Salvatore Biasco. Per una sinistra pensante. Costruire la cultura politica che non c’è.

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Corso di formazione alla politicaIl libro pone una serie di questioni politiche per analizzare che tipo di identità sia oggi permessa, quale sia la cultura del principale partito del centro sinistra. Identità e cultura quindi; meglio ancora, “identità culturale”. Cultura di partito non come serie di enunciati dottrinali, bensì come un tutt’uno con obiettivi politici e programmatici, visione della società e prassi stessa del partito. Cultura di partito è il modo comune di “sentire, interpretare il mondo, impostare relazioni di causa-effetto, dare gerarchie di valore e definire l’immaginario di partito”, fonte di ispirazione del pensiero, prassi interne di funzionamento e formazione dei dirigenti; fino ai rapporti con le competenze e i saperi.

Salvatore Biasco. Per una sinistra pensante. Costruire la cultura politica che non c'è.

1. leggi il testo dell’introduzione di Luca Caputo

2. leggi la trascrizione della relazione di Salvatore Biasco

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

presentazione iniziale di Giovanni Bianchi (6’27”) – introduzione di Luca Caputo (18’01”) – relazione di Salvatore Biasco (46’33”) – prima serie di domande (7’55”) – risposte di Salvatore Biasco (14’53”) – seconda serie di domande (15’30”) – risposte Salvatore Biasco (22’13”) – ultime domande con riflessione Giovanni Bianchi (10’31”) – risposte finali di Salvatore Biasco (6’15”)

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Testo dell’introduzione di Luca Caputo a Salvatore Biasco

Costruire la cultura politica che non c’è

Lungi dall’essere un manifesto politico, o un prontuario dei rimedi, il libro vuole, a fronte dell’inadeguatezza degli strumenti politici, culturali e analitici della sinistra italiana, porre una serie di questioni politiche per analizzare che tipo di identità sia oggi permessa da questi strumenti, quale sia la cultura del principale partito del centro sinistra.

Identità e cultura quindi; meglio ancora, “identità culturale”.

Cultura di partito non come serie di enunciati dottrinali, bensì come un tutt’uno con obiettivi politici e programmatici, visione della società e prassi stessa del partito.

Cultura di partito è il modo comune di “sentire, interpretare il mondo, impostare relazioni di causa-effetto, dare gerarchie di valore e definire l’immaginario di partito”.

Ancora, fonte di ispirazione del pensiero, prassi interne di funzionamento e formazione dei dirigenti; fino ai rapporti con le competenze e i saperi.

Cultura quindi vissuta, fatta propria, base comune e condivisa, di significati.

1. Cultura liberale e cultura del centro sinistra

La prima questione riguarda l’analisi del rapporto tra il pensiero liberale e la cultura del centro sinistra: quanto corrisponde alla cultura storica dei partiti che hanno fondato il PD e quanto invece può caratterizzare la cultura del nuovo soggetto politico?

La pluralità delle storie politiche confluitevi non aiuta a capire quali ipotesi di fondo ne saranno base culturale e suggerisce che questa non sarà monolitica. Nella ricerca di quale visione paradigmatica far propria, il liberalismo appare come un terreno amico, e il percorso verso di esso quasi naturale, perchè senza dubbio liberali sono state le istanze progressiste a partire dal XVIII secolo. Ciò nonostante, graverebbe il rischio del rigetto sulla componente più significativa della sinistra, abituata a guardare la società più dalla parte delle stratificazioni economiche e sociali che non da quelle degli individui: cadrebbero i riferimenti tradizionali e bisognerebbe “spiegare” in cosa consistono i nuovi, a partire dai tratti distintivi di un partito che, in quanto liberale, non può non spostarsi verso una rappresentazione della società come un insieme, da capire e sintetizzare.

Un partito, il cui sforzo l’autore vorrebbe rivolto verso due interessi: da un lato il benessere delle generazioni future, dall’altro la coesione sociale attorno al sistema, cosa che implica un ripensamento della rappresentanza e della partecipazione; in definitiva, l’attenzione nei confronti degli interessi inespressi come carattere basilare della cultura e dell’azione di un moderno partito di sinistra.

Nel tentativo di definire meglio come il pensiero liberale può essere punto cardine della nascente cultura del centrosinistra, Salvati nel suo manifesto liberale individua un riferimento, nell’identificazione di un interesse generale da perseguire con finalità equitative, che diventa virtuoso nel momento in cui i vantaggi per tutti sono maggiori degli svantaggi per una parte. Salvati delinea, più che singole soluzioni, una mentalitànell’approccio ai problemi, che trova i suoi punti di forza nell’adozione di uno sguardo critico sulle conseguenze dell’azione sociale, e l’idea che l’efficienza della macchina dello Stato sia essenziale per non danneggiare, anziché aiutare, le quote più deboli della popolazione (efficienza-uguaglianza); magari facendosi aiutare dal mercato, purchè abbinato a efficienti istituzioni di controllo, gestione e indirizzo.

