Mauro Magatti. Libertà Immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista

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Corso di formazione alla politicaIntorno al grande tema della libertà contendono due facce e due interpretazioni storiche del capitalismo che approdano alla visione liberale come grande vincitrice del XX secolo: “L’inedita alleanza che si profila è tra un individualismo esasperato, che rischia di arrivare fino al punto di distruggere la sua stessa premessa, e cioè l’unità psichica e corporea dell’individuo, e una critica puramente negativa, che lavora sistematicamente per decostruire ogni tentativo di giudizio collettivo”. Perché, contrariamente a quel che si tende a credere, tra potere e libertà c’è una relazione di reciproco rafforzamento e non di esclusione. “Per questa ragione, nonostante tutte le buone intenzioni, la modernità è oggi più che mai vittima di se stessa, o meglio della convinzione, che le è propria, che l’accrescimento della “libertà individuale” costituisca di per sé, senza ulteriori qualificazioni, la soluzione al problema del potere”

Mauro Magatti. Libertà Immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista

1. leggi il testo dell’introduzione di Giovanni Bianchi

2. leggi la trascrizione della relazione di Mauro Magatti

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introduzione di Giovanni Bianchi (37’12”) – relazione di Mauro Magatti (1h15’08”) – domande (36’08”) – risposte Mauro Magatti (21’04”)

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Testo dell’introduzione di Giovanni Bianchi a Mauro Magatti

La libertà immaginaria nell’analisi di Mauro Magatti, ossia le illusioni del capitalismo tecno-nichilista

1. L’aver vissuto la grande stagione dei movimenti mi ha lasciato in eredità la felice memoria di una utile e drastica rubrica dei “Quaderni Piacentini” che distingueva tra libri da leggere e libri da non leggere. Questo di Mauro Magatti risulta fuori serie, nel senso che è un libro da assolutamente leggere. Di maniera che mi risulta angusto l’alveo nel quale sono costretto a muovermi: l’ampiezza del flusso delle idee magattiane (non delle pagine, che pure arrivano a quattrocento) e la perentorietà prussiana di Silvia che mi ha chiesto di essere breve. Tentar non nuoce, anche perché il primo risultato del saggio di Mauro Magatti è di aiutarci a indagare e sopportare il disordine.

L’assunto politico magattiano mi è parso esplicito: l’ampiezza e la profondità della crisi che stiamo attraversando, e che è esplosa con il settembre nero di Wall Street, non può essere soltanto ricondotta alla voracità e alla “grettezza” (vocabolo usato da Barack Obama nel discorso di insediamento a Washington) di un gruppo di manager, che Craxi avrebbe definito “mariuoli” e Berlusconi chiamerebbe “bricconcelli”. Mezzo bicchiere di coca cola versato su un tavolo di Manhattan non può produrre uno tsunami.

Ad agitare le acque è nientemeno che l’ultima incarnazione dello spirito del capitalismo: la metamorfosi cioè dal capitalismo sociale post-guerra, con gli accordi di Bretton Woods monitorati da Keynes, lo Stato Sociale di lord Beveridge a partire dal Regno Unito, aggiungerei l’economia sociale di mercato nella Germania di Ludwig Ehrard (sotto questa bandiera Romano Prodi e Ciampi ci introdussero nell’Europa dell’euro), per prendere poi il volto del capitalismo tecno-nichilista sotto la poderosa spinta di Reagan negli States e della Lady di ferro in Inghilterra.

Il testo ci obbliga a un confronto serrato con concetti espressi in formule poi ricorrenti: CS: che sta per capitalismo sociale, quello cioè durato fino alla crisi fiscale dello Stato messa in rilievo dalla letteratura scientifica tedesca; CTN: capitalismo tecno-nichilista, come risulta dal sottotitolo in copertina; MST: macrosistema tecnico; SIF: sfera istituzionale funzionalizzata; SED: spazio estetico deterritorializzato. Non è però necessario allacciare le cinture di sicurezza in quanto Magatti ci aiuta adottando in almeno un paio di occasioni una figura letteraria dovuta al genio del grande teologo gesuita Karl Rahner: la “formula breve”. Un modo per fare il punto. Consentire un situarsi e un ri-orientamento nell’oceano vasto e tempestoso di problemi che si rincorrono e di tematiche che si complicano. Non senza l’intersezione di molti piani, dal momento che il testo di Magatti si colloca a cavallo, interdisciplinarmente, di molti approcci: sociologico, filosofico, psicologico e ovviamente economico.

2. Scrive Magatti: “Il tema di fondo del libro è quello della libertà. Il capitalismo tecno-nichilista, infatti, nasce e si sviluppa attorno a un immaginario della libertà che si forma tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta. Non si possono capire questi trent’anni se non tenendo in considerazione questa trasformazione che è insieme sociale, culturale e antropologica”(p.9).

Intorno al grande tema della libertà contendono due facce e due interpretazioni storiche del capitalismo che approdano alla visione liberale come grande vincitrice del XX secolo: “L’inedita alleanza che si profila è tra un individualismo esasperato, che rischia di arrivare fino al punto di distruggere la sua stessa premessa, e cioè l’unità psichica e corporea dell’individuo, e una critica puramente negativa, che lavora sistematicamente per decostruire ogni tentativo di giudizio collettivo”(p.21). Perché, contrariamente a quel che si tende a credere, tra potere e libertà c’è una relazione di reciproco rafforzamento e non di esclusione. “Per questa ragione, nonostante tutte le buone intenzioni, la modernità è oggi più che mai vittima di se stessa, o meglio della convinzione, che le è propria, che l’accrescimento della “libertà individuale” costituisca di per sé, senza ulteriori qualificazioni, la soluzione al problema del potere”(p.25). Si tratta di uno dei temi centrali del dibattito e direi della vita quotidiana, se, quantomeno a prender le mosse dal nostro Paese, dobbiamo constatare ancora una volta l’azzeramento – a far data dalla caduta del Muro di Berlino – di tutti quei partiti di massa che avevano preso le mosse e si erano insediati tra la gente proprio a partire da un nucleo ideologico custodito e propagandato da un gruppo centrale di fondatori e dirigenti. Non è successo così in nessun altro paese d’Europa e neppure nel mondo. Qui si creano le condizioni per lo sviluppo vincente del capitalismo tecno-nichilista, così definito: “Chiamo CTN una logica di ristrutturazione dei rapporti sociali che ha contribuito a plasmare l’intera configurazione storico-sociale sviluppatasi all’interno dei paesi occidentali negli ultimi tre decenni sulla base di un nuovo immaginario della libertà formatosi tra gli anni sessanta e gli anni ottanta. Obiettivo di questo lavoro è di tracciare gli elementi costitutivi di tale logica, mettendo in luce, in modo particolare, le sue implicazioni dal lato delle idee e delle pratiche della libertà”(p.43).

Alle sue spalle le macerie del capitalismo societario che si afferma in Europa e in Nord America nel secondo dopoguerra come costruzione, in un quadro di relazioni internazionali pattuite a Yalta, di aggregati territorialmente definiti nei quali si è riusciti a far coesistere una società, definita dalla coincidenza di una cultura tendenzialmente integrata, di un’economia autonoma e di apparati  istituzionali formalmente sovrani e democratici. Né può essere lasciata fuori dal quadro una notazione sulla scuola in quanto istituzione centrale del processo di socializzazione e cardine dello Stato-nazione. Una costruzione complessiva che ha nel sociologo statunitense Talcott Parsons l’interprete più accreditato e il maggior cantore. Il tutto in una congiuntura internazionale divisa e  segnata nei confini dalla Cortina di Ferro e dalla guerra fredda, intesa come lotta di civiltà: o Washington o Mosca, come a dire una libertà senza uguaglianza da un lato, e una uguaglianza senza libertà dall’altro.

3. Saranno la crisi fiscale dello Stato e la protesta libertaria degli studenti ad agire da detonatore “nei confronti di un padre autoritario (le istituzioni) e di una madre opprimente (il welfare)”(p.55). Il fatto che la crisi si manifesterà nella parte più avanzata del mondo occidentale induce alla conclusione che sia proprio il raggiungimento della maturità economica e di livelli diffusi di benessere nelle classi medie a innescare la crisi culturale complessiva. “Il neoliberismo, infatti, usa in maniera spregiudicata un potere politico forte allo scopo di costruire un nuovo modello di governo che vuole ridurre al minimo indispensabile i significati condivisi collettivamente, concentrandosi invece sul rendere sempre più efficienti le funzioni che ampliano il potere di azione individuale”(p.63). La base economica del nuovo corso viene indicata con grande precisione da Stiglitz, già al vertice della Banca Mondiale: “1) far sì che il territorio nazionale e l’economia domestica diventino capaci di attirare extrarisorse dagli investitori globali; 2) far crescere le imprese non solo nei mercati interni, ma anche e soprattutto all’estero dove si possono trovare nuovi mercati di sbocco per le proprie merci, fattori produttivi e materie prime a prezzi vantaggiosi, risorse finanziarie aggiuntive; 3) esercitare la propria influenza politica a livello internazionale per creare regole finanziarie e rapporti commerciali più consoni ai propri interessi. E ciò anche a costo di scardinare le regole su cui si regge l’ordine con economico mondiale”(p.65). Susan George, l’americana a Parigi, ha sintetizzato corpo e anima di tutta l’operazione con la nota etichetta di Washington Consensus. Sul piano sociologico è  Niklas Luhmann invece a cogliere per primo un elemento di fondamentale importanza nei nuovi rapporti tra mercato e democrazia e nella ristrutturazione delle democrazie in grado di produrre assetti variamente definiti post-democratici, osservando come le società avanzate tendano a organizzarsi attraverso sottosistemi autoreferenziali che utilizzano codici astratti, sostanzialmente di natura tecnica, in grado di sostenere l’enorme complessità dei rapporti sociali globali. Ciò segna, tra l’altro, un ulteriore passo in avanti nella capacità della tecnica di strutturare la vita personale e collettiva: “In questo modo, quote sempre più ampie della vita sociale – grazie all’accresciuta capacità di rendere possibili scambi e interazioni sempre più veloci – possono sbarazzarsi del proprio radicamento territoriale e culturale”(p.74).

