vista della difesa del lavoro e del diritto al lavoro. Ecco, io ho avuto modo di incontrare diverse volte esponenti di questa comunità che hanno fatto presenti questi problemi e c’è veramente un problema di dialogo, un problema di interlocuzione tra le due parti della società ungherese, così come di quella romena. Mancano veramente degli strumenti di confronto, oggi come oggi. Se un tempo, un paio di anni fa, questa radio fungeva un po’ da piattaforma, cercava insomma di costruire un ponte, adesso è venuto meno anche questo tipo di strumento. A me sembra che ci sia una grande volontà di crearlo, di costruirlo.

I Rom tra l’altro sono stati anche oggetto di accuse da parte delle organizzazioni di estrema destra in Ungheria, in Romania, anche in altri paesi, per esempio in Slovacchia. Visti non come una parte sofferente della società, ma visti soprattutto come un problema di ordine pubblico, di sicurezza pubblica, di igiene pubblica. Lo Jobbik, il partito ungherese di estrema destra, ha fatto proprio una campagna in questo senso, creando proprio delle organizzazioni para-militari attive nelle campagne, soprattutto nei centri a particolare densità abitativa Rom, proprio perché dicevano: la polizia non basta, o non si preoccupa troppo del problema della criminalità dovuto proprio ai Rom; e quindi si era dotato, aveva creato queste ronde, queste organizzazioni che si rendevano protagoniste di ronde, di atti di violenza, di intimidazioni perlomeno.

Adesso c’è da dire che lo Jobbik ha intrapreso un nuovo percorso, insomma sta cercando di dimostrarsi non più come un partito di tipo estremista, ma come un partito conservatore, che cerca, che mira alle elezioni del 2018 per conquistare il governo e quindi i vertici sanzionano ora i membri e i simpatizzanti del partito che si esprimono in maniera offensiva nei confronto dei Rom e degli ebrei. In sostanza, il partito è rimasto quello che era prima, però ha dato luogo a un’operazione di facciata che ha dato i suoi frutti, nel senso che, secondo sondaggi recenti, una parte consistente della popolazione ungherese non vede più tanto Jobbik come un partito estremista, radicale di destra, ma come un partito conservatore, come un partito di destra sì, però non particolarmente pericoloso.

Comunque ecco, ho voluto aggiungere quest’altro particolare per dire che i Rom sono stati anche un po’ il capro espiatorio di organizzazioni di destra che, a fronte dei problemi di paesi quali Ungheria, Romania e via discorrendo, e a fronte della crisi hanno cercato proprio, come dire, la causa di questi problemi proprio in questa criminalità Rom. Mi è capitato di sentire da parte di simpatizzanti di Jobbik cose terribili, come per esempio: i Rom sono geneticamente propensi al furto. E non sarebbe neanche colpa loro, ma insomma è un loro gene, un loro dato è una cosa che appartiene alla loro natura, per cui non ci si può fare niente. Ma del resto, non ci si può neanche dialogare anche perché i nostri modi di vita non sono gli stessi, i nostri modi di vita confliggono, sono troppo diversi, e via discorrendo. Cioè, Jobbik, come altri partiti, come i partiti e le organizzazioni di estrema destra romeni, slovacchi, anche ceche e via discorrendo, hanno dato luogo a semplificazioni atroci, che non hanno certo aiutato a sviluppare lo spirito critico, a cercare di capire dove stanno effettivamente i problemi e soprattutto a non andarli a cercare fuori. E questo è un po’ il problema che si ha in questi paesi.

Io mi sono occupato anche della situazione della corposa minoranza ungherese che è parte notevole della Transilvania, una importante regione un tempo appartenente all’Ungheria, una minoranza molto folta, una minoranza che ha avuto una storia travagliata e che è diciamo la testimonianza più grande dello smembramento territoriale subito dall’Ungheria all’indomani della prima guerra mondiale, dopo aver perso la prima guerra mondiale, come parte della duplice monarchia, cioè quella costruzione politica del 1867 creata attraverso l’Ausgleich (“compromesso”), quindi l’Austria-Ungheria.

Persa la prima guerra mondiale, ecco che l’Ungheria ha subito una smembramento territoriale, attraverso il quale porzioni notevoli del suo territorio sono andate ai paesi vicini, ai paesi confinanti. Di conseguenza, gli ungheresi di Transilvania sono diventati poi cittadini romeni e di lì è iniziata una storia molto complessa, una storia molto difficile, una storia che ha visto le autorità romene cercare di scoraggiare, vedere con diffidenza tra l’altro la comunità ungherese attribuendole il tentativo di distaccarsi dalla Romania, di avere proprio degli intenti scissionisti. E questa è una storia lunga, è una storia che continua, ma anche quando i due paesi a livello ufficiale riescono in qualche modo a dialogare, e non sempre (soprattutto con il governo Orban non è particolarmente facile proprio perché questo governo entra in conflitto su questioni molto sensibili, su questioni molto delicate come quella delle minoranze), ecco però che resta un problema, come dire, di diffidenza, resta un problema di difficili rapporti, tra ungheresi di Romania e romeni non ungheresi. Quindi, ho cercato di sottolineare, di raccontare un po’ questa storia, ho cercato di dare degli elementi, di provare da fornire una chiave di lettura per quest’altra vicenda complessa.

E poi naturalmente, abbiamo dedicato ampio spazio al problema del nazionalismo, al problema dei nazionalismi attuali. Noi sappiamo che questi paesi sono sempre stati paesi di minoranze però durante il periodo socialista questo aspetto è stato, come dire, in qualche modo congelato, perché non si parlava proprio di questioni nazionali, perché le questioni nazionali non erano certo all’ordine del giorno, non si parlava di internazionalismo, c’erano altri criteri, altre logiche. Una volta chiusa quella pagina storica, ecco che i vari nazionalismi hanno risollevato la testa, come si fossero risvegliati da un lungo sonno, e così sono nati diversi gruppuscoli dai quali poi sono nate delle organizzazioni vere e proprie, Jobbik attualmente è uno dei partiti più forti in Europa.