Per quanto la formula mercato + governance sia utile, non sempre però i criteri ispiratori migliori in tema di benessere delle popolazioni future e di legittimazione alle regole di funzionamento della società, sono perfettamente aderenti al pensiero e ai canoni liberali, quando addirittura non ne siano in aperto contrasto: dai frequenti fallimenti del mercato che rendono necessario un intervento dello Stato, al corporativismo, visto dai singoli come unica difesa al deperimento delle istituzioni, al pericolo che il principio del merito diventi, nei fatti, un presidio delle élites anziché una garanzia per tutti.

Significativo il bilancio che l’autore fa a questo punto, individuando: 1) la necessità di un lavoro di sintesi per individuare quali soluzioni liberali possano ergersi a riferimento di un moderno partito di centro sinistra, un partito visto proiettato verso l’orizzonte della ricerca del bene comune e degli elementi di coesione sociale (“collanti”); 2) il rischio dello scarso appeal di massa del pensiero liberale.

Coesione e solidarietà sono visti come elementi di base per contrastare la deriva individualistica della società, e lo stesso rischio di scivolamento verso un’etica “tutta privata” che il pensiero liberale porta con sé. Certamente, ci permettiamo una digressione personale, l’idea che le regole e l’etica pubblica siano frutto di un illegittimo e dannoso autoritarismo non ha niente da dividere con quell’ anelito di eguaglianza, di solidarietà e di giustizia sociale che fanno parte del dna dei partiti riformisti, del loro sistema di valori, della loro pratica e simbologia.

Ed è proprio nell’humus critico di massa che l’autore individua altri elementi comuni, a nostro avviso, alle culture politiche che hanno costituito il PD: gli anticorpi contro la penetrazione della dominanza del mercato nella sfera individuale dei giudizi e dei valori, il presupposto verso la costante ricerca dei correttivi democratici.

Ad arricchire e complicare il quadro della nostra analisi, e a stimolare il lavoro di sintesi e formazione di una nuova cultura politica, interviene la crisi economica: una crisi, dice l’autore, non a caso esplosa negli USA, Paese egemone nel sistema economico globale, e che insieme alle difficoltà e ai piccoli e grandi drammi porta con sé anche positive novità nella sfera cultuale, dal fallimento dell’idea che il mercato sappia regolarsi da solo, al crollo del mito della possibilità di soddisfare i bisogni di base in maniera individuale, al ritorno in auge del concetto di bene pubblico e ai nuovi rapporti di forza tra Stati sovrani e mercato e però anche alla presa di coscienza dei limiti della forza degli Stati e della stessa Unione Europea. Lo spostamento dell’ago della bilancia, il crollo dei miti e l’accrescimento del prestigio dei poteri pubblici nell’immaginario collettivo e nelle richieste delle masse esposte alla crisi, possono forse essere una decisiva novità a vantaggio della cultura del centro sinistra. Nell’ottica di un’egemonia politica raggiungibile solo per mezzo dell’egemonia culturale.

2. Fortemente caratterizzata sul  piano culturale è anche la seconda tematica, più strettamente economica, per la quale tanto il PD quanto l’Unione Europea avrebbero perso la loro battaglia più importante. E’ infatti  nella soggezione-fascinazione per il modello economico statunitense che la sinistra, non tanto  per reale convinzione quanto piuttosto per difficoltà pratiche (difficile predisporre un apparato culturale strutturato ad altissimi livelli), non riuscendo  a contrapporre una visione alternativa, ha perso la battaglia per l’egemonia culturale. Tale fascinazione ne ha anzi compromesso l’autonomia, impedendole così di interrogarsi sull’opportunità di cambiare i canoni dell’organizzazione e della filosofia nella costruzione europea. L’Europa, dal canto suo, lungi dal mettere in discussione l’idea che sarebbe bastato liberare mercati, merci e capitali, per liberare con essi tutte le migliori forze produttive, si è ritrovata incapace di gestire fasi di crescita zero. Grazie al lavoro di un “quadro tecnocratico, dirigenziale, di supporto accademico, formatosi negli USA e ispirato da un impianto culturale e scientifico mercatista”, quel modello è diventato l’indiscussa meta di riferimento per l’Europa. Non è stato possibile sviluppare visioni e canoni differenti, arrivando persino all’accettazione come un dato di fatto che la forza dell’economia USA poggi nella minima invadenza dello Stato nei mercati e nell’economia e, viceversa, che le difficoltà delle economie europee fossero legate esattamente al loro essere, all’inverso, troppo regolamentate.

Qui la sfida per il centrosinistra, fin qui supino nei confronti del pensiero unico, che proprio a causa della sua debolezza o del suo disinteresse verso gli elementi culturali insiti nei meccanismi economici alla base della costruzione europea, ha visto indebolirsi il suo consenso, lasciando la sua base militante esposta senza difese al pensiero unico economico, perdendo così nel concreto qualsiasi voce in capitolo verso la definizione di che tipo di società, e di Europa, si andava a costruire.

