La resistenza spirituale al vuoto nella Chiesa e nella società

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Se non c’è resistenza, ci si arrende. Il tema dei valori non patisce infatti alcuno stallo: o si va avanti, o si va indietro. E ciò indipendentemente dalla concezione generale dei valori cui ci ispiriamo. Sia cioè che i valori vengano pensati come deducibili da una religione o da un a fede, sia che si scelga politicamente quello che Max Weber chiamava “politeismo dei valori”, e che Silvio Berlusconi ha ribattezzato, per l’Italia, “anarchia dei valori”. Sia che si guardi ai valori come dedotti da una religione positiva e da un catechismo, o addirittura dall’Evangelo, sia che si metta l’accento sull’autonomia del quadro valoriale.

poco attendibile è il calcolo
del valore d’un corpo spogliato
di abiti, parole e distintivi

Eugenio De Signoribus, Altre Educazioni

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Giovanni Bianchi, settembre 2009 – L’articolo è disponibile in versione lunga e in versione breve

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La resistenza spirituale al vuoto nella Chiesa e nella società (versione lunga)

Resistere o arrendersi?

Se non c’è resistenza, ci si arrende. Il tema dei valori non patisce infatti alcuno stallo: o si va avanti, o si va indietro. E ciò indipendentemente dalla concezione generale dei valori cui ci ispiriamo. Sia cioè che i valori vengano pensati come deducibili da una religione o da un a fede, sia che si scelga politicamente quello che Max Weber chiamava “politeismo dei valori”, e che Silvio Berlusconi ha ribattezzato, per l’Italia, “anarchia dei valori”. Sia che si guardi ai valori come dedotti da una religione positiva e da un catechismo, o addirittura dall’Evangelo, sia che si metta l’accento sull’autonomia del quadro valoriale.

Chi in Occidente ha posto con più lucidità e drammaticità il problema è il teologo tedesco e protestante Dietrich Bonhoeffer, giustiziato dai nazisti per aver sostenuto la congiura contro Hitler.

Suo è anche l’ammonimento su Resistenza e Resa,[1] divenuto non a caso il titolo del suo libro più celebre, contenente le lettere dal carcere di Tegel.

Il tema non è di breve respiro. Perché non si tratta semplicemente di “conservare” un orizzonte di valori e il costume che ad essi si ispira: il gioco riguarda il nostro destino, sia nella sua valenza strettamente personale, come in quella collettiva di un mondo intero (e globalizzato) che si interroga sulle chances di sopravvivenza, non lasciando il monopolio della discussione agli ecologisti.

Proprio Bonhoeffer, interrogandosi verso la fine della seconda guerra mondiale, pone il tema in tutte le sue profonde valenze: “Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al “destino”. Don Chisciotte è il simbolo della resistenza portata avanti fino al nonsenso, anzi alla follia…[…] Sancho Panza è il rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato”.[2]

E’ in gioco una civiltà, una visione della vita, un quadro di valori, ma non soltanto. Si può stare dalla parte di Don Chisciotte per una difesa ad oltranza e senza compromessi, fare scudo a “valori non negoziabili”, come s’usa dire in Italia, sostenere posizioni senza “se” e senza “ma”. Oppure ci si può adattare, furbescamente ed a basso prezzo, come Sancho Panza: gli archetipi ci sono, i punti di riferimento sono così chiari da apparire delle macchiette.

Ma non stiamo combattendo una tenzone etica al teatro dei pupi. Bonhoeffer dice che c’è di più, molto di più: Dio stesso è in gioco e ci viene incontro o si allontana da noi. Scrive infatti il Teologo: “Dio non ci incontra solo nel “tu”, ma si “maschera” anche nell’ “esso”, ed il mio problema in sostanza è come in questo “esso” (“destino”) possiamo trovare il “tu” o, in altre parole, come dal “destino” nasca effettivamente la “guida”. I limiti tra resistere o arrendersi non si possono determinare dunque sul piano dei principi; l’uno e l’altro devono essere presenti e assunti con decisione. La fede esige questo agire mobile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione che di volta in volta ci si presenta.”[3]

Che la condizione umana odierna sia mobile ed addirittura liquida ci vien narrato ogni giorno dalle sociologie: da Bauman a Beck. Che la de-territorializzazione dell’abitare modifichi e scombini i confini delle etiche  è altrettanto evidente.

Tutto ciò non nasce né da improvvisazione né dal nulla. E’ ancora Bonhoeffer a rintracciarne le radici storiche nella splendida lettera dell’8 giugno 1944 ad Eberhard Bethge: “Il movimento nella direzione dell’autonomia dell’uomo (intendo con questo la scoperta delle leggi secondo le quali il mondo vive e basta a se stesso nella scienza, nella vita della società e dello Stato, nell’arte, nell’etica e nella religione), che ha inizio (non voglio entrare nella discussione sulla data precisa) all’incirca col XIII secolo, ha raggiunto nel nostro tempo una certa compiutezza. L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’“ipotesi di lavoro: Dio”. Nelle questioni riguardanti la scienza, l’arte e l’etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza “Dio”, e non meno bene di prima. Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano “Dio” viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno.”[4]

E’ quel che definiamo “processo di secolarizzazione”, iniziato prima ad ovest e poi man mano propagatosi ad est del globo. Fino a de-cristianizzare e poi paganizzare società considerate profondamente religiose, come quella polacca.

“Tanto più – chiosa Bonhoeffer – questa stessa evoluzione si autocomprende come anticristiana. Il mondo che ha raggiunto la consapevolezza di se stesso e delle leggi che regolano la sua vita è talmente sicuro di sé che la cosa ci risulta inquietante; qualche difetto di crescita e qualche fallimento non possono trarre in inganno il mondo sulla necessità della sua strada e della sua evoluzione; tutto questo viene messo in conto con virile freddezza e nemmeno un evento come questa guerra rappresenta un’eccezione.”[5]

La trasparente, tragica ironia del teologo tedesco mette il dito nella piaga: il problema del “destino” continua a starci di fronte e ad interrogarci drammaticamente, sul piano individuale e su quello comunitario.

Da una parte, una grande leggerezza, come di chi ha sottratto alla cultura illuministica dosi esagerate di ottimismo che pronosticano soltanto sorti magnifiche e progressive… Dall’altra, gli uccelli del malaugurio e i profeti di sventura, che assegnano alla fede la funzione del lenimento quando non la professione del becchino, e che per farla intervenire hanno bisogno di dimostrare ogni volta che le cose volgono al peggio: “Dove c’è salute, forza, sicurezza, semplicità, essi fiutano un dolce frutto da rodere o in cui depositare le loro malefiche uova. Essi mirano anzitutto a spingere l’uomo in una situazione di disperazione interiore, e poi hanno partita vinta. Questo è metodismo secolarizzato. E con chi riesce? Con un piccolo numero di intellettuali, di degenerati, di quelli che si credono di essere la cosa più importante al mondo e perciò si occupano volentieri di se stessi. L’uomo semplice, che trascorre la sua vita quotidiana tra lavoro e famiglia, certo con deviazioni di ogni genere, non ne è coinvolto. Non ha né tempo né voglia di occuparsi della sua disperazione esistentiva e di considerare la sua felicità magari modesta sotto l’aspetto della “tribolazione”, della “cura”, della “sventura”.”[6]

La società secolarizzata

Quel che resta indubitabile ed in estensione è il processo di secolarizzazione. Con una sorpresa: la secolarizzazione non si presenta come l’epifania della ragione strumentale trionfante, bensì come un pieno di idoli. La gente non frequenta il confessionale e le guide spirituali della religione tradizionale, ma consulta (e paga) maghi e fattucchiere. Il bisogno del sacro, scacciato dalla porta, rientra da mille finestre.

La circostanza cioè ci insegna due cose: la nostra sensibilità è diversa rispetto a quella di Bonhoeffer e alla tragica stagione che a lui è toccato vivere; in secondo luogo, il tema dei valori rimette in gioco una serie di rapporti che, a partire dal costume, riguardano fede, religione, cultura, spazio pubblico e potere. In particolare assistiamo al ritorno sulla scena pubblica delle religioni e delle chiese, con la riproposizione inevitabile della domanda di quale debba essere un corretto rapporto fra Stato e Chiesa, fra Stato e religioni diverse.

Scrive Giovanetti: “A lungo si è ritenuto nella pubblicistica degli ultimi tre secoli che la modernità comportasse necessariamente la secolarizzazione e la scomparsa della pratica religiosa. Forse guardando troppo al protestantesimo, dall’Illuminismo in poi l’intellettuale europeo si era convinto che la fede fosse solo un processo individuale di ricerca della salvezza, destinato pertanto ad arretrare nel privato. L’ideologia – come la definisce il sociologo spagnolo José Casanova – della “secolarizzazione obbligata” quale tratto distintivo della modernità e della ragione, che l’avanzare della scienza e della tecnica quali fattori onnicomprensivi del conoscere avrebbe resa universale per tutti i popoli e tutte le culture, si è dimostrata infondata e superata dai fatti. E’ invece un prodotto tipicamente europeo, un’eccezione rispetto al resto delle realtà mondiali anche occidentali (vedi gli Stati Uniti d’America). L’idea, quindi, che la secolarizzata Europa costituisca il futuro degli altri popoli ancora immersi nella religione sembra oggi ribaltarsi. E’ l’eccezione europea invece che si trova a dover fare  i conti con il risveglio delle religioni”.[7]

Questo significa una perdita progressiva sul vecchio continente di quella che Enzo Bianchi ha definito “differenza cristiana”.