Ho visto recenti statistiche secondo le quali in Ungheria ha perso un po’ di consenso mentre invece il partito di governo, il Fides, ha visto mantenere stabile il consenso e quindi a tutt’oggi sembra difficile sbarazzarsi di Orban, anche se non ha più la maggioranza dei due terzi in parlamento, ma il problema è che non c’è ancora una risposta politica adeguata. Oggi come oggi in Ungheria le iniziative anti governative più creative, più interessanti vengono dalla società civile, dai settori progressisti della società civile, che si sono espressi in maniera molto chiara e visibile, per esempio, in tutto il periodo della crisi emigranti che Orban ha sfruttato, riottenendo e recuperando un po’ di quei consensi che aveva perduto, giocando la carta emigranti: io sono il difensore di questo paese, e non solo, sono il difensore dell’Europa come tanto tempo fa l’Ungheria ha difeso l’Europa dai turchi, oggi la piccola Ungheria continua a difendere l’Europa. Questo è il discorso di Orban e dei suoi sostenitori. Purtroppo, molta gente in Ungheria gli crede.

E quindi, la società civile si muove, c’è un dibattito intellettuale che purtroppo però non ha ampio respiro, non trova i circuiti adatti per poter essere diffuso a dovere. Il problema però è che le iniziative della società civile, le iniziative progressiste della società civile non riescono a trovare, come dire, una sintesi politica, cioè un soggetto politico che riesca a fare una sintesi di queste istanze, che possa in questo modo, come dire, proporre un progetto politico antagonista diverso da quello di Orban.

L’Ungheria da qualche tempo a questa parte fa parlare di sé, direi soprattutto dal 2010, dall’anno in cui Orban è tornato al governo, perché c’è già stato nel periodo compreso tra il ’98 e il 2000 e il 2002, ma allora era un altro Orban ed era un altro Fides: il Fides, cioè il partito che governa l’Ungheria oggi, c è quello che è per l’esperienza che ha fatto in otto anni di opposizione al governo liberal-socialista; si è formato così e oggi lo vediamo come un partito che tende a realizzare un controllo sempre maggiore sulla società, sempre più capillare. È nazionalismo, è autoritarismo, nel 2012 è entrata in funzione una nuova costituzione marcatamente conservatrice e nazionalista. Questa è l’Ungheria di oggi, c’è anche un’altra Ungheria che purtroppo non ha sufficiente spazio.

Noi, dopo l’esperienza di questo libro, stiamo già lavorando a un’altra opera che sondi in maniera, diciamo, approfondita la questione dei populismi in Europa. Io e Cristina Carpinelli, ciascuno con la sua area di competenza, adesso stiamo lavorando a quest’altra opera e quindi portiamo avanti questo discorso, questa operazione culturale iniziata con questo libro che è un po’ il coronamento dell’esperienza dell’OSNE, dell’Osservatorio Sociale Mitteleuropeo, che esiste già da anni e che con questo libro ha, diciamo, toccato una prima tappa importante.

Grazie dell’ascolto. Passo la parola a Cristina Carpinelli.

Trascrizione della relazione di Cristina Carpinelli

È inutile ribadire la necessità di affrontare temi importanti non solo per un fatto conoscitivo di cui purtroppo ci sono tra gli studiosi occidentali delle lacune serie per quanto riguarda ovviamente la regione politica di cui io e Massimo Congiu ci stiamo occupando, ma anche perché ci interessa. Questi paesi sono oggi nell’Unione Europea, sono paesi che ci riguardano perché le loro scelte, le loro politiche hanno sicuramente e avranno sicuramente nel futuro un impatto forte e quindi conoscerle e studiarle è un dovere per noi cittadini europei.

Sono realtà complesse, molto diverse che ci vedono distanti anche spesso anche nella comprensione dei loro fenomeni perché noi veniamo e proveniamo da un’esperienza culturale e storica molto diversa e quindi anche certe volte difficili da comprendere, ma io credo che sia veramente arrivato il momento di cercare di studiarli, senza demonizzarli, anche se alcune scelte sicuramente non comprensibili, ma è l’unico modo per intraprendere una strada di dialogo. Questo lo dico perché, riallacciandomi a quello che diceva Congiu, è in atto un processo nuovo di cui presto verremo a conoscenza, che è quello di questo nuovo polo orientale che insieme ai paesi baltici, insieme alla Polonia, tutti i paesi del gruppo Visegrad che coinvolge anche Romania e Bulgaria, si vogliono porre come alternativa all’Unione Europea pensata dai nostri padri fondatori.

È un processo che è in atto già da diverso tempo e di cui ancora noi non siamo esattamente consapevoli, un progetto che ha trovato, diciamo, la sua fase di implementazione dopo Brexit, quindi con l’uscita della Gran Bretagna dal consesso europeo, e che è stato un po’ il passpartout culturale. Quindi, la Polonia, che si vuole far guida insieme all’Ungheria di Orban in questo nuovo progetto, propone un’Europa diversa. Quindi questi paesi, inizialmente molto euroscettici, anzi direi anti-europei, sono passati invece a una impostazione nuova, direi che c’è stata un’evoluzione nuova da parte di queste realtà geopolitiche, che è quella di dire: no, l’Europa ci vuole, l’Europa unita ci vuole, ma non può essere l’Europa che Germania, Francia e Italia propongono; quella è un’Europa oggi che è in pieno fallimento e se non si cambia rotta, implode.