V’è peraltro da sottolineare come la cultura ufficiale ignori, volutamente o meno, la circostanza che negli USA la guida pubblica dell’economia sia invece estremamente decisa, quantomeno nell’ indicare la rotta. La leva di comando centrale per la conduzione macroeconomica è il vero differenziale tra gli Stati Uniti e l’Europa: senza una gestione comunitaria della politica economica europea, la crescita economica dell’Unione resterà legata alle capacità private e alla forza dei singoli Stati che la compongono.

3. Inadeguati appaiono poi gli strumenti analitici con i quali è stata letta la società italiana da parte del principale soggetto politico del centro sinistra: in particolar modo la distanza cronica dalle problematiche poste dal fronte del lavoro autonomo è qualitativamente e quantitativamente significativa. Si direbbe quasi che i partiti che hanno costituito il PD abbiano completamente perso un passaggio epocale in seno alla società italiana, non riuscendo così a influire sulla “coscienza collettiva” che questa larga fetta di popolazione aveva maturato, arrivando così a una “soggettività in larga maggioranza politicamente orientata”. Pur guardandosi dall’ipotizzare un partito spiccatamente rappresentativo delle istanze e degli interessi di questa fetta di Paese, l’autore si sofferma però sulla necessità di stabilire con questo mondo un dialogo che ne permetta quantomeno una rappresentazione corretta. La forma mentis della sinistra, più affine al mondo della grande impresa che non a quello del lavoro autonomo, ha giocato probabilmente un ruolo determinante nel distacco e nell’assenza totale di elaborazione e proposta politica specifica.

Superficiale è, forse, l’argomento spesso sostenuto in base al quale lo sgretolamento della società italiana renderebbe molto difficile una interlocuzione e conseguentemente il lavoro di analisi che dovrebbe essere alla base della proposta politica. La sensazione che l’autore ne ricava è quella di un popolo sì frantumato, ma perfettamente consapevole di sé e comunque in grado di opporsi alle velleità dispositive dei governi di centro sinistra, incapaci di farne un soggetto protagonista delle proprie politiche.

E’ quello che sembra emergere anche dal periodico rito elettorale: laddove l’elaborazione del programma dovrebbe essere il frutto di un lavoro di comprensione, sintesi ed elaborazione in proposta politica (lasciando anche da parte il ragionamento su quanto lungo dovrebbe essere il suo orizzonte), idoneo a rappresentare le aspirazioni e le istanze della più ampia base possibile, ci troviamo invece di fronte per lo più a una sorta di documento interno, secondo uno schema più congressualista che non elettorale, nel quale il partito rispecchia e celebra innanzitutto sé stesso, la propria identità, ricevendo il consenso dei militanti ma non riuscendo a intercettare gli umori più profondi della massa; una massa ben diversa da quella con la quale la sinistra si è storicamente rapportata.

4. Quale compromesso sociale realizzare, quale visione strategica il centro sinistra è più propenso a scegliere? Quella del pensiero liberale o piuttosto quella del “corporativismo progressista”? E’ questa, anche alla luce della crisi economica, la scelta di fondo che l’Italia è chiamata a compiere e sulla quale il PD non può non mettersi in gioco. Optare per la meta liberale e universalistica o piuttosto operare una scelta più conservativa, dando come un dato acquisito gli assetti corporativi e consociativi da cui è permeata la società italiana, tentando poi una loro mitigazione all’interno di un processo collettivo di responsabilità? In quanto forza politica e non mero centro studi, un partito deve essere capace di fare un’ adeguata valutazione delle forze in campo, degli elementi in gioco, per arrivare a una scelta praticabile. E in questo senso neanche il liberalismo può essere preso come un dogma, come una strada da perseguire a tutti i costi. Occorre fare i conti anche col fatto che la frammentazione sociale, lo smembramento delle grandi e tipizzate classi, ha intaccato il monopolio dei partiti nella rappresentanza. Ci appare quindi sempre più imprescindibile il lavoro di sintesi e proposta politica che un partito che ambisce ad essere ancora partito di massa è chiamato a fare. E in ragione di questo, tanto più disastrose sono  invece l’inerzia e l’indifferenza poc’anzi descritte. I partiti moderni sembrano perdere sempre di più il loro carattere di rappresentazione e proclamazione delle principali istanze sociali, politiche ed economiche, e sempre di più gravati dalla necessità di mettersi in ascolto, di fungere da centro privilegiato di sintesi, di facilitare ed ottimizzare l’afflusso di informazioni dai diversi strati sociali al fine di farne proposta politica. Lasciando all’autore l’approfondimento delle tecniche istituzionali volte a questa funzione, osserviamo che la prospettiva universalistica liberale, utile a definire l’approccio ai problemi e il progetto di massima, deve necessariamente, come peraltro le vicende politiche ed economiche specificamente italiane degli ultimi anni suggeriscono, tenere conto, uno per uno, di tutti i frammenti di quella società che il centro sinistra ambisce a governare. E non ci sembra, alla luce dell’analisi fatta nel testo, una sfida da poco. Non solo: tra le novità che la crisi innesca in ambito culturale troviamo anche la domanda di maggiore leadership; un partito indifferente, supino, incapace innanzitutto culturalmente di mettere e soprattutto tenere al centro della propria agenda temi impegnativi e di ampio respiro, che mettano realmente in gioco i leaders e le oligarchie, ci sembra destinato a perdere anche il consenso della base militante.

