Piero Coda. Dio che dice amore. Lezioni di teologia.

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Corso di formazione alla politicaÈ un libro di formazione, però di formazione che sta a monte della formazione politica. Ed è un libro di formazione spirituale, formazione spirituale cioè di catechesi cristiana. Ora, evidentemente, in politica si può lavorare insieme cristiani e non cristiani, ma certamente chi è cristiano ha un suo modo peculiare di fare politica: c’è un’esperienza di fede alle sue spalle, e chi cristiano non è, diciamo che riflettendo sulla condotta, sulla proposta cristiana, può trarre degli elementi che possono essere utili in senso lato e su questo si conclude il libro “per la famiglia umana”. Cioè ci sono degli elementi comuni che possono essere ritrapiantati, riadattati e, direi, il senso di questo libro è partire dall’esperienza cristiana, dalla fede cristiana per vedere in fondo come questa fede alla fine raggiunge in generale la famiglia umana. E per molti versi nasce dentro l’esperienza religiosa che in generale è già un’esperienza umana.

Piero Coda. Dio che dice amore. Lezioni di teologia.

1. leggi la trascrizione dell’introduzione di Salvatore Natoli

2. leggi la trascrizione della relazione di Piero Coda

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introduzione di Giovanni Bianchi (6’23”) – presentazione di Salvatore Natoli (46’45”) – relazione di Piero Coda (59’57”) – domande (16’02”) – risposte di Piero Coda (33’48”) – intervento di Salvatore Natoli (9’58”) – chiusura Giovanni Bianchi (1’31”)

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Testo dell’introduzione di Salvatore Natoli a Piero Coda

Bene. Giovanni Bianchi ha parlato di formazione, di formazione politica, e io mi collego direttamente a questo anche facendo riferimento a Dossetti e ricordo quell’incontro che noi avevamo fatto a Montesole in cui a un certo momento una delle domande più ricorrenti e formulate in vario modo è: “Ma che c’entra il tuo cristianesimo con la politica? Perché hai fatto politica?”. E lui diede una risposta in termini occasionalisti dicendo che il suo cristianesimo il quel momento lo appellava a prendere posizione. Quindi, non dottrina sociale della Chiesa, non un approccio sistematico, ma un kairós, cioè a dire lui in quanto cristiano in quel momento si sentiva chiamato a dover entrare nella prassi politica perché quello era un modo in quel momento per essere cristiano.

E allora dobbiamo prendere la nozione di formazione in questo senso perché il libro che io adesso cercherò di delineare, con cui abbiamo a che fare oggi, è un libro di formazione, però di formazione che sta a monte della formazione politica. Ed è un libro di formazione spirituale, formazione spirituale cioè di catechesi cristiana. Ora, evidentemente, in politica si può lavorare insieme cristiani e non cristiani, ma certamente chi è cristiano ha un suo modo peculiare di fare politica: c’è un’esperienza di fede alle sue spalle, e chi cristiano non è, diciamo che riflettendo sulla condotta, sulla proposta cristiana, può trarre degli elementi che possono essere utili in senso lato e su questo si conclude il libro “per la famiglia umana”. Cioè ci sono degli elementi comuni che possono essere ritrapiantati, riadattati e, direi, il senso di questo libro è partire dall’esperienza cristiana, dalla fede cristiana per vedere in fondo come questa fede alla fine raggiunge in generale la famiglia umana. E per molti versi nasce dentro l’esperienza religiosa che in generale è già un’esperienza umana.

L’apertura del libro è l’esperienza di Dio che si ha al di fuori del discorso cristiano. E allora io qui indicherò alcuni punti che mi sembrano importanti del libro e poi alla fine concluderò con alcuni quesiti preliminari.

Allora, questo libro è nella sua natura un libro di catechesi. Io non ho letto il catechismo della CEI, però questo è un libro di catechesi nel senso alto, c’è la meditazione, l’intelligenza dell’evento cristiano. Un’intelligenza dell’evento cristiano che poi deve diventare inevitabilmente una forma di vita, una condotta. E quindi, da questo punto di vista dire che è un libro per molti versi, e qui parlo da chi lo legge da fuori, drago, perché il modo in cui oggi si parla di cristianesimo, di fede cristiana, quando va bene è un discorso solidaristico.

Ora io non dico che la solidarietà non possa avere a che fare con il cristianesimo o non sgorghi in parte dal cristianesimo, però risolvere il cristianesimo in solidarismo direi che è impoverirne l’esperienza, perché il solidarismo, e questo è già un tema della discussione, fa parte della carità ma non è la carità. Non è l’amore.

E allora questo libro si incentra, e lo dice già il titolo, su Dio pensato attraverso la croce di Cristo, esperito attraverso la croce di Cristo, che è amore. E questa dimensione dell’amore si svolge, e questo è un altro tema centrale del libro, ma direi anche nella posizione teologica di Piero Coda, è la dimensione trinitaria di questo amore, lo svolgersi trinitario. Ora capite bene che quando io dico Trinità sembra una questione di accademia teologica; non sento con i cristiani che frequento in genere riferimenti alla Trinità. Molte volte mi viene il dubbio se sappiano, se si rendono conto, che il cristianesimo è Trinità.

Allora qui la cosa importante, la dimensione trinitaria è, diciamo, un codicillo teologico astratto aggiunto al cristianesimo come amore di Dio, oppure è invece una modalità per comprendere in un modo più profondo l’amore di Dio? Già questo è un elemento importante, cioè questa catechesi si incentra su un’idea di base: Dio che è essenzialmente amore e questo amore si esplica nella forma trinitaria. Quindi, il credente entra in questo processo, in questa espansione dell’amore divino nella forma che caratterizza poi l’ultima parte del libro che è quella che abitualmente, e spesse volte superficialmente, è chiamato Spirito Santo. Ecco, normalmente questo tipo di riflessioni non le sento, o le sento poco, in chi si dice, si dichiara credente.

Ecco, allora questi sono, diciamo, i termini del libro.

Primo punto. Andrò per punti, per scansioni. Il libro si apre con la religione, l’esperienza di Dio. Che cos’è Dio? Nel testo si legge: l’esperienza originaria di Dio è l’aprirsi spontaneo della creatura al mistero della vita. Qui io, in questo momento, non espongo il mio pensiero, ma lo accenno perché ci sono delle corrispondenze. L’esperienza del divino, io uso spesso più che la parola Dio la parola divino, lo θeĩon, e l’esperienza del divino è l’esperienza, prendiamo la parola mistero nella sua radicalità, dell’incommensurabile. Cioè il soggetto umano, l’individuo, si trova dinnanzi a qualcosa che lo trascende, ma non nel senso che c’è un Ente oltre il mondo secondo la forma metafisica, ma lo trascende per usare un autore a me carissimo, Coelet, non si riesce a congiungere l’inizio con la fine.

Allora l’individuo si trova in questo spazio di sproporzione. E qui dico un accenno che poi tornerà nella mia esposizione, ma è anche una domanda. Si parla tanto, è un tema ricorrente nella teologia del Novecento, di potenza, onnipotenza di Dio e impotenza di Dio. La questione messa così è messa male fin dall’inizio perché si intende la potenza, si fa coincidere la potenza, con il dominio e non c’è equivalenza fra dominio e forza perché noi parliamo anche di potenza dell’amore, (e se l’amore fosse debole?), della forza dell’amore. Allora, già confondere la potenza con il dominio è un modo di fraintendere la potenza. Spinoza lo aveva capito magnificamente.

Allora tutta la controversia potenza di Dio, impotenza di Dio è sostanzialmente l’idolo dell’onnipotenza che viene messo in crisi, ma non l’idea di potenza. E la grande dimensione, l’esperienza della potenza divina è nel fatto che non è catturabile. Direi che la potenza divina si manifesta nella sua assenza. Non può diventare un dominio del soggetto attraverso il discorso, ma il discorso è un esperimento che in qualche modo cerca di muoversi dentro questo spazio della asimmetria.