Loro cosa propongono? Non propongono gli Stati Uniti d’Europa, loro propongono l’unione europea delle patrie e dei popoli, dove fondamento di questa unione è il nazionalismo su base etnica e su base religiosa. Questo è un processo che riguarda molti paesi, i paesi baltici, la Romania, la Bulgaria, tutti quelli del gruppo Visegrad che sono Ungheria, Cechia, Slovacchia e, che cosa dimentico fra i quattro paesi? la Polonia. E quindi è una realtà geopolitica piuttosto grande e che in questo momento, come dire, di forte clima nazionalistico che non coinvolge solo quei paesi ma anche altri paesi dell’Europa occidentale, può avere presa se non ci sarà un’attenzione e, come dire, un’apertura di confronto e di dialogo forte con questa realtà, il rischio è sicuramente grande.

Per parlare dei paesi baltici. I paesi baltici sono una piccola realtà e, ovviamente, uno dice: bah. No, questi paesi stanno assumendo un ruolo importante proprio perché sono dentro a questo progetto forte, sono paesi che stanno vivendo un momento particolare. Certamente, i venti di guerra provenienti da oltre oceano hanno stimolato e incentivato ulteriormente il clima russofobo che è presente in particolare in Lettonia e in Estonia, e sono sicuramente paesi che guardano con attenzione e con estrema paura, perché vissuta come minaccia, la migrazione che sta coinvolgendo i paesi europei. Anche se loro non sono coinvolti direttamente nelle quote di redistribuzione, ma sono sicuramente preoccupati.

Questo lo dico perché proprio recentemente in Lettonia è stata varata a dicembre, e in attuazione dal primo di gennaio di quest’anno, una legge terribile, la legge di lealtà alla nazione che impone a tutto il corpo docente di qualsiasi livello e grado scolastico un comportamento e una prassi di studio teorica, quindi un programma di studi dove l’attenzione all’identità nazionale e alla costruzione di una visione nazionalistica del paese deve essere prioritario. Chi non segue questo tipo di protocollo può essere sospeso dal servizio o addirittura licenziato. È una legge pesante, è una legge minacciosa che coinvolge direttamente innanzitutto le comunità russofone presenti sul territorio a cui questa legge è particolarmente indirizzata, ma che coinvolge anche le possibili e potenziali future presenze migratorie nel loro paese.

Questo lo dico perché proprio recentemente anche in Lettonia e in Lituania e non in Estonia è stata introdotta la doppia cittadinanza. Ma la doppia cittadinanza è stata introdotta perché, avendo questi paesi soprattutto un grave deficit di nascite e un saldo migratorio negativo, la loro preoccupazione è quella di assegnare la cittadinanza a tutti quegli emigrati lettoni o lituani che sono da tempo, cioè dai tempi dell’Unione Sovietica, emigrati per motivi politici e culturali, la possibilità eventuale di ritornare in patria possedendo già la cittadinanza, cioè una sorta di, come dire, prevenzione, laddove nel momento in cui nel tempo si dovessero creare problemi di manodopera, ecco un potenziale potrebbe essere questo ritorno di questi flussi migratori di cittadini che sono riconosciuti appunto etnicamente o lettoni o lituani. E anche questa è stata, come dire, una scelta recente perché è stata compiuta nel 2014, ma con questa idea, con questo obiettivo.

Sono quindi paesi su cui noi avremo molto a breve delle notizie importanti e interessanti, su cui dovremo sicuramente confrontarci seriamente, perché siamo molto distanti. E questo, ripeto, non riguarda soltanto i paesi baltici, l’Ungheria e la Polonia; è un problema molto serio; l’Ucraina è una bomba, una mina vagante. Proprio in questo periodo stiamo affrontando la questione dei populismi in questi paesi, e vi assicuro che proprio la questione ucraina,se non trova a breve una soluzione al conflitto, potrà essere un problema grande visto che Poroschenko e tutta quell’area che era vicina, ed è ancora vicina, al progetto europeo sta sempre perdendo più consenso a favore invece di gruppi nazionalistici forti e populistici che sono effettivamente molto, molto distanti da quello che è la nostra idea e concezione di Europa. Questo significa che l’Ucraina che in questo momento ha già fatto gli accordi di associazione politica-economica, se prenderà questa piega sarà sicuramente molto più vicina all’orbita e a questo polo orientale che si sta costruendo che vuole pensare o immaginare un’Europa diversa. E allora saranno problemi perché diventano paesi che hanno una consistenza numerica pesante anche rispetto a quell’altra parte di Europa che è quella che noi conosciamo, quella dei nostri padri fondatori.

La questione baltica. La questione baltica è un problema che si può solo comprendere, per quanto riguarda la presenza delle minoranze, facendo un’analisi storica. Voi potete immaginare perché ci sono delle comunità russofone così forti in quei paesi, un po’ meno in Lituania, la questione della Lituania è diversa, c’è stata molto meno immigrazione, la Lituania è molto più agricola, è molto più contadina, mentre la Lettonia e l’Estonia hanno grandi complessi militari industriali dai tempi dell’Unione Sovietica. E in Lituania il problema in questo momento più serio non è quello della russofobia, ma caso mai quello dello sciovinismo anti-polacco. E poi vediamo anche quali sono le motivazioni storiche. E quindi è un problema che noi possiamo cercare di comprendere con un minimo di, e mi scusate, iter storico, ma è necessario, necessario anche perché anche sono comunità grandi: in Lettonia sono il 26% della popolazione totale, in Estonia sono il 24,8%, quindi sono comunità sensibilmente significative, meno in Lituania dove siamo sul 5,8%, mentre invece è molto più preponderante la comunità polacca che è il 6,8%.