5. A questo punto occorre definire meglio il problema del rapporto tra intellettuali e politica. Un rapporto dalle connotazioni molto diverse nei due partiti (DC e PCI) da cui poi, per mezzo di una transizione lunga e non senza ostacoli, è nato il PD.

La sottolineatura dell’importanza degli intellettuali nel processo di costruzione della cultura politica del centro sinistra non è mai, da parte dell’autore, l’affermazione di un rapporto di egemonia, che anzi richiama spesso al ruolo decisivo che la cultura politica “vissuta” ha nei confronti di quella ufficiale.

Diversa l’importanza che gli intellettuali hanno avuto nei due grandi partiti di massa che poi hanno dato vita, dopo  transizioni e  trasformazioni lunghe, dolorose e non prive di ostacoli, al PD. A partire dalla caduta del Muro è nata per i due grandi partiti la necessità di ricollocarsi nel nuovo scenario mondiale: molta della loro esistenza si è rivelata, a posteriori, basata innanzitutto su un quadro politico internazionale bloccato, che aveva prodotto analoga cristallizzazione in Italia, con un partito “condannato” a svolgere una funzione di guida e un altro che pareva aver accettato il ruolo quasi istituzionale di opposizione. Un dato comune, dopo la stagione delle scissioni e l’inizio di quella delle trasformazioni, tra DS e PPI prima, poi con l’avvento della Margherita, è la progressiva perdita di definizione del sostrato culturale, insieme alla contaminazione con elementi liberali e liberal-democratici. Elementi culturali via via più diversi sono andati a inserirsi nei nuovi soggetti politici; culturali ma non solo. La stessa tecnica della partecipazione, per quanto appaia sempre molto legata alla logica delle tessere, viene sconquassata dal fenomeno delle Primarie. Un’ occasione, dice l’autore, per l’auto-organizzazione degli intellettuali e l’esplosione di una moltitudine reti e connessioni, in occasione della nascita del programma del 2006. Personalmente ci sembra che la spontaneità, la voglia di partecipazione in prima persona e di superare i confini interni della coalizione, respirate anche e soprattutto tra la gente comune, tra i non militanti, che si sono sobbarcati ore di coda ai seggi per poter semplicemente dire la loro, dicano che le Primarie del 2006 sono state il momento in cui il centrosinistra è stato più vicino ad intercettare quelle istanze inespresse che il libro individua essere distanti dall’attenzione del PD. L’enorme partecipazione fu effetto non programmato, inaspettato, frutto più di quella scienza pratica del fare, ma non per questo meno significativo. Cristallina l’analisi del fenomeno del consolidamento delle oligarchie di partito: l’evoluzione verso un “partito leggero” avrebbe innescato dinamiche non già inclusive bensì esclusive, risolvendosi nella formazione di gruppi più ristretti di decisori, veri e propri professionisti della politica, la cui posizione di forza nei confronti della società e della stessa base militante ci appare tanto più consolidata quanto più le istituzioni democratiche sono andate perdendo di consistenza e le agende politiche impoverendosi. I partiti sono diventati sempre più verticistici, privi di dibattito interno e in genere di pratiche democratiche. Netta, e ci sembra specchio fedele della società, la distinzione tra insiders e outsiders, tra professionisti della politica e potenziali soggetti attivi. La specializzazione dei ruoli impedisce qualsiasi ricambio, spostando anche fisicamente il rapporto di forza tra personale politico e base militante: dal territorio alle “sedi di vertice” (Parlamento, segreterie, quando non salotti e ville private).

Non mancano i segnali positivi intorno al centro sinistra: a saperla cogliere, anche dietro allo stesso rifiuto della politica dei partiti, si intravede un forte desiderio di partecipazione attiva, domanda e produzione culturali, richiesta di formazione politica. A volerlo sperimentare, nessun terreno è più fertile per un partito che si fregia dell’appellativo di “democratico” e che ambisce ad essere un partito di massa, in grado di produrre efficaci sintesi della società e adeguata composizione dei diversi interessi che la costituiscono, per costruire la propria cultura. Imprescindibile però, ci sembra, per un partito costruito non su un manifesto ma su quell’humus vivo, critico, coeso autocosciente cui l’autore fa riferimento, e che vuole guidare il Paese, proponendo un efficace e rappresentativo compromesso sociale, la riscrittura del patto interno, che tenga conto che peggio di un manifesto dato una tantum c’è forse solo un ceto politico dato una tantum, e che, in definitiva, la politica è occasione.