Chi di noi che non sia presuntuoso può dire che noi sappiamo tutto di tutto? Quello che sappiamo è sempre parziale, locale. Allora ecco perché io uso la dimensione θeĩon che è quella dei greci per dire il divino, dove Dio è una configurazione positiva dello θeĩon. Diciamo, una forma del suo manifestarsi.

E qui ci sono molte cose che emergono già da ora, dall’inizio nel rapporto tra le diverse religioni perché è su questa base in cui l’assenza nella presenza si divide, l’assenza nella manifestazione si divide e nessuna manifestazione la esaurisce. Ma di questo dirò alla fine.

Allora, immediatamente l’esperienza del divino è questa e allora già abbiamo detto una manifestazione del divino. Allora, qual è la manifestazione del divino entro cui nasce e si sviluppa il cristianesimo? È il Dio della elezione, il Dio di Israele. Cioè non è Dio raggiunto come garante dell’ordine del mondo, cioè non è un Dio cosmologico, ma il Dio di Israele e nella sua effettività, nel suo presentarsi, un Dio acosmico. Non a caso sta prima del mondo e crea il mondo. E già diventa problematico cosa vuol dire che sta prima del mondo. Quindi, tutta la teologia, pensate ad Agostino, ha cercato di capire cosa vuol dire questo “prima”. Lo si può pensare in termini temporali? Ma se il tempo viene fuori con il mondo? In ogni caso, questa esperienza del misterium si fa manifesta con un Dio che per un verso è acosmico, e quindi non è il principio dell’ordine del mondo, almeno non lo è inizialmente, per l’altro verso, proprio perché acosmico, è storico. Cioè irrompe nel tempo attraverso una chiamata.

Tutte le teologie dell’antichità essendo cosmiche non erano storiche perché Dio in quanto ordine del mondo, in quanto colui che sistema e governa, fino a provvidenza degli stoici, fondamentalmente non è storico perché le leggi che regolano il mondo sono leggi eterne. Qui invece abbiamo il creatore del mondo che magari avrà posto delle leggi della natura, ma soprattutto si svela, si rileva nella storia attraverso una chiamata, un’elezione. Un’elezione a che cosa? Un’elezione alla salvezza, alla liberazione. È un Dio che libera dalla schiavitù. Questo è il Dio di Israele.

Qui c’è una controversia esegetica, ma prima che esegetica linguistica, quando Dio si presenta: “Io sono colui che sono”. Si è dato di questo una lettura ontologica ma nella tradizione giudaica la lettura non è ontologica ma è elemenziale; la traduzione corretta sarebbe: “Io sono colui che sarà”. Cioè io mi trovo sempre dove accade qualcosa, io faccio accadere a partire dalla chiamata. Quindi, io non sono un essere compiuto, eterno, perfetto. Sono l’essere che irrompe nella storia e in qualche modo la guida.

Verso dove? Ecco qui c’è un problema interessante: come trovare l’appuntamento con Dio. Quando io discutevo con degli amici torinesi che Piero Coda conosce, i parenzioniani dicevano: il cristianesimo è tragico; io ho aperto una controversia: il cristianesimo non è tragico, il cristianesimo è paradossale perchè il tragico è antropocentrico, è l’uomo che deve uscire dalla distretta della contraddizione. Il paradossale è la chiamata a qualcosa che l’uomo non avrebbe mai pensato se Dio non glielo avesse rivelato. “Udrete cose che non avete mai udito.”

E poi la stultizia della croce paolina e il rovescio. Giacobbe e non Esaù. La storia della Bibbia è una storia costante di spiazzamenti. E poi, dopo l’incarnazione, un ulteriore spiazzamento, il già e il non ancora. C’è sempre questo meccanismo dove c’è un imponderabile che non dipende da me, e come fa a essere tragico? Ecco appunto il paradossale al di là della doxa comune.

Allora, un passo in avanti. Questa dimensione del Dio che libera, Dio di giustizia e di misericordia perché questo è il Dio della Bibbia, trova la sua manifestazione, per il cristiano, piena, in Gesù Cristo. E qui il grande problema e la logica trinitaria. Chi è Gesù Cristo? Il luogo comune, corrente è dire: “è Dio fatto uomo”. Se uno pensa questa cosa qui è strabiliante. È strabiliante. E se non è strabiliante è perché è poco pensata. E cosa vuol dire Dio fatto uomo? E poi quale Dio si fa uomo? Il Dio che si fa uomo è il Dio dei giudei e quindi c’è una doppia problematica. Che rapporto c’è tra il Dio dei giudei e l’esperienza del divino come asimmetria? E che rapporto c’è tra il Dio dei giudei che si incarna in Gesù Cristo?

Ed è qui che comincia la teologia. E se si legge questo libro si vede che la teologia inevitabilmente e originariamente non poteva che essere questo: un commentario della rivelazione; un commentario dei vangeli, dei testi, dove per testi non bisogna intendere soltanto i testi scritti, ma anche i testi come testimonianze di chi? Testimonianze di coloro che lo hanno visto. Più storico di così! Allora il tempo entra nell’eternità perché c’è qualcuno che ha visto l’eternità diventare tempo.

Sono filosofemi o sono cose che se uno le pensa in termini esistenziali non si raccapezza? Ecco, io normalmente non ho visto i cristiani pensare questo, e quindi avere, attraverso Cristo, un rapporto con Dio. Allora a questo punto mi domando: “Ma cos’è per voi Dio? E che vuol dire che Cristo è Dio?”. Leggendo queste cose mi veniva in mente quel passo del sofista platonico che a un certo punto esce in questa espressione: “Noi credevamo di sapere cosa era essere, ma adesso ci troviamo in grande difficoltà perché non sappiamo cosa voglia dire”. Noi crediamo che cosa è Dio ma se dobbiamo in qualche modo chiarire a noi stessi questo e l’esperienza di Cristo Dio, allora tutta la logica trinitaria nasce da qui. Perché sul piano dell’esegesi, e gli esegeti lo sanno, nella Bibbia non si parla mai di Trinità. Non esiste. Ci sono relazioni che bisogna chiarire. Parole: “Io sono il Figlio di Dio”. E che vuol dire?

Quindi direi, e qui la prima domanda, che è un grande problema, che cos’è la Trinità? Diciamo che è la fede della chiesa, perché i documenti non parlano di Trinità. Siamo di fronte a certe affermazioni che in qualche modo, intelligentia fidei, devono essere rese coerenti. Quindi, il Dio trinitario non è il Dio dei testi, neanche il Dio delle testimonianze, ma è l’elaborazione che la comunità ha di queste testimonianze perché nel momento in cui le vuole trasformare in ortoprassi in vita deve vedere come stanno insieme. L’elaborazione trinitaria. E allora vengono fuori cose che hanno prodotto dibattiti sofisticatissimi, filosofemi raffinati e che attraversano tutta la storia della teologia. Formule di questo tipo. Cristo, i Concili, duenature e una persona e la Trinità, il contrario: una natura e tre persone. Ma come la mettiamo? Che cosa vuol dire questo?

Ecco, per venire al libro di Piero Coda, lui racconta la Trinità – e ce lo dirà- come un’esperienza relazionale, cioè come delle modalità di rapportarsi di Dio agli uomini e degli uomini a Dio. La Trinità è questo elemento di circolarità comunicativa, se non ho capito male. Poi, su questo si possono sollevare moltissime obiezioni filosofiche e credo che basta porne una sul serio e faremo un seminario di due giorni. Ma l’idea che viene fuori è questo Dio dinamico, fluente: la Trinità è questa dimensione espansiva dell’amore perché in quanto l’amore si espande in qualche modo, come dire, si personalizza. Allora immaginiamo Dio, lo immaginiamo questa volta davvero come potenza infinita, non come dominio, come forza infinita.