Con un occhio ai risultati elettorali della metà di aprile del 2008, Pierluigi Castagnetti osserva che: “Solo una piccola minoranza dichiara di aver seguito come criterio per il voto le cosiddette questioni eticamente sensibili, su cui da anni insiste giustamente il magistero ecclesiale. Se a questa modesta percentuale si aggiunge l’ancora più modesto risultato della lista antiabortista (0,3%) di Giuliano Ferrara, abbiamo un quadro su cui riflettere. […] Non c’è traccia consistente e significativa infatti, nei comportamenti elettorali, della “differenza cristiana”. Se, come si dice oggi assumendo una categoria sociologica che si è imposta con un certo successo nel linguaggio giornalistico, quella attuale è una “chiesa di popolo”, il problema che questi dati elettorali ci rassegnano è quello di un voto cattolico così di popolo che non si distingue dal resto del popolo”.[8]

Dichiara in proposito e con respiro più ampio il patriarca di Venezia, Angelo Scola:

“La  secolarizzazione non è la stessa in tutti i paesi. In Italia non è come in Germania, in Francia o in Spagna. Uno dei fattori che fa la differenza è proprio la famiglia. Lo dimostrano i dati Istat e Censis: l’indice di divorzio in Italia è tra i più bassi d’Europa; le convivenze quasi sempre sfociano nel matrimonio; quando indica le aspettative primarie della vita, la donna, che oggi lavora di più, mette al centro il matrimonio e la maternità. Più della metà delle famiglie ospita in casa un genitore anziano, nel 90% di esse ci si trova a mangiare insieme almeno una volta la settimana. La cura che i nonni hanno dei nipoti integra un welfare che è ancora assai discutibile. Certe cose – penso alla sofferenza e alla morte – si imparano più dai nonni che dai genitori. E l’indice del dono, della gratuità, è in crescita non solo nel passaggio dai genitori ai figli, ma anche dai figli ai genitori”.[9]

E’ evidente che i cristiani vengono chiamati ad esercitare un ruolo non privo di possibilità come di critiche. Dice ancora Scola: “Da una parte, il mondo cattolico ha trascurato troppo a lungo l’importanza del mercato.  Dall’altra, non si può ridurre tutto alla sfera del mercato, ma, al contrario il mercato va inserito in una visione umana e culturale più intera e potente”.[10]

Derive relativistiche

Come prendere atto della circostanza, e come farvi fronte? Scrive Enzo Bianchi in La differenza cristiana: “Sprovvisti di certezze e sicurezze assolute, noi tutti, laici e credenti, forse veniamo preservati dall’arroganza e possiamo aprirci all’incontro sul terreno arduo ma affascinante dell’umano”.[11]Dove laici e credenti può essere meglio detto con l’espressione che in Norberto Bobbio suonava: “diversamente credenti”. Per una dissoluzione del confine che la figura ottocentesca e non di rado caricaturale (sorta di clericale rovesciato) dell’anticlericale si premurava di tener tracciato…

Chi ha dissolto il confine?

Quel XX secolo che è penetrato – secondo la diagnosi di André Malraux – nei sotterranei dell’inconscio evocando i demoni che sono in noi e portando a galla enigmi, sovrapposizioni, limiti di una razionalità condotta a confrontarsi con quanto è altro da sé.[12] Una serie di quadri alla parete con i ritratti di Freud, Nietzsche, Dostoevskij… Là dove la razionalità del moderno si confronta con il suo contrario scoprendosi relativa. Apollo e Dioniso. La ragione strumentale che regola le grandi fabbriche del fordismo e l’emotività incontenibile della democrazia mediatica del postfordismo.

In questo scenario principia e si distende il discorso sul relativismo che attraversa come lama il discorso filosofico, teologico, etico e politico. Che non merita l’enfasi della generalizzazione, ma la rigorizzazione di chi prova a circostanziarlo. Che può giovarsi dell’ampio dibattito che alcune affermazioni di papa Ratzinger circa le “derive relativistiche” del mondo moderno hanno scatenato.

Comportando una ricognizione e un riesame sia degli scenari che stanno all’interno come dei soggetti chiamati a leggerli.

Fine delle grandi narrazioni esaustive, di quelle ideologie che si incaricavano di spiegare anche quel che non voleva essere chiarito. Gettandoci nelle braccia dei grandi interpreti di un mondo fattosi illeggibile: Bauman, Held, Latouche, Rifkin, Huntington, Beck, Amartya Sen, Susan Gorge, Naomi Klein, Zambrano, Derrida, Augé, Zagrebelsky, Cacciari, Natoli… Cosmopolitismo degli uomini e cosmopolitismo delle idee.

Nella città

Perdita dei confini. Non-luogo dei problemi e quindi non-luogo nella storia, perché questo superficiale cosmopolitismo “non può cancellare dal mondo il dato di fatto fondamentale che le culture e l’immaginazione culturale sono storicamente specifiche e radicate, ossia territoriali”.[13] Vero è che nel processo di globalizzazione è mutata la base materiale e antropologica, conseguente a un’urbanizzazione del mondo che paradossalmente non corrisponde a una nuova sedentarizzazione, ma piuttosto alle nascite di nuove forme di mobilità e nomadismo. È un’osservazione di Marc Augé fatta al convegno di Milano del 25 maggio 2006 che lo ha visto protagonista.

Caino – dice la scrittura – è fondatore di città. E al suo seguito siamo tutti dei cainiti dei quali il Signore della storia si prende cura. Non v’è dubbio che proprio la città sia tra le maggiori invenzioni dell’uomo, come non v’è dubbio che nel mondo globale urbanizzato  uniformità e diversità sono più vicine, anzi, contigue. Uniformità è l’immensa città del globo in cui lavorano gli stessi architetti e fanno affari le stesse imprese economiche e finanziarie. Diversità il crescere e l’insopportabile evidenziarsi dello scarto crescente tra i più ricchi e i più poveri. Il tutto sulla medesima superficie urbanizzata, con una contraddizione tutta intra moenia. Con l’esigenza quindi di ri-misurare le distanze tra cose, concetti, persone. Chiamiamolo post-moderno…

Si tratta comunque di relativizzare i concetti rispetto alla modernità conosciuta perché sovente i nomi tradizionali celano cose diverse perché mutate. Si tratta di ri-trovare le chiavi e di elaborare una nuova grammatica. Lo stesso invito che rispetto al tema della laicità rivolgeva il patriarca di Venezia Angelo Scola in una precedente e acuta intervista concessa al “Corriere della Sera” il 17 luglio 2005.

Proprio perché il concetto di laicità legato alla modernità degli Stati Nazionali è incalzato dal destino di una società multietnica. Si tratta di ri-comporre e ri-elaborare la visione di cose nuove che possono anche essere le cose antiche che ri-accadono nello scenario di una città mondiale profondamente mutata. Perché per inerzia e per abitudine chiamiamo con il nome solito cose che cambiano segno sotto il nostro naso, e non ce ne avvediamo, quasi accecati. Fenomeni che non riusciamo a leggere e neppure a vedere.

Concetti relativi cercano di trattenere e comunque di dar conto di sedentarietà e mobilità, ricchezza e povertà, fatica e riposo. In questa accezione il relativismo è nel cuore dei grandi affreschi della contemporaneità. Non per mania, ma per necessità. Per dar conto delle discontinuità che attraversiamo perché ci vengono incontro. Non noi scegliamo le discontinuità; esse accadono, e noi dobbiamo rifare i conti.

Non siamo in possesso di alcun “Manuale delle giovani marmotte” che ci consenta una pronta mappa. Sappiamo (più o meno) da dove veniamo; ignoriamo sovente la meta e il terreno sul quale poggiamo i piedi. Serve l’ammonimento del vecchio Seneca: “Nessun vento è favorevole per chi non conosce il porto”. Ma l’operazione alla quale costrittivamente ci siamo abituati è quella di generalizzare l’etichetta “post”: post-industriale, post-fordismo, post-materiale, perfino post-avanguardia… Anche perché la densità mediatica di questa stagione storica è caratterizzata dallo squilibrio susseguente al modo in cui i media rappresentano il tempo e soprattutto lo spazio. Si sono così creati dei non-luoghi e dei super-luoghi che stanno nella coscienza (e nell’inconscio) degli uomini come non-luoghi o anche super-luoghi: da Ground Zero al Muro del Pianto di Gerusalemme.

Quali confini in un mondo siffatto? Non hanno almeno in parte ragione i sociologi francesi quando osservano che “l’immagine mangia, ahimé, il territorio ”?

E’ dal quadro così schizzato che emergono due interrogativi conseguenti. Perché relativizziamo? E come relativizziamo?

Interrogativi che riguardano da vicino la politica e soprattutto il pensare politico, se è vera l’affermazione hegeliana per la quale sempre la politica nasce da quel che politico non è; suo compito è darvi forma.

I temi di riferimento possono risultare molteplici. Non è forse relativa (e perfino a rischio) l’idea d’Europa come continente politico nello spazio globalizzato della città-mondo? Come potrebbe non esserlo? Non sono concretamente (e drammaticamente) relative le stagioni della vita ine stagioni della vita azza età  a questa condizione umana?ella città mondoè vera l’o di Gerusalemme.

unque di dar conto dquesta condizione umana? Chi è uomo maturo o di mezza età in Europa è vecchio in Africa. E chi è anziano in Europa è sepolto in Africa…

Credo che l’analisi politica non possa sottrarsi all’uso e alla valutazione della relatività di questi parametri. Non sappiamo più cosa sia questa cosa indispensabile che chiamano città. Eppure così abituale, così antica, così greca, così europea… Non a caso si è affermata nel linguaggio l’espressione “società liquida” e, per fare riferimento al lessico di Ernesto Balducci, sempre più ci muoviamo sulle tracce del Deus absconditus  in quanto uomini planetari

Mi pare allora di poter assumere per una riflessione due cartelli indicatori nelle posizioni di papa Ratzinger e del cardinal Martini. Senza alcuna pretesa esegetica, ma per un possibile orientamento del pensiero e dell’agire. Nessuna accademia e neppure ermeneutica: due icone, assunte in senso complessivo e con la grossa Minerva di quel senso comune dal quale è bene non separarsi.

In questa prospettiva mi pare di poter assumere e riassumere la posizione ratzingeriana come fortemente ancorata alla traditio, come territorio valorialmente compatto. Anche se non tutto il pensiero di papa Benedetto XVI è così circoscrivibile, viste le posizioni espresse circa la dottrina sociale della Chiesa dove papa Ratzinger nutre dubbi sul riferimento base al diritto naturale dal momento che giudica acquisibili alcuni elementi delle teorie evoluzionistiche.

Due sono forse i discorsi del cardinale Ratzinger, ambedue pronunciati pochissimi giorni prima dell’elezione al soglio pontificio, nei quali è maggiormente espressa la sua analisi e la ripulsa di ciò che viene definito il relativismo etico.