E qui si colloca non a caso un grave problema di governabilità: come si fa a smantellare il centro (lo Stato) senza perdere la capacità di controllo? Due le linee di risposta: “La prima ha riguardato lo sfruttamento di nuove opportunità distribuite in uno spazio più grande di quello nazionale” (p.93). La seconda direzione lungo la quale ci si è mossi per ottenere il nuovo ciclo di crescita “ha invece a che fare con l’accresciuta manipolabilità dei significati disponibili a livello individuale e collettivo” (p. 94). E però la smobilitazione di ogni punto di riferimento ha conseguenze di enorme portata: l’individuo diventa il motore del nuovo dinamismo e la libertà si definisce all’interno di uno scenario in continuo movimento. Un movimento destinato a raggiungere il parossismo per la sua assenza di pause. Nessuna struttura può considerarsi immutabile e quindi in grado di fornire di senso un qualche avvenire. Conseguentemente la vita, la vita personale come la vita biologica in generale, “altro non è che una ricerca, un’esplorazione senza fine, dove ciò che si ricerca non è tanto il significato delle cose – nella prospettiva della verità per come è stata tradizionalmente intesa – quanto piuttosto la varietà dell’esistente e la moltiplicazione delle esperienze” (p.99). E la ratio che sostiene tutto quanto il nuovo sviluppo suona così: purché il sistema funzioni. Neppure i costi ben visibili in termini di disuguaglianza frenano il trend perché la risposta ancora una volta dice: se il treno continua a correre significa che l’energia è quella giusta; quanto al traguardo è inevitabile che la locomotiva arrivi per prima e in seguito il resto dei vagoni…

Ovviamente la prima cosa che deve funzionare, il banco di prova di tutta la costruzione, è l’economia, e in particolare l’economia finanziaria. Si forniscono i dati secondo i quali sul piano della produzione mondiale il Pil si è triplicato e il commercio di prodotti industriali è aumentato di 25 volte, la produzione del pianeta superato i 40 trilioni di euro e aumenta più del 4% l’anno, velocità mai raggiunta nella storia, e il valore in dollari della spesa americana in ricerca e sviluppo è cresciuto di circa 30 volte. È utile comunque aggiungere che lo scorso 1 febbraio presentando al Congresso di Washington la sua proposta di budget federale 2011 per la ricerca scientifica a carattere non militare, il presidente Obama ha aumentato la spesa pubblica per la ricerca pubblica negli Usa, che nel 2011 potrà contare su 66 miliardi di dollari (il 5,9% in più rispetto al 2010). Commenta Magatti: “Un dinamismo economico impressionante, che ha progressivamente coinvolto zone sempre più estese del pianeta e che si è basato sullo sfruttamento sistematico delle opportunità rese possibili dalla separazione tra funzioni e significato”(p.105). E dunque non è neppure un caso che la crisi trovi il suo detonatore nello scacco borsistico e nel fallimento delle banche che caratterizzano il settembre nero di Wall Street, perché nei 18 anni di presidenza Greenspan alla FED la base monetaria americana è cresciuta del 235%, gonfiando a dismisura il feticcio della liquidità.

4. Ma come il sistema funziona, o meglio, funzionava? Ecco alle pagine 108 e 109 quella che ho chiamata, in prestito da Rahner, la “formula breve”.  1) L’architettura, o meglio, il movimento su cui si regge il capitalismo tecno-nichilista richiede che i significati diventino un materiale disponibile e facilmente malleabile, resi tali mediante l’innovazione tecnologica che si incarica di destabilizzare strutturalmente la realtà, dato che qualunque significato, non direttamente riconducibile a un codice di tipo tecnico, è soggetto a una rapida obsolescenza. In questa prospettiva verità e realtà sono l’evento, cioè ciò che deve ancora avvenire. Reale è perciò solo ciò che serve a realizzare un futuro, un futuro comunque riluttante a ogni predeterminazione. 2) La volontà di potenza, ossia il desiderio di affermare incondizionatamente la propria esistenza individuale, costituisce l’energia interna che il capitalismo tecno-nichilista sfrutta per sostenere la propria dinamica di sviluppo continuo. Il superuomo di questa fase storica non vuole più costruire un impero; la sua affermazione prende invece corpo nei rapporti affettivi e nelle vicende professionali. A essere messa in gioco e in produzione è dunque la sua vita quotidiana. 3) Il rapporto individuo e istituzioni viene sconvolto e risolto in modo innovativo, spostando cioè l’accento dalle istituzioni all’individuo. L’intera applicazione delle tecniche si sviluppa in maniera tale da favorire l’ampliamento dello spazio di azione individuale, perché  è in questa direzione che si legano nel modo migliore le spinte soggettive e le esigenze del sistema. 4) Non esistono più centro o  periferia, alto o basso, giusto o ingiusto, dal momento che il capitalismo tecno-nichilista tende a inglobare tutto, compreso ciò che si produce ai suoi margini e addirittura ciò che gli si oppone. 5) In questo modo, il capitalismo tecno-nichilista si configura non come un “ordine” stabilito, ma come una successione di disequilibri da cui deriva la spinta alla ricerca di un loro superamento, in una logica di continua accelerazione… La stabilità non sta in una permanenza considerata impossibile, ma nel passare in modo rapido da uno stato all’altro. L’idea tradizionale del capitalismo sociale di stabilire un “ordine” viene così sostituita dalle opportunità offerte dalla gestione del nuovo disordine. Al massimo si possono fare operazioni di calcolo.

Per questo, “a partire dagli anni sessanta, il core business del capitalismo è quello di creare nuove opportunità di crescita mediante una combinazione sempre più stretta tra lo sfruttamento tecnico- razionale delle risorse e la mobilitazione della sfera soggettiva affettivo- emozionale”(p.126). Il desiderio viene esaltato e ridotto a godimento senza misura e non di rado estremo. L’uomo in quanto tale diventa “macchina desiderante”. La distanza che separa l’interiorità dall’esteriorità viene non solo ridotta, ma addirittura annullata.

5. Così è sommariamente delineato il percorso: resta il problema di entrare nelle sue pieghe, dove si danno, soprattutto in termini di frammentazione, i temi etici legati alla bbiopolitica, della democrazia e della postdemocrazia, del ruolo e della dignità dei sottosistemi luhmanniani all’interno di una società complessa che ha lateralizzato la maestà della legge, di una quotidianità disorientata e liquida dominata da desideri indotti e tutti ossessivamente orientati al godimento. Di un mercato individualizzato che ha però di fatto ristretto la base sociale dello sviluppo economico e ha sospinto a limiti estremi il desiderio e l’emozione. In particolare, sul piano sociale e istituzionale, si assiste alla crisi di legittimazione che colpisce le istituzioni dello Stato nazionale in tutti i paesi avanzati. Mentre disuguaglianze crescenti producono quelle “vite di scarto” che Bauman ha descritto con metafora pertinente. Relazioni liquide: la messa in gioco delle solidarietà, la frammentazione dei ruoli e delle biografie. Quella “pluriapparteneza ” che Simmel aveva già chiaramente rilevato all’inizio del ventesimo secolo e che si afferma come elemento caratterizzante della modernità. Lo sconvolgimento delle relazioni. La rete oltre la burocrazia, la cui razionalità era il destino epocale assegnato da Max Weber alla modernità. La frammentazione psichica, fino a indurre differenze senza identità. La conseguenza? Un fondamento senza fondamento resta dominante: il divenire come dato di fatto, l’accelerazione parossistica come ritmo. Quello che Severino chiama “il portare all’essere le cose”, perché “l’uomo pensa sempre il divenire come un diversificarsi, come un divenire altro”(p.199). In tal modo la verità viene consegnata agli apparati tecnici e il senso di tutto è “raggiungere l’effetto”. Con un nuovo tipo di aggregazione sociale definito “sciame” da Bauman. Risultato? Una stabile instabilità. In essa “la razionalità economica funziona indipendentemente dai fini perseguiti: nei termini della teoria economica, il sistema delle preferenze del singolo attore è dato, cioè è esterno al modello. Dunque, il mercato tace sui fini e lavora sui mezzi: la razionalità economica permette di comporre comportamenti indeterminati in un benessere collettivo” (p.239). Con un effetto macroscopico, ma anche interstiziale, sugli assetti di potere che vedono il passaggio dal potere alla potenza, che cambia il criterio di legittimazione. “Infatti, mentre nel primo caso – che è quello a cui faceva riferimento Weber – legittimo è un potere che, essendo istituito, è limitato, nel caso della potenza legittimo è ciò che riesce a andare al di là, che apre una nuova strada, che lascia aperte delle possibilità”(p.245). Per questo non c’era ragione, prima del settembre nero di Wall Street, per opporsi alla liberalizzazione delle pratiche finanziarie, per quanto spericolate e tossiche, dato che lo smantellamento delle regole “funzionava”.

Tale potenza attraversa tutta la società e “mette in produzione” l’essere umano stesso: “Non si tratta più, dunque, di assecondare la natura, ma piuttosto di manipolarla, mettendola a disposizione di qualunque scopo”(p.255). Quello che Toni Negri e Hardt leggono come una nuova forma di esodo, un esodo verso e con la macchina, un “esodo macchinico”.

6. “La potenza che il capitalismo tecno-nichilista sprigiona è, sì, anarchica, espressione degli enormi progressi che sono stati ottenuti nell’ampliamento dello spazio di azione individuale, ma anche profondamente condizionata dai grandi centri di potere che al suo interno operano” (p.271). Come  si esce dall’impasse e dalla contraddizione? Quali i termini del dilemma? Magatti non si tira indietro. Da un lato registra un atteggiamento di estraneazione da un mondo che si configura come pura tecnica, e che, come tale, non ha bisogno di noi per funzionare, che non a caso ci sentiamo, come singole persone, del tutto superflui. Dall’altro, osserva che siamo investiti dalla pressione di una richiesta di soggettivizzazione integrale che scarica i problemi emergenti e le soluzioni sulla singola persona. Mettere insieme queste due richieste è però frustrante e impossibile, per la semplice ragione che manca un mediatore adatto e sufficiente, cioè appunto la dimensione collettiva e sociale. Resta e comunque ci angoscia il problema di una vita “autentica”, dal momento che “la soggettività si riduce a mero prodotto sociale, senza più alcun residuo”(p.333), visto che il problema non è più la liberazione, ma quello di decidere che cosa “fare esistere”.