Perché, che cos’è l’amore? L’amore è generazione, potenza, altro che impotenza di Dio. Ma questa potenza proprio perché non è dominio si mette a servizio e quindi nella persona di Cristo questa potenza si depone, si svuota. Ma perché è potenza si svuota, perché se non fosse potenza come potrebbe mai svuotarsi? Se non fosse forza, come potrebbe mai essere feconda? Cioè si è depotenziato, perché se non fosse stato originariamente potenza sarebbe stato nulla. Quindi qui è già una grande questione sull’equivoco dell’impotenza di Dio che è diventato patetismo. Patetismo. E quindi un cristianesimo sentimentale, senza forza, perché un Dio che non è forza, il canto di Deborah, che cos’è?

Allora io chiedo ai credenti, un problema che mi pongo, questo patetismo non è una forma di secolarizzazione? Un modo per rendere frequentabile Dio, togliendone il paradosso? Domando da occhio esterno, vi ho detto che esponevo e ponevo delle domande.

L’altro punto: la personalizzazione divina diciamo che è una flessione di Dio e che trova una sua epifania personale in Gesù Cristo. Gesù Cristo, questa potenza, si dona e trova una persona. Allora, la stessa natura… qui si apre tutto un problema interessante, ma pensata come relazione la cosa è diventata anche più semplice da capire nel senso che è la stessa potenza che si manifesta nel dono e quindi si personalizza, si impersona. E quindi qui il discorso persona-natura questa è direi un’ermeneutica natoliana. Un vecchio teologo medioevale mi direbbe: guarda che non è così.

Allora in questo impersonarsi si espande, cioè si comunica agli altri. L’amore del crocifisso diventa l’esercizio dell’amore, cioè diventa spirito, diventa Spirito Santo. In Gesù si manifesta una potenza spirituale, nel senso che lo spirito rinnova la faccia della terra e quindi quell’atto d’amore diventa paradigma universale del modo di amare.

Questo aspetto, io dico, potrebbe essere assolutamente umano senza che vi siano con Dio. Ma questo è un problema visto da fuori. Infatti spesse volte mi è capitato di dire: Cristo è Dio che si incarna o è un uomo che manifesta la divinità presente nell’uomo se gli uomini sono capaci di doni? Questo è un dilemma.

Quindi poi un altro punto importante che enuncio e che proprio qualche settimana fa avevamo messo in questione. Questo amore di Dio che si consuma nella Croce, e qui tutto il tema di Chiara Lubich centrato sulla dimensione dell’abbandono, Dio davvero muore sulla Croce, ma muore come onnipotenza, muore come dominio. In questo caso davvero Dio è morto, ma è morto come il Dio che è fondamentalmente padrone. Però non muore il Dio dell’amore. Allora, risorge. E che cos’è la resurrezione? Non svolgerò questo punto ma domando: cos’è resurrezione? Cosa vuol dire che Cristo risorge, cosa vuol dire che noi risorgeremo?

Ora questo è un elemento decisivo e centrale nei primi testi del cristianesimo, cioè in Paolo. Paolo non ha visto il Cristo che camminava per le vie della Galilea, ha visto il Risorto, lui ha conosciuto il Risorto, è diventato apostolo vedendo il Risorto. Cosa vuol dire resurrezione? Allora qui ci sono molte espressioni del tipo presenza viva di Cristo in mezzo a noi. Ma cosa vuol dire presenza viva? È memoriale? Anche la memoria è viva. O è un’esistenza? È un memoriale o è un’esistenza? Cristo è risorto nel senso che nel corpo glorioso sta alla destra del Padre dove tutti andremo, lasciamo stare come, lasciamo stare le cosmologie; è vivo alla destra del Padre o è vivo perché i credenti in lui lo fanno vivere?

Ecco questa dimensione è diventata sempre più equivoca nelle teologie e su questo chiederei dei chiarimenti perché anche questa è una forma di secolarizzazione, perché se è vivo non perché sta alla destra del Padre nella gloria come anticipo di tutto quello che noi saremo, ma è con questo amore che ha immesso che noi vivendo lo facciamo rivivere, beh, allora le cose cambiano. E allora è chiaro che qui vengono delle conseguenze non piccole, perché se la resurrezione è la memoria della vita del Risorto che vive in chi pratica la sua sequela allora il cristianesimo diventa carità. Ma se è il Risorto che sta alla destra del Padre vuol dire che ci sarà un mondo senza più dolore e morte.

Dobbiamo interpretare alla lettera questo: che ci dobbiamo attendere un mondo senza più dolore e morte, in cui tutte le lacrime saranno asciugate sul volto, non ci sarà più la morte, oppure questa è una metafora per vivere la morte in modo diverso? O il fatto è che dolore e morte continueranno a starci nel mondo? Quanto è essenziale la liberazione dal dolore e dalla morte al cristianesimo, o è una metafora dove il cristianesimo vivente è invece il memoriale della morte, cioè a dire il modo in cui gli uomini devono essere tra loro compagni?

Ecco, questa è già una domanda, perché sul tema della resurrezione, un po’ come sull’onnipotenza, c’è uno slittamento, cioè a dire che Cristo è vivo in mezzo a noi come metafora vuol dire in fondo renderlo accettabile in un mondo secolare che non crede né all’anima e meno che mai alla resurrezione.

E se non crede all’anima meno che mai alla resurrezione dei corpi, allora la dimensione memoriale, sapienziale, pragmatica della resurrezione è il vero senso oppure c’è una eccedenza? Se noi avessimo chiesto ai nostri nonni credenti se credevano alla resurrezione strictu sensu, beh, i nostri nonni avrebbero detto che ritenevano letteralmente vero che i corpi sarebbero risorti. Che poi, diciamo, era la posizione di Sergio Quinzio nellaFede Sepolta.

Qui il Risorto può essere interpretato nel senso del movimento dell’amore innestato dal sacrificio di Cristo, oppure questo amore, che non solo è il modo di stare insieme tra di noi, cioè di fare comunità, ma è un amore che poi alla fine libera dal male, anche quello fisico. Perché già per Paolo il male fisico nasce dal peccato. Anche qui c’è da chiarire il termine “in mezzo a noi”, “vive in noi”, cosa vuol dire?

Detto questo poi diciamo, vado veloce, che la vita della Chiesa è l’effusione dello Spirito. Allora qui il discorso sarebbe quali sono le forme dell’amore. Amare sì, ma come? Le forme dell’amore. L’ordo amoris. La via caritatis di Agostino. Cosa vuol dire essere cristiani? Vuol dire praticare la carità, le forme dell’amore. Ma su quale sequenza? Ecco credo che qui Coda riprende la tradizione.

Credere vuol dire conformità, in primo luogo. C’è regula fidei: chi crede, e soprattutto in una dimensione religiosa che è sempre comunitaria, crede alla fede della comunità, perché Dio in Cristo si offre attraverso la testimonianza. È un tradere. E anche sul piano sociologico in genere, mettiamola in termini di normale prosaica sociologia, non si conquista la fede. I più non conquistano la fede, appartengono a una credenza. Casomai deve essere conquistata dopo a fronte del dubbio, ma in genere si nasce cattolici, si nasce buddisti, si nasce protestanti. Non c’è un’opzione, c’è un’appartenenza. In genere, tutti coloro che credono, di base credono per tradizione, per regula fidei.

Poi dinnanzi ai dubbi che possono in vario modo insorgere, quella che è una appartenenza diventa una scelta. Sono pochissimi quelli che scelgono, cioè la conversione non è la furia dentro, ma la conversione è interna al credere stesso nella maggior parte dei casi. In genere, ci si converte da fuori, ma è raro da cristiano diventare buddista o da buddista a cristiano, ma nella maggior parte dei casi la conversione è una presa d’atto di quello a cui si appartiene. Quindi direi che da questo punto di vista, e mi pare che questo libro sia centrato su questo, il fare teologia non è una pratica astratta, ma è un atto di conversione. Cioè una appropriazione della regula che diventa intelligenza della tradizione. Dimmi tu se ti ho capito male o no. La teologia non è dottrina, la teologia è atto di conversione, comprensione della tradizione, comprensione dell’appartenenza.