Il primo è quello pronunciato a Subiaco il primo aprile 2005, ventiquattr’ore prima della morte di Giovanni Paolo II, in occasione del conferimento al card. Ratzinger del premio “San Benedetto” (un che di profetico, per certi versi). In tale circostanza il Prefetto dell’ex Sant’Uffizio analizzava con grande attenzione la situazione di un mondo divenuto pericoloso a causa del diffondersi della minaccia terroristica e dell’accentuarsi dei “grandi problemi planetari: la disuguaglianza nella ripartizione dei beni della terra, la crescente povertà, anzi l’impoverimento, lo sfruttamento della terra e delle sue risorse, la fame, le malattie che minacciano tutto il mondo, lo scontro delle culture”, da cui deduceva l’indebolirsi dell’energia morale del nostro mondo.

A ciò deve aggiungersi il diffondersi di quello che lui chiama il “moralismo politico” che si impegna su grandi battaglie (giustizia, pace, conservazione del creato…) e che tuttavia troppo spesso (il Cardinale si riferisce principalmente agli anni Settanta) ha dimostrato la sua propensione ad anteporre l’ideologia alla persona umana e al suo vero bene. Non giova neppure una certa tendenza teologica a ridurre il Regno di Dio ai cosiddetti “valori”, staccandoli dalla persona vivente di Cristo.

Da ciò nasce l’analisi sull’Europa, che “è stata il continente cristiano, ma anche il punto di partenza di quella nuova razionalità scientifica che ci ha regalato grandi possibilità e altrettanto gravi minacce”. Beninteso, “il cristianesimo non è certo partito dall’Europa, e dunque non può essere neanche classificato come una religione europea, la religione dell’ambito culturale europeo. Ma proprio in Europa ha ricevuto la sua impronta culturale e intellettuale storicamente più efficace e resta pertanto intrecciato in modo speciale all’Europa”.

Ma l’Europa ha dirazzato, ha voluto recidere (per l’appunto) le sue radici cristiane, e ha elevato la sua cultura razionalista e relativista a metodo generale di comprensione della realtà, esiliando la religione fuori dal discorso pubblico.

Certo, Ratzinger non nega che vi siano dei valori evidenti che sono ormai divenuti acquisizione comune come frutto del pensiero illuminista: “L’acquisizione che la religione non può essere imposta dallo Stato ma che può essere accolta soltanto nella libertà; il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo uguali per tutti; la separazione dei poteri e il controllo del potere”. Tuttavia egli ritiene che tali valori non siano universalmente applicabili, perché la democrazia multipartitica e lo Stato neutro sotto il profilo religioso sono concetti inapplicabili a latitudini diverse da quella occidentale. Questo particolare vincolo culturale che lega tali concezioni all’Occidente è oggi battuto in breccia dall’irrompere di altre culture, di altre concezioni dell’ uomo.

E’ dunque l’illuminismo una teoria fallace e perduta? No, risponde Ratzinger, ma è incompiuta, perché ha voluto astrarsi dalle sue radici. “La vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra.  Se si arriverà ad uno scontro delle culture, non sarà per lo scontro delle grandi religioni – da sempre in lotta le une contro le altre ma che, alla fine, hanno anche sempre saputo vivere le une con le altre- ma sarà per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche”.

In questo senso, par di capire, il futuro Papa stigmatizza ad un tempo l’emergere di culture ateistiche, anche nel senso della radicale corsa all’oppressione dell’uomo sull’uomo, ed indica che la frattura non sarà fra “culture” inglobanti le diverse tradizioni religiose le une contro le altre armate (anche per mano di gente che religiosa non è), ma fra le varie forme di ateismo e di prometeismo (ivi compresa quella della globalizzazione neocapitalistica) e gli uomini che riconoscono in forma diversa la signoria di un Dio trascendente sulla storia e sul creato.

Da qui anche la condanna del “relativismo, che […] diventa così un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione, ed in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio dell’umanità in fondo superato e che può essere adeguatamente relativizzato”.

Ciò non toglie che la Chiesa non rifiuti l’illuminismo, ma anzi ne rivendichi le radici, poiché esso “è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato”.

Il Cardinale quindi auspica il dialogo, soprattutto perché, ritiene, che ambedue le parti, credenti e non credenti, possano e debbano convergere sull’idea che alla base della realtà vi sia un atto razionale. E qui cade la sua famosa proposta di rovesciare l’etsi Deus non daretur di Grozio , formulato al fine di salvaguardare i valori universali alla base del diritto dalle differenziazioni religiose, in un appello a vivere veluti si Deus daretur, in considerazione del fatto che quel consenso etico universale che ancora ai tempi di Grozio e poi di Kant era pacificamente riconosciuto è ora infranto.

Ma, per l’appunto, si tratta di una proposta, non di un programma politico, di imposizione e di conversioni forzate, e deve essere basato sulla testimonianza di “uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo”. Già, perché come diceva trent’ anni fa Paolo VI, “il mondo ha più bisogno di testimoni che di maestri”.

Il secondo riferimento è contenuto nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice presieduta dal Decano del Sacro Collegio il 18 aprile 2005, ed è notissima: “Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo religioso e così via […]. Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

Ci si può chiedere se questo ritratto del relativismo sia realistico o se non vi siano delle forzature, ma non mi sembra inopportuno citare un brano di un articolo del sociologo Federico Bonadonna: “Intendiamoci, il relativismo è molto affascinante. Il tema che i frutti puri impazziscono, cioè che tutte le culture si trasformano e si contaminano fino a mutare, anche se avviene da sempre, è incantevole. Ma è la Verità dei valori laici come i diritti civili e umani declinati dall’illuminismo, un antidoto contro la legge del più forte oggi espressa dal dio Mercato che rischia, nella confusa validità di tutte le verità, nell’assenza di limiti, di conquistare ogni spazio.” E conclude: “Certo nessuno può prevedere se la strada di Benedetto XVI si muoverà sul percorso tracciato dal Concilio Vaticano II o sarà l’occasione per una rielaborazione di tipo fondamentalista di matrice cattolica. Staremo a vedere. Ma il nostro avversario non si trova lì. In questa fase ci limitiamo a notare che i panni smessi da una certa destra liberista approdano nei lidi di una sinistra oggi definita radicale e sincretica […]. Ecco forse il punto: se pensiamo che esistano dei limiti, allora questi non possono essere relativi e la verità è unica. E una verità unica, in questo momento storico, è decisamente scomoda”.

Altrettanto esplicita la posizione martiniana, formulata coram populo nella visita al Duomo di Milano immediatamente successiva alla celebrazione del conclave.

Per Martini il valore delle cose è relativo rispetto a un assoluto la cui misura ci sarà disvelata al ritorno di Cristo Gesù nella parusia. Mentre durante il terreno pellegrinaggio dobbiamo pensare di muoverci paolinamente in aenigmate, ricordando l’ammonimento della prima lettera ai Corinti: “Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio (Prima Corinti, 4,5).

Sulla medesima lunghezza d’onda il Thomas Merton di Nessun uomo è un’isola: se “l’interesse generale non muove le nostre volontà”[14], ecco la spinta, ancora una volta, dell’assicurazione paolina:

“lo Spirito viene in aiuto alla nostra infermità, perché noi non sappiamo quel che dobbiamo dire nelle preghiere come si conviene, ma lo Spirito intercede per noi”(Rom 8, 26).

Due piste

Due piste di lavoro ed esperienza si aprono a questo punto per una possibile pars construens.

A prendere le mosse dai vincoli e dalle sollecitazioni della società multietnica il primo problema è infatti etico: come realizzare un consenso etico tra culture diverse onde evitare che la multietnicità si trasformi in una sequenza di ghetti come altrettante cesure sul territorio metropolitano.

Il secondo è politico: come, sempre nel medesimo contesto, sia possibile la mediazione politica al posto del confronto muro contro muro. Sul piano etico ci soccorre la lezione bonhoefferiana. Su quello politico la lezione sturziana.

Bonhoeffer, come è risaputo, non fa sconti né nell’impostazione né nello svolgimento. “Il contenuto del messaggio cristiano non sta nel diventare simili a uno di quei personaggi biblici, ma nell’essere come Cristo stesso. Nessun metodo conduce a questa meta, ma soltanto la fede. Altrimenti l’Evangelo perderebbe il suo prezzo, il suo valore. La grazia che costa diventerebbe grazia a buon mercato”.[15]

E infatti il cristiano che vive di fede muove i suoi passi quotidiani in quella che comunemente si definisce “realtà profana” e che le chiese ribattezzano “realtà terrene”, per rapporto, appunto, alle “eterne”, cui sono relative e dalle quali traggono senso e illuminazione. Un relativismo “dichiarato”. Quindi ci troviamo a parlare anche delle realtà terrene, “non perché abbiano un qualsiasi valore in sé stesse, ma per mettere in luce il loro rapporto con le cose eterne. A motivo delle realtà eterne bisogna parlare di queste terrene. Ciò va spiegato. Poniamo, senza subito rispondervi, alcune domande: l’uomo può vivere soltanto delle realtà eterne? E’ possibile estendere, per così dire, la fede nel tempo? Oppure essa diventa reale sempre e soltanto come fatto ultimo di un periodo o di vari periodi della vita? Non stiamo parlando del ricordo di una fede passata né della ripetizione di formule dogmatiche, bensì della fede viva che giustifica una vita. Ci chiediamo se questa fede è e dovrebbe essere realizzabile giorno per giorno e ora per ora o se anche in questo caso si debba sempre di nuovo percorrere la via delle realtà terrene prima di giungere alle eterne. Ci poniamo dunque il problema delle realtà terrene nella vita del cristiano: negarle è una pia menzogna? o è una colpa il prenderle sul serio? Con questa domanda se ne presuppone un’altra: è possibile estendere nel tempo la parola, l’Evangelo, cosicché lo si possa annunziare in qualsiasi momento nello stesso modo? ovvero bisogna distinguere anche in questo caso tra cose eterne e terrene”.[16]

