La Lega e il partito personale

linea_rossa_740x1Giovanni Bianchi

Nei giorni del commiato di Umberto Bossi dalla guida della Lega Nord e forse anche dalla politica attiva (ma non si può mai sapere con uno così) sarebbe maramaldesco infierire su di una persona malata e ferita negli affetti più personali dalla slealtà delle persone che gli stanno attorno.

Un rilievo tuttavia va fatto, e concerne la particolare natura del movimento leghista, che, prima ancora e per certi versi più ancora di Forza Italia è stato un partito eminentemente personale, nel senso che si è costruito e plasmato intorno alla personalità del suo leader.

Naturalmente non c’è nulla di più improbabile della biografia di Bossi per definire la personalità di un leader politico, soprattutto del leader di quella porzione d’Italia che ha sempre maturato in sé la larvata convinzione di essere quella che tira la carretta, che lavora sul serio, che è penalizzata dai meridionali, o dai “comunisti”, o dagli immigrati o da tutti questi messi insieme.

Chiacchiere da bar, si dirà, ma per l’appunto ci voleva un tipo uscito dai bar senza alcuna pretesa di solidità di studi (al di là dei diplomi e delle lauree millantati, ma a quanto pare è una sorta di gene di famiglia, visti gli exploit del figlio malauguratamente iniziato alla vita politica) né particolari riverenze nei confronti della cultura accademica per dare voce ad una pancia profonda del Paese che la DC aveva contenuta ed interpretata, ma mai del tutto sopita.

La più volte notata coincidenza dei più cospicui bacini elettorali della Lega con quelli della DC del tempo che fu non dicono affatto di una tendenziale sovrapposizione dei “verdi” sui “bianchi” e quindi di un presunto status di “partito cattolico” per il movimento leghista, peraltro tentato da Bossi e dai suoi con risultati non sia se più malinconici o ridicoli. Al contrario, essi dicono di una secolarizzazione che era giunta già da molto tempo nelle valli lombarde o venete, e che solo il persistere sempre più stanco del voto alla DC (che poi sarebbe evaporato nello spazio di un mattino) permetteva ancora di definire “zone cattoliche”, applicando criteri politici o sociologici alla vita di fede.

Non credo che Bossi avesse esattamente chiare queste cose, ma certo gli era evidente che il suo partito poteva avere un futuro solo facendosi interprete della crescente rabbia di un popolo nei confronti di un sistema percepito sempre più come estraneo. C’è anche riuscito bene, per un certo tempo, ma il limite dell’uomo e del suo partito è stato da sempre quello di un eccesso di pragmatismo accompagnato da un eccesso di retorica truculenta, un comportamento, come hanno notato alcuni , da leader di un’armata straniera chiamata a governare un territorio ostile.

L’evidente differenziazione fra il dire ed il fare, fino alla catastrofica vicenda Belsito, che a sua volta maschera la ben più triste vicenda della corruzione a livello familiare, ha messo in crisi definitivamente il rapporto fra il Capo, i quadri dirigenti (alcuni di discreta voracità) ed il popolo.

Dal punto di vista umano e politico l’uscita di scena di Bossi era l’unica scelta possibile. Resta da vedere se la Lega ha ancora un futuro oltre il passato del suo leader.

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