La vicenda risale ovviamente al momento dell’occupazione sovietica, già ancora della prima occupazione sovietica, quella del giugno 1941-agosto 1941, dove la politica staliniana era proprio quella, dopo la grande ondata successiva alla fine della guerra e quindi siamo già intorno al ’43–’44, lì c’è stata proprio l’ondata migratoria più preponderante, più forte e più massiccia. Ma l’idea qual era? L’idea di Stalin che allora governava l’Unione Sovietica, era quella, e non solo nei paesi baltici ovviamente, di spezzare le coesioni nazionali. Allora, immaginate quanti stati aveva l’Unione Sovietica, quante nazionalità e quindi aveva bisogno di tenere insieme un mondo enorme. Per tenerlo insieme il collante era sicuramente l’ideologia del partito. Ma l’altro grande collante qual era? Era la necessità di andare a spezzare nei vari stati, ma questo non solo nei paesi baltici ma lo possiamo anche immaginare nell’Asia Centrale, le coesioni nazionali. Come si poteva attuare questo progetto? Lo si poteva attuare esportando in quei paesi massicce presenze di manodopera russa con un duplice obiettivo: primo di tipo economico che significava immettere una massiccia forza lavoro russa nei grandi complessi industriali e militari, adesso sto parlando dei paesi baltici in particolare, Lettonia ed Estonia, soprattutto a Riga e dalla parte di Narva su in Estonia che è quella più verso la Russia, la parte più orientale, ma anche a Tallin. E con questa operazione furba, strategicamente interessante e furba di Stalin, che fu questa: la gran parte di manodopera che non era solo russa ma anche bielorussa e ucraina sarà impegnata in questi grandi complessi militari, manodopera bassa, manovalanza e operai eccetera, mentre i ceti autoctoni, quindi le élite politiche, il ceto medio autoctono lo coinvolgiamo nei lavori più prestigiosi, impiegatizi, ma anche accademici della grande macchina burocratica sovietica. Quindi l’obiettivo era quello ovviamente di neutralizzare e di abbattere quanto più possibile eventuali possibili forme di dissenso o di opposizione al regime. Ecco, questa è stata una grande idea di Stalin.

Ma d’altro canto, è stata anche una grande operazione non solo economica, ma anche culturale: l’idea era quella di procedere a una forte russificazione di questi paesi, russificazione dal punto di vista della lingua, come sapete era obbligatoria la conoscenza della lingua russa, questo significava anche produrre mobilità sociale e dal punto di vista culturale, quindi l’emissione anche di libri e testi, ecc., dove l’elemento russo fosse sempre più presente a discapito invece degli elementi culturali autoctoni, è stato un processo forte di russificazione, e poi anche dal punto di vista religioso, come sapete, questo ovviamente non solo nei paesi baltici, l’affermazione dell’ateismo come ideologia di stato, quindi l’impossibilità per tutti questi paesi di professare il loro credo.

Un’operazione che è servita a Stalin per tenere insieme tutti questi mondi, queste nazionalità che erano diversi perché i baltici, il Kazakistan, il Kirghizistan… potete immaginare che situazione estremamente complessa, ma era l’unico modo per tenere insieme un grande stato multi-etnico e multi-nazionale. Questo cosa ha prodotto nel tempo? Quindi, e arriviamo a dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, ha prodotto nei paesi baltici, in particolare ripeto in Estonia e Lettonia, la presenza di due grandi comunità, quella autoctona e quella russofona o di etnia russa. Erano due realtà impermeabili, due comunità separate con addirittura scuole separate, che comunicavano molto poco tra di loro e c’erano evidentemente anche tensioni già prima dell’implosione dell’Urss, ma queste tensioni sono poi esplose in maniera virulenta con il crollo dell’Unione Sovietica.

Anzi ancora prima, nel periodo degli anni gorbaciovani voi sapete si erano formati questi fronti popolari baltici che inizialmente rivendicavano soltanto una sovranità repubblicana, chiedevano, ad esempio, che sul passaporto non ci fosse espressa solo la nazionalità sovietica, ma anche quella repubblicana, in questo caso lettone eccetera. Quindi, una prima fase fino all’89 è stata una rivendicazione più di autonomia ma sempre dentro il contesto sovietico, dall’89 in poi questi fronti popolari baltici sono diventati dei veri e propri movimenti separatisti, secessionisti. C’erano già le condizioni che Stalin alla fine aveva creato perché questo movimento forte indipendentista e secessionista si facesse avanti, perché in realtà poi il ceto medio e le classi politiche forti erano quelle di nazionalità autoctona, proprio perché a quelle era stato consentito di entrare a far parte, dentro, come dire, a quella parte di popolazione che godeva già di diritti e di privilegi, dato che invece ai russi era stato consentito di lavorare soprattutto nelle grandi industrie, ma tutto sommato come lavoro di manovalanza. E alla fine questa strategia si è mostrata controproducente nel senso che aveva creato già tutte le premesse perché in questi paesi si facesse avanti questo discorso di forte secessionismo. Vi ricordate la vicenda di Vilnius nel gennaio 1991 quando Gorbaciov tentò con i carri armati di occupare Vilnius, di calmare, di placare le tensioni secessioniste con esito come sapete drammatico nel senso che poi fu fallimentare. Poi a distanza di qualche mese l’Unione Sovietica crollò.

E quindi si pone un problema: crolla l’Urss, che cosa fare di queste grandi minoranze. Lì vengono fuori tutte queste tensioni, questi disagi, questo rancore e questo odio verso i russi, occupanti per ben due volte: la prima nel ’40-’41 e poi alla fine della seconda guerra mondiale quando appunto vengono inglobate nell’Unione Sovietica, e quindi c’è un odio feroce non tanto verso l’idea sovietica, ma proprio verso i russi perché l’Unione Sovietica in realtà è stato un processo più che di sovietizzazione, di russificazione di quella grande parte di mondo. Rancore che ha prodotto delle scelte politiche negli anni Novanta pesantissime con sostanzialmente delle leggi, quella di cittadinanza, questa elettorale, quella di lustrazione che hanno ancora più accentuato la discriminazione e la emarginazione di queste comunità. Come sapete, il processo cui ha accennato prima Caputo, come dire, di epurazione di grandi componenti della società civile, ma non solo nei baltici, nei baltici ancora meno perché è stato più che altro un processo di desovietizzazione. Cioè, l’epurazione da certi posti di incarichi alti da parte di magistrati, professori eccetera, soprattutto se russsofoni, ma se andiamo a vedere che cosa è successo da questo punto di vista sopra tutto in Polonia, in Ungheria, in Bulgaria, si vede chiaramente quello che giustamente Sergio Romano ha definito una politica maccartista di caccia alle streghe.