7. Siamo così sospinti sulle tracce di un nuovo immaginario della libertà, alle prevedibili regole che anch’esso comporta, ma mi guardo dal sottrarre all’Autore il gusto e il compito di intrattenerci sulla questione, condividendone le perplessità. Scrive infatti Magatti che di fronte ai guasti della crisi “il problema è capire da chi e in che modo tale regolazione possa essere costruita, visto che, nel quadro del capitalismo tecno-nichilista, non solo mancano i riferimenti teorici e valoriali, ma sembra mancare persino il soggetto storico in grado di sostenere una simile iniziativa: quali e quanti leader politici possono credibilmente presentarsi all’opinione pubblica chiedendo una sensibile riduzione dei livelli di vita in nome di una maggiore stabilità globale?” (p.360). Tutti infatti abbiamo perso l’innocenza. Tutti, abbattuto o almeno incrinato il feticcio della liquidità, siamo avvertiti della circostanza che la vita è bensì individuale, ma al contempo inestricabilmente sociale. Già Simmel aveva scritto che “l’uomo intero” non è ciò che rimane “una volta eliminati gli aspetti che egli condivide con gli altri: l’essere umano non è mai una monade, un elemento granitico e precostituito, ma vive inserito in diversi ambiti di appartenenza, confrontato con legami eterogenei, vincoli di varia natura e rappresentazioni molteplici”(p.367). Dunque, nonostante la sua potenza, “il capitalismo tecno-nichilista non dispone di un racconto convincente, oscillando continuamente tra accelerazione e crisi, innovazione e sensazione” (p.376). Ecco il Behemoth postmoderno…

8. Due sole considerazioni, per concludere, con la convinzione che la strada possibile è quella di riconoscere la crucialità – da Magatti richiamata – delle due dimensioni negate dal capitalismo tecno-nichilista: quella della relazione e quella del senso. Il modello tecno-nichilista ci ha liberato dalle grandi ideologie dell’Ottocento. Ma ne ha prodotte di nuove, selezionando accuratamente i temi e gli obiettivi. Lasciando al centro, ma diffusa, una volontà di potenza individualistica, incurante del traguardo e autocompiaciuta del proprio funzionamento. Anche per questo dal tunnel non si esce di corsa: è l’intero universo sociale ad esserne invaso.

Pongo, dunque, per finire, due questioni a partire dalla sensibilità coltivata in più di un decennio con i corsi di formazione promossi dai Circoli Dossetti.

Primo tema. Ho letto e studiato con partecipazione le pagine magattiane, con la sensibilità di chi viene dal cattolicesimo democratico. Credo ci siano perfino in qualche modo comuni la radice e l’ispirazione. Eppure l’unico studioso di area popolare che Magatti cita, in un diluvio di pensatori, da Sartre a Foucault, da Talcott Parsons a Nietzsche, da Severino a Natoli, è Achille Ardigò, a pagina 279. Non può essere casuale. Non si dà infatti, penso, rispetto alla cultura del cattolicesimo democratico possibilità di continuismo, e anche il tentativo di prolungarne le dorsali organizzative nel contenitore di nuovi partiti pare definitivamente destinato a tramontare…  Perché da un lato il cattolicesimo democratico subisce il comune destino del tramonto delle ideologie, quantomeno per la parte che in esse si identifica. Dall’altro, non si danno sviluppi significativi in termini di ricerca e di elaborazione culturale sul campo, a partire dalla diversità riconosciuta delle sue posizioni politiche, e quindi della sua prassi, del suo stare perennemente e creativamente a cavallo tra società civile e istituzioni, che dalle ideologie prendevano distanza e diversità, grazie all’applicazione del geniale concetto sturziano di “limite della politica”. Una “discontinuità” da mettere a tema. Una discontinuità prima dichiarata e cercata (Martinazzoli) e poi rimossa. E comunque, storicamente, le discontinuità accadono, e non patiscono di essere programmate a tavolino…

Secondo tema. Riguarda la fine di ogni politica cristiana. Le politiche sono pratiche che si muovono, dopo l’avvento  e la crisi del capitalismo tecno-nichilista, tutte, di destra, di centro e di sinistra, sul piano della medesima effettualità, e lì vanno confrontate e giudicate. Il credente in politica si caratterizza dunque, nella fase che attraversiamo, non tanto per i contenuti (che del resto non sono tutti fungibili) quanto per lo stile. Non a caso nelle ultime pagine del suo importante lavoro Magatti rivolge un pressante invito alla generatività, così illustrata: “La generatività sa che le parole servono a poco – se mai sono servite – e che ciò di cui c’è bisogno sono luoghi e contesti dove sia possibile far esistere esperienze antiche, capaci di sfuggire alla tirannia dell’oggetto, dell’evento, dell’immediatezza, pur stando dentro la carne della realtà, con tutte le sue sfaccettature che impediscono sempre di chiudere il discorso una volta per tutte”(p.397). È l’invito alla testimonianza, in un’epoca che, con insopportabile marpioneria, ha sostituito il testimone con il testimonial: non si tratta di sinonimi, ma l’uno è la caricatura dell’altro. Siamo cioè ricondotti al tema perenne della testimonianza in quanto capacità di dar vita a nuove esperienze, privato delle quali il discorso politico si riduce a vaniloquio pubblicitario. Magatti cita ampiamente Simmel, e ben a ragione: si tratta di uno dei maggiori pensatori, non solo entro i confini della Germania. Tra l’altro autore di un saggio dal titolo precorritore ed evocativo: Filosofia del denaro. Voglio perciò chiudere queste note in levare, con una citazione che mi trascino come un mantra, qualcosa concedendo a una qualche apparente leggerezza dell’essere… Il più volte e meritatamente citato Georg Simmel era esponente di spicco dell’establishment intellettuale cattolico del suo Paese e intimo alla curia della diocesi di Berlino. Ebbe la ventura un giorno, anzi, una notte, di essere scoperto intimo della segretaria in un alberghetto di periferia. Il grande intellettuale ammise francamente la colpa, e poi provò a dirottare dialetticamente l’argomentazione sul piano professionale. Disse: “Tocca al filosofo indicare la strada, non percorrerla.” Perfino simpatico. Ebbene, per il credente – meglio, per quelli che Norberto Bobbio ha sapientemente definito i “diversamente credenti” di questo Paese – le cose stanno esattamente al rovescio: nessuno gli rimprovererà una ancora insufficiente informazione scientifica o filosofica, assolti ovviamente e fino in fondo gli obblighi della competenza. Il dovere dell’ora è piuttosto quello della testimonianza, della sperimentazione cioè di esperienze insieme critiche e innovative – “generatrici”, appunto – in grado di immettere elementi di comunità all’interno di una società che ha smarrito senso e relazioni.

Trascrizione della relazione di Mauro Magatti

Devo dire che sono proprio emozionato perché il libro ha suscitato in tanti amici tanti commenti, e anche molte persone che mi hanno scritto e che ho incontrato, e questo naturalmente per chi scrive un libro è una soddisfazione, se no cosa scrive un libro a fare… E quindi la tua rilettura che dimostra anche una disponibilità a seguire un ragionamento che non è proprio immediato, la tua rilettura dimostra anche uno studio che mi emoziona, diciamo così. Per cui ti ringrazio, prima di tutto.

Io spero invece che chi per la prima volta sente questi discorsi non abbia pensato, nel seguire il ragionamento di Giovanni Bianchi, che siamo andati fuori di testa e immagino che chi si è trovato qui un sabato mattina ha detto: questi sono impazziti. È successo. Posso capire, nel senso che il libro è il frutto di 10 anni di lavoro e a scrivere il libro, fisicamente, ho impiegato quasi tre anni, quindi posso capire che concentrare il tutto, improvvisamente, un ragionamento che viene… uno dice che cosa sta succedendo?

Io adesso ridirò solo due o tre cose telegraficamente per suscitare eventualmente in qualcuno il desiderio di andarselo a leggere il libro e a studiarselo e poi farò invece alcune considerazioni un po’ più legate al vostro percorso di attualità, diciamo così, e anche la prospettiva, perché altrimenti uno si suicida direttamente, ma non è questa è l’intenzione del libro, di portare a uccidersi.

Prima affermazione. Questi 30 anni hanno cambiato tutto. Siamo sempre uguali, le questioni umane sono sempre le stesse da un certo punto di vista, quindi evitiamo i nuovismi, però il modo in cui la questione dell’esistenza personale e collettiva si pone, le categorie, i termini, le questioni, sono radicalmente cambiati, diciamo così, in quello che, se prendiamo gli anni dal 68 al 70 come la fase in cui il vecchio sistema entra in crisi e si rompe, a partire da quello che comincia con gli anni ’80 con il neo-liberismo nei paesi anglosassoni, che è il punto di inizio, la caduta del muro di Berlino che fa saltare gli equilibri nelle relazioni internazionali e gli anni ’90 e l’ultimo decennio in cui questo nuovo modello si dispiega. Siamo da un’altra parte, per cui bisogna fare uno sforzo – il mio è solo un contributo naturalmente – per non essere fuori dal tempo, parlando di cose che non esistono più perché la storia avanza. Allora, il libro è un tentativo di offrire una chiave interpretativa di questa fase.

Il cuore della questione è questo: la parola che si è persa per strada, non a caso soprattutto in Italia, che si chiama capitalismo e non bisogna essere marxiani e comunisti per parlare di capitalismo, Weber ne parlava e come è noto non era tale; capitalismo è un modo di organizzare dei rapporti economici e politici, il capitalismo è vivo e vegeto. E, come scriveva Marx, ha questa capacità, e non a caso risuonano le principali interpretazioni degli ultimi anni: tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. È una definizione sintetica del capitalismo che dava Marx. Negli ultimi 30 anni tutto ciò che era solido, le democrazie, le guerre, si è dissolto nell’aria, il capitalismo ha fatto questo. Tutto si è dissolto e come in altre epoche più remote la nostra generazione si trova a misurarsi con questo effetto che, come avete visto, perché noi in Italia abbiamo una percezione errata, pensiamo che gli ultimi decenni siano stati decenni di crisi e di fatica, gli ultimi 30 anni sono stati, dal punto di vista del capitalismo globale 30anni di una crescita economica mai vista prima. Se voi prendete il riferimento dell’economia globale complessiva, gli ultimi 30 anni hanno segnato uno sviluppo economico impressionante.