La gamma degli interrogativi difficilmente riuscirebbe ad essere più puntuale. Ma la rigorosa barra bonhoefferiana evita gli scogli contrapposti della radicalizzazione e del compromesso per riaffermare l’esigenza di attenersi alle realtà terrne proprio a motivo del riferimento alle eterne, dal momento che “la vita cristiana non è fatta né di radicalismo né di compromesso”.[17] E dunque “non è seria né l’idea di un cristianesimo puro né l’idea del prendere l’uomo così com’è; seria è soltanto la realtà di Dio e la realtà dell’uomo divenute una cosa sola in Cristo. Quel che è serio non è un cristianesimo o l’altro, ma Gesù Cristo stesso; in lui il radicalismo e il compromesso lasciano il posto alla realtà di Dio e dell’uomo. Non esiste un cristianesimo in sé, distruggerebbe il mondo; non esiste un uomo in sé, escluderebbe Dio. L’uno e l’altro sono soltanto idee: solo il Dio-uomo Gesù Cristo è reale e mantiene in vita il mondo finché sia maturo per la fine”.[18]

Da questa posizione si evidenzia come il radicalismo nasca sempre da un odio conscio o inconscio per ciò che esiste, mentre il compromesso nasce sempre dall’odio per le realtà ultime. “Il radicalismo odia il tempo, il compromesso odia l’eternità; il radicalismo odia la pazienza, il compromesso odia la decisione; il radicalismo odia la prudenza, il compromesso la semplicità; il radicalismo odia la misura, il compromesso l’immensurabile; il radicalismo odia la realtà, il compromesso la Parola”.[19]

E invece? Invece “la vita cristiana è partecipazione all’incontro di Cristo con il mondo”.[20]

Perché questo rapido attraversamento di Bonhoeffer? Perché nell’Etica l’autonomia delle realtà terrene  è affermata nella sua inscindibile relazione con le cose eterne. E proprio in questa relazione essa consiste corposamente, con una irriducibilità che la dispone al trascendente (dal quale è disposta).

In secondo luogo, affidandomi con qualche rischio e una giaculatoria al buon senso, penso che lo schema bonhoefferiano attraversi le modalità del credere degli adepti delle diverse religioni che coabitano il territorio metropolitano.

E dunque? Nessun sincretismo eretico. Ogni voce continui a pregare il suo Dio con le modalità e il rigore che la traditio vuole. Nessuna censura e nessun compromesso. Ma chi prega diversamente può convivere con l’altro. E’ urgente e necessario che lo faccia.

Dice l’incipit del capitolo quinto dell’A Diogneto: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini… né essi aderiscono a una corrente filosofica umana”. E’ impensabile che invece che i cristiani si possa scrivere all’inizio del capitolo gli ebrei, gli islamici, i buddisti, gli induisti? Tutto ciò predisporrebbe a un minimo comun denominatore etico. Circostanza che consentirebbe una armoniosa convivenza relativizzando sul piano etico, e non su quello religioso, le differenze.

Su questa via mosse i primi passi ad Assisi il papa Giovanni Paolo II, un papa”di visione”, che suggerì come criterio la regola d’oro: “Tutto ciò che vi aspettate per voi dagli altri, fatelo anche voi a loro”(Mt 7,12 e Lc 6,31). Regola d’oro che esiste, a memoria d’uomo, in tutte le grandi religioni del globo.

E’ a partire da questo guadagno etico che possiamo utilmente rivisitare l’elaborazione politica di Luigi Sturzo e misurarci  con la concezione di una politica moderata a pieno titolo inscrivibile nel relativismo cristiano. Per la semplice ragione che la moderazione sturziana non è appannaggio di una formazione politica sociologicamente composta di ceti medi. La moderazione non è il parto della middle class. La moderazione è uno sguardo interno alla politica stessa, che, allontanandola dai fondamentalismi estremistici, la convince del suo limite. Le rammenta che la politica è un valore, ma che altri valori l’accompagnano e meritano rispetto. Non così nel liberismo. Non così nel socialismo. Non così in fascismo e nazismo e in socialismo e comunismo.

Scrive Pino Trotta: “E’ proprio dell’etica cristiana la distinzione fondamentale tra finito e infinito, tra assoluto e relativo, l’affermazione della bontà del finito come creatura di Dio. Incessante è il bisogno di assoluto che attraversa la storia stessa. L’etica cristiana ha una funzione eminentemente antidolatrica, essa delegittima incessantemente l’idolatria del potere, dello Stato, della forza, della ricchezza, l’idolatria d’ogni finito che tende a porsi nella storia come assoluto”.[21]

 E infatti suona così il testo del Prete calatino: “Noi non siamo che relativi nel nostro essere, nella nostra conoscenza, nella nostra finalità (…) La società non è che la sintesi concreta delle relatività umane. In essa si esplicano le potenzialità molteplici indefinite dell’attività umana determinata dal bisogno (nella più lunga accezione della parola), conservata dall’assimilazione, resa vitale dalla forza sviluppata dai contrasti. In questo insieme di correlativi, in questo lavorio di assimilazione e dissimilazione, in questo accentramento e decentramento di forze, la società vive, si evolve, progredisce e crea la storia”.[22]

L’intuizione sturziana consiste nel vedere nel cristianesimo l’anima stessa della democrazia. Mai Sturzo pensò ad un “partito cattolico”. Ed è sulla base del metodo della libertà che si svolge la critica sturziana al liberalismo e al socialismo, entrambi incapaci di assegnarsi un limite, di relativizzarsi, e quindi disponibili agli eccessi avventurosi dei fondamentalismi utopistici.

Il liberalismo ha una concezione astratta della società. “Di fronte a questo concetto astratto di equilibrio e di progresso, gli individui scompaiono, perduti nella lotta corpo a corpo di ogni giorno, nella loro vitalità pubblica e nei loro rapporti sociali; in questo insieme di vicissitudini e di instabilità, in questo sviluppo di energie, spinto e determinato dagli interessi egoistici, prevale il tutto sociale, come una grande concezione quasi teleologica dell’umanità, e nella quale la ragione assoluta del più forte è l’elemento dinamico di vita e di equilibrio”.[23]

Nota puntualmente Pino Trotta: “La libertà liberale crolla insomma sotto la sua stessa astrazione. L’individualismo liberale non è in grado di cogliere la concretezza storica, l’articolazione reale della società come intreccio di autonomie. L’individualismo proprietario non gli consente di vedere e governare quel primato della società che è l’anima di ogni democrazia aperta”.[24]

E’ dalle insufficienze teoriche e pratiche del liberalismo che nasce il socialismo.

“Il socialismo parte dal concetto cardine dell’ingiustizia dell’ordinamento sociale presente; critica la forma atomistica della lotta, perché la prevalenza degli individui forti sui deboli diviene egemonia di pochi su molti…. Per vincere l’attuale schiavitù del debole, proclama la lotta organica delle classi inferiori contro le superiori, nello scopo finale dell’assoluta uguaglianza sociale, per la quale l’organismo sociale verrà costituito dallo Stato economico produttore e distributore di ricchezze. Allora cesserà la lotta, mezzo e non fine, e nell’armonia dell’assoluta uguaglianza economica ridotta ad unità nello Stato, si troverà un elemento, che chiamerò statico di progresso, cioè lo sviluppo delle energie sociali nella ragione assoluta di benessere, a cui collettivamente e per principio insito indistruttibilmente tende l’umanità”.[25]

A una estremizzazione consegue un’altra estremizzazione uguale e contraria. E non si tratta di mediare tra tesi contrapposte. Entrambe le concezioni ideologiche si pongono come assolute: aprono al fondamentalismo. Relativizzare sarebbe ed è saggio. Ma è operazione politicamente impossibile se non si parte dallo sguardo interno della moderazione che assegna alle teorie politiche e alla loro prassi il limite necessario. Qui la laicità di Sturzo invera genialmente e produttivamente il relativismo cristiano. Come a dire che per società, libertà ed istituzioni i punti di riferimento non mancano. A difettare, troppo spesso, è lo studio.

Un’umanità lacerata

Sostiene Benedetto XVI: “Anche oggi resta vero quanto diceva il profeta: nebbia fitta avvolge le nazioni. Non si può dire infatti che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale, tutt’altro”. Sempre nell’omelia della messa dell’Epifania 2008, papa Ratzinger rileva che “i conflitti per la supremazia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale. C’è bisogno – afferma – di una speranza più grande, che permetta di preferire il bene comune di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti”.

La sobrietà, da più parti evocata, viene così riproposta, dal momento che nel mondo di oggi “la moderazione non è solo una regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità”. Infatti, “è ormai evidente che soltanto adottando uno stile di vita sobrio, accompagnato dal serio impegno per un’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile”.

E’ la medesima lunghezza d’onda sulla quale si muove la Conferenza Episcopale Italiana nella nota del Consiglio Permanente dedicata alla famiglia: “L’ampio dibattito che si è aperto intorno ai temi fondamentali della vita e della famiglia ci chiama in causa come custodi di una verità e di una sapienza che traggono la loro origine dal Vangelo e che continuano a produrre frutti preziosi di amore, di fedeltà e di servizio agli altri, come testimoniano ogni giorno tante famiglie. Ci sentiamo responsabili di illuminare la coscienza dei credenti perché trovino il modo migliore di incarnare la visione cristiana dell’uomo e della società nell’impegno quotidiano, personale e sociale, e di offrire ragioni valide e condivisibili da tutti a vantaggio del bene comune”.

Anche su questo fronte vastissimo si apre una resistenza che attraversa nel contempo il tessuto della chiesa come quello della società civile.

Ci si scontra anzitutto con una competizione generalizzata e con narcisismi incontrollabili che hanno finito per lacerare completamente la stoffa di antiche e consolidate solidarietà.

Per Ulrich Beck: “Non solo gli Stati e le imprese, ma anche gli individui sono direttamente in competizione gli uni con gli altri”. E per Corrado Alvaro: “La disperazione peggiore di questa società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”. Così il problema diventa come prendere posizione, e soprattutto per chi prendere posizione. Non a caso don Tonino Bello amava ripetere: “Non mi importa sapere chi è Dio. Mi basta sapere da che parte sta”.

E’ per questo che la discussione e la competizione intorno ai valori si sono fatte quotidiane e generalizzate.