Trascrizione della relazione di Salvatore Biasco

relazione Salvatore Biasco

Prima di tutto ringrazio la Fondazione Dossetti per avermi invitato a questo bellissimo ciclo… Adesso non vorrei porre aggettivi essendoci anch’io dentro, ma vedo che sono dei testi molto, molto belli, molto interessanti che in qualche modo stimolano e fanno fare un salto di qualità alla nostra comprensione della società e delle tematiche politiche. Peccato che io abiti a Roma perché sarei sicuramente un uditore, diciamo, di questo ciclo. Poi voglio ringraziare Giovanni Bianchi, voglio ringraziare la signora Barbanti e anche Luca Caputo per questa bella sintesi che rispecchia sostanzialmente il contenuto del libro.

Posso premettere una cosa. Io, avete sentito dal curriculum, non sono un politologo, sono  un economista, in parte specializzato in  questioni internazionali che poi, però, un pezzo della sua vita si è trovato ad avere a che fare con il sistema fiscale, non solo nel Parlamento, ma anche dopo ho redatto un Rapporto su come modificare la tassazione che Tremonti ha istituito nel 2003. E quindi gli argomenti di tipo politologico nascono in me non tanto da studio, quanto, diciamo, da una vita vissuta. Da un lato questa esperienza fiscale mi ha posto in contatto con un’Italia molto dispersa, con tante domande che vedo che la politica non riusciva ad accogliere,  non riesce ad accogliere, non riesce a capire, diciamo, l’antropologia di questa Italia. Io, se vuoi, sono poi interessato essenzialmente alle azioni (?), alla cultura, all’interpretazioni de centro-sinistra.

Dall’altro c’è questo pezzo del rapporto con gli intellettuali che è pure un pezzo di vita vissuta laddove si parla di politica in quel capitolo che forse è quello a cui forse tengo di più perché è il capitolo che rappresenta fore più un diario. Non è un diario, ma è una sistematizzazione (?, una concentralizzazione di problemi, però insomma riguarda cose che ho vissuto molto da vicino.

Invece il clou del libro è una domanda che mi sono fatta sempre nell’ambito di..…mi ha agitato in qualche modo la riflessione,nell’ambito dell’attività politica, dell’attività parlamentare, poi la mia attività parlamentare è stata abbastanza breve. Un certo giorno ho saputo che non ero nelle liste… l’ho saputo ma non mi è stato comunicato ufficialmente, ma insomma la vita continua, ci sono tante cose belle, la politica si può fare in mille modi, anche scrivendo dei libri.

Però la domanda è questa: quanto questi indirizzo liberale che sta penetrando nella sinistra, quanto è idoneo, quanto rappresenta un’utile acculturazione, un ammodernamento di un pensiero che va ammodernato perché sta cambiando la società, cambiano i climi culturali, cambiano tante cose, e quanto invece è una difficoltà di distillazione rispetto a quello che ci propone una cultura dominante. Il che non vuol dire rifiutare l’approccio liberale, me vuol dire che l’orizzonte culturale della sinistra va in qualche modo discusso e ridefinito al di là del fatto che singole soluzioni di politica economica, cioè l’introduzione del mercato, la competizione, l’accento sul merito, ecc. possono essere in se valide, sopra tutto indirizzate in alcuni gangli della vita sociale a cui possono dare un utile contributo.

Quindi il titolo riflette un po’ questa riflessione. Intanto costruire la cultura politica che non c’è vuol dire riferirsi non tanto a grandi argomenti di politologia o dei classici temi, ma alla cultura antropologica, quella di un popolo di sinistra che in qualche modo definirsce un suo orizzonte culturale; sono visioni del mondo introiettate in cui la politica agisce, cioè un partito politico agisce sia in termini pedagogici, sia in termini di raccolta di suggestioni culturali. E’ un processo biunivoco dove però conta molto la formazione dei dirigenti, conta molto anche la prassi politica.

Sinistra pensante è una sinistra che, innanzi tutto, riacquisti una sua  autonomia di pensiero. C’è stato, rispetto al pensiero dominante, la sinistra non ha avuto barriere specifiche. Io capisco tutte le ragioni per cui questo sia avvenuto, nel  senso che noi ci siamo innamorati di liberalizzazioni, mercato, ecc. ecc., un po’ per un senso di colpa, di accreditamento, diciamo, verso una società, o per lo meno verso le elite di una società che ci chiedevano in qualche modo di intervenire sull’economia in questa direzione. C’era poi una crisi fiscale dello stato, c’era la pressione perché noi smantellassimo quello che ci veniva dall’esterno, smantellassimo i nostri monopoli e le nostre industrie pubbliche, c’era ovviamente una globalizzazione all’esterno che mostrava la sua capacità dinamica.

La globalizzazione è stata un grande evento della storia, qualsiasi cosa noi ne pensiamo e qualsiasi effetti abbia prodotto all’interno, certamente ha portato masse di persone nel mondo periferico che non mangiavano, non solo a mangiare ma a soddisfare ai bisogni….Intanto a quelli elementari e poi anche altri bisogni. Questi sono pezzi importanti. Però ce ne siamo un po’ innamorati, e questo l’intera sinistra europea, senza un approccio critico rispetto a questo, senza vedere le devastazioni anche che questo portava. Occorre dire che bisognava soltanto governare questo momento della storia per gli effetti che aveva all’interno e in qualche modo inserendosi, adattandosi, flezzibilizzando mettiamo il mercato del lavoro o creando una employ ability e lasciando stare tuttoil vecchio armamentario della politica che non parlerebbe di employ ability ma parlerebbe di occupazione o di piena occupazione…che bisognava insomma ritirare lo stato da molti settori e rendere il mercato leggero e fare sì che l’economia fosse trascinata da questa grandissima ondata di crescita determinata dalla finanza.

