La teologia del popolo

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Giovanni Bianchi

Durante l’estate hanno creato scalpore le critiche alla classe politica rivolte da mons. Nunzio Galantino, vescovo emerito di Cassano allo Jonio e Segretario generale della CEI, espresse sia in pubblici interventi sia nel corso della conferenza che avrebbe dovuto tenere a Trento in occasione dell’anniversario della scomparsa di De Gasperi ed il cui testo è stato comunque divulgato.

Molti si sono soffermati sulle parole forti degli interventi del Vescovo di origine pugliese ma non hanno fatto attenzione a quello che era l’ordito complessivo del suo ragionamento, e soprattutto l’assunto fondamentale, che è questo: per la Chiesa italiana tutta la politica è sotto giudizio, e non esistono figli prediletti e figliastri perché il problema è quello di come il sistema politico, le istituzioni e le persone che svolgono ruoli di responsabilità politica ed amministrativa agiscono concretamente per il bene comune, al di là delle etichette più o meno di comodo che si cuciono addosso da sé.

E’ comprensibile che questo abbia irritato gli esponenti della destra italiana, abituata da anni di silenzi e corrività a considerare la Gerarchia ecclesiastica – o meglio il suo vertice, visto che è l’unico che pare abilitato ad intervenire nella questioni della res publica – come ad una sorta di componente esterno su cui poter sempre contare nonostante il malgoverno, gli scandali e tutto il resto.

Curiosamente però ci sono state reazioni infastidite se non piccate anche a sinistra, parlando di “interferenze vaticane” come se in realtà proprio l’intervento di Galantino non faccia che sancire il definitivo ed irreversibile passaggio alla CEI – cioè ad un’associazione di cittadini italiani – della competenza sulle questioni ecclesiali e politiche italiane. E se sono interferenze, lo sono tanto quanto quelle di coloro che, rappresentando realtà associative di varia natura, esprimono legittimamente la loro posizione secondo un diritto che la Costituzione riconosce loro (e non c’è scritto da nessuna parte che preti e vescovi siano esclusi da questo diritto).

In questo momento, come è ovvio, mons. Galantino è l’uomo di punta dell’Episcopato italiano, non solo perché l’incarico di Segretario generale è quello di un addetto permanente alla “macchina” della CEI (mentre il Presidente è un Vescovo residenziale che deve pur occuparsi della Diocesi che gli è stata affidata): la carica, peraltro, è stata occupata nel corso degli anni da personalità di indiscusso rilievo quali Bartolucci, Caporello, Ruini, Tettamanzi, Betori, per non citarne che alcuni. Mons. Galantino, è noto, gode dalla fiducia personale di Papa Francesco, che lo ha scelto personalmente: ma più che ad un portavoce politico di Bergoglio (a cui della politica italiana interessa il giusto) credo che si debba guardare a lui come alla persona che deve tradurre nella prassi pastorale del nostro Paese, insieme ai nuovi Vescovi che il Papa sta via via nominando in sedi anche importanti pescandoli dalle “periferie esistenziali” a lui tanto care, quel pensiero tipico dell’attuale Pontefice che egli stesso ha definito come “teologia del popolo”.

Che cosa sia questo pensiero teologico lo ha detto il Papa stesso in un recentissimo intervento in occasione del convegno teologico svoltosi per il centesimo anniversario della Facoltà teologica dell’Università Cattolica di Argentina, il cui Rettore, mons. Victor Manuel Fernandez, è uno dei massimi consulenti teologici del Papa, che fra i suoi primissimi atti ha provveduto a nominarlo Vescovo.

Nel suo videomessaggio al convegno il papa ha detto: “In un cristiano c’è qualcosa di sospetto quando smette di ammettere il bisogno di essere criticato da altri interlocutori. Le persone e le loro diverse conflittualità, le periferie, non sono opzionali, bensì necessarie per una maggiore comprensione della fede. Perciò è importante chiedersi: A chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti? Senza questo incontro con la famiglia, con il Popolo di Dio, la teologia corre il grande rischio di diventare ideologia. Non ci dimentichiamo, lo Spirito Santo nel popolo orante è il soggetto della teologia. Una teologia che non nasce nel suo seno ha l’olezzo di una proposta che può essere bella, ma non reale.