E allora è chiaro il passaggio: se la teologia è atto di conversione, se è un commento a quello che Dio dice di sé, e non è un dire su Dio perché altrimenti sarebbe filosofia, se è un commentarium a ciò che Dio dice di sé, beh evidentemente come atto di conversione, come commentario intelligente, comprensione di quello che Dio vuole dirci, quindi fondamentalmente la teologia è ascolto, ex audito, evidentemente l’ascolto esige una risposta. Ma la risposta non è dottrinaria perché se la teologia è conversione la risposta è ortografica, cioè è vita.

I cristiani, torno a dire, fanno una meditazione sulla loro esperienza religiosa in questi termini? Come diceva Cartesio: “Ho girato molto per il mondo, ho appreso tante cose e a un certo momento mi sono fermato per raccogliermi in me stesso”. Ecco, il cristianesimo produce questa fermata? I cristiani indugiano in questa fermata o la by-passano per diventare organizzatori? Il Circolo Dossetti, proprio perché è Dossetti, se c’è una storia in questo personaggio è che dopo avere fatto, beh ho seguito una chiamata, ma il punto è un altro: è venuto il momento di un’altra presenza perché quella è ormai esaurita per me. Allora,la dottrina sociale cristiana vista in questa luce diventa una cosa completamente diversa perché altrimenti diventa la Democrazia Cristiana così come l’abbiamo vista, diventa gli atti devoti. Direi che nel comportamento, nella conversione pratica, sarete i miei testimoni, è lì che lo vedi. Guardate come si amano, e lì che lo vedi

E allora capisco bene perché il finale di questo libro diventa poi la realizzazione dell’amore in una comunità, cioè in un’esperienza che è ilFocolare, che è una forma di realizzazione visibile del cristianesimo, una comunità come ce ne sono tante. La Pentecoste è questo, no? Ma dove il problema è di vivere il cristianesimo in una certa forma come vita comunitaria che in qualche modo faccia vedere che cosa vuol dire nelle opere l’amore di Dio. Con tutti gli equivoci e i fraintendimenti cui qualsiasi associazione, a partire dalla Chiesa in generale, può andare incontro. Sarà perché la conversione è anche emendazione, costante, in questo caso coerenza al paradigma della Croce.

Tutta l’ultima parte del libro non a caso poi culmina nella mistica, che è fondamentalmente una cosa molto semplice da capire, difficile da eseguire, cioè entrare in una intimità con il divino. Un passaggio dal dire al vedere: è l’esperientia dei.

Quindi diventa difficile, soprattutto per un non credente, cosa vuol dire questo. Perché è chiaro che la mistica è già un elemento alchemico di trasformazione nel cuore della vita stessa. Allora Teresa d’Avila, Francesco. Una metamorfosi di sé in spirito e carne. Questa è l’esperientia dei. E chi è fuori molte volte la intravede e la confonde spesso. I folli di Dio, l’esterno, certi atti dice sono follie; i santi sono stati chiamati i folli di Dio. Anche questo è un grande rischio, potrebbero essere folli davvero. Però potrebbero essere davvero anche folli di Dio. Ed ecco perché la grande chiesa serve: perchè tenendo insieme tutte queste esperienze le ridimensiona l’una con l’altra. Perché se si sgonfiano da sole in modo settario diventano gli entusiasti contro cui scrive Paolo nella lettera ai Corinti.

E da questo punto di vista c’è un senso alto dell’obbedienza, perché l’obbedienza è una modalità di ridimensionamento del proprio rapporto con Dio perchè può diventare un entusiasmo per sé.

Questo è quello che io credo di aver capito del libro di Piero Coda, con tutti i dilemmi di chi da fuori ha delle situazioni non chiarite e nella mia esposizione ho cercato di indicare le ambiguità e i rischi che in ogni passaggio segretamente stanno e quindi che possono trasformare un’esperienza di questo genere in un equivoco, in un fraintendimento del credente con se stesso, in primo luogo, e quindi, a maggior ragione, nel suo rapportarsi col mondo.

Trascrizione della relazione di Piero Coda

In questo momento devo veramente ringraziare moltissimo perché sono partito un po’, diciamo, dal grato stupore che venisse scelto questo libro per un incontro perché appunto, come Salvatore Natoli ha ben notato, si tratta di un libro molto semplice, nato in un’occasione proprio, come lui ha detto bene, di meditazione, di catechesi della fede. Sono abituato a dovermi confrontare sui libri nei quali, in qualche modo, penso di aver elaborato in maniera più tecnica, ecc., ma è uno stupore grato perché in realtà, come benissimo ha detto Natoli, in questo libro quando uno, in qualche modo, cerca di dare quello che ha maturato più profondamente, anche esprime, fa come una spremuta di quello in cui più profondamente crede, quello che più incide sulla sua vita.

Devo dire quindi che sono veramente grato perché, tra l’altro, Salvatore Natoli l’ha letto e me l’ha restituito in una maniera straordinaria; devo dire che veramente la sua lettura e la sua proposta, quello che ha detto, le questioni che ha posto, ma anche quello che ha colto dentro, per me è veramente straordinario. L’ha fatto con una grandissima, oltre che intelligenza che ben gli conosciamo, con una grandissima sensibilità e attenzione, per cui direi che l’esperienza, che non è solo intellettuale, ma anche profondamente spirituale, che ho fatto ascoltandolo è proprio come ascoltare dall’interno uno che ripercorreva un cammino, poneva delle questioni, riflettendo con tutto se stesso. Mai in modo puramente accademico, astratto, ma cogliendo proprio la vivezza delle questioni. Quindi, veramente, lo ringrazio. Cioè non mi è mai capitato, devo dire, di fare un’esperienza come questa. Tante volte ho sentito parlare Natoli, ma adesso, non perché riguardava questo mio libretto, ma veramente perché l’ha fatto proprio con intelligenza, intelligenza di amore, proprio perché ha creato questa comunicazione profonda, reale, che fa emergere questioni che piagano la nostra vita, entrano nella nostra vita.

Quindi grazie, come grazie a Giovanni Bianchi per l’invito e a voi per la vostra presenza.

Per cui essendosi Natoli posto in questo tipo di rapporto, in questo tipo di restituzione di cammino che ho cercato di fare, veramente mi fa vivere anche un’avventura intellettuale particolarmente stimolante. Io vorrei proprio cercare di dire qualche cosa partendo, ecco, non tradendo la profondità e la vitalità delle questioni che ha posto, del cammino che ha sviluppato. Lo faccio così anche in maniera un po’ rapsodica, nel senso che tocco alcuni punti in modo così come mi vengono, come mi sono segnato, senza avere una sistematicità preconcetta.

La prima cosa che mi ha colpito molto in questa questione che verso la fine Natoli ha messo in luce è: che cos’è la teologia? È stata definita molto bene: un atto di conversione. Certamente, cerco di fare esercizio di intelligenza della fede, esercizio teologico, ma perché lo faccio? Io sono… vengo, come ben è stato notato, da un’appartenenza cristiana, da una cultura, da una tradizione cristiana, ecc., ma posso dire, basandomi proprio sul cammino di esperienza fatto, che per me l’esigenza della teologia come atto di conversione intellettuale ed esistenziale, perché alla fine la teologia, se cerca di essere autentica, alla fine sbocca in una prassi; ha la sua verifica nella prassi; non è un esercizio puramente intellettuale. E questo mi pare assolutamente vero.

Ecco, io sono partito da un’esperienza di fede non semplicemente ricevuta per tradizione, poi in qualche modo riflessa, assunta nel pensiero, proprio perché la mia famiglia, i miei genitori, mio padre professore universitario di ingegneria, quindi la forma scientifica del pensare era la più forte. Io volevo fare politica da ragazzo (ritorno a casa in qualche modo.) perché lo ritenevo un modo di servire concretamente l’uomo, la società, per me è questo il modo di, l’esercizio teologico è nato perché l’esperienza di fede in qualche modo l’ho vissuta da giovane come un incontro molto personale, cioè un’adesione che mi ha preso a tal punto da sentire di dovermi rendere conto con l’intelligenza di ciò che in qualche modo, in maniera eccedente, recepivo nell’esperienza e nell’esistenza.