Il blearismo di Blear è stato forse l’elemento che più ha elaborato questa visione, però era anche, diciamo, una sinistra vincente in Europa, per quanto sia. In più vi era il fascino dell’economia americana, della prestazione dell’economia americana, che in effetti dalla fine degli anni ’90 all’inizio del 2000 è stata un’economia capace di crescere, crescere rapidamente. Ora gli elementi di questa crescita, un economista può dire guardate che non erano quelli che sono stati colti, ma un partito che ormai ha smesso di interpretare il mondo o di credere in un approccio critico, deve avere le sue coordinate specifiche e in realtà prende la vulgata, dove la vulgata è la vulgata dell’ICI (?), i mercati sono flessibili, i mercati… lo stato si è ritirato, lì la competizione funziona e questo diventa, come si dice oggi con termine anglosassone, il benchmark, il punto di riferimento, ma diventa anche un punto di riferimento culturale.

Cioè npn c’era più bisogno di un’economia che venga tenuta a una pressione di domanda soddisfacente che crei occupazione, cosa che ovviamente un singolo paese non può fare, ma certamente avrebbe dovuto fare l’Unione Europea. No, c’è la necessità di far funzionare le microstrutture, i mercati, quindi l’economia dell’offerta, gli incentivi e sopra tutto i mercati che funzionino a livello micro, cioè funzionino vuol dire che abbiano la concorrenza necessaria, che siano liberalizzati e via discorrendo.

Ora non tutto questo è da buttar via in seno alla sinistra. E’ anche vero che noi partivamo da un pensiero…noi sopra tutto quella parte che proviene dell’ex PCI, da una visione centralista, statalista, un po’ burocratizzante, ecc. ecc., quindi c’erano condizioni di revisione e condizioni oggettive che spingevano in una direzione di revisione; però un conto era caso per caso decidere su che cosa andava fatto, e molte volte ciò che va fatto è una liberalizzazione dei mercati, l’introduzione della competizione e via discorrendo, e un altro conto assumere l’intero orizzonte come un orizzonte culturale dentro il quale ci si muove.

Noi a poco a poco, nella sinistra, parlo della sinistra italiana, ma insomma c’è una sinistra europea che si muove nella stessa dire3zione, il riferimento generico è diventato il consumatore, oppure il generico cittadino, ma le singole figure hanno perso la loro collocazione nell’ambito della posizione nel processo produttivo come, diciamo, professionisti, operai, lavoratori autonomi, ecc. ecc. e noi ci siamo rivolti essenzialmente al consumatore. Ad un certo punto questo è finito anche per essere uno degli elementi di riferimento, di raccordo, dove poi hanno sguazzato una serie di personaggi che sono stati molto influenti ma che con la sinistra avevano poco a che fare, nel mercato di sinistra il consumatore è il vero universalismo che la sinistra può raggiungere e quindi come se la finalità di un’azione politica fosse quella di far risparmiare tot Euro l’anno, che so nel consumo del gas o dell’elettricità. Non che vengano male se vengono risparmiati. Però è finito per prevalere una sorta di antistatalismo, antistatalismo che anche qui è stato poco duttile, perchè è ovvio che bisognava burocratizzare lo stato, è ovvio che bisognava ridurre il peso fiscale, ma nello steso tempo noi dovevamo rafforzare il nostro apparato dello stato che si era ritirato totalmente diciamo dalla produzione. Allo stato è stato affidato soltanto il compito di regolazione, non più i compiti di protagonista dentro la produzione in qualche modo, la capacità di avere una visione dell’ingegneria sociale necessaria per una coesione della società e perdonato (?) anche quello che è il corollario del liberalismo.

Io non discuto affatto il liberalismo politico, il liberalismo politico quello che ci ha portato alle nostre libertà individuali e che è stato anche assorbito dalla sinistra sopra tutto nella richiesta di diritti civili. Ma a livello economico è un’altra cosa. E’ non più l’elemento individuale, insomma nell’individuo non c’è il tutto, non c’è il nulla, è la società che in qualche modo entra sia la visione dei problemi politici , sia l’analisi dei processi politici e sia le finalità di un partito politico.

E la società non è la somma dei singoli, è qualcosa di diverso. Quindi si è perso un pezzo della cultura comunitaria, solidaristica che poi era il pezzo migliore dei due filoni che hanno costituito il PD; da una parte il cattolicesimo sociale e dall’altro lato gli eredi, diciamo, grosso modo della socialdemocrazia, anche se poi non venivano proprio da lì, ma insomma lì erano approdati.