Noi, essendo in Italia, avendo tutta una serie di problemi in Europa, abbiamo la sensazione che siano stati 30 anni di crisi. Ma è vero il contrario: il capitalismo è vivo e vegeto. Ha ripreso abbondantemente il suo corso, perché è una cosa molto complessa, molto profonda. Come dire: l’equilibrio che si era costruito alla fine della seconda guerra mondiale, quello che una buona parte delle persone qui presenti ha vissuto nei suoi anni migliori, diciamo così, l’equilibrio socialdemocratico dello stato nazionale, quella cosa lì è finita, in quella forma è finita, bisogna costruirne un’altra, non sappiamo bene come. Questa è la seconda affermazione.

Terzo: Marx però ha sbagliato, c’è un errore profondo in Marx da cui bisogna fuggire, e cioè che il colpevole sia il capitalismo, come se gli esseri umani non c’entrassero nulla. La forza del capitalismo non è che è una cosa che qualcuno si inventa e ti butta sopra, perché se no non starebbe in piedi, la forza del capitalismo è che, come dire, legge alcuni tratti dell’umano, che sono dell’umano, non è che se li inventa il capitalismo. Per spiegarmi, non è che noi siamo consumisti, per usare una vecchia parola, perché ci sono le pubblicità che ci spingono a essere consumisti. No, noi siamo consumisti perché appunto il desiderio (che è una cosa complessa di cui dirò qualche cosa) fa parte di noi. Il capitalismo coglie questo aspetto e gli da il contenuto. Che cosa desideri? Quell’automobile lì. Ma non se l’è inventato lui il desiderio, diciamo così. Questo, secondo me, è un grande patrimonio della nostra cultura che è critico nei confronti del capitalismo, però non pensa che sia tutta colpa del capitalismo. È critico col capitalismo e con questa prova qui sa che deve fare i conti, non vuole fare la rivoluzione. Ecco, l’esito di questo discorso non è che allora scendiamo in piazza e facciamo la rivoluzione: il problema è nuovamente tornare a domandarsi come si fa, come dire, a contenere la bestia, a renderla umana invece che disumana.

Quindi, c’è il capitalismo e il capitalismo ha un problema, come ci insegnano i grandi pensatori del passato, che è capace di soddisfare le nostre esigenze materiali, ci fa stare bene, però il capitalismo, come dire, ha bisogno di appoggiarsi da qualche parte, per questo si parla di spirito del capitalismo. Cioè, non ha dentro la benzina, l’energia, se la deve andare a pescare, per stare in piedi, nell’umano e Weber ha cercato di dire che il capitalismo è sorto in Europa appoggiandosi all’etica protestante. Al di là del fatto che avesse ragione o no, che è una lunga diatriba, ma però il racconto di Weber è stato: il capitalismo nasce nel momento in cui c’è la riforma protestante e da una parte della riforma protestante ci sono i calvinisti, ci sono questi che cercano nella vita mondana le prove della grazia. Per cui i primi capitalisti, secondo Weber, non erano interessati a star bene, infatti non consumavano tanto, ma cercavano nel successo professionale le prove della grazia, di essere scelti, e questo da lo spirito al capitalismo, gli da un senso.

Poi c’è stata, adesso tagliamo giù con l’accetta, l’epoca appunto social-democratica: il senso del capitalismo è diventato costruire collettività democratiche relativamente giuste; è stata, come dire, la stagione della ricostruzione dopo la guerra, dopo il fascismo, dopo aver scoperto il disastro della Germania. Cioè, il capitalismo si è incarnato nel dopoguerra come un capitalismo sociale. Questa cosa qui ci può servire? Ci impegniamo perché questa cosa qui produce benessere, produce integrazione, ci rende tutte persone libere. E oltre al consumo individuale sosteniamo dei beni collettivi, fondiamo le scuole, fondiamo gli ospedali. C’è stata una stagione in cui il capitalismo si è strettamente associato a uno spirito democratico, di democrazia istituzionale, diciamo. È stata la grande stagione appunto dell’economia sociale di mercato.

Questo tempo, in questi ultimi 30 anni, il capitalismo si è appoggiato su un nuovo spirito, diverso, che io chiamo tecno-nichilista. Cioè, da una parte tecno, e adesso faccio due sottolineature.

Primo: che la tecnica è un linguaggio globale; le cure mediche, secondo gli standard che la medicina mette a punto, sono le stesse a Milano, a New York, in Cile, semmai in Cile possono avere il problema che non hanno le risorse per essere adeguati come dovrebbero. La produzione, l’informatica, il computer funzionano alla stessa maniera in Cile, a New York, in Italia. La tecnica è un linguaggio universale. Questo è importante per capire che cosa è successo perché il capitalismo ha fatto un salto perché ha capito che la dimensione dello stato nazionale democratico non era più sufficiente per sostenere la crescita. Quello che chiamiamo globalizzazione è questo: che il capitalismo ha capito, in particolare i paesi anglosassoni per primi, hanno capito, che per continuare a crescere, che la sua anima, il suo demone, doveva passare da una visione nazionale, l’impostazione keynesiana-welfarista, a una visione globale.

E per far questo aveva bisogno della tecnica. Il mercato è una tecnica, perché i sistemi giuridici del diritto privato che reggono i contratti internazionali sono tecnici, perché la tecnica in fondo è alla ricerca, e poi si basa, su due elementi: primo che funziona, e quindi si giustifica per il fatto che risolve il problema, e dall’altra parte cerca sempre… Infatti la tecnica dominante è quella che si basa sul linguaggio matematico; la matematica è un linguaggio: vuol dire che 2+2 fa 4, non si discute, non è che stiamo qui a dire Berlusconi… D’Alema… che ne so, no, 2+2 fa 4. E il 4 è uguale ancora una volta a Milano, a Shangai e non so dove. È universale, è l’unico linguaggio universale che gli esseri umani sono stati fino ad oggi capaci di costruire. Quindi, la tecnica, che si appoggia su questi linguaggi specializzati, si appoggia al suo funzionare, ha questa proiezione globale di cui il capitalismo ha colto la rilevanza.

Per questo il mercato è molto meglio dello stato, perché il mercato, potenzialmente, è un sistema di governo universale. Lo stato è invece carico di idee, di storia, di pensieri: la democrazia parla, il parlamento parla e ora che si mettono d’accordo, ciao. Il Parlamento è un casino, non si mette d’accordo più nessuno, chi è che si mette d’accordo in Parlamento appunto? Se fai parlare due persone non ci si intende più su niente. La tecnica, 2+2 fa 4 e siamo tutti contenti, lì non si discute. C’è una bella differenza, per questo il mercato spazza via lo stato, le procedure democratiche sono un disastro, ora che ci si metta d’accordo, ciao. Poi, più cresce il benessere e fai studiare le persone è ancora peggio, perché ognuno ha la sua da dire, è un casino.

Allora, da una parte la tecnica ha questa proiezione, dall’altra parte la tecnica ha questo elemento dell’innovazione, come si dice nel testo: è capace continuamente, come dice Severino, di aumentare gli scopi che possiamo perseguire, cioè il fatto che noi possiamo fare una cosa che prima non potevamo fare ci cambia, non è una cosa neutra. Facciamo un esempio: la chirurgia plastica, in questo nostro ambiente, qui diciamo, devi essere proprio deficiente a farti una chirurgia plastica. Però, come dire, se sei un uomo pubblico, puoi fare quella cosa, ti si pone il problema di poter fare quella cosa lì che prima proprio non ce l’avevi, non lo potevi fare. Allora, diventa complicata la storia. Allora, la tecnica continuamente ci aumenta, ci amplia, gli scopi possibili. E questo, come il buon Severino nella sua depressione maniacale, diciamo così, nichilismo profondo, però ci insegna, è una cosa che incide sul nostro essere umani.

Noi parliamo di innovazione e siamo più contenti, possiamo fare più cose, ecco, il capitalismo è tecno perché ha capito questa cosa qui, continua a cambiare, ad allargare e cambiare la scena. Ben inteso, questo è la sostituzione della trascendenza, tu non hai più nemmeno bisogno… Prima, se tu lasciavi stare la trascendenza era una gran rottura di scatole, tutto era fermo e dicevi che palle! L’è tutt istess. Per cui i discorsi immanenti avevano proprio questo limite, dovevi proprio diventare atarassico, imparare a star fermo immobile. Invece, questa cosa è veramente profonda perché interpretando questa nostra capacità della mente di andare oltre, di desiderare, ti dice: ma lascia stare Dio, poi chi l’ha visto, chi se ne frega, diciamo così. Qui, il continuo movimento, il divenire, ne prende il posto. Per questo si è condannati in un’epoca dove domina l’immanenza a questo continuo processo. No, dobbiamo sempre crescere! Perché bisogna crescere? Perché se ti fermi ti devi porre delle domande e quello che bisogna evitare è che ci si ponga delle domande. Invece, il fatto che continuamente cresci, si allargano gli scopi, ti dai continuamente degli obiettivi. La novità, una cosa che non avevi pensato e che adesso magari ti interessa: i prossimi sei mesi, il prossimo anno ho in mente quella cosa lì.

Questo è il capitalismo tecno, e quindi diventa globale e scommette su questo continuo divenire che diventa una legge. Infatti, il panico della crisi finanziaria e della recessione è questo perché nel nostro tempo non c’è nessun discorso possibile che si regga, se si ferma la crescita. Il buon Latouche ha da remare, diciamo così, la decrescita…. hai voglia. È un bel pensiero però ha da remare, è un discorso campato per aria, non c’è nessuna decrescita, macché decrescita! Guardate in Grecia: la gente va in piazza. Anche perché naturalmente c’è il problema, ma tu mi chiedi sacrifici, ma tu sei un ladro patentato e chiedi sacrifici a me, ma sei fuori di testa, appunto ti taglio la testa. Perché succede questo: dovessimo incasinarci nei prossimi anni la gente va a tagliare le teste. Ma chi può credere a una classe dirigente che dice che devo rinunciare io quando tu sei palesemente un ladro, ma stiamo scherzando! Una cosa che non sta in piedi cinque minuti.