Viene meno praticamente quell’idea, invece, di conciliazione che sostenne per esempio Mazowiecki quando formò il suo primo governo post-comunista ancora prima della caduta del muro di Berlino, con l’idea della Gruba krsenja che era quella di questi: spezziamo, basta con il passato, non pensiamo più al passato, guardiamo in avanti, guardiamo al futuro e cerchiamo di costruire un mondo migliore. Se non facciamo questa opera di conciliazione, ecc., facciamo fatica a uscirne. Stessa idea che poi sostenne sempre in Polonia Adam Michnik che è il capo redattore di Gazeta Wyborcza, il quale diceva: amnistia, senza amnesia, ma amnistia. Una politica che oggi, come sapete, in Polonia è disattesa dato che Kaczynski, anche se non ha un ruolo istituzionale è il vero artefice che tiene i fili del partito, ancora oggi ha deciso di rimettere in ballo addirittura la questione di Lech Walesa ritenuto una spia sovietica con il codice di Bolek, quindi una sorta di epurazione verso anche importanti quadri del movimento sindacale di Solidarnosh, non solo Lech Walesa ma anche altri personaggi importanti.

Allora, questa situazione, ritornando ai nostri paesi baltici, crea una situazione di maggiore tensione e, direi, addirittura, di politiche che portano a legittimare, dal punto di vista proprio giuridico, la non appartenenza a queste grandi comunità russofone alla nazionalità del paese. La legge di cittadinanza, almeno le prime leggi, quelle degli anni Novanta, erano estremamente rigide. Chi prima dell’occupazione sovietica, la prima, quindi già parliamo del 1940, non possedeva la nazionalità lettone od estone non è e non sarà riconosciuto cittadino o lettone o estone. Questo significava che tutte le comunità russofone, chiusa la vicenda sovietica, rimanevano in uno stato di limbo, non erano neanche apolidi, erano semplicemente, come si diceva sul passaporto estone, alien. Se voi andate a vedere il passaporto grigio degli estoni, di questi cittadini non cittadini, c’è scritto: alien, alieno. Questo vi da il senso del rancore e dell’odio verso queste comunità.

Le quali non si sentono neanche più russe, perché sono lì da decenni, i loro figli sono nati lì, quindi non hanno neanche intenzione di ritornare in Russia perché loro vivono ormai una realtà nuova, diversa. Eppure in quegli anni quelle leggi, ma anche quelle elettorali, nel senso che chi aveva fatto parte dei servizi segreti, o era iscritto al partito comunista, e tanti lo erano non per scelta volontaria ma anche spesso per necessità o obbligo, ecco, questi non potevano partecipare alle elezioni e al voto politico.

Altre scelte, quella della lingua, per esempio quella di togliere la lingua russa come seconda lingua ufficiale, dal 2004 la lingua russa non è più una lingua ufficiale ed è ritenuta una lingua straniera mentre non si capisce perché tengano invece come lingua ufficiale il livoniano che è una antica lingua lettone, dove in Lettonia in questo momento sono esattamente sei i cittadini che parlano il livoniano. Ma questa rimane comunque una lingua, mentre in Lettonia un cittadino su quattro parla la lingua russa.

Ma insomma con una serie di provvedimenti piuttosto pesanti questa minoranza è stata pesantemente discriminata. Pensate che nel 2003 non hanno partecipato al voto sull’Unione Europea; siccome non erano cittadini non avevano nessun tipo di diritto civile e politico, quindi non hanno potuto partecipare al referendum se decidere di entrare o non entrare nell’Unione Europea.

Ancora di più. Se andiamo a vedere, ancora oggi neanche alle elezioni locali amministrative, c’è stato un tentativo in Estonia ma poi è stato nel 2007 chiuso, neanche alle elezioni amministrative possono partecipare. Con una situazione veramente assurda, perché se uno di noi va in Estonia o Lettonia e ci rimane per tre mesi, questo è un periodo sufficiente per poter partecipare noi stessi alle lezioni amministrative di quelle realtà, alle elezioni amministrative e politiche. Quindi, una situazione veramente di un’assurdità incredibile, la nostra partecipazione in quanto cittadini comunitari ovviamente, quindi in quanto europei.

Una situazione così certo non poteva essere accettata dall’Unione Europea e dell’OSCE. Infatti, tante sono state (siamo andati a vedere sul sito dell’Unione Europea) le raccomandazioni fatte soprattutto alla Lettonia e all’Estonia, sono credo centinaia di interpellanze, di mozioni; c’è veramente un vespaio ma che ha prodotto un suo risultato e questa è una grande vittoria dell’Unione Europea, perché già per esempio nel ’98 sia la Lettonia che l’Estonia provvedono a degli emendamenti della propria legge secondo la quale, su richiesta dei genitori, i figli di genitori non cittadini possono ottenere la cittadinanza senza sottostare alla procedura di naturalizzazione; che è molto pesante nel senso che se tu vuoi ottenere la cittadinanza e sei già adulto, quindi non sei nato dopo l’indipendenza, devi sottostare a un test dove devi dimostrare che conosci bene la lingua autoctona, devi conoscere bene la storia del paese, devi conoscere a memoria la costituzione, cioè una serie di situazioni che per un giovane magari non è poi neanche così complessa; ma se voi pensate che soprattutto le generazioni di una certa età che vivevano e vivono là non hanno mai parlato quella lingua perché stavano chiusi nella loro comunità, passare il test di quel tipo è veramente quasi direi impossibile. Si è invece comunque avuta un’apertura forte per quanto riguarda i figli di questi cittadini o non cittadini che sono nati in quei paesi dopo l’indipendenza, quindi dal 1991-1992, su richiesta dei genitori. Un passo importante, non certamente risolutorio di una questione assai allarmante, ancora controversa, ma sicuramente è stata una prima apertura.