Era difficile fare un partito di insediamenti, certamente perché la società si è andata sfrangiando e quindi riprodurre lo schema tipico della socialdemocrazia, un blocco sociale molto coeso e antagonista in qualche modo di un altro blocco sociale, noi e loro, era nata la visione, il modo di guardare il mondo della socialdemocrazia. Questo non è più possibile. Però è sicuramente possibile una visione più comunitaria, più solidaristica, più cooperatiistica; questa è una cultura che si sta perdendo in una società che sempre più vede avanzare culture individualistiche.

Questo è uno, e dall’altra parte l’idea che la società va organizzata ed è compito della politica organizzarla, compito della politica è appunto trovare ingegnerie sociali che la rendono coesa. Una riforma non è una serie di provvedimenti che vengono un giorno varati, elaborati nel chiuso di stanze da alcuni tecnici e fatte proprie da un governo. Una riforma è, diciamo, il plasmare la società e noi tutto questo lentamente lo abbiamo perso,

Io poi qui richiamo un pezzo della….io non rifiuto il liberalismo ma dico che vada sussulto dentro un altro modo di vedere e sopra tutto che vada espunta tutta la parte dell’individualismo non perché oggi un partito politico possa negare questa esplosione di soggettività. Scusate la soggettività è anche una molla. Ma un conto è una esplosione di soggettività, della libera realizzazione della persona, un altro conto è …..voi avete sentito l’ultima volta la relazione di Magatti , insomma è il senso individuale della vita in cui tutte le finalità individuali si racchiudono in se stesse; non c’è più una responsabilità sociale connessa alla libertà individuale.

E guardate che quando il liberalismo e l’individualismo penetra anche in strati più bassi della popolazione, cioè quelli che generalmente possiamo considerare un po’ gli emarginati o i perdenti, ecc. ecc., determina elementi di autostima nel senso che ciascuno……perché a questo siamo stati abituati a pensare che noi tutto quello che ci accade deriva dalla nostra responsabilità, da come abbiamo usato le nostre capacità individuali, senza vedere quali meccanismi della società ci sono dietro magari all’insuccesso; e quindi magari percepire l’insuccesso non tanto come un fatto che ci accomuna ad altri, e quindi con altri provoca i momenti dei riscatto, il sindacato, le leghe, le cooperative ecc. che in qualche modo sono tutti elementi di controbilanciamento della democrazia e del potere. Non avviene questo, avviene che ciascuno lo senta come un’offesa personale e social e al massimo viene spinto al’           (?) e non viene spinto all’azione collettiva e l’azione collettiva fa perdere uno degli elementi di controbilancio, diciamo, della società.

Quindi la sinistra pensante è una sinistra che riesce ad elaborare e a distinguere tra globalizzazione e gli effetti perversi della globalizzaszione ed ha un approccio critico verso una società guidata dal profitto che mantiene le differenziazioni. Una sinistra che certamente non rifiuta un approccio liberale in economia, ma lo giudica caso per caso, senza assumere lì l’orizzonte della sua azione e della sua cultura, e via discorrendo. Ci vuole una capacità di elaborazione che certamente non lasci i militanti in balia di quello che trovano nel mercato delle idee, dove il senso comune  è diventato sempre più di tipo individualistico.

Una sinistra, proprio per riallacciarmi all’ultima lezione che c’è stata qui, è una sinistra capace di proporre anche una diversa umanità, è un luogo di contro-cultura rispetto alla cultura che produce questa visione, sopra tutto nei ceti meno acculturati e quindi meno difesi, diciamo giovani delle periferie delle città, ceti medi meno acculturati, ecc. ecc., questa cultura ormai alla ricerca dell’edonismo, della libertà senza responsabilità. E invece una sinistra che dà un senso anche ai traguardi individuali e riesce a dare anche un sintesi superiore sapendo che tutto ciò si sposa anche, queste culture che si diffondono, con un disimpegno dalla politica che è qualcosa che svuota la democrazia e oltre tutto crea rapporti diretti ed è facile presa dei populismi e di chi dice di operare in nome del popolo, ma certamente non determina processi di partecipazione che sono i processi democratici.

Allora se la sinistra non è un polo di contro-cultura, con ha voglia di essere un polo di contro-cultura, un luogo dove si respira un’altra umanità, non ha una sua capacità di utopia, se vogliamo ed anche di idealità, finisce per avallare il fatto che oggi siamo in un’epoca post-ideologica. Ma non è vero che siamo in un’epoca post-ideologica, noi siamo in un’era di diffusione di ideologie e quindi se non si creano barriere attorno a questo, poli diversi, certamente io non vedo come la sinistra possa  non solo irradiare una nuova visione del mondo, ma anche essere un polo di attrazione politica.