Quindi, capitalismo tecno-nichilista. Nichilista: anche qui faccio due sottolineature. Nel 1887 il buon Nietzsche scrive: “Abbiamo di fronte due secoli di nichilismo”. Aveva ragione, noi siamo in mezzo, ci piaccia o non ci piaccia, noi siamo in mezzo. Non so come attraversiamo questo tempo. Nichilismo vuol dire, prima di tutto nell’esperienza di Nietzsche – Nietzsche era figlio di un pastore protestante, il padre muore quando lui è bambino e viene educato da questa madre, diciamo così, molto normativa, in un contesto molto rigido, di una normatività morale molto spinta che naturalmente gli suscita una reazione di rifiuto. Per capire molto banalmente il nichilismo di Nietzsche, per come interessa a me, lo possiamo tradurre così: che Nietzsche si rivolge chiaramente alla madre e a quel mondo che aveva visto intorno a sé, e dice: “Tu mi parli, usi delle grandi parole – obbedienza, giustizia, carità, servizio -, fammele vedere. Usi queste parole, io dico che sono tutte balle, dico che l’essere umano è fatto di carne, di voglia di vivere, di volontà di potenza, di emozioni ed è questa la verità, questa è la realtà, io dico che sono fatto di questa roba qui. Tu usi quelle parole lì, fammele vedere”. È molto semplice la sfida del nichilismo: usi i valori? Fammeli vedere. Perché devo ascoltare quello che mi dici se non me li fai vedere, fammeli carne, se no stai zitto. La mia volontà di potenza, il mio desiderio di godimento me lo sento, è una cosa vera, non me la sono inventata.

Per cui capite che la sfida del nichilismo non è come una sfida filosofica, campata per aria, di uno strano personaggio. Cioè, nel momento in cui culturalmente e filosoficamente viene messa in discussione l’esistenza di Dio, e dice Dio è morto, non possiamo più assumerlo come fondamento della nostra filosofia, non perché siamo diventati cattivi, perché il pensiero è arrivato al punto in cui si dice che la dimostrazione di Dio attraverso la ragione non regge e le impalcature istituzionali non lo reggono più, Nietzsche dice entriamo nell’epoca del nichilismo. Nichilismo è una sfida di verità. Nietzsche pone una sfida di verità. Dice: “Quelle cose in cui credi o me le fai vedere o non hanno senso. Io ti faccio vedere le cose in cui credo io, la mia volontà di potenza, che è sacrosanta e me la sento proprio addosso, mi viene fuori così, naturalmente”.

Allora, voi capite che l’implicazione di questo pensiero è che: primo, che noi siamo volontà di potenza, e quindi in questo tecno-nichilista vuol dire che noi siamo volontà di potenza; una definizione antropologica dell’essere umano dove volontà di potenza è un modo, io credo, più avanzato di tradurre quello che nella tradizione cattolica si chiamava egoismo, perché è una cosa più corretta, cioè l’egoismo è la stessa roba, però la dice meglio: intanto perché la volontà di potenza è fondamentalmente desiderio di vita, il volere sentire la vita, il volerla attraversare, come dire, avere questo bisogno perché la vita non sia qualche cosa che è fuori da te, cioè che ti attraversa, e noi siamo volontà di potenza, io sono volontà di potenza. Palesemente? No. Vado in giro a fare queste robe qui, che senso ha? Io la mia volontà di potenza quando vado a fare… ce l’ho, è chiaro che ho la soddisfazione di dire: guarda queste persone che mi ascoltano, come sono intelligenti, come sono brave. Cioè, la volontà di potenza, chiaramente in questo momento agisce in me, palesemente, se no starei a casa a guardare il soffitto. La volontà di potenza è una forza vitale. Positiva, non è solo negativa. Non si può nemmeno, come dire, semplicemente negarla, è una cretinata, non possiamo più. Andate in giro a dirlo. Il problema è che il capitalismo tecno-nichilista dice che l’essere umano è volontà di potenza. Punto. E su questo in rapporto al momento è un grave errore perché noi siamo volontà di potenza ma non siamo solo volontà di potenza, e questo è un problema di definizione antropologica importante su cui bisogna lavorare.

Quindi, il capitalismo è tecno-nichilista perché, primo dice: tu sei volontà di potenza, lo so, asseconda la tua volontà di potenza. Come si diceva anche nel testo rispetto al superuomo nazista, qui c’è il superuomo quotidiano che vuol dire sfrutta ogni opportunità che ti passa davanti. Ogni lasciata è persa. Perché non ha senso rinunciare all’opportunità. In un sistema che continua a girare, ogni possibilità che ti passa davanti è una possibilità di vita, non ha senso essere coerenti. Ma sei scemo, ma perché vuoi essere coerente, ma perché devi dire che c’è il principio, ma chi se ne frega, è la vita che conta. Pre-goditi questo istante, cose antiche che però diventano sistema. Carpe diem, è la stessa cosa. Goditi il momento perché la vita è lì. Infatti, la parola evento è proprio importante: e-vento…

Qual è l’immaginario della nostra libertà? L’immaginario della nostra libertà non è come per mio padre, per mio nonno, diventare tutti uguali, oppure costruire la democrazia, non c’è un fine: noi siamo liberi in quanto siamo aperti e aperti vuol dire essere disponibili all’incontro. Tutti i film sono così, e come c’era Frank Capra e in tutti i film “tutti vissero felici e contenti”, adesso i film sono tutti uguali, quelli che hanno successo sono tutti uguali: il colpo di culo, normalmente trovi la società sempre un po’ maschilista, lì la volontà di potenza si attiva bene, ma qualche volta si invertono i ruoli, il colpo di culo è dell’uomo che ha una vita anche bella, non deve essere necessariamente brutta, così fa anche bene, ma a un certo punto tu esci, trac, incontri questa donna meravigliosa che tu non avevi previsto, che non sapevi neanche che esisteva, che così realizza pienamente la tua vita perché tu non sai neanche come realizzarti. È una libertà che non sa dove andare.

Citavo una canzone di un cantautore, anche i cantautori ogni tanto hanno un bel culo, che dice (l’ho scritta perché ero in coda in autostrada con la macchina di mio figlio e ascolto questa canzone e uso il computer anche per prendere gli appunti e allora me la sono scritta); è una canzone di Masini che si intitola Gente di mare ed è interessante, adesso vi cito il ritornello, perché fa capire che cosa è la libertà oggi. Dice: “Gente di mare che se ne va, dove gli pare, dove non sa”. È questa la nostra libertà, cioè l’immaginario della libertà che c’è oggi è questo: è di andare. Dove? Boh!, non so, la gente non ha la minima idea di che cosa sta facendo e di dove sta andando: la libertà è essere aperti a quella cosa lì che ti incontra.

Apro la parentesi. Questa cosa è molto profonda, bisogna capirla bene: i mistici avevano questo stesso atteggiamento: tra il perdersi in Dio e la perdizione c’è proprio un filo, per cui non è che bisogna guardarla questa roba con tanto disprezzo, perché dentro ha una cosa importante: che la tua libertà non dipende dalla tua volontà, è una cosa più grande di te, non la controlli pienamente, non sei sovrano di te stesso pienamente. Quindi, non è una cosa da disprezzare: il problema che ti viene fuori, in reazione alla stagione precedente dove, avanti dritti si va là, si diventa professori universitari, trac… No, devi costruire la tua famiglia, cioè la generazione tua, diciamo così, avevate dei modellini, Dio santo, potevate respirare un po’, è per quello che è crollato il sistema, perché se no dici: ma sono tutti cattivi? a quell’ora lì c’erano tutti dei binari così, dici che palle! Dici saremo anche tutti i liberi ma siamo tutti così. Il ’68, che parte da lì viene fuori l’idea del dire no. La libertà è un’altra cosa.

Quindi è nichilista in questo senso, e dall’altra parte è nichilista, il che ha a che fare con le macrotrasformazioni, che nessun significato può costituire più un fondamento stabile: tutto è negoziabile sul piano dei significati, tutto entra nel gioco delle negoziazioni; quindi, tu dici una cosa, io ne dico un’altra. Ieri dicevo una cosa, domani ne posso dire un’altra. Il sistema dei media proprio su questo ha giocato un ruolo pazzesco, perché il sistema dei media si definisce…, pensate alla televisione, negli anni ’70 c’era RAI1, naturalmente c’era tutta anche la critica perché era controllata dalla DC e i comunisti dicevano: il telegiornale non lo fai te, fammi RAI2; si è cominciato a fare RAI2, poi si è fatto RAI3, poi sono arrivate le televisioni private. L’ideale che noi abbiamo della comunicazione è che più rappresentazioni ci sono meglio è, l’importante è buttar dentro tutto, poi ciascuno prenderebbe quello che vuole. Però, dentro lì è un massacro di qualunque significato. Il fatto che tu il telegiornale, che è una cosa già più strutturata, per modo di dire, perché se tu prendi il resto… Il fatto che tu passi la notizia, non so, c’è il terremoto in Cile, il papa fa la sua udienza e dice la seguente cosa, la velina si è spogliata di fronte a suo zio, vuol dire mettere tutto sullo stesso piano, ovviamente: è uguale il papa che dice amatevi, quello che muore in Cile e la velina che si è denudata di fronte a qualcuno. È uguale, uguale. È impossibile tirare delle differenze, vengono tutte equiparate e infatti è nichilismo nel senso che viviamo nel regime delle equivalenze. Sul piano dei significati tu la pensi così, e io la penso così.