Per Gustavo Zagrebelsky: “Non si parla mai tanto di valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono “eticamente sensibili” (come se le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un’ostentazione di valori. Tanto più perentoriamente le si mette in campo, tanto più ci si sente moralmente a posto”[26].  I valori non ammettono repliche, e tendono ad occupare tutto il campo. “Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico”.[27]

A questa concezione Zagrebelsky contrappone il riferimento ai principi, perché il principio è invece “qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio”.[28]

E’ ancora una volta l’orizzonte confuso della globalizzazione ad essere chiamato in giudizio.

Il caso italiano

In Italia il dibattito e la ricerca sono aperti e comportano una ricognizione sia degli scenari come dei soggetti chiamati a leggerli. Si tratta di ripensare i concetti rispetto alla modernità conosciuta, perché sovente i nomi tradizionali celano cose diverse perché mutate.

Recentemente il sociologo Giuseppe De Rita ha elencato tre prospettive destinate ad avere peso crescente nella Chiesa italiana e quindi nella vita sociale e nei destini collettivi del Paese.

Il primo impegno riguarda la conferma e la progressiva intensificazione della presenza comunitaria della Chiesa in Italia. Il secondo campo di intervento è quello di una privilegiata attenzione al mondo giovanile. Il terzo prevede un ritorno al sacro e una sua generalizzata ri-valorizzazione.

In effetti le vie fin qui seguite dai cattolici italiani nello spazio pubblico per la promozione dei valori si possono così sintetizzare: l’arrocco etico, che si esprime in una serie di pronunciamenti dogmatici ed ufficiali, intorno ai quali la gerarchia della Chiesa cattolica chiede ai fedeli, ma non soltanto ad essi, di fare quadrato.

La via legislativa, con la conseguente pressione sui parlamentari ed i partiti politici perché le leggi promulgate siano conformi ad un quadro di valori incentrato sul rispetto della vita, dei diritti umani, sulla promozione della pace.

La terza modalità di testimonianza è quella che si è posta come lievito all’interno dell’opinione pubblica democratica, animando il dibattito e tenendo aperto il dialogo con tutte le posizioni, da quelle con una diversa radice religiosa a quelle che fanno riferimento a una matrice laica, che è tradizionale nella storia d’Italia a partire dallo Stato unitario (1860).

Credo importante sottolineare, in positivo, la vivacità del dibattito in corso e, in negativo, la scarsa influenza di questo medesimo dibattito sul voto degli elettori, anche cattolici, alle ultime elezioni politiche del 13 – 14 aprile 2008.

Proprio per questo la riflessione deve continuare e credo che il dialogo e la comparazione oltre i confini della nazione possano risultare utili per tutti.

La scomparsa dell’interesse generale

Era il cardinal Sodano, alcuni anni fa, allora Segretario di Stato in Vaticano, a lamentare l’infelice destino del termine “interesse generale”: o cancellato dall’ordine del giorno delle cose politiche, o riservato alla credulità dei credenti, che ancora non erano riusciti a mettere a tema l’esaurimento del termine e delle prospettive da esso evocate…

E’ evidente comunque che il termine interesse generale non può inseguire né le emergenze né le paure. Piuttosto si cimenta con il concetto di legalità, ponendo la questione al bivio se legalità oggi voglia dire osservanza delle leggi o tendere alla realizzazione del giusto. Questione particolarmente importante nella vicenda italiana dal momento che secondo il celebre Codice della vita italiana (il testo forse più citato nella retorica nazionale) di Giuseppe Prezzolini, i cittadini italiani si dividono in due categorie: “i furbi e i fessi. Non c’è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso”.[29]

L’argomento quindi consiste e ci interroga. Il percorso storico dell’interesse generale è stato recentemente ricostruito dal moralista Giannino Piana, additando in San Tommaso il pensatore che ne ha fatto la fortuna. Si tratta di un percorso lungo che approda al moderno individualismo, che diventa finanziarizzazione della vita quotidiana dopo reaganomics e thatcherismo. Con una cesura rispetto ai decenni precedenti, quando tutta la politica economica di tutte le forze politiche italiane risultava keynesiana. Si può quindi dire che il passaggio reale è evidenziato anche dal mutamento della terminologia: da antropologia relazionale a antropologia individualistica.  Nel lessico politico, da concezione naturalistica della politica, a concezione contrattualistica.

Nella dottrina sociale della chiesa, e in particolare nell’enciclica Populorum Progressio di Papa Paolo VI, all’interesse generale viene assegnato il compito di garantire le minoranze: “bene di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”. Il che significa che il concetto di interesse generale deve comprendere anche le future generazioni, recuperando i concetti di specie umana e natura, cari al filosofo Jonas.

Per questo non mancano i tentativi di  ri-lanciare l’interesse generale in termini di solidarietà e sussidiarietà, fino a proporre un’economia di comunione, così come viene descritta da Luigino Bruni a partire da un concetto del Genovesi, per il quale compito dell’economia è far felici gli altri. E del resto senza la categoria interesse generale non si intendono le dinamiche dei beni ambientali e dei beni relazionali, entrambi non riducibili alle misurazioni del PIL.

Società e Chiesa sono perciò chiamate a rivedere in tal senso il proprio quadro di valori, così come i cittadini vengono sfidati a rimettere in discussione il proprio interesse. Non a caso all’ultima Settimana sociale dei cattolici italiani si è posta la distinzione tra l’uomo della domanda e l’uomo della risposta, osservando che l’uomo della risposta non costruisce l’interesse generale, ma soltanto l’efficienza.

Nel Compendio della dottrina sociale della chiesa si legge: “Il bene di tutti non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro.  […] Nessuna forma espressiva della socialità – dalla famiglia al gruppo sociale intermedio, all’associazione, all’impresa di carattere economico, alla città, alla regione, allo Stato, fino alla comunità dei popoli e delle Nazioni – può eludere l’interrogativo circa il proprio interesse generale, che è costitutivo del suo significato e autentica ragion d’essere della sua stessa sussistenza”.[30]

Va da sé che si tratta di individuare le responsabilità che all’interesse generale hanno l’obbligo di provvedere. In proposito il Compendio così si esprime: “Coloro ai quali compete la responsabilità di governo sono tenuti a interpretare l’interesse generale del loro Paese non soltanto secondo gli orientamenti della maggioranza, ma nella prospettiva del bene effettivo di tutti i membri della comunità civile, compresi quelli in posizione di minoranza”.[31]

Un percorso di laicità

Pensare al bene di tutti significa muoversi oltre i corporativismi e le contrapposizioni ideologiche: significa cioè praticare la laicità. La laicità non è relativismo, ma diversità di ambiti e di ruoli; capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che invece è oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede. Dice Claudio Magris: “Non un contenuto, ma una forma mentis”.

Si sono però su questo terreno verificati degli spostamenti interessanti: a una laicità che era ponte tra la Chiesa e lo Stato, è succeduta una laicità che è invece in rapporto con le diverse etiche dell’epoca della globalizzazione.

In Italia chi ha posto per tempo il problema è Gian Enrico Rusconi: “Il gran discutere di valori umani e sociali, necessari per la convivenza civile e politica, si accompagna con la convinzione che la Chiesa e la religione-di-chiesa siano  depositarie privilegiate di questi valori. Non disturba  il fatto che esse parlino sempre meno di “regno di Dio” in termini teologicamente definiti e comunicabili e sempre più di : “regno dei valori”, espressi in termini intuitivi facilmente spendibili nella comunicazione di massa. Non c’è nulla di malevolo in queste osservazioni. Registrano i sintomi ambivalenti di una religione-di-chiesa che paga il consenso, di cui gode, con  la sospensione della riflessione teologica. Certamente questo è il prezzo per poter prendere parte alla formazione di una più vasta “religione dei diritti umani” che sembra si stia configurando a livello mondiale all’ombra delle grandi organizzazioni internazionali. E’ una versione cosmopolita di religione civile quasi in risposta a un temuto scontro di civiltà  (crash of civilizations per usare la fortunata espressione di Huntington)”.[32]

E’ ovvio che a questo punto le risposte si moltiplichino, si accavallino, si contraddicano. Nel testo che il papa Benedetto XVI avrebbe dovuto leggere all’università di Roma, troviamo espressioni che fanno riferimento alla “profetica e complessa proposta della elaborazione di un nuovo umanesimo per il terzo millennio”. Osserva Benedetto XVI: “Vediamo oggi con molta chiarezza come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità”. Per questo, osserva il Papa, “di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee”.[33]

Ci imbattiamo cioè in una prima indicazione di risposta al vuoto della società: l’antidoto è “la sapienza delle grandi tradizioni religiose”.

Di diverso avviso ovviamente i rappresentanti del pensiero laico e a-religioso. Scrive Eugenio Scalfari: “La Chiesa sembra porsi di fronte allo Stato e alle forze politiche italiane come un altro Stato e un’altra forza politica; l’immagine stessa della chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire a una società inquieta e per tanti aspetti lacerata motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. La sorpresa e il disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Concilio Vaticano II su una chiesa popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma anzi è al servizio di un laicato che ha proprie e specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della vita politica e della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice”.[34]

E’ comunque curioso che, a partire da due sponde opposte, usando gli strumenti di due culture antagonistiche, si arrivi però ad affermare l’esigenza di introdurre nella politica e nella stessa legislazione valori “di cui la coscienza cattolica è portatrice”.  Da nessuno cioè si mette in dubbio il ruolo di lievito dei cristiani e l’attitudine magisteriale della Chiesa. Quantomeno considerata come agenzia di valori e “buona lobby”. Anche se la lobby è vissuta da taluno come pericolosa e deleteria. Piergiorgio Odifreddi, che si è distinto per polemiche molto aspre in libri troppo fortunati, sciorina costi e privilegi della Chiesa cattolica che, “secondo una stima recente, nel 2003 disponeva nella sola Italia di 504 seminari e 8779 scuole, suddivise in 6228 materne, 1280 elementari, 1136 secondarie e 135 universitarie o parauniversitarie”.[35]

Il commento è ovviamente conseguente all’intenzione con la quale il professor Odifreddi ha raccolto e messo in fila la cifre: “E’ naturalmente ironico che a possedere un tale tesoro, che si può globalmente valutare ad alcune centinaia di miliardi di euro, e a non pagarci  neppure sopra le tasse, siano proprio coloro che dicono di ispirarsi agli insegnamenti di qualcuno che predicava: Beati i poveri”.[36]

Quel che comunque e da ogni parte viene posto come problema fondante che attiene alla credibilità è il tema del rapporto tra autenticità della testimonianza e predicazione dei valori. Insomma, il vuoto di questa società non può essere riempito dalla ostentazione di maschere che sono altro rispetto alla sostanza delle cose e alla coerenza degli atteggiamenti. A quel punto la testimonianza si capovolge in controtestimonianza.