Questo ci rivela la sfida insita nella vocazione del teologo, quanto sia stimolante lo studio della teologia e la grande responsabilità che si ha nel realizzarlo. Al riguardo mi permetto di chiarire tre tratti dell’identità del teologo:

  1. Il teologo è in prima istanza un figlio del suo popolo. Non può e non vuole disinteressarsi dei suoi. Conosce la sua gente, la sua lingua, le sue radici, le sue storie, la sua tradizione. È l’uomo che impara a valorizzare ciò che ha ricevuto, come segno della presenza di Dio, poiché sa che la fede non gli appartiene. L’ha ricevuta gratuitamente dalla Tradizione della Chiesa, grazie alla testimonianza, alla catechesi e alla generosità di tanti. Questo lo porta a riconoscere che il Popolo credente nel quale è nato ha un significato teologico che non può ignorare. Sa di essere “innestato” in una coscienza ecclesiale e s’immerge in quelle acque.
  2. Il teologo è un credente. Il teologo è qualcuno che ha fatto esperienza di Gesù Cristo e ha scoperto che senza di Lui non può più vivere. Sa che Dio si rende presente, come parola, come silenzio, come ferita, come guarigione, come morte e come resurrezione. Il teologo è colui che sa che la sua vita è segnata da questa impronta, da questo marchio, che ha lasciato aperte la sua sete, la sua ansia, la sua curiosità, la sua esistenza. Il teologo è colui che sa di non poter vivere senza l’oggetto/soggetto del suo amore e consacra la sua vita per poterlo condividere con i suoi fratelli. Non è teologo chi non può dire: «non posso vivere senza Cristo», e pertanto, chi non vuole farlo cerca di sviluppare in se stesso gli stessi sentimenti del Figlio.
  3. Il teologo è un profeta. Una delle grandi sfide poste nel mondo contemporaneo non è solo la facilità con cui si può prescindere da Dio ma, socialmente, si è fatto anche un ulteriore passo. La crisi attuale s’incentra sull’incapacità che hanno le persone di credere in qualsiasi altra cosa oltre se stesse. La coscienza individuale è diventata la misura di tutte le cose. Ciò genera una crepa nelle identità personali e sociali. Questa nuova realtà provoca tutto un processo di alienazione dovuto alla carenza di passato e pertanto di futuro. Per questo il teologo è il profeta, perché mantiene vivi la coscienza del passato e l’invito che viene dal futuro. È l’uomo capace di denunciare ogni forma alienante perché intuisce, riflette nel fiume della Tradizione che ha ricevuto dalla Chiesa, la speranza alla quale siamo chiamati. E a partire da questo sguardo, invita a risvegliare la coscienza sopita. Non è l’uomo che si conforma, che si abitua. Al contrario, è l’uomo attento a tutto quello che può danneggiare e distruggere i suoi.”

Al di fuori di ogni cortocircuito ideologico queste parole disegnano una prospettiva teologica vertiginosamente “altra” rispetto al vissuto della Chiesa italiana, sia dei suoi pastori che dei suoi teologi, i quali spesso hanno dato la sensazione di pretendere di giudicare e di “comandare dall’alto” (come diceva il cardinal Martini) la società italiana senza comprenderla e senza farsi carico dei suoi bisogni e dei suoi interrogativi più laceranti.

Questa, prima ancora di ogni scelta politica, sarebbe la vera conversione per tutti coloro che si dicono credenti in Gesù Cristo nel nostro Paese.

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1 commento

    • Luca Pianigiani il 9 Settembre 2015 alle 14:19

    sono d’accordo con quello che asserisce : “E se sono interferenze, lo sono tanto quanto quelle di coloro che, rappresentando realtà associative di varia natura, esprimono legittimamente la loro posizione secondo un diritto che la Costituzione riconosce loro (e non c’è scritto da nessuna parte che preti e vescovi siano esclusi da questo diritto).” ; però credo anche che preti e vescovi devono abituarsi a ricevere critiche quando parlano di temi di carattere generale . L’ intervento in questione, all’indomani dell’ormai famoso funerale di Roma e in concomitanza con un editoriale dell’ Osservatore Romano che cercava di scaricare tutte le responsabilità dell’accaduto sulle autorità civili, mi è sembrato inopportuno , salvo che non volesse proprio sviare l’interesse da quel funerale (un politico navigato, a lei ben noto, diceva che a pensare male si commette peccato però a volte ci s’azzecca) . Oltre ai migranti ci sono sul fuoco altri problemi sui quali un uomo di Chiesa dovrebbe ed avrebbe dovuto, secondo me, far sentire la Sua autorevole voce
    (decreto Cirinnà, insegnamento gender nelle scuole) .
    Con ossequi.

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