Infatti, dove è il conflitto generazionale? Non esiste. L’altra sera dicevo questa cosa e poi uno mi ha fatto una giusta osservazione: il conflitto generazionale non esiste perché i genitori, o gli insegnanti, dicono: tu la pensi così e, va bene, sarà così, io mi sposto, cioè non è che devo anche discutere con te, tu pensala così, tu vai per quella strada lì, io vado per questa; se credi di fare quella roba lì sta contento, non c’è neanche bisogno di entrare in conflitto, ci si sposta. Con la subordinata che in qualche caso, appena è possibile, non solo ci si sposta, ma si sposta l’altro, diciamo così. Tu la pensi così? Spostati perché io sto andando per questa strada qua. Il che introduce l’elemento della violenza.

Allora, il capitalismo, che è una forza, tecno produce questo continuo cambiamento nichilista, cioè indebolimento sistematico di tutti i significati condivisi, questa idea di libertà come espressione di sé, di godimento….

Chiudo, e poi dopo chi è interessato si leggerà il libro, il mass construens, con questa immagine. È come se avessimo con la globalizzazione superato lo stretto di Gibilterra e ci siamo avventurati per l’oceano, ma è molto più grande ancora, e su questo oceano ci muoviamo, questa è la cultura che ci viene insegnata, con questo pensiero che io considero, in senso stretto, delirante: cioè che tu sei in mezzo all’oceano e pensi che, poiché siamo tutti liberi, e ognuno è geloso assolutamente della sua libertà, tu puoi andare nell’oceano che è molto grande dove vuoi, di qua e di là. È evidente che l’oceano non è, come dire, un luogo tranquillo, di quiete, dove tu vai di qua e di là, primo, perché l’oceano è pieno di correnti e tu pensi di andare di lì e stai andando esattamente di là; secondo, che nell’oceano possono venire le tempeste e se non hai un minimo di difesa l’oceano ti inghiotte in un secondo; terzo, che se nell’oceano ti muovi senza una direzione tutto è senza senso, è una vita senza senso.

Noi ci troviamo in questa situazione, siamo entrati in questo oceano, l’oceano della globalizzazione, della libertà, del multi-culturalismo, di qua e di là, con l’idea che ciascuno è libero, che è una vera fantasia. È una bella fantasia, proprio non esiste questa roba qua. Naturalmente, i poteri di fatto si danno, come è evidente, non c’è più bisogno di giustificare niente, una cosa la fai, punto, nelle relazioni interpersonali, così come nella politica, così come nell’economia. Questo è scritto nell’Enciclica: una situazione del genere porta alla tirannia del dato di fatto. Tu non sai più neanche appoggiarti a qualche cosa per dire che quella cosa lì non si poteva fare, ormai è fatta, è fatta, è lì, punto. Non riesci ad aggregare, su che cosa aggreghi altre persone? La politica su che cosa dovrebbe aggregare? In politica il consenso viene costruito in due modi: primo, ti garantisco che nei prossimi cinque anni godrai un po’ di più, sono io che ti farò stare un po’ meglio. Il diritto al godimento, perché se non prometti il godimento… Mi capite che per esempio la sinistra è un po’ in difficoltà, cerca di cavarsela dicendo che tutte le forme di vita vanno bene, però è un po’ debole. Il diritto al godimento, diciamo così, è la promessa elettorale degli ultimi vent’anni in occidente. La politica è assolutamente supina nei confronti di questo modello, non ha niente al momento da dire, zero proprio, corre dietro, cerca di fare delle robe, ma…

Allora, c’è una cattiva e una buona notizia che, io penso, la crisi finanziaria del 2008 sta dicendo che il modello così non tiene, che è una follia. Il modello così non tiene, non perché pensiamo che sia sbagliato dal punto di vista di qualcuno, ma proprio non tiene. La cattiva notizia è che Dio ci salvi dal crollo del sistema, perché se questo sistema dovesse andare incontro a una crisi seria, non perché lo dico io, ma come scrive Remy Girard, è chiaro che viene fuori un conflitto le cui dimensioni non sono nemmeno conoscibili. Quindi, auguriamoci che il sistema non crolli. Però, il sistema è in crisi, dopo trent’anni per la prima volta il sistema è in crisi, ed è in crisi profonda, non è in crisi superficiale.

Ci sono due indicatori, io credo ragionevolmente certi, che ci possono far capire che il sistema è entrato in crisi e sono due indicatori seri. Il primo è stato citato anche da Giovanni Bianchi: nel ’74, credo, James O’Connors scrisse questo libro che è molto importante La crisi fiscale dello stato; l’argomento era: il benessere che abbiamo prodotto stimola la domanda di servizi a cui lo stato deve rispondere, questa cosa qui provoca un dissesto finanziario dello stato e bisogna cambiare. Se allora c’era la crisi fiscale dello stato, non so come definiamo oggi questo stato gigantesco di indebitamento generalizzato. Sono indebitate le imprese, sono indebitati gli stati, sono indebitate, non tanto in Italia, ma in altri paesi, le famiglie. Questa cosa è interessante però: cosa dice il debito? Perché ci siamo indebitati? Ma ci siamo indebitati esattamente per la logica del capitalismo tecno-nichilista. Questo è il tema per me importante. Perché ci sono queste montagne gigantesche di debiti dappertutto, sono montagne, non sanno neanche calcolarle. Nessuno ha idea di quanti debiti in giro per il mondo ci siano. Ma perché si sono prodotti? Perché il capitalismo tecno-nichilista, come dire, stimola il desiderio che deve essere soddisfatto subito. Allora è chiaro che se tu hai la parete molle, cioè la possibilità di indebitarti, ti indebiti, perché non te ne frega niente, tanto poi in qualche maniera tecnicamente gestiremo il debito. E qui tutti, tutti, abbiamo di fatto vissuto oltre le possibilità reali: questa è la questione, chi più, chi meno ovviamente, perché con tutti non si intende tutti alla stessa maniera. Ma il problema è che qui si è vissuto oltre le possibilità reali, perché la pressione della volontà di potenza è troppo grande.

Perché questi della finanza internazionale, perché c’è il delirio della volontà di potenza? Ma quanti soldi volevano guadagnare? Ma che cosa ve ne fate di tutti questi soldi? Ma quando mai li spenderete questi milioni di euro che guadagnate? È tutta carta, ma intanto che il regime tiene uno con la carta e con l’immaginazione faceva quel che voleva. Allora questo è un tema molto importante perchè il debito è, come dire, la sintesi economica di questa pressione fortissima che si è generata.

Naturalmente tutti si affannano a dire che adesso c’è la ripresa perché hanno capito che questo è un dramma, questo è un dramma se questa roba qui viene fuori perché appunto, come si è detto nel testo, il problema è che qualcuno deve andare a dire alla gente che devi, come dire, almeno non aumentare, o addirittura ridurre il tuo tenore di vita – e si intende il godimento per tenore di vita. Noi abbiamo il superfluo del superfluo, diciamo tenore di vita per descrivere il nostro desiderio di godimento.

C’è una psicoanalista che ha dato una definizione, secondo me molto convincente, del politicamente corretto. Politicamente corretto è che tu non puoi dire nulla sul diritto di godimento individuale: il diritto di godimento è sacrosanto, è insindacabile, ognuno è titolato a un diritto assoluto al godimento, per cui tu non puoi dire a qualcuno, a partire da te stesso, qualcosa che riduca il diritto del godimento perché tutti hanno diritto al godimento. Questo è un effetto straordinario del capitalismo tecno-nichilista.

Allora da una parte, il primo elemento sintetico che fa vedere questa crisi profonda è questa cosa del debito, il secondo indicatore su cui bisogna lavorare è che, come dire, in positivo si diffonde in quote della popolazione, minoritarie, ma non del tutto irrilevanti, una consapevolezza che questo dinamismo individualistico, ossessivo, della volontà di potenza fallisce e che a un certo punto per stare meglio bisogna accedere ad altri tipi di beni. Faccio un esempio molto semplice: l’ambiente; se tutti ossessivamente consumiamo, l’ambiente si distrugge, se vogliamo salvare l’ambiente dobbiamo cambiare, capire che l’accessibilità a quel bene comporta un effetto sulla tua volontà di potenza. E dall’altra parte ci sono tutta una serie di beni, adesso generalmente li chiamo relazionali di convivenza, che ti sfuggono se tutti ossessivamente vanno dietro al modello individualistico. C’è questa latenza in questo momento, che bisogna sapere ascoltare, sapere accompagnare.

In negativo, il capitalismo tecno-nichilista produce montagne di sofferenze e di delusioni. Montagne, e qui per fare breve il discorso basta dire che i consumi di psicofarmaci nei paesi occidentali avanzati sono un’enormità. Ma è chiaro perché, lo capiamo, la nostra mente ci può aiutare a capire questo, perché se tutti stanno dentro l’idea che tu devi essere libero, e ciascuno è libero per sé, ma anche quello che ti sta vicino ha la stessa cultura, vuol dire, ed è il discorso di Baumann, che niente sta più insieme, niente. È quello il dramma dei ragazzi di oggi. Perché non ci si sposano, mica perché sono cattivi, ma perché tu non ti puoi fidare nemmeno di te stesso, perché sai benissimo che alla prima opportunità te la cucchi, diciamo così, figurati se ti fidi dell’altro. Risultato, strategia di riduzione del danno: andiamo pian pianino, ci metteremo 25 anni, però dopo 25 anni invece di fare le nozze d’argento, magari ci sposiamo. Perché quella roba lì del patto della vita è estraneo alla nostra cultura, proprio non c’entra, non sappiamo neanche come dirla. Perché nella cultura del capitalismo tecno-nichilista quella roba lì non c’è. Per cui i ragazzi cosa fanno? Oltre a tutti i problemi legati naturalmente all’instabilità del lavoro e tutta quella roba lì, i ragazzi, che sono persone intelligenti, cercano di adottare una strategia di riduzione del danno. Il fidanzamento (c’è dentro la parola fiducia, fede, ecc.) cioè la costruzione dei termini di una fiducia reciproca si allarga a 10 anni, 15 anni. Si deve vivere insieme e fare tutta una serie di prove per verificare se questa roba qui ragionevolmente possiamo pensare che stia insieme. E poi scoppia che non sta insieme lo stesso, però ci hai provato.