La posizione di Martini

L’ex arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, ha recentemente espresso questa convinzione: “Sono persuaso – scrive – che dove ci sono conflitti e brucia il fuoco lì ci sia lo Spirito Santo al lavoro. L’ho visto incontrando molti giovani. Combattono contro l’ingiustizia e vogliono imparare il significato della parola amore. Offrono a un mondo difficile la speranza”. Per questo il Cardinale non si stanca di chiedere notizie sull’universo giovanile. Per questo non si stanca da una parte di riflettere sulle nuove insorgenze, come fa nell’ultimo libro, per ora edito da Herder, solo in tedesco, Jerusalemer Nachtgesprache, dall’altro di riflettere sulle capacità di risposta della Chiesa, cercando di sapere se le nuove generazioni sono ancora interessate a criticare i preti, la Chiesa, le autorità, l’establishment, oppure rimuovono tutto e tacciono. Il che dice quanto il vuoto o i vuoti nella società e nella chiesa possano assumere forme diverse.

Ma non ci sono soltanto i giovani. Il Cardinale osserva che “la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile. Penso soprattutto in questo momento ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus (la vecchiaia è per natura sua già una malattia). Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne o nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo”.[37]

Vuol dire che il vuoto è anche dolore, o che il vuoto è occupato dalla tragedia dei dolori. Il che obbliga a una ricerca di speranza “anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante che è (ingannevolmente) quella dello “star bene” come principio assoluto”.[38] E ancora: “La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile,  questa Pasqua 2007? […] Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico. Ma al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni, anche se il suo impegno può testimoniare quella solidarietà umana che è l’auspicabile orizzonte di tutto il suo dinamismo. L’interrogativo più radicale è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in tali frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita anche nella debolezza, che mi dice, “io sono la vita, la vita per sempre”? O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto?”[39]

Le domande del vuoto

Il vuoto dunque non solo è esteso e profondo, ma pone domande. Domande indirizzate alle questioni eterne come a quelle terrene. Martini cerca una risposta in esempi e testimonianze non banali: “Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l’inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole della ventottenne Etty Hillesum, scritte il 3 luglio 1942 prima di essere portata a morire ad Auschwitz: “Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile misurabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita  quotidiana. E’ questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità… La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione”. Uomini e donne così richiamano l’immagine del Salmo: “Nell’andare se ne va e piange, / portando la semente da gettare, / ma nel tornare viene con giubilo, / portando i suoi covoni” (Sal 126,6).”[40]

Interviene tutto il messaggio paolino, anzitutto il Paolo della seconda lettera ai Corinti: “Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno.  Infatti il momentaneo leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne” (2Corinti 4, 16-18)”.[41]

La prospettiva è  riassunta: “E’ così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a “gemiti della creazione”, come a “doglie del parto” (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. […] Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa che San Paolo chiama “speranza contro ogni speranza” (ivi , 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto”.[42]

I tentativi italiani

Sono in particolare la Chiesa italiana, le sue comunità, la Conferenza Episcopale che hanno provato tentativi di risposta nello spazio pubblico. La Chiesa che è in Italia si è mossa tradizionalmente in rapporto con le istituzioni, ma soprattutto a cavallo della società civile, ossia di quelli che nella dottrina sociale della Chiesa vengono definiti “i corpi intermedi”.

Si è già detto che l’approccio può essere schematizzato secondo tre linee.

Anzitutto quella dell’arrocco etico. Una difesa dei valori, definiti “non negoziabili”, affidata a pronunciamenti ed esponenti della chiesa ufficiale, e fatta propria, spesso con qualche strumentalizzazione, dai rappresentanti del ceto politico. Non sono mancate manifestazioni oceaniche. E, ovviamente, contromanifestazioni. La polemica è spesso salita e il confronto si è fatto aspro e vivace.

In collegamento con questa posizione deve considerarsi la pratica della via legislativa, che implica una interlocuzione con i parlamentari e in generale il personale politico, e la pressione sull’opinione pubblica, con un’altrettanto continuata pressione sui mezzi di comunicazione di massa. Si sono in questi casi affiancati alla gerarchia anche personaggi, in genere molto mediatici, definiti dal gergo corrente “atei devoti”. E’ una tradizione non nuova, e qualcuno ha osservato che può essere importata dalla storia francese. E’ la nota vicenda di Maurras, dell’Action Française e dei Camelots du roi. Diceva Maurras: Io sono ateo, conservatore e reazionario. Mi importa però conservare la France Sacrée, che è la Francia di re Luigi e della pulzella d’Orleans. Per questo difendo la religione cattolica, ma per favore togliete da essa il veleno del Magnificat…. Coerenza comunque del reazionario che non sapeva rassegnarsi a un Dio che abbassa i potenti e innalza i poveri e manda i ricchi a mani vuote.

Questa posizione ha ottenuto risultati notevoli ed evidenti sotto la regia del cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ma non è stata premiata dagli elettori nelle ultime consultazioni politiche generali del 13 e 14 aprile 2008.  La lista presentata da Giuliano Ferrara come lista anti-abortista e sui valori, ha ottenuto infatti lo 0,3% dei suffragi. Gli italiani cioè al momento del voto si sono scoperti secolarizzati e hanno pensato soprattutto alle paure indotte dall’immigrazione extracomunitaria e alle tasse.

Il terzo approccio è quello che fa i conti più direttamente con il metodo democratico, acquisito dalla dottrina sociale della chiesa a partire dai primi anni quaranta. Promozione di incontri e dibattiti nella pubblica opinione, con l’intenzione di coinvolgere ampi settori dello schieramento laico che si è messo in ricerca, e autonomia dei legislatori nelle decisioni che loro competono.

La democrazia infatti da una parte non è in grado di produrre i valori che la legittimano, e dall’altra è incompetente sulla verità: spetta alla democrazia stabilire maggioranze e minoranze, salvaguardare le minoranze, produrre leggi che si collochino a ponte tra i valori e il costume del paese. Un costume che cambia e che i movimenti, tutti, anche quelli religiosi, anche quelli che più direttamente fanno riferimento all’Evangelo, si incaricano di modificare, migliorare e promuovere.

E’ il difficile equilibrio, mai risolto, di una testimonianza chiamata ad essere insieme nello spazio pubblico lampada posta sul monte e lievito introdotto nella pasta.

Recentemente il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, intervenendo sui sessant’anni della Costituzione italiana si è così ufficialmente pronunciato, tenendo presente il giudizio di un eminente studioso quale Costantino Mortati: “Sono cinque i principi fondamentali che permettono di identificare la forma di Stato e le caratteristiche della democrazia dell’Italia secondo la sua Carta costituzionale: il principio democratico (articolo 1), il principio personalista (articoli 2 e 3), il principio lavorista (articoli 1 e 4), il principio pluralista (articolo 2), il principio internazionalista e supernazionale (articoli 1 e 11). Principi tra loro inseparabili e interagenti in modo armonioso”.[43] Secondo Bertone la chiave di volta dell’intero impianto è senz’altro il principio personalista che, “mutuato dalla cultura cattolica e democratica, “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità” (articolo 2)”.[44]

Da questa posizione discendono il punto di vista e le iniziative, e quanto fin qui illustrato va commisurato, nelle sue potenzialità e nella correttezza istituzionale, con questa affermazione.

Da ultimo,  la Chiesa che è in Italia sta lentamente innovando le proprie linee di presenza e di azione, affidando ad esse crescente importanza nella vita sociale e nei destini collettivi del Paese. Si tratta del parere documentato e come sempre acuto di Giuseppe De Rita, probabilmente il più attento analista delle cose italiane nel dopoguerra.[45]

Tre sono i campi privilegiati di intervento.

Il primo riguarda l’intensificazione della presenza comunitaria sul territorio. Non a caso la Chiesa è quella che lo presidia di più, con la diffusa attività delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, dei centri di volontariato. Tra di essi è sorta una nuova modalità dell’impegno sociale, che in alcuni casi guarda in maniera nuova anche alla militanza politica. Ovviamente il tessuto comunitario è sempre complesso, nel senso che tiene insieme aspetti naturali, quelli del territorio, e aspetti “artificiali”: quelli della cultura e dell’organizzazione.  Comunque questa presenza indica una intenzione e una capacità di stare nello spazio pubblico che in questa fase è di gran lunga superiore a quella dei partiti politici e a quella del sindacato, a sua volta in crisi.

Il secondo campo di intervento è costituito dal mondo giovanile. La Chiesa italiana si è rinnovata nel linguaggio e nelle modalità di accoglienza rispetto alle nuove generazioni. Tipico il diffondersi degli “oratori feriali” durante il periodo delle vacanze estive, con una presenza massiccia di ragazzi e di giovani e laici adulti che aiutano il clero nel compito educativo. La Chiesa universale dal canto suo ha molto curato, con gli ultimi due pontefici, il rapporto con le masse giovanili a livello mediatico e ha promosso ripetuti incontri di massa nei diversi continenti. Vanno messe in questa prospettiva tutta una serie di attenzioni riservate alla famiglia, la cui crisi non è recente e tutt’altro che risolta.