Quindi, come dire, la teologia è un atto di conversione che nasce da un altro atto di conversione, conversione che è incontro con il darsi di una presenza di Cristo. E qui vengo a un altro punto che è stato detto. Una presenza di Cristo che non è semplicemente, appunto, una memoria e non è semplicemente un frutto della mia adesione o dell’adesione comunitaria, ma è mediata certamente dalla storia, da incontri, da esperienze. È un contatto, è un’esperienza profondamente personale. Cioè, io ritengo che la fede cristiana, l’atto della fede cristiana, attinga la sua identità nel momento in cui è un corpo a corpo con il darsi di una presenza di Cristo, che è personale, è di Cristo.

In questo senso veramente capisco molto bene, e ha fatto benissimo Natoli a metterlo in evidenza, capisco il pericolo di secolarizzazione che il cristianesimo molte volte vive quando, appunto, immanentizza la presenza di Dio in Cristo come frutto dell’esercizio di una prassi o che so io. No, no. La presenza di Cristo nella storia, nella fede cristiana è una sorgente originaria del divino, per usare la terminologia usata da Natoli, che irrompe nella mia esistenza. Io penso che questo, chiamiamolo con il linguaggio che riusciamo ad avere, è un rapporto personale che mi raggiunge in Cristo, in Gesù di Nazareth crocifisso e risorto.

Resurrezione vuol dire la dimensione ultima della sua esistenza che realmente mi raggiunge, mi interpella. Io penso che, come diceva Natoli, l’esperienza di Paolo che non ha conosciuto, come lui dice, Cristo secondo la carne, non l’ha conosciuto come personaggio storico, ma l’ha conosciuto nella sua presenza di Risorto, in qualche modo è il paradigma di ogni esperienza cristiana. Cioè, è un incontro, non è adesione alle dottrine, le dottrine possono mediare, non è semplicemente mediazione sacramentale o mediazione ecclesiastica, è un incontro personale con Cristo che si realizza attraverso una molteplicità di forme in cui si manifesta il suo amore, ma è questo incontro personale con Cristo.

Ecco, per me questo è la fede cristiana. E la teologia è un atto di intelligenza a partire da questo evento personale di incontro; un atto che certamente in qualche modo è necessario a ogni esperienza di fede in Cristo, perché ogni esperienza di fede che non si rende ragione in qualche modo dell’atto che ha compiuto e che lo precede non è fino in fondo esperienza di fede; cioè, rischia il fondamentalismo, rischia un’adesione ideologica, è una semplice traduzione culturale. L’intelligenza della fede è un momento intrinseco di verità dell’atto stesso dell’adesione a Cristo.

L’adesione intellettuale ovviamente viene esercitata a vari livelli, in vari momenti, non tutti per fortuna fanno il teologo di professione o studiano la teologia di professione, ma l’intelligenza della fede ha questa dimensione. E dunque è un rendersi conto, come dire, della potenziale universalità della propria esperienza, cioè del fatto che la propria esperienza non è un fatto meramente soggettivo, non è un fatto entusiastico semplicemente, ma adegua profondamente le esigenze, le istanze più profonde che emergono dalla tua esistenza, nel rispetto sempre di nuovo più grande di questa eccedenza dell’evento cui si aderisce che non è mai compiutamente catturabile (uso le espressioni di Salvatore Natoli) perché è eccedente, perché se fosse catturabile sarebbe la tua proiezione, sarebbe un’estensione di te stesso.

Ecco allora, a me piace molto, devo dire, questa definizione della teologia come atto di conversione e direi, per chiarire un punto che mi pare fondamentale in quello che è stato detto, atto di conversione a partire da un evento irriducibile, personale, di incontro, eccedente la trama delle relazioni storiche.

Poi parlerò della resurrezione di Cristo, parlerò dei Novissimi, ho visto l’altro giorno un libro di Natoli sui Novissimi, scritto non mi ricordo con chi, l’ho visto in libreria. Cercherò, per quanto possibile nella fede, di rendermi conto che c’è una dimensione trascendente, c’è una dimensione escatologica, ultima, ma a partire da questo atto di esperienza.

Che certamente, e qui vengo a un secondo punto, fa sì che l’esperienza cristiana sia nella storia umana un fatto, un evento che non solo è attuale, perché il fatto stesso che noi ci troviamo qui a parlare oggi, intuendone una portata anche direi, politica, pratica, e ci troviamo qui a parlare della rivelazione cristiana, cioè dell’evento di Gesù Cristo, della Trinità, dice come il cristianesimo ha una potenzialità, ha un’attualità straordinaria e, a mio avviso, se questo mi posso permettere e questo veniva fuori da quanto diceva Natoli, un’attualità che è ancora da scoprire. E sempre di moda scoprire.

Romana Guarnieri, che Giovanni Bianchi e anche tu, Natoli, conoscevate bene, in uno degli ultimi incontri che ho avuto con lei prima di morire, grande collaboratrice di Don Giuseppe De Luca, rivista Bailamme, eccetera, mi diceva una cosa; abbiamo chiacchierato a lungo sul cristianesimo, a un certo punto lei mi disse questa cosa che mi sono segnato perché pochi mesi prima che morisse: “Il cristianesimo certamente ha una storia enorme, duemila anni, ma il cristianesimo ha ancora da fiorire”. Proprio mi ricordo ancora questa frase: ha ancora da fiorire. Cioè cosa vuol dire? Ha in se stesso, diciamo nello spirito, ha delle virtualità che devono ancora essere espresse. Ne sono state espresse di straordinarie per cui io sono convintissimo, tentativamente, perché non so in che forma, in che modo, ecc., ma sono convintissimo che il cristianesimo se non si secolarizza, cioè se non riduce la sua eccedenza, la sua provocatorietà, la sua paradossalità, il cristianesimo ha la storia ancora davanti a sé.

Noi facciamo un errore di prospettiva tragico, mi sembra (dico noi cristiani) di vedere il cristianesimo come dietro di noi, come storia del passato, un richiamo alla tradizione, senza renderci conto che la tradizione significa continuo movimento di innovazione: questo è la tradizione. Allora, se il cristianesimo ha una sua radice evidentemente che è il riferimento a Gesù, ha al tempo stesso un riferimento, direi, all’attualità e alla escatologia, che è l’azione dello Spirito.

Il quarto Vangelo, il Vangelo di Giovanni, ha questa straordinaria tensione che emerge già… il quarto Vangelo è scritto alla fine del I° secolo, quindi nel momento in cui si poneva già la questione: ma la tradizione e l’insegnamento di Cristo come può andare avanti, quale futuro ha? E qui viene in aiuto alla meditazione credente della chiesa apostolica quanto Gesù aveva detto sullo Spirito: “Il Padre invierà un altro Paraclito, cioè un altro avvocato, un altro chiamato un altro (vuol dire che ce n’è due, il primo è Cristo, il primo inviato), un altro inviato, il quale ricorderà, prenderà del mio e ve lo annuncerà e vi guiderà verso la piena verità; cioè non verità intesa in senso dogmatico dottrinale ma come esperienza, la leteia (?) biblica è questo , è la femet (?) di Javeh è l’esperienza di Dio. (19)

Ecco, lo Spirito vi guida verso… ma come, c’è già stato? C’era, c’è già stato ma lo Spirito giuda verso, cioè vi introduce. Ecco questa enorme potenzialità dell’azione dello Spirito che guida: ecco qui il punto che Natoli ha sottolineato, la Chiesa è il luogo dello Spirito, ecc. ma il luogo dello Spirito è l’umanità. Cioè la Chiesa può rischiare di credere, di requisire, di essere colei che ha in pugno lo Spirito, ma come fa ad avere in pugno lo spirito che spira dove vuole, come il vento? Lo Spirito è dato da Cristo sulla Croce secondo la narrazione del quarto Vangelo; Cristo muore in croce e consegna, non solo effonde e dà l’ultimo respiro, ma consegna un senso di libertà a chi? Lo consegna a tutti.