Qui faccio un esempio per dire che questa roba produce una sofferenza enorme, perché dire che noi siamo volontà di potenza è vero, ma siamo anche altro, e questo è un errore antropologico gigantesco del capitalismo tecno-nichilista, gigantesco, grande come una casa, da cui bisogna liberarsi dicendo: che noi siamo volontà di potenza è vero, non facciamo finta di essere qualcosa altro perché è vero, ma bisogna capire anche che cos’altro siamo. Perché se non partiamo da qui, quello che io chiamo l’immaginario della libertà, cioè una riflessione sull’essere umano, se noi non abbiamo una leva forte anche sul piano politico, cosa fai? Su quale leva ti muovi?

Piccola parentesi: è chiaro che io non sto rappresentando il mondo, vorrei sottolineare, perché nel mondo ci sono tante altre cose oltre questo, ci sono pezzi del passato che sussistono, mondi che vanno avanti senza capire che cosa sta succedendo, tante cose, non c’è solo questo. Però questa è la corrente più forte che ci spinge, questo è il vento organizzato più rilevante che abbiamo costruito. Per intenderci, capite anche il fondamentalismo perché salta fuori in tutte le specie e generi, perché è l’altra faccia della medaglia di questa cosa, perché il fondamentalismo è la ricerca del dire: di fronte a tutto sto casino, io voglio una cosa solida che sia la terra, che sia il tuo colore della pelle, che sia il sangue, quella roba lì non si discute, porca miseria, se no è un casino. Per cui dopo si diventa cattivi su quella cosa lì, perché è chiaro che è un meccanismo reattivo, ma dentro il tempo; non è che non c’entra niente, è dentro il tempo.

Allora, ultimo passaggio, la pars construens. Sono molto contento che lui abbia beccato tra le altre cose questo termine generatività che è appunto un termine che io sto usando per un lavoro che stiamo tentando di avviare allo Sturzo, vediamo se ce la facciamo. Allora, il punto di partenza è cercare di avere a che fare qualcosa con questo nostro tempo. È una cosa difficile, non essere fuori dal mondo come dicevo all’inizio

Per come la vedo io, me la racconto così: nella nostra esperienza culturale abbiamo sviluppato, dal romanticismo in avanti, tutta una reazione, che non è mai stata assopita e che continua a venir fuori e che è venuta fuori anche negli ultimi 30 anni, che dice: ci sarà anche l’efficienza, l’economia, ci sarà anche la strumentalità, però, come dire, la dimensione che io chiamo affettiva della vita, l’idea di sentire la vita, è importante. Io non posso vivere senza sentire la vita, senza essere coinvolto affettivamente nella mia esistenza. Nella storia dell’occidente da 200 anni questa cosa non sappiamo bene come collocarla. Il capitalismo tecno-nichilista dice: tu sei volontà di potenza e sei affettivamente attivato, il godimento è fare delle cose che ti fanno sentire la vita. Voi non siete mai andati a un concerto? Il concerto è un’esperienza parareligiosa di un’intensità notevole. Un concerto è una cosa che ti prende, come si dice, mica una roba banale. Tu vai lì, non conosci nessuno, c’è il personaggio con cui ti identifichi, che ti da delle emozioni, si spengono le luci, la musica fortissima naturalmente che ti invade, proprio ti va dentro, e tu ti fondi con tutti questi, fai un’esperienza di fusione profonda, di profonda intensità che ti fa sentire la vita. Per cui tu sei anche disposto a romperti le scatole tutta la settimana, per fare un altro esempio, e al sabato sera fare un’esperienza di questo genere. In fondo, due generazioni fa si faceva così per andare a messa. Cosa cambia? Adesso voglio un po’ provocarvi.

Allora bisogna prendere sul serio il tema dell’affettività. Guardate, questa roba qui non possiamo saltarla, aggiungendo il tema dell’evento di cui parlavo prima, cioè la cosa buona che c’è dentro questo tempo, come dicevo prima, è che tu non sei sovrano della tua libertà, tu sei un protagonista della tua vita, ovviamente, ma la tua vita è la somma tra te e quello che ti capita, quello che incontri. Naturalmente, il punto è che un conto è bersi tutto quello che incontri, un conto è metterci del tuo in quello che incontri, c’è una bella differenza, soprattutto quando tu hai capito che lì fuori tutto il mondo è organizzato per farti incontrare la cosa che loro vogliono che incontri, perché ovviamente il meccanismo è quello. Tu esci di casa ben beato, chissà cosa incontro oggi, e sono lì tutti ad aspettarti, si sono organizzati e “guarda aspettavi proprio me”.

Allora che cosa abbiamo perso? Io penso che abbiamo perso due cose. Questi due elementi l’affettività e l’incontro-l’evento sono due cose che dobbiamo tener presenti, dobbiamo tenerle lì come importanti. Nella generatività c’è questo, la generatività me l’ha insegnata mia moglie, ovviamente, è certo un’esperienza femminile, infatti speriamo che la liberazione della donna produca quella che chiamo la città generativa, speriamo. Allora, la generatività è affettivamente calda, non è innovazione, che è tecnica, la generatività è la vita, è qualcosa che ti coinvolge profondamente, è la tua esistenza che viene giocata. Secondo, la generatività sa che, per quanto tu sei assolutamente protagonista di questa storia, possono succedere tante cose, in ogni caso non sei nemmeno padrone di questa generatività e poi la generatività vuol dire fare esistere qualcosa che andrà oltre di te, che a un certo punto non sta dentro alla tua volontà di potenza e la tua volontà di potenza sta nel fare esistere qualcosa oltre te, che è una bella idea di volontà di potenza.

Allora, l’affettività e l’incontro e l’evento vanno salvaguardati, sono due elementi positivi del tempo che abbiamo incontrato; solo che questo tempo, come dire, ha dimenticato alcune cose: intanto ha dimenticato il tempo, cioè il capitalismo tecno-nichilista in questa combinazione tra innovazione e manipolazione dei significati azzera sempre tutto. Ma per poter avere qualche criterio, qualche lume per mettere insieme affettività ed evento hai bisogno di un asse temporale che da una parte si riferisca al tuo passato, a quello che c’è prima di te, alla tradizione, alla radice da cui vieni, al terreno da cui salti fuori. Bisogna recuperare questa istanza. Il fatto che tu vieni da qualche parte non è un limite alla tua libertà, è l’unico ancoraggio che puoi darti per stare al mondo, poi puoi essere libero quanto vuoi, ma se tu tagli questa radice non sei niente. Guardate, qui la sinistra non ha capito niente perché ha il mito di un cosmopolitismo astratto e, se mi permettete, la Lega ha capito molto di più, che il territorio è una cosa da proteggere, non perché sei retrogrado ma perché le persone, soprattutto in Italia, stanno da qualche parte al mondo, poi andrai dove cavolo vuoi, ma il territorio, il grembo, l’origine vanno protetti. Perché è un antidoto, capite, è un antidoto a quella roba che io chiamo capitalismo, perché se no non ce la fai, è impossibile, è un’accettazione di un limite, è il riconoscere il fatto che non sei tutto, sei lombardo. Che miseria. Cerchiamo di far qualcosa di buono alla cultura lombarda, cosa vi devo dire? Se da lombardo poi vai da un’altra parte, stai dall’altra parte con l’orgoglio e anche la caratteristica dell’essere lombardo. Dopo ne deriva anche tutta una serie di implicazioni.

E poi anche in avanti, che è una cosa importante, e cioè, se teniamo vivi questi due aspetti, affettività ed evento-incontro, un’operazione che bisogna cercare di fare è spostare questi due elementi dall’immediatezza del godimento frammentato e puntuale non al rigore morale, ma al fatto che la fertilità la allochiamo per qualche cosa che è desiderabile, che ci piace, che ci attira, che ci muove e che sta là davanti, diciamo così. L’esito della caduta delle ideologie è questo, perché le ideologie erano ancora dei racconti delle trascendenze, per usare una parola tecnica, intra-mondane. Il comunismo era il fatto che l’operaio si spendeva per una classe comunista, ma al meno era un aldilà. Il capitalismo tecno-nichilista non ha aldilà, non ha futuro, non c’è niente, infatti non sappiamo dove cavolo andare. Allora bisogna ricostituire non delle mere fantasie, anche magari piccole, anche locali, anche di gruppi, non saranno più delle grandi ideologie, perché non c’è lo spazio, però l’affettività va riallocata rispetto a degli obiettivi che non sono il mero godimento, ma che sono obiettivi di senso.

E qui spiego questa roba: la parola senso è una parola fondamentale perché quando io dico il senso della vita… A Como c’è una comunità terapeutica, ieri sera mi hanno chiamato e alla fine dicevo questa stessa cosa: il senso della vita che effetto vi fa? Una rottura di scatole perché, in particolare gli italiani, il senso della vita sembra che uno appunto ha delle cose precise che deve rispettare e che non c’è nessuna novità, non c’è nessun evento, non c’è nessuna affettività. Invece la parola senso indica la direzione, ma indica anche i sensi, i sensi c’entrano con il senso, invece noi l’abbiamo spostato tutto questo significato sul senso come direzione. In spagnolo il senso della vita si dice in una maniera molto più efficace: si dice el sendido de la vida.

Allora, il problema è che tu a questo tema dell’affettività non gli puoi andare contro dicendo restringiti, trattieniti, non ce la fai. Il problema che abbiamo davanti è spostare questo patrimonio, questa energia su obiettivi anche vari, e qui lo sturzismo ci aiuta, è quello che dovrebbe fare il leader politico, ma è inutile centralizzare. Invece, atomizziamo, diciamo così, moltiplichiamo i contesti in cui le persone si mettono anche insieme, mobilitano la loro affettività per qualche cosa che gli prende la vita, per cui si possono spendere. Perché se le società democratiche non sono capaci di fare questo, che cosa abbiamo costruito la democrazia a fare?

Capite perché i cattolici democratici sono indietro di 30 anni. Perché se state con gli occhi fissati al Parlamento con tutta l’importanza che ha avuto, che ha e che avrà, non la beccate più la vita della gente, il sentiero della vita sta da un’altra parte. Ma cosa gliene frega alla gente di oggi, non solo perché sono pervertiti, ma perché siamo avanti di mezzo secolo, e tutta la vita non ci sta più dentro il Parlamento. Il Parlamento è necessario, evidentemente, se no avviene un macello, ovviamente dobbiamo capire a che cosa serve oggi, ma dobbiamo, come dire, stare vicino alla vita delle persone, Sturzo ci ha insegnato questo. Bisognerà tornare a studiare Sturzo.