Ce n’è stata poi un’altra nel 2013-2014 che ha risolto, almeno dal punto di vista giuridico, il problema della cittadinanza almeno per le nuove generazioni. Oggi le nuove generazioni, senza la necessità che siano i genitori a richiedere la cittadinanza, automaticamente la acquisiscono. Quindi, diciamo, che almeno per le nuove generazioni questo problema è risolto, quello della cittadinanza, che poi vuol dire appunto una serie di diritti che non sono soltanto civili e politici, ma anche sociali, economici, e anche previdenziali.

In Lituania invece la situazione è un po’ diversa; la Lituania non ha mai attuato appunto delle leggi così pesanti e discriminatorie verso le sue comunità non perché più brava, ma semplicemente perché le comunità sono molto più piccole e ridotte e quindi non hanno mai avvertito, sia quella polacca sia quella russa, come una minaccia, come una sorta di necessità legislativa di tutela e di difesa etnica, quindi già dal 1991 i figli minori di questi non cittadini potevano ottenere la cittadinanza addirittura senza neanche conoscere la lingua eccetera, immaginando che poi frequentando, questi bambini, le scuole locali dove appunto veicolare la lingua lituana nel tempo poi avrebbero ovviamente acquisito delle buone basi di conoscenza della lingua.

E quindi diciamo che dal punto di vista giuridico questo problema è risolto, rimane invece comunque non risolta la parte dell’integrazione culturale e soprattutto della questione sociale, economica. Noi abbiamo due comunità, una quella autoctona che è quella più ricca, quella più benestante, e invece questa comunità russa che è quella più povera, che vive ai margini, che fa i lavori meno remunerativi eccetera. E soprattutto, l’elemento direi più pesante è ancora quello culturale sul quale i paesi baltici ritengono perse sicuramente le generazioni passate, su cui non hanno nessun interesse, nessuna attenzione, anche se parliamo di persone che dentro questa comunità sono ancora percentualmente maggioritarie rispetto alle nuove generazioni. Puntano invece tutta la loro politica sulle nuove generazioni, con una politica che non è soltanto integrativa ma proprio assimilativa, di assimilazione della cultura del paese, delle origini. Un’opera proprio di richiesta attraverso una serie di programmi anche scolastici fortemente identitari eccetera, quindi di abbandono delle loro radici familiari e storiche e quindi di assimilazione completa al tessuto culturale, sociale del paese in cui vivono. Un’operazione che pare stia riuscendo nel senso che poi molti giovani, per non sentirsi emarginati, perché poi sono nati lì e quindi hanno amici e anche compagni di gioco che sono autoctoni, intendono e si stanno muovendo anche in questa direzione. E quindi è un’operazione che sta funzionando.

Sta funzionando anche perché, per esempio, in Estonia come sapete è stata appena eletta una nuova presidente, la prima donna presidente che assurge alla massima carica dello stato, Kersti Kaljulaid, una giovane donna, una quarantacinquenne, madre di quattro figli, e quindi una che conosce bene quella che può essere la vita e la realtà di una famiglia del posto, eccetera, una donna che tra i punti prioritari della sua agenda politica ha messo proprio una maggiore integrazione di queste comunità. Un’operazione che nasce però anche da questa paura, minaccia, che vi dicevo ha prodotto poi quella legge di cui vi ho parlato all’inizio quando mi sono introdotta al discorso, un’integrazione che nasce dal fatto di creare immediatamente e velocemente una più forte coesione interna, proprio perché c’è questa paura, che anche se ancora non li coinvolge, di arrivi di nuovi flussi immigratori di etnie diverse che possano colpire o minacciare il paese. Quindi, alla fine è meglio, tutto sommato, chiudere un occhio, integrare alla svelta il più possibile queste nuove generazioni di bambini russi che possano anche loro in una qualche maniera ostacolare o, come dire, aiutare il paese in questa idea che è comunque quella di non accogliere, di non accoglienza. La questione islamica è là vissuta ancora più pesantemente che da noi perché è anche una realtà più distante, cioè sono paesi che non sono stati sicuramente toccati storicamente, non l’Ungheria che invece lo è stata toccata eccome, ma i paesi baltici non lo sono stati da questo problema, ma che lo vivono anche probabilmente per una storia loro passata di anni di invasione nazista, sovietica e finalmente adesso, dopo il ’91 respirano, possono essere popoli liberi e indipendenti e quindi qualsiasi cosa esterna o interna che possa essere una minaccia deve essere immediatamente epurata o comunque messa sotto controllo.

Vi faccio un altro esempio sempre in Lettonia: subito dopo questa legge di lealtà alla nazione che è entrata in vigore adesso, il primo gennaio, la Lettonia è il primo paese, credo dopo la Bulgaria, mi correggi, Congiu, che ha introdotto una legge, che entra in funzione anche questa da gennaio, per il divieto del velo integrale. Un paese che non ha un mussulmano nella sua terra, ha fatto una legge per impedire il velo integrale alle donne islamiche. Io non entro nel merito della scelta però posso capire, poi dopo possiamo dire se siamo d’accordo o no, questo adesso questo poco importa in Francia, ma in un paese dove effettivamente non c’è neanche un mussulmano… Ma questo però è per farvi capire quale preoccupazione in queste piccole realtà, che sono anche piccole e per il fatto di essere piccole pesa, perché quando tu hai vicino a te dei giganti come la Russia, la Polonia e la Germania vivi ancora di più questo senso della minaccia o della necessità di tutelarti in ogni modo. Ecco, in Lettonia questo ultimo atto appunto, direi estremo, parossistico, è stata l’introduzione del divieto del velo per le donne, quello integrale non quello a viso scoperto. Quindi, ci troviamo di fronte a queste situazioni.