Questa è la vera comunità di Cristo, è la comunità che per se stessa è chiamata a vivere una paradossalità incredibile, una tensione incredibile perchè la sua identificazione, che è quella del riferimento a Cristo, è quella che la spoglia di ogni volontà di essere ripiegata su se stessa. Tentazione tragica che Cristo ha superato nel deserto e che continuamente ritorna nella Chiesa. Cioè, la consegna dello Spirito da parte di Cristo una volta per tutte viene fatta non semplicemente alla comunità di chi crede in lui, ma viene fatta all’umanità. Cioè là dove il cuore e la mente si aprono all’esperienza del mistero, opera ed è presente lo Spirito.

Quindi questa è la dinamica di continua innovazione di tradizione che viene vissuta nella storia dell’umanità, i segni dei tempi di cui ci ha parlato il Concilio, ecc Questa, nella tragica lotta dei segni dello spirito e dei segni dell’anticristo, cioè nei segni di tutto ciò che è contrario, per cui non si sa se è più importante discernere quali sono i segni dello Spirito o, ed è la stessa cosa, discernere i segni dell’anticristo, subdoli il più delle volte, nascosti.

E non parlo qui di cose, diciamo così, demoniache o diaboliche; parlo di cose storicamente molto precise, con nomi e cognomi, con prassi che nella storia dell’umanità vanno nella direzione opposta di questo cammino dello Spirito che è un cammino di libertà, un cammino di incontro, ecc. ecc.

Ecco, quindi in questo senso l’atto della teologia è atto di conversione in questa dinamica di continua apertura non secolarizzata, perché il cristianesimo è tale se si confronta con il paradosso e l’eccedenza di Gesù Cristo sempre, e il cuore di questa esperienza è quello che Natoli diceva all’inizio – e vorrei soffermarmi un attimo su questo – è la grande realtà di quel simbolo se vogliamo trinitario che la Chiesa ha riconosciuto, trasmesso, ecc.

Che cosa traduce il simbolo trinitario? Natoli l’ha colto magnificamente. Il simbolo trinitario dice: “Il Dio che Cristo testimonia e che Cristo vive è il Dio della relazione”. In realtà è quello che già, come ricordava Natoli, nell’Antico Testamento viene già in luce. Il nome di Dio, io sono colui che sarà con te, colui che sarà con te, cioè è un Dio di uomini, un Dio della storia degli uomini.

E qui c’è subito, come dire, una grande, straordinaria premessa a ciò che in Cristo viene manifestato, questo Dio con gli uomini, che giunge a dare la sua vita per gli uomini, direi quasi a vivere questo scambio di posto con gli uomini. Non semplicemente nel senso, e qui c’è la logica e il paradosso della formula che Natoli ha ricordato: Dio che si fa uomo, ma Dio che si fa uomo significa al contempo il viceversa, l’uomo che viene fatto Dio, l’uomo che si fa Dio perché accoglie e attivamente si fa Dio; si fa Dio non in una forma entusiastica o che so io, ma nella concretezza di quell’impotenza dell’amore che è la potenza vera dell’amore, cioè il servizio, la lavanda dei piedi. Questo è la potenza.

E dico una cosa banale, ma vedo la potenza, la grandezza di un uomo, di una donna, quando li vedo vivere autenticamente la generosità del servizio, la coerenza morale, la trasparenza, la genuinità; questo è un grande uomo, una grande donna. Mai riconoscerò un grande uomo, una grande donna, in chi ha una potenza mondana, ecc., se non c’è questo. La qualità antropologica la misuri così e questa è la misura della qualità teologica.

Cioè io penso che nell’evento di Gesù Cristo c’è una straordinaria demistificazione psicologica della proiezione di se stesso che l’uomo fa su Dio. Cioè, l’uomo proietta su Dio e pensa a Dio come la gigantografia delle sue pulsioni, delle sue aspirazioni, rischiando di crearsi il dio idolo, il dio onnipotente. No. Nella croce, come dice molto bene Gerard, abbiamo un capovolgimento totale, è la demistificazione. La potenza di Dio, quello che Natoli diceva potenza di Dio, è questa, è la potenza dell’agápe.

E qui si istituisce una misura antropologica autentica, costosa, che è quella della sequela cristiana. Questo per me sarebbe già, come dire, un’acquisizione straordinaria, mettersi al fuoco della croce di Cristo come misura dell’identità del volto di Dio che diventa identità del volto dell’uomo. Io penso che la verità del Dio di Gesù Cristo ha la sua verifica nella vita degli uomini, nella misura e nella qualità della vita degli uomini che attingono da questa fonte e vivono di questa fonte.

Quindi la verità del Dio di Gesù Cristo non è una verità astratta, altra, ma è una verità che si verifica, cioè che viene fatta: ha la sua verifica nella esistenza degli uomini, nella forma dell’esistenza degli uomini. E questo, lo ripeto, già basterebbe.

Che cosa è però che il grande simbolo trinitario introduce di ulteriore, di eccedente in questo abisso, in questo grande, straordinario paradosso del Dio che si fa uomo perché l’uomo sia all’altezza di Dio? Qui Salvatore Natoli diceva una cosa che è straordinaria e che mi piace moltissimo, molto provocatoria, molto forte. Diceva: “Io non vedo cristiani che pensano questo paradosso”. Cosa vuol dire che Dio si è fatto uomo in Cristo? Capite che qui è il tutto del cristianesimo, ma che cosa significa? Io non posso accogliere questa verità di fede, come una pura verità di fede, senza entrare nell’intelligenza di questa fede e senza che questa intelligenza trovi una verifica nella prassi di vita. Questo è il punto.

Io penso che qui è tutta la novità della prassi sociale e anche politica del cristiano, nasce di qui, radicalmente nasce di qui, dalla volontà e dalla possibilità di tradurre in esperienza concreta questa verità di fede.

Ma veniamo alla Trinità. Cosa porta la metafora della Trinità? Questo Dio che, Natoli dice, è avvenimento relazionale? Il fatto che Dio diventa uomo in Cristo dice questo. che Dio è se stesso nella relazione con l’altro fino al punto di prendere il posto dell’altro, non prendere il posto nel senso di toglierlo, mi capite, ma di scambiare il posto con l’altro. Questa è una cosa che poi noi viviamo in maniera, diciamo così, molto semplice nella nostra vita quando, in senso molto banale, prendiamo su di noi la situazione dell’altro; per esempio nell’ambito politico io mi faccio carico di quella situazione dell’altro e mi faccio portatore di una volontà di cambiamento. Cosa sto facendo? E non è solidarismo semplice ma è un avvenimento, io lì sto testimoniando un Dio che è relazione, un Dio che è Trinità, ultimamente.

E qui c’è un punto che mi piace un attimo almeno aprire, perché io penso, che su questo abbiamo appena intavolato un inizio, un aperitivo di discussione ma bisogna proseguire su punti molto precisi e molto concreti. Qui c’è un punto che Natoli ha esposto in maniera forbita, basata su tutta la tradizione: come pensare la natura, l’essere, le persone: due nature una persona? una natura e tre persone eccetera?