Il terzo e ultimo luogo privilegiato di intervento rappresenta una svolta e addirittura una sterzata. Dopo decenni di grande attenzione ai problemi sociali, dei quali fu grande e rumorosa espressione la teologia della liberazione in America Latina, si sta verificando un ritorno al sacro. Il rischio può essere l’inseguimento di dimensioni intimistiche e più psicologiche che religiose. Ma la Chiesa italiana è troppo radicata nelle opere e attenta a farsi prossimo per cadere nei trabocchetti della psicoanalisi. Monsignor Ravasi, uno dei più dotti biblisti del Paese, ha osservato: “Abbiamo fin troppo seguito l’opzione della fede che si misura con il sociale e con la storia, dobbiamo ritornare al sacro, alla misteriosa percezione e adorazione della verità”.[46]

La Chiesa italiana è però così avvertita dei problemi culturali e politici, così diffusa nel sociale da non correre  alcun rischio intimistico. Il suo cristianesimo popolare saprà compenetrare al meglio la ricerca del Dio del sacro e del santo con il servizio ai fratelli.

Del resto la sfida appare inevitabile: le cose eterne e le cose terrene continuano a richiamarsi per un bisogno di senso che è la risposta da ricercare nei troppi vuoti delle società che pur viviamo.


[1] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa, San Paolo, Milano, 1996.

[2] Ibidem, p. 289.

[3] Ibidem, pp. 289-290.

[4] Ibidem, pp. 398 – 399.

[5] Ibidem, p. 399.

[6] Ibidem, pp. 399 – 400.

[7] Pierangelo Giovanetti, Europa, Religioni, laicità, Ancora, Milano 2007, pp. 11 – 12.

[8] Pierluigi Castagnetti, Dov’è finita la “differenza cristiana”?, in “Europa”, 24 luglio 2008, p. 1.

[9] Angelo Scola, Politiche per la famiglia. Il governo deve fare molto di più, intervista raccolta da Aldo Cazzullo in il “Corriere della Sera”, domenica 20 luglio 2008, p. 5.

[10] Ibidem, p. 1.

[11] Enzo Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino, 2006,  p.43

[12] Cfr. E. Bianchi op. cit., p.43.

[13] Ulrich Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna, 2003, p.39.

[14] Thomas Merton, Nessun uomo è un’isola, Garzanti, Milano, 1957, p. 184.

[15] Dietricht Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1983, p. 106.

[16] Op. cit., p.107.

[17] Op. Cit., p. 110.

[18] Op. Cit., p. 110.

[19] Op. Cit., p. 111.

[20] Op. Cit., p. 113.

[21] Pino Trotta, Attualità del popolarismo, in Giovanni Bianchi, Rigore e popolarismo, CENS, Milano, 1992, p.193.

[22] Luigi Sturzo, Mezzogiorno e classe dirigente, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1986, p.834.

[23] Op. cit., p. 784.

[24] Pino Trotta, op. cit., p.145.

[25] Op. cit., p. 804.

[26] Gdustavo Zagrebelsky, Valori e diritti nei conflitti della politica, in “la Repubblica”, venerdì 22 febbraio 2008, p. 1.

[27] Ibidem, p. 47.

[28] Ibidem, p. 47.

[29] In a cura di David Bidussa, Siamo italiani, chiarelettere, Milano 2007, p. 31.

[30] Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2004, nn.164-165.  pp. 89-90.

[31] Ibidem, nn. 168-169, pp. 91-92.

[32] Gian Enrico Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Laterza, Bari, 1999, p. 56.

[33] Benedetto XVI, Non vengo a imporre la fede ma a sollecitare il coraggio per la verità, in “L’Osservatore Romano”, 17 gennaio 2008, p. 4.

[34] Eugenio Scalfari, Una chiesa che scambia il sacro col profano, in “la Repubblica”, 13 gennaio 2008, p. 1.

[35] Piergiorgio Odifreddi, Lo spirito e la carne. Costi e privilegi della chiesa cattolica, in “Odissea”, anno V, n. 1, settembre-ottobre 2007, p. 1.

[36] Ibidem, p. 1

[37] Carlo Maria Martini, La Pasqua dei deboli più forte della morte, in “il Sole 24 ore”, 6 aprile 2007.[38] Ibidem.

[39] Ibidem.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Ibidem.

[43] Tarcisio Bertone, Quando la laicità si nutre di valori assoluti, in  “L’Osservatore Romano”, 11 luglio 2008, p.5.

[44] Ibidem, p.5.

[45] Giuseppe De Rita, La modernità della Chiesa, in il “Corriere della Sera”, 13 agosto 2008, pp. 1, 39.

[46] Citato in ibidem, pag. 39

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La resistenza spirituale al vuoto nella Chiesa e nella società (versione breve)

Resistere o arrendersi?

Se non c’è resistenza, ci si arrende. Il tema dei valori non patisce infatti alcuno stallo: o si va avanti, o si va indietro. E ciò indipendentemente dalla concezione generale dei valori cui ci ispiriamo. Sia cioè che i valori vengano pensati come deducibili da una religione o da un a fede, sia che si scelga politicamente quello che Max Weber chiamava “politeismo dei valori”, e che Silvio Berlusconi ha ribattezzato, per l’Italia, “anarchia dei valori”. Sia che si guardi ai valori come dedotti da una religione positiva e da un catechismo, o addirittura dall’Evangelo, sia che si metta l’accento sull’autonomia del quadro valoriale.

Chi in Occidente ha posto con più lucidità e drammaticità il problema è il teologo tedesco e protestante Dietrich Bonhoeffer, giustiziato dai nazisti per aver sostenuto la congiura contro Hitler.

Suo è anche l’ammonimento su resistere o arrendersi,[1] divenuto non a caso il titolo del suo libro più celebre, contenente le lettere dal carcere di Tegel.

Il tema non è di breve respiro. Perché non si tratta semplicemente di “conservare” un orizzonte di valori e il costume che ad essi si ispira: il gioco riguarda il nostro destino, sia nella sua valenza strettamente personale, come in quella collettiva di un mondo intero (e globalizzato) che si interroga sulle possibilità di sopravvivenza, non lasciando il monopolio della discussione agli ecologisti.

Proprio Bonhoeffer, interrogandosi verso la fine della seconda guerra mondiale, pone il tema in tutte le sue profonde valenze: “Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra il necessario resistere e l’altrettanto necessario arrendersi davanti al “destino”. Don Chisciotte è il simbolo della resistenza portata avanti fino al nonsenso, anzi alla follia…[…] Sancho Panza è il rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato”.[2]

E’ in gioco una civiltà, una visione della vita, un quadro di valori, ma non soltanto. Si può stare dalla parte di Don Chisciotte per una difesa ad oltranza e senza compromessi, fare scudo a “valori non negoziabili”, come s’usa dire in Italia, sostenere posizioni senza “se” e senza “ma”. Oppure ci si può adattare, furbescamente ed a basso prezzo, come Sancho Panza.

Ma non siamo al teatro dei pupi. Bonhoeffer dice che c’è di più, molto di più: Dio stesso è in gioco e ci viene incontro o si allontana da noi. Scrive infatti il Teologo: “Dio non ci incontra solo nel “tu”, ma si “maschera” anche nell’ “esso”, ed il mio problema in sostanza è come in questo “esso” (“destino”) possiamo trovare il “tu” o, in altre parole, come dal “destino” nasca effettivamente la “guida”. I limiti tra resistere o arrendersi non si possono determinare dunque sul piano dei principi; l’uno e l’altro devono essere presenti e assunti con decisione. La fede esige questo agire mobile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione che di volta in volta ci si presenta.”[3]

Che la condizione umana odierna sia mobile ed addirittura liquida ci vien narrato ogni giorno dalle sociologie: da Bauman a Beck. Che la de-territorializzazione dell’abitare modifichi e scombini i confini delle etiche  è altrettanto evidente.

Tutto ciò non nasce né da improvvisazione né dal nulla. E’ ancora Bonhoeffer a rintracciarne le radici storiche nella splendida lettera dell’8 giugno 1944 ad Eberhard Bethge: “Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano “Dio” viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno.”[4]

E’ quel che definiamo “processo di secolarizzazione”, iniziato prima ad ovest e poi man mano propagatosi ad est del globo. Fino a de-cristianizzare e poi paganizzare società considerate profondamente religiose, come quella polacca.

La società secolarizzata

Quel che resta indubitabile ed in estensione è il processo di secolarizzazione. Con una sorpresa: la secolarizzazione non si presenta come l’epifania della ragione strumentale trionfante, bensì come un pieno di idoli. La gente non frequenta il confessionale e le guide spirituali della religione tradizionale, ma consulta (e paga) maghi e fattucchiere. Il bisogno del sacro, scacciato dalla porta, rientra da mille finestre.

La circostanza cioè ci insegna una cosa: il tema dei valori rimette in gioco una serie di rapporti che, a partire dal costume, riguardano fede, religione, cultura, spazio pubblico e potere. In particolare assistiamo al ritorno sulla scena pubblica delle religioni e delle chiese, con la riproposizione inevitabile della domanda di quale debba essere un corretto rapporto fra Stato e Chiesa, fra Stato e religioni diverse.