La questione invece polacca è una questione, direi anche se riguarda una percentuale minoritaria più piccola, forse più seria; più seria perché è un paese dove lo sciovinismo anti-polacco è ancora molto, molto forte. Come sapete, storicamente Vilnius e i territori circostanti di Vilnius erano stati inglobati dalla Polonia, questo durante la seconda repubblica polacca dal 1922 al 1939: la Polonia inglobò non solo questa parte della Lituania, ma anche la Galizia e quindi l’Ucraina occidentale e nella sua massima estensione anche parte della Bielorussia come Smolensk eccetera e Smolensk è quasi al confine con la Russia. È una situazione che si trascina, una ferita storica ancora non risolta come non è risolta, Congiu lo sa bene, la vicenda del Trianon per quanto riguarda la questione ungherese e romena.

E là anche questa occupazione da parte polacca della Lituania che era un territorio abbastanza vasto, perché non era solo Vilnius ma era anche tutta la parte della campagna circostante, che ha creato anche delle tensioni nel tempo, anche dei pogrom, una situazione terribile ed è anche il motivo per cui c’è questa presenza polacca numerosa in quest’area: il 6% è il valore nazionale, se guardiamo però invece la concentrazione dei polacchi a Vilnius è molto di più del 6%. Una situazione che rimane anche lì estremamente dibattuta, controversa, che fa fatica a essere risolta, non dal punto di vista giuridico, come abbiamo detto le leggi sulla cittadinanza ora hanno fatto passi enormi in avanti, ma dal punto di vista poi storico e poi anche delle vendette.

Vi faccio degli esempi concreti: la questione delle terre. Nel 1997 è uscita una legge in Lituania che consentiva agli ex possessori di terre, che poi erano state, come dire, tolte dal regime sovietico e quindi collettivizzate, di potersi riappropriare di queste terre, una sorta di riprivatizzazione. Bene, per i lituani non ci sono stati problemi, una volta dimostrato che quelli erano beni o possedimenti loro originari. Per i polacchi questo invece non è possibile nel senso che non è riconosciuto nessun atto del catasto pre-guerra polacco, dove appunto sono registrati questi beni, che non sono riconosciuti dalla Lituania per cui i polacchi che possedevano beni, soprattutto terreni eccetera, non possono riacquistare i loro beni.

Questo è un esempio. Un altro esempio è sulla lingua. Anche lì c’è stata un’opera, come dire, di obbligo di parlare solo il lituano e siamo arrivati a situazioni assurde. E questo anche per quanto riguarda la Lettonia, che alcuni cittadini per poter meglio integrarsi, per poter avere meno problemi con le autorità locali ecc., hanno addirittura deciso di modificare i loro nomi, di lituanizzarli in qualche modo eccetera. È il caso di una signora che viveva un Lettonia, russofona senza cittadinanza, che si chiamava Giulia e che pur di ottenere la cittadinanza, non tanto per lei ma per i figli, ha deciso di trasformare il suo nome da Giulia a Džūlija che è un nome decisamente lettone, di lettonizzare il suo nome.

Ecco, nella comunità polacca questa procedura di, come dire, lituanizzare i propri nomi e cognomi è molto forte. È stato per esempio anche recentemente impedito di indicare in alcune vie ecc., soprattutto dove vivono le comunità polacche, le segnalazioni bilingue. Adesso si mette solo quella lituana e quindi anche lì, se non da un punto di vista giuridico, ma sotto altri aspetti c’è questa idea, come dire, di spingere verso una forte politica identitaria, mossa appunto anche da questa situazione che non è solo interna, ma che riguarda un po’ quello che sta succedendo con la globalizzazione, queste forti spinte migratorie che per loro, anche se in maniera ridicola per quello che vi dicevo, visto che non ci sono ancora quei grandi flussi di cui invece noi siamo stati partecipi, per loro invece è già un problema.

È difficile da capire, sì difficile, però è anche vero che teniamo sempre presente che questi paesi come la Polonia, come l’Ungheria, ma ragione di più i paesi baltici che erano inglobati nell’Unione Sovietica, per decenni hanno subito invasioni pesanti, e naziste e sovietiche. Da qui poi quel fenomeno accennato da Caputo, su cui io non insisto perché ne ha parlato bene lui, di rispolverare storicamente eroi nazionali, che in realtà erano poi dei collaborazionisti del regime nazista e farli passare invece come eroi indipendenti, quindi sia contro l’Unione Sovietica che contro i nazisti, quando invece erano chiaramente degli ex collaboratori delle SS tedesche. Tutto sempre e comunque in questa idea di affermazione nazionale, di necessità di dire: finalmente, siamo un popolo libero, non toglieteci la nostra libertà, chiunque lo voglia fare, qualunque sia una minaccia esterna, faremo tutto il possibile perché questo non avvenga.

Ecco, ripeto, poi chiudo. Poi volevo farvi vedere, lo conoscete un po’ l’inglese con i sottotitoli? Volevo farvi vedere un documentario breve, preso da Youtube, per farvi capire un po’ il clima che c’è in questi paesi, il focus non è sui paesi baltici ma è sulla Polonia e sull’Ungheria. A proposito appunto di questa idea della paura di questa Europa che è vista addirittura, e lo vedrete nel video, Bruxelles come l’Unione Sovietica, l’Unione Sovietica è stata quello che è stata, oggi non abbiamo l’Unione Sovietica ma abbiamo la sovietizzazione, tra virgolette, da parte dell’Unione Europea.