Detto in maniera molto semplice, il problema che Natoli ha messo in rilievo è importantissimo; cioè lui dice: “Che cosa significa che in Dio c’è il Padre, il Figlio e lo Spirito come dice la tradizione cristiana?”. Dio effonde, uso le sue parole, e questa sua effusione, questa sua comunicazione, questo suo donarsi è talmente originario, pieno, ecc., che si manifesta in Cristo, che quasi Cristo è la personificazione di questo… Questa è la lettura di Natoli, ed è molto acuta, molto importante. Io qui però pongo una questione, a mia volta, che mi pare presente nella tradizione cristiana e ultimamente si riferisce proprio alla esperienza di Cristo, perché tutto quello che noi diciamo, come giustamente ha detto Natoli, cosa fa la teologia, commenta la Scrittura, cerca di pensare alla Scrittura e la Scrittura che cos’è? Testimonia un evento, è il racconto di un evento. Natoli ha detto molto bene: “Coda cerca di raccontare perché è l’evento storico, ecc”. Ma nell’evento di Gesù Cristo che cosa è raccontato? Che lui certamente è la personificazione, “Chi vede me, vede il Padre” dice il IV Vangelo, cioè è la manifestazione concreta di che cosa significa… Filippo gli chiede: “Ma scusa, Gesù, mostraci il Padre e ci basta, quando ci hai mostrato chi è Dio noi siamo contenti, quello che vorremmo…”. E Gesù dice: “Ma Filippo, da tanto tempo sono con te e tu mi chiedi questo? Non hai capito che la questione è che chi vede me, vede il Padre?”

Perbacco: chi vede me vede il Padre, cioè la manifestazione storica, quella carne di Cristo, perché Cristo è fatto di carne ed è carne; è spirito certamente, ma voglio dire mangia, beve, dorme, penso al raffreddore, ecc., muore, vive, ecc. Chi vede me, cioè questa carnalità qua, vede il Padre, cioè nel mio modo di agire, essere concretamente, nel prendermi cura di questo, nel denunciare quest’altro, vedi l’agire di Dio. Non vedi nel senso che lo fissi una volta per tutte, ma intuisci l’agire di Dio.

Però in questo: chi vede me vede il Padre che cosa abbiamo? Che il Cristo è Cristo, in lui si vede il Padre, ma il Padre è Padre. Cioè c’è una distinzione, c’è una, uso questa parola che la filosofia del Novecento ha messo in auge, c’è una vera, autentica alterità. Cioè per me, la questione fondamentale per l’affermazione dell’identità personale è l’alterità. Giovanni è una persona altra da me. Il concetto di persona cristiano dice questo: una identità, una dignità addirittura inalienabile. Certamente, sono me stesso solamente nel momento in cui mi relazione con te; ecco l’altra grande idea della tradizione trinitaria, la persona è relazione.

Tanto che, per dire un tema che cerco di sviluppare anche in queste pagine, Agostino quando parla della Trinità scrive il libro De Trinitate che Natoli ha richiamato, c’è un punto straordinario in cui dice, nel V Libro, che per Aristotele tutte le realtà possono essere categorizzate in 10 categorie, uno è la sostanza, ciò che è in sé e gli altri sono gli accidenti. Per esempio, la relazione: la relazione è un accidente, cioè che io sia di fronte ad Andrea va bene, ma potrei anche essere dietro e non cambia niente dice Aristotele, cioè la mia sostanza non è cambiata da questa relazione. Agostino dice: se però io vedo la Scrittura, in Dio ovviamente accidenti non ci sono secondo la tradizione, perché è impossibile, Dio è se stesso quindi non può essere, avere una qualità che può anche non avere, se fosse così non sarebbe Dio. Però in Dio la relazione è un fatto che c’è sempre. Cioè, il Padre, quello di cui Gesù mi parla, è sempre Padre. Il Figlio è sempre Figlio e questo certamente non è un accidente, ma dice il suo essere più profondo, cioè il Padre è Padre perché è relazione al Figlio e il Figlio è Figlio perché è relazione al Padre. Sono se stessi ma nella relazione l’uno è l’altro. Basterebbe questo per fare di Agostino uno dei più grandi pensatori di tutta la storia umana perché partendo appunto dall’esperienza di Gesù testimoniata dalla Scrittura intuisce che in Dio, e questo per me è la novità più forte della visione cristiana di Dio, in Dio l’alterità personale non è un accidente, non è un modo transitorio di essere, è una realtà costitutiva. Vuol dire: Dio rispetta fino in fondo l’altro.

Per me lì c’è il principio più profondo di quello che poi faticosamente la storia dell’Occidente riuscirà a esprimere anche andando contro certe posizioni della Chiesa che non capiva questo. Cioè il fondamento, ad esempio, del principio della libertà religiosa: io devo rispettare l’altro in quanto è altro. Quindi, nella sua scelta consapevole e libera di un’adesione a quello che è il principio assoluto della verità, o che so io, ma io devo rispettare l’altro in quanto altro.

I diritti umani certamente sono illuministi e la Chiesa ha combattuto la dottrina dei diritti umani, c’è poco da fare, c’è voluto Giovanni XXIII per dire che non era… Ma nella loro essenza ultima, questa affermazione dei diritti umani è radicata proprio nella dottrina trinitaria. Lo dico un po’ brutalmente, mi capite, si potrebbe fare tutta una serie di mediazioni, ma in una dottrina che dice Dio, la verità di Dio è attraversata dalla alterità. Il Dio cristiano non è un monolite, un monarca assoluto, oppure una sorgente che si effonde totalmente, si esprime totalmente nell’immanenza della storia, ma Dio è comunicazione (ovviamente con questo entriamo nella dimensione assoluta dell’abisso della vita divina di fronte al quale il silenzio e la contemplazione è la parola ultima), Dio è co-originariamente, almeno questo riesco ad affermarlo, co-originariamente. Cioè, Dio non è originariamente uno e poi tre, o non è prima tre che poi si unificano in uno, ma Dio è co-originariamente, cioè allo stesso tempo, comunione e unità nel senso più forte possibile, ma un’unità di alterità autentiche, reali. Questo è.

Ora questo significa che il creato, la creazione, come è avvenuta, qual è il suo significato, ecc., la creazione ha un significato reale per Dio, cioè Dio creando… creare cosa vuol dire, porre fuori di sé, al di là di sé, un’alterità reale che io rispetto come tale. Cioè Dio ponendo un’alterità come quella della creazione si è imposto un limite, Dio non potrà mai, detto in termini cristiani, non potrà mai obbligarti a riconoscerlo. È una tua scoperta e una tua scelta.

E questa è l’onnipotenza dell’amore perchè un Dio che non facesse questo sarebbe un povero Dio. Ora questa è un’esperienza antropologica, sociale fondamentale perchè il cristianesimo si costruisce con enorme fatica storica sulla base di questa verità teologica che è una verità antropologica: il rapporto con l’altro, a livello interpersonale, il rapporto nella società, la costruzione del politico sono queste, sono basate su questo rispetto ultimo dell’alterità e su una costruzione della comunicazione che viene fatta a partire dalla fatica quotidiana, tragica della composizione nel rispetto della libertà.

Ultima cosa che voglio dire, ce ne sarebbero tante evidentemente, Natoli ha toccato dei temi straordinari, un’ultima cosa la vorrei dire. Questa composizione come avviene? Natoli ha citato a un certo punto la croce di Cristo, il Cristo crocefisso, l’abbandono di Cristo. Ecco, questo è un punto che è straordinario a mio avviso, è fondamentale. Non per niente viene in rilievo solamente nel Novecento, perché occorre maturazione, occorre crescita umana, occorre esperienza. E su questo ha attirato l’attenzione, io ho avuto il dono, la grazia di avere anche un contatto personale con lei, di Chiara Lubich, una grande mistica del nostro tempo. Sono convinto, probabilmente la più grande mistica del Novecento.

Lei ha attirato l’attenzione su Cristo, sulla Croce, il vangelo di Marco, il vangelo di Matteo, l’ultima parola che dice, almeno quella che è riportata, è l’abbandono: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”. Ricordo da giovanissimo prete, viene una bambina a confessarsi, piccolina, appena fatta la prima comunione, e mi dice: “Don Piero, posso confessarmi?”. Dico: “Certo”. Si chiamava proprio Chiara, piccolina così. “Ho un dubbio di fede” dice. “Ma se Gesù sulla croce ha gridato (aveva sentito dal Vangelo) Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato, vuol dire che non era Dio”. Questa è una bambina di otto anni. Acutissima e infatti adesso è una persona di una intelligenza, adesso oramai mamma anche lei.