Scrive Giovanetti: “A lungo si è ritenuto nella pubblicistica degli ultimi tre secoli che la modernità comportasse necessariamente la secolarizzazione e la scomparsa della pratica religiosa. Forse guardando troppo al protestantesimo, dall’Illuminismo in poi l’intellettuale europeo si era convinto che la fede fosse solo un processo individuale di ricerca della salvezza, destinato pertanto ad arretrare nel privato. L’ideologia – come la definisce il sociologo spagnolo José Casanova – della “secolarizzazione obbligata” quale tratto distintivo della modernità e della ragione, che l’avanzare della scienza e della tecnica quali fattori onnicomprensivi del conoscere avrebbe resa universale per tutti i popoli e tutte le culture, si è dimostrata infondata e superata dai fatti. E’ invece un prodotto tipicamente europeo, un’eccezione rispetto al resto delle realtà mondiali anche occidentali (vedi gli Stati Uniti d’America). L’idea, quindi, che la secolarizzata Europa costituisca il futuro degli altri popoli ancora immersi nella religione sembra oggi ribaltarsi. E’ l’eccezione europea invece che si trova a dover fare  i conti con il risveglio delle religioni”.[5]

Dichiara in proposito e con respiro più ampio il patriarca di Venezia, Angelo Scola:

“La  secolarizzazione non è la stessa in tutti i paesi. In Italia non è come in Germania, in Francia o in Spagna. Uno dei fattori che fa la differenza è proprio la famiglia. Lo dimostrano i dati statistici: l’indice di divorzio in Italia è tra i più bassi d’Europa; le convivenze quasi sempre sfociano nel matrimonio; quando indica le aspettative primarie della vita, la donna, che oggi lavora di più, mette al centro il matrimonio e la maternità. Più della metà delle famiglie ospita in casa un genitore anziano, nel 90% di esse ci si trova a mangiare insieme almeno una volta la settimana. La cura che i nonni hanno dei nipoti integra un welfare che è ancora assai discutibile. Certe cose – penso alla sofferenza e alla morte – si imparano più dai nonni che dai genitori. E l’indice del dono, della gratuità, è in crescita non solo nel passaggio dai genitori ai figli, ma anche dai figli ai genitori”.[6]

La posizione di Martini

L’ex arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, ha recentemente espresso questa convinzione: “Sono persuaso – scrive – che dove ci sono conflitti e brucia il fuoco lì ci sia lo Spirito Santo al lavoro. L’ho visto incontrando molti giovani. Combattono contro l’ingiustizia e vogliono imparare il significato della parola amore. Offrono a un mondo difficile la speranza”. Per questo il Cardinale non si stanca di chiedere notizie sull’universo giovanile. Per questo non si stanca da una parte di riflettere sulle nuove insorgenze, come fa nell’ultimo libro, per ora edito da Herder, solo in tedesco, Jerusalemer Nachtgesprache, dall’altro di riflettere sulle capacità di risposta della Chiesa, cercando di sapere se le nuove generazioni sono ancora interessate a criticare i preti, la Chiesa, le autorità, l’establishment, oppure rimuovono tutto e tacciono. Il che dice quanto il vuoto o i vuoti nella società e nella chiesa possano assumere forme diverse.

Ma non ci sono soltanto i giovani. Il Cardinale osserva che “la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile. Penso soprattutto in questo momento ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus (la vecchiaia è per natura sua già una malattia). Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne o nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo”.[7]

Vuol dire che il vuoto è anche dolore, o che il vuoto è occupato dalla tragedia dei dolori. Il che obbliga a una ricerca di speranza “anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante che è (ingannevolmente) quella dello “star bene” come principio assoluto”.[8] E ancora: “Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico. Ma al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni, anche se il suo impegno può testimoniare quella solidarietà umana che è l’auspicabile orizzonte di tutto il suo dinamismo. L’interrogativo più radicale è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in tali frangenti.”[9]

Le domande del vuoto

Il vuoto dunque non solo è esteso e profondo, ma pone domande. Domande indirizzate alle questioni eterne come a quelle terrene. Martini cerca una risposta in esempi e testimonianze non banali: “Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l’inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre.”[10]

Interviene tutto il messaggio paolino. La prospettiva è  riassunta: “E’ così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a “gemiti della creazione”, come a “doglie del parto” (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. […] Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa che San Paolo chiama “speranza contro ogni speranza” (ivi , 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto”.[11]

I tentativi italiani

Sono in particolare la Chiesa italiana, le sue comunità,  movimenti, associazioni come le Acli, la Conferenza Episcopale che hanno provato tentativi di risposta nello spazio pubblico. La Chiesa che è in Italia si è mossa tradizionalmente in rapporto con le istituzioni, ma soprattutto a cavallo della società civile, ossia di quelli che nella dottrina sociale della Chiesa vengono definiti “i corpi intermedi”.

L’approccio può essere schematizzato secondo tre linee.

Anzitutto quella dell’arrocco etico. Una difesa dei valori, definiti “non negoziabili”, affidata a pronunciamenti ed esponenti della chiesa ufficiale, e fatta propria, spesso con qualche strumentalizzazione, dai rappresentanti del ceto politico. Non sono mancate manifestazioni con la presenza di più di un milione di persone. E, ovviamente, contromanifestazioni. La polemica è spesso salita e il confronto si è fatto aspro e vivace.

In collegamento con questa posizione deve considerarsi la pratica della via legislativa, che implica un dialogo con i parlamentari e in generale il personale politico, e la pressione sull’opinione pubblica, con un’altrettanto continuata pressione sui mezzi di comunicazione di massa. Si sono in questi casi affiancati alla gerarchia anche personaggi, in genere molto mediatici, definiti dal gergo corrente “atei devoti”. E’ una tradizione non nuova, e qualcuno ha osservato che può essere importata dalla storia francese. E’ la nota vicenda di Maurras, dell’Action Française e dei Camelots du roi. Diceva Maurras: Io sono ateo, conservatore e reazionario. Mi importa però conservare la France Sacrée, che è la Francia di re Luigi e della pulzella d’Orleans. Per questo difendo la religione cattolica, ma per favore togliete da essa il veleno del Magnificat…. Coerenza comunque del reazionario che non sapeva rassegnarsi a un Dio che abbassa i potenti e innalza i poveri e manda i ricchi a mani vuote.

Questa posizione ha ottenuto risultati notevoli ed evidenti sotto la regia del cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ma non è stata premiata dagli elettori nelle ultime consultazioni politiche generali del 13 e 14 aprile 2008.  La lista presentata da Giuliano Ferrara come lista anti-abortista e sui valori, ha ottenuto infatti lo 0,3% dei suffragi. Gli italiani cioè al momento del voto si sono scoperti secolarizzati e hanno pensato soprattutto alle paure indotte dall’immigrazione extracomunitaria e alle tasse.

Il terzo approccio è quello che fa i conti più direttamente con il metodo democratico, acquisito dalla dottrina sociale della chiesa a partire dai primi anni quaranta. Promozione di incontri e dibattiti nella pubblica opinione, con l’intenzione di coinvolgere ampi settori dello schieramento laico che si è messo in ricerca, e autonomia dei legislatori nelle decisioni che loro competono.

La democrazia infatti da una parte non è in grado di produrre i valori che la legittimano, e dall’altra è incompetente sulla verità: spetta alla democrazia stabilire maggioranze e minoranze, salvaguardare le minoranze, produrre leggi che si collochino a ponte tra i valori e il costume del paese. Un costume che cambia e che i movimenti, tutti, anche quelli religiosi, anche quelli che più direttamente fanno riferimento all’Evangelo, si incaricano di modificare, migliorare e promuovere.

E’ il difficile equilibrio, mai risolto, di una testimonianza chiamata ad essere insieme nello spazio pubblico lampada posta sul monte e lievito introdotto nella pasta.

Da ultimo,  la Chiesa che è in Italia sta lentamente innovando le proprie linee di presenza e di azione, affidando ad esse crescente importanza nella vita sociale e nei destini collettivi del Paese. Si tratta del parere documentato e come sempre acuto di Giuseppe De Rita, probabilmente il più attento analista delle cose italiane nel dopoguerra.[12]

Tre sono i campi privilegiati di intervento.

Il primo riguarda l’intensificazione della presenza comunitaria sul territorio. Non a caso la Chiesa è quella che lo presidia di più, con la diffusa attività delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, dei centri di volontariato. Tra di essi è sorta una nuova modalità dell’impegno sociale, che in alcuni casi guarda in maniera nuova anche alla militanza politica. Ovviamente il tessuto comunitario è sempre complesso, nel senso che tiene insieme aspetti naturali, quelli del territorio, e aspetti “artificiali”: quelli della cultura e dell’organizzazione.  Comunque questa presenza indica una intenzione e una capacità di stare nello spazio pubblico che in questa fase è di gran lunga superiore a quella dei partiti politici e a quella del sindacato, a sua volta in crisi.

Il secondo campo di intervento è costituito dal mondo giovanile. La Chiesa italiana si è rinnovata nel linguaggio e nelle modalità di accoglienza rispetto alle nuove generazioni. Tipico il diffondersi degli “oratori feriali” durante il periodo delle vacanze estive, con una presenza massiccia di ragazzi e di giovani e laici adulti che aiutano il clero nel compito educativo. La Chiesa universale dal canto suo ha molto curato, con gli ultimi due pontefici, il rapporto con le masse giovanili a livello mediatico e ha promosso ripetuti incontri di massa nei diversi continenti. Vanno messe in questa prospettiva tutta una serie di attenzioni riservate alla famiglia, la cui crisi non è recente e tutt’altro che risolta.

Il terzo e ultimo luogo privilegiato di intervento rappresenta una svolta e addirittura una sterzata. Dopo decenni di grande attenzione ai problemi sociali, dei quali fu grande e rumorosa espressione la teologia della liberazione in America Latina, si sta verificando un ritorno al sacro. Il rischio può essere l’inseguimento di dimensioni intimistiche e più psicologiche che religiose. Ma la Chiesa italiana è troppo radicata nelle opere e attenta a farsi prossimo per cadere nei trabocchetti della psicoanalisi. Monsignor Ravasi, uno dei più dotti biblisti del Paese, ha osservato: “Abbiamo fin troppo seguito l’opzione della fede che si misura con il sociale e con la storia, dobbiamo ritornare al sacro, alla misteriosa percezione e adorazione della verità”.[13]

La Chiesa italiana è però così avvertita dei problemi culturali e politici, così diffusa nel sociale da non correre  alcun rischio intimistico. Il suo cristianesimo popolare saprà compenetrare al meglio la ricerca del Dio del sacro e del santo con il servizio ai fratelli.

Del resto la sfida appare inevitabile: le cose eterne e le cose terrene continuano a richiamarsi per un bisogno di senso che è la risposta da ricercare nei troppi vuoti delle società che pur viviamo.


[1] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa, San Paolo, Milano, 1996.

[2] Ibidem, p. 289.

[3] Ibidem, pp. 289-290.

[4] Ibidem, pp. 398 – 399.

[5] Pierangelo Giovanetti, Europa, Religioni, laicità, Ancora, Milano 2007, pp. 11 – 12.

[6] Angelo Scola, Politiche per la famiglia. Il governo deve fare molto di più, intervista raccolta da Aldo Cazzullo in il “Corriere della Sera”, domenica 20 luglio 2008, p. 5.

[7] Carlo Maria Martini, La Pasqua dei deboli più forte della morte, in “il Sole 24 ore”, 6 aprile 2007.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Giuseppe De Rita, La modernità della Chiesa, in il “Corriere della Sera”,  13 agosto 2008, pp. 1, 39.

[13] Citato in ibidem, pag. 39

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