Questa è una manfrina che la sentite anche in Lettonia: questi qui ci vogliono sovietizzare, non va bene eccetera. Questa dimensione, questa idea è fortemente sostenuta soprattutto da Orban e dal nuovo presidente Duda polacco. Adesso vi faccio vedere questo video, per capire, anche percepire il clima, dove c’è proprio una chiusura, un rifiuto di questa Europa che come noi la immaginiamo, un’Europa che loro giudicano e considerano profondamente sbagliata. Bisogna cambiare rotta. Loro si fanno partecipi di questo progetto alternativo e, ahimè, se in Europa soffieranno venti sempre più forti nazionalisti, noi sicuramente questa sfida rischiamo di perderla perché, come diceva giustamente Congiu, in questi paesi, come nei paesi baltici, purtroppo oggi non c’è un progetto della sinistra progressista, ma anche dei cattolici moderati: lo vediamo in Polonia, oggi Walensa non è dalla parte di Kaczynski, ma dalla parte di Piattaforma civica, quindi del mondo liberale moderato, ecc., ma è, come dire, una dimensione, quella della sinistra, sempre più debole.

Io personalmente, avendo studiato proprio in questo momento la Polonia e l’Ucraina, in particolare su questo progetto su cui io e Massimo Congiu stiamo lavorando, penso che uno dei motivi, e mi riferisco ovviamente a queste realtà geopolitiche, per cui la sinistra, o anche il mondo liberale moderato progressista sta perdendo terreno perché ha perso il suo blocco sociale di riferimento. Se voi andate a studiare e a vedere l’analisi geografica del voto, bene sia in Polonia che in Ucraina tutti i ceti bassi, contadini, soprattutto rurali per quanto riguarda la Polonia e l’Ucraina, ma anche in Polonia i minatori, oppure gli operai dei cantieri navali di Danzica, hanno votato PiS, hanno votato PiS. Piattaforma Civica prende il voto dal ceto impiegatizio alto urbano e dalla classe imprenditoriale borghese.

Quindi la scommessa, a mio parere, e questo non solo in Polonia, ma la stessa analisi la possiamo fare sull’Ucraina, la possiamo fare anche sull’Ungheria, la scommessa grossa è il welfare. Tutto il PiS sta facendo una politica forte, per esempio in Polonia, di welfare concedendo case gratuite, bonus per alzare i livelli di natalità, esattamente come sta facendo Orban. E questa è una politica che piace, piace a chi soprattutto ha guadagnato meno dalla transizione economica. È una politica spesso anche molto populista, insomma di propaganda, ecc., ma che per il momento tiene perché anche in Polonia, poi chiudo qua, questo vale anche in parte per i paesi baltici, anche in Polonia attualmente è stato fatto un sondaggio, proprio una decina di giorni fa, dall’IDRIS (?), viene fuori che il PiS mantiene ancora la sua percentuale di consenso. Quindi già a una distanza di un anno e passa dalla vittoria elettorale prima di Duda e poi del parlamento, questi tengono. Perché il binomio vincente in questa realtà, e anche nei paesi baltici così come in Ungheria, è questo: valori nazionali, identitari e welfare, protezione sociale.

Quindi, il lavoro grande che i partiti di opposizione devono fare è quello di recuperare i ceti bassi, che sono poi la gran parte della popolazione. È allucinante pensare, se andate a vedere dove ha preso i voti Komorowski: li ha presi solo nelle grandi città, a Varsavia, a Cracovia, ma poi in tutta la Polonia, soprattutto quella orientale, la percentuale dei voti lì è estremamente bassa. Quindi vuol dire che va rivisto un po’ qualcosa.

Bene, io mi taccio e vi faccio vedere questo video. Poi, non so, se hai qualcosa da dire tu.

MASSIMO CONGIU

Io mi ricollego a quello che diceva adesso Cristina Carpinelli, cioè adesso è come se parlando un po’ di questi sistemi che fanno mostra di prendersi carico dei problemi sociali della gente e di tutelare tutto, è come se ci fosse una sorta di patto implicito, per esempio, tra Orban e i suoi elettori o anche altri capi di governo come lui: c’è un patto secondo il quale il cittadino rinuncia a occuparsi di politica, è una rinuncia, pur di avere delle garanzie, poi magari le garanzie di un tempo, rispetto al lavoro, rispetto alla possibilità di pagare bollette meno basse e via discorrendo. Però c’è di fatto proprio la richiesta di una rinuncia alla politica, alla politica attiva: della politica ci occupiamo noi perché noi siamo i professionisti della politica, noi ci prendiamo cura del vostro destino, della vostra vita, insomma lasciate fare a noi e avrete dei benefici. Quindi io la vedo un po’ così, in questi termini, proprio come rinuncia alla cittadinanza attiva. E questo mi sembra abbastanza pesante.

Del resto, mi era anche capitato di parlare con delle persone in Ungheria e mi dicevano, chiedendo che cosa è per lei la democrazia: è facile parlare di democrazia quando si hanno le tasche piene, quando non si hanno problemi economici. Quindi la sottolineatura che voglio fare è questa: mi è stato chiesto diverse volte: ma in Ungheria il problema della libertà di stampa, il problema di questa nuova costituzione, il problema del cambiamento del codice del lavoro e via discorrendo, è vissuto come tale dalla maggior parte della popolazione? No, la maggior parte della popolazione si pone problemi di natura diciamo economica, problemi di sussistenza, quindi non si pone tanto il problema dei diritti violati, del destino democratico del paese.

Del resto comunque si tratta anche di un percorso perché, come dice uno scrittore ungherese, Lajos Parti Nagy, purtroppo l’Ungheria non ha una identità democratica, è una identità democratica che si dovrà sviluppare nel tempo, si tratta di una questione di tempo. Un discorso simile si può fare per i paesi vicini.

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