Questo è il senso dell’autonomia, delle autonomie, della società civile. Avevamo un pensiero, l’abbiamo dimenticato. Perché è importante l’autonomia nella società civile? Perché quello è il luogo in cui l’affettività della gente può spendersi. Naturalmente, bisogna creare le condizioni istituzionali, che non sono quelle che esistono oggi, dove per istituzioni intendo non solo dello stato ma anche del mercato, per cui questi processi possano esistere. Perché è chiaro che in questa situazione non sta insieme niente e quindi si sfascia tutto. A partire, per esempio, dalla questione sull’informazione, sulla comunicazione. Che non a caso è saltata all’inizio del capitalismo tecno-nichilista, di cui è una componente fondamentale. Fino a quando non sapremo riproporre in maniera nuova la questione della comunicazione e dell’informazione, è chiaro che fare questo lavoro sarà difficilissimo.

Allora, la prima idea è che l’affettività e l’evento hanno bisogno di recuperare queste dimensioni temporali, cioè accettare le radici, riconoscerle, valorizzarle da una parte e dar loro delle direzioni, delle direzioni che non siano campate per aria, che siano il risultato anche dei nostri problemi…. Non so, la questione ambientale, banalmente, quei temi che dicevamo appunto sul fatto che c’è una sofferenza e che rimetti insieme le persone facendo capire che la libertà insieme è una libertà meno dolorosa. Naturalmente, tutto questo richiede un grande sforzo anche educativo, perché vuol dire avere la pazienza di imparare noi, di insegnare agli altri, che non devi essere ossessionato da questa continua cosa che ti viene suggerita, perché è fallimentare quella roba lì.

E poi naturalmente in questo senso anche recuperare la nostra capacità di giudizio, recuperare il ruolo della ragione, perché la ragione noi l’abbiamo ridotta, funziona a meraviglia, diciamo così, come mera ragione tecnica, mentre siamo diventati in questo meccanismo perverso, in una sorta di degenerazione della democrazia per cui ciascuno ha il diritto di dire qualunque cosa, il che vuol dire più concretamente che nessuno ascolta più nessuno, la ragione pare completamente impotente, per ragione intendo la capacità di giudizio sulla vita. La tua vita viene, come dire, sorpresa da questo evento, la tua libertà sta nel dare risposta a questo evento. La tua libertà sta nella risposta, non nel fatto che incontri l’evento. Questa è la spiegazione per cui, non è che tu prima sei libero e poi, visto che sei buono, diventi responsabile, ma che la responsabilità, cioè la capacità di rispondere è la libertà. Come dice Simmel, non c’è libertà, non esiste libertà senza responsabilità. Naturalmente, esiste a condizione che distruggiate la soggettività.

Pezzi senza senso, per cui la sinistra, ancora, non ha niente da dire, proprio zero guardate, è annegata, speriamo che rinasca, ma tutto il pensiero radicale per me è completamente dentro il capitalismo tecno-nichilista, è perfettamente politica ricorrente, punto, non ha niente da dire a questo tempo secondo me, ma proprio niente, zero. Perché il tema è rimettere, ripartire da un immaginario della libertà. Cioè, capire che non dobbiamo rinunciare a gradi della nostra libertà, ma dobbiamo ridire la libertà in una maniera meno adolescenziale, perchè il capitalismo ci vuole tutti bambini, bambini capricciosi che intendono la libertà il fare quel che vogliono. La libertà non è fare quel che vuoi, la libertà è capire che sei un essere umano, quindi non puoi essere tutto e il contrario di tutto, che la tua vita si dispiega con una direzione, che il tuo passato ti pesa anche se non ti costringe, che tu per esistere devi rispondere al tuo passato, a te stesso, al tuo futuro, a chi ti sta intorno. Devi rispondere se vuoi esistere, perché se no non esisti, tanto è vero che i deliri sulla soggettività multipla, quelle cose lì, alla fine certo quando non c’è più il soggetto non c’è più la libertà. Questo è ovvio perché le due cose sono legate. Senza soggetto non c’è libertà però la libertà esiste solo se c’è soggettività, se no la libertà non c’è, non c’è problema. Infatti, la sinistra, secondo me, alla fine si perde.

Queste secondo me sono questioni importanti. Chiudo: allora, l’affettività e l’evento devono da una parte disporsi nel tempo e dall’altra parte rieducarsi a usare la ragione come criterio di giudizio. Naturalmente, con tutte le sue fragilità perché non disponiamo più di una ragione così certa, ma la ragione però è preziosa. I giovani hanno questo problema: che scommettono tutto sul sentire ed è come se rinunciassero alla capacità di giudizio e non si può vivere, il giudizio fa parte di noi. Non è che sono in mezzo al giudizio, ce l’ho dentro, sono capace di sentire, ma sono capace anche di giudicare.

A ciò bisognerebbe aggiungere tante altre cose ma aggiungo telegraficamente il fatto che noi siamo volontà di potenza ma siamo anche impotenza, non è che ne possiamo sempre godere, godere, godere, perché se no abbiamo i settantenni di Arcore che fanno morire dal ridere…Va beh, se hai settant’anni stai tranquillo, rilassati, magari hai un’altra affettività che non è quella del ventenne e starai bene lo stesso, ma rilassati, perché fai veramente ridere, così. Oppure l’indice dell’assurdità della nostra società è… voi sapete che il 50% del bilancio della Regione Lombardia è speso per gli anziani non autosufficienti e anche questo è un altro grande indicatore che il sistema è folle, perché tu per godere devi essere in forma e tutti noi, se arriviamo a questo tempo, avvertiamo il dramma che quando tu non sei più in forma per gli altri, salvo quelle piccole isole di umanità che sopravvivono, sei solo un peso, perché se anche non te lo dicono in faccia è chiaro che quello lì davanti a te vorrebbe andare a prendersi la sua quota di godimento, diciamo così, e proprio ci sta rinunciando per stare accanto a te, ci starà 10 minuti, 5 minuti, però è chiaro che anche se non te lo dice l’implicito è quello.

Allora, una società che dice che tu sei volontà di potenza e punti al godimento produce disumanità. Noi siamo anche impotenza, c’è della gente che muore, questa cosa suscita un coinvolgimento affettivo? A me sì. La mia umanità si misura anche nel godimento che mi piace, ma la mia umanità si misura anche nel fatto che se vedo uno che mi crepa lì sono interrogato. Cosa volete che vi dica, questo io ritengo che sia parte di me. Non è un dovere morale, che è una conseguenza.

Allora, l’affettività va giocata su diversi piani, ma non l’affettività in senso banale, il nostro coinvolgimento nella nostra esistenza. Anche questo, e qui veramente chiudo, ha a che fare con una progettazione istituzionale che sostenga queste pratiche perché non può essere semplicemente un anelito della volontà. Cioè, bisogna riprogettare le forme istituzionali in maniera tale che queste cose qui abbiano la possibilità di esistere. Concretamente, per fare un esempio, io credo sturzianamente di puntare molto sulle autonomie, riarticolare i rapporti tra i luoghi, le nazioni e l’Europa. Bisogna ripensare tutto… Sul piano fiscale sostenere le pratiche e le forme che hanno questa caratteristica e penalizzare, là dove si raggiunge un consenso, le pratiche invece puramente momentanee, il consumo al posto del lavoro per così dire, cioè il lavoro al posto del consumo, dove il lavoro, non il lavoro strumentale e alienato, ma il lavoro come uno dei luoghi dove si può partecipare a una costruzione, dove ci si può mettere dentro la vita. In Italia, dove abbiamo tante piccole imprese, gli artigiani tutti leghisti, quello è un patrimonio grande. Lì abbiamo i rappresentanti, saranno tutti, scusate la parolaccia, saranno tutti tra virgolette bastardi secondo una certa opinione di sinistra, ma quello è un grande di valore incarnato, con tutte le contraddizioni che la generatività si porta dentro, perché la generatività non è mai una cosa pura, è un pastone di tante robe.

Quindi, il lavoro istituzionale e ultimissimo naturalmente, l’ho saltato prima, è che l’affettività che si orienta nel tempo ha bisogno della fede, e torno al nichilismo. Dove la fede non è, come mi hanno insegnato da bambino, ho impiegato 50 anni a capire che era sbagliato, perché da bambino mi avevano insegnato che aver fede voleva dire che qui c’erano scritte delle cose e io dovevo cercare di aver fede, sta roba qui… Oggi, guardate non sta in piedi neanche un po’. L’aver fede non vuol dire che io credo veramente a queste cose, non è questa qui la fede, non c’entra niente. La fede invece è, per dare invece risposta alla provocazione di Nietzsche, è se guardo dentro di me, dentro la mia vita, la mia storia, l’esperienza, i ragionamenti che faccio nella mia vita, io mi sento di dire che questa cosa qui esiste veramente: che l’amore esiste, che la carità esiste. E la faccio esistere, come dire, io riconosco questa cosa oltre di me e dentro di me e gli do carne. Questa è la fede e da questa provocazione di Nietzsche non si sfugge, altro che valori, altro che la retorica dei valori, ma che valori?

In questo senso si concludeva la lettura di Giovanni Bianchi sulla testimonianza, non genericamente per la testimonianza, perché i valori o hanno la carne, come per altro la nostra religione mi pare che ci insegni, oppure sono parole vuote, sono strumentalizzazione. Da qui ancora il metodo sturziano che va a conoscere dove questi valori esistono, li ascolta e lì costruisce strutture istituzionali che partono dalla vita. Non è che c’è l’intelligentone da qualche parte che arriva lui e mette a posto il mondo, ma è il contrario, è la capacità di stare vicino a dove la vita c’è, esiste, vederne le contraddizioni, coglierne gli aspetti promettenti e da lì anche lavorare sul piano pubblico e politico perché le cose buone che l’umanità produce possano esistere e non possano essere invece spazzate via da questa cosa gigantesca che hanno messo in piedi.

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