Questo fatto che Cristo sulla croce giunga a questo abisso di rivolgersi a colui che in tutta la vita ha chiamato Abbà, cioè lui ha dato il nome di Abbà al mistero di Dio. Io come cristiano posso dire Padre nostro senza rendermi conto di quello che dico perchè se solo dicessi quello mi fermerei lì mezza giornata per capire cosa sto facendo, cioè sto rivolgendomi al mistero assoluto dicendo Padre, tu conti i capelli del mio capo, ecc. Cosa può nascere di lì, che cosa è la mia esistenza in quella situazione?

Ma lui che ha dato al mistero il nome di Abbà, lì lo chiama, secondo il Salmo 21, 22, “Dio mio, Dio mio, Eloi, Eloi”, perché mi hai abbandonato? Perché? Cioè l’ultima parola di quello che la tradizione evangelica già chiama il Verbo di Dio, il logos di Dio, la manifestazione di Dio, tutto quello che volete, l’ultima parola è un “perché” lanciato, consegnato, rassegna poi lo spirito, ma prima consegna un perché.

Che non è un perché di disperazione ma è un perché che esprime la piaga più profonda dell’essere uomo di fronte all’indecifrabilità della situazione umana, la drammaticità della situazione umana. Lui che vede di fatto il fallimento della sua missione, di quello che voleva fare, di quello che è venuto a portare. MIca è un morto eccellente, tanto dopodomani, dopo tre giorni risorgo. Dico sempre ai miei studenti, non è che Gesù, proprio perché vero uomo, si faceva la scaletta al mattino, sapeva tutto, quindi adesso incontro il lebbroso sulla via di coso, poi faccio quel miracolo, ecc. Gesù incontra l’evento della vita come uomo fino in fondo e lo vive e lo gestisce e drammaticamente.

Lì vive il fallimento umano della sua esistenza, della sua missione, lo consegna al Padre, ma lo consegna al Padre in uno spogliamento abissale di se stesso. Ora lo consegna al Padre, c’è una speranza incredibile in questa affermazione, in questo interrogativo, c’è una fede incredibile. Anzi, Chiara Lubich usa questa espressione bellissima che mi ha sempre colpito molto: Gesù che sulla croce dirà questo è la fede. Poi i teologi cominciano a dire: ma Gesù poteva aver fede, non poteva aver fede… Fra 15 giorni un mio studente discute una tesi di 350 pagine esaminando cosa dicono i teologi se Gesù poteva aver la fede, ma di fatto questa è la fede, cioè l’affidarsi alla potenza impotente dell’amore di Dio là dove umanamente non hai punti di appoggio.

Ora questo se è vero , come ho detto prima, che Gesù dice: “Chi vede me vede il Padre”, questo vale per tutto, vale per sempre e chi vede quel grido vede il Padre. Dio, questa parola che noi utilizziamo per esprimere il principio, l’assoluto, il mistero, è questo: cioè colui che è talmente agápe, talmente amore, da saper perdere tutto per l’altro. Che è poi quello che noi sperimentiamo nell’amore autentico più semplice.

Che cos’è l’amore? È farsi l’altro, perché l’altro sia se stesso, cioè fare come ha fatto Salvatore Natoli. Natoli ha vissuto un’ agápe straordinaria nei miei confronti perché ha letto queste pagine dall’interno. Certamente, su qualche punto lui ha delle questioni, su qualche punto della sua interpretazione io ho delle questioni, ma l’ha fatto con una capacità di identificazione nell’intelligenza straordinaria. Questo è mettere in rilievo quello che l’altro voleva dire, il far vedere anche i limiti, ecc., questo è l’atteggiamento della relazione, è l’amore. Questo è Dio per quello che possiamo intuire in una forma… e questa è la nostra esistenza.

Allora, questo grido dell’abbandono non è la pietra tombale sulla fede in Gesù o sulla fede di Gesù, ma paradossalmente è la chiave interpretativa ultima, e quindi una chiave interpretativa che non chiude ma apre perché ti apre un abisso, non ti dà una soluzione, ti pone in un orizzonte, ti getta in un mare aperto, non so come dire, non ti mette in un porto sicuro. Questa è la chiave interpretativa ultima dell’esperienza della fede, della esperienza della fede cristiana, che non è la tranquillitas ordinis, ma è questo mettersi in gioco nella libertà dello spirito, nel soffio dello spirito perché lì si nasconde il soffio dello spirito.

Allora, ultimissima cosa che voglio dire, l’esperienza dell’abbandono di Cristo, questo volto, questo grido, diventa paradossalmente la chiave di ogni relazione interumana. Questo è il punto. Di ogni relazione interumana della lettura delle contraddizioni della società, della lettura, dei conflitti che ci sono. Diventa principio non egemonico e non piramidale, ma principio di trasformazione sociale, politica. il principio della trasformazione sociale e politica che il cristianesimo porta non è l’impero, in tutte le sue forme, uso in questo senso la forma di imperium, ma è l’abisso dell’abbandono di Cristo.

In questo senso il cristianesimo ha ancora da fiorire: prima Giovanni Bianchi venendo qui mi diceva. “Speriamo che cadano ancora alcune macerie”. Io penso proprio perché deve emergere il cristianesimo… e anche la Chiesa di queste macerie, capitelli, colonne e tetti ne deve perdere ancora parecchi, ma comunque siamo sulla buona strada, nel senso che sostenendoli cadono più velocemente, se cerchi di tenerli in piedi perché vedi l’anacronismo della cosa. Solo così il cristianesimo può diventare quello che deve essere e cioè lievito, fermento, sale, cioè una metafora che usa Gesù di una improntitudine, di una povertà incredibile, di una potenza (ecco di nuovo la forma dell’amore), perché il lievito che cos’è? È una cosa impalpabile, invisibile che, tra l’altro non ha un grosso sapore, è la torta che viene lievitata, ma è il principio catalizzatore di tutta una serie di forme dell’amore. Ecco, l’amore è questo.

Cioè, la forma dell’amore ultima è la capacità di creare delle forme provvisorie, perché non possono mai essere definitive, c’è una riserva escatologica, c’è un ultimo che ha da venire, ed è quello che noi siamo chiamati continuamente a sperimentare cioè che tu ti poni di fronte alla realtà se la vedi nella chiave del Cristo abbandonato, della Trinità, come un evento che sta accadendo in cui tu sei parte attiva con tutto te stesso, ma che ti trascende, ti eccede e ti mette in gioco e ti fa arrischiare totalmente ogni giorno in modo nuovo, totalmente sempre di nuovo.

Il sale, diciamo, siamo in questa stessa logica direi: io penso che non vanno intese come similitudini a cui corrispondono degli elementi particolari, ma certamente a me basterebbero queste due grandi metafore di Gesù, il sale e il lievito, perché, come dire, c’è tutto un concentrato di tutto il suo messaggio, di tutto il suo evento, cioè che cosa lui intende per agápe, per Dio, è dentro questa metafora, cioè c’è il principio della presenza storica del cristianesimo che, appunto nella logica del sale, del lievito, non è una presenza (questo è stato diciamo il tentativo finito poi nella logica della cristianità) in cui anche l’ordine della carità, le forme della carità vengono strutturate in modo tale che prendile dentro il mondo ben sistemate, dura quanto? Dura il momento in cui tu l’ha messo in opera perché subito dopo la vita, l’essenza, sfugge e mette in crisi l’apparato che è stato costruito.

Non è questo, non è questo. Gesù non ha mai parlato di restaurazione di un impero, ma usava semmai la metafora del regno che significa del regno di Dio, cioè Dio regna come lievito, come sale nella esistenza dei credenti.

Vi ringrazio del vostro ascolto.

 

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