Io sono stato molto colpito da un’affermazione di Veltroni, che non era più segretario, ma fu intervistato dal Sole 24 ore dopo la sconfitta tedesca che seguiva la sconfitta dei partiti socialdemocratici, di sinistra diciamo, nelle elezioni europee. Disse, ma no, è finito tutto, noi siamo in un’epoca post-ideologica, ci saranno due schieramenti, uno di centro-destra uno di centro-sinistra, l’elettorato è un elettorato fluttuante, chi riesce a prendere quell’elettorato fluttuante vince le elezioni. Se questa è una prospettiva, io dico che questa è una prospettiva, può darsi pure chi lo sa, che dovremmo arrivare a questa conclusione, ma certamente non è esaltante. Io ritengo che la sinistra debba ritrovare i suoi fondamentali, dove i fondamentali sono appunto quello che dicevo prima: la cultura della solidarietà, la cultura comunitaria, la visione comunitaria del mondo, essere elemento di collante, cercare tutti i collanti nella società, valorizzare le ragioni del noi, più che le ragioni dell’io e ritrovare questo e ritrovare anche il gusto di organizzare la società. E ritornare ai fondamentali vuol dire anche ripensare a che cosa è e può fare oggi lo stato.

Improvvisamente dopo anni in cui ci avevano detto che lo stato non serviva più, era il problema e non la soluzione, abbiamo gli stessi partiti conservatori, partiti di destra, che invece hanno abbandonato totalmente quella visione e stanno in qualche modo guidando questi salvataggi dell’economia dove lo state entra pesantemente e oltre tutto utilizzando strumenti che una volta sarebbero stati strumenti della, chiamiamola, socialdemocrazia, ma di salvaguardia dell’occupazione. Noi abbiamo a che vedere che non ci sarà più una scelta di campo nel senso che (questo forse sì) tu dici destra e sinistra  e distingui nettamente per quanto riguarda, non so, la visione dello stato, del mercato o pro o contro il wellfare, o pro o contro il modello sociale europeo, o pro o contro un mercato sregolato…… La nuova destra è una destra molto problematica su queste cose e quindi costringe la sinistra a ridefinirsi in modo puntuale.

Se io ripenso alle vecchie campagne elettorali in cui imputavamo alla destra l’intenzione di smantellare lo stato sociale, oggi non potremmo dirlo, non perché sta rafforzandolo, ha un’idea, però, pragmaticamente, devo dire che non ha smantellato niente, anzi in qualche modo ha tentato di difenderlo, come era difendibile l’occupazione e anche qualche intervento a favore dei più disagiati.

Non sarà più questo, il terreno sarà molto probabilmente nell’esercizio di confronto, nell’esercizio dei poteri discrezionali, nella capacità di sapere individuare i gangli della ripresa e quindi determinare crescita nella giustizia sociale e organizzare la giustizia sociale. Quindi una sinistra che non potrà più nemmeno fare appello ad una scelta di campo. Forse può darsi che nell’evoluzione delle cose la destra ritorni a fare la destra, però oggi abbiamo bisogno di una sinistra pensante in senso proprio, che abbia delle soluzioni e che queste soluzioni siano di tipo universalistico, che sia capace di emanare una cultura in senso antropologico, diciamo di visioni del mondo, della società, del modo di essere, della responsabilità sociale e via discorrendo.

Ecco, noi abbiamo bisogno di questo e abbiamo invece una sinistra molto e troppo attratta dai canoni della politica così come si sono andati determinando, cioè una politica combattuta sul piano mediatico, i dirigenti molto interessati alle carriere interne, la selezione che avviene con          (?), l’orecchiamento di parole d’ordine che vengono assunte senza il necessario scrutinio. Io penso soltanto che cosa vuol dire oggi merito. Ad un certo punto noi ci siamo ritrovati come dei paladini del merito. Ma figuriamoci se vogliamo il merito nella società, vogliamo il merito o vogliamo gli avanzamenti per le relazioni sociali ecc, ecc., ovviamente vogliamo il merito, però, attenzione sbandierarlo così, senza capire che governance occorre avere per una società che è basata unicamente sul merito, il merito può essere tante cose, può essere anche coniugato nel paradigma individualistico nel senso che è un fatto sicuramente individuale che viene espresso essenzialmente da coloro che hanno avuto migliori opportunità e migliori capacità di vita.

La scuola oggi….certamente vogliamo una scuola meritocratica però ricordiamoci che è diversa la scuola delle periferie dalla scuola del centro storico, la performance universitaria fra le diverse università, o la scuola di chi ha dietro genitori intellettuali e di chi invece non ce l’ha. Poi, ovviamente, se si rispetta il merito si finisce per selezionare coloro che hanno avuto migliori opportunità di vita; quindi stiamoci attenti con questi innamoramenti. Questi innamoramenti hanno un fondo di verità ma richiedono una buona elaborazione perché il merito può essere anche il modo attraverso il quale uno strato alto della società seleziona e determina la propria perpetuazione in un modo più accettabile perché il merito come top è accessibile soltanto a quello strato lì. Quindi stiamo molto attenti a come determiniamo queste cose. Ho detto questo, questo era un inciso nel senso degli innamoramenti.

Quindi c’è una funzione ribelle… C’è un capitolo finale che è sull’intellettuale, sul rapporto con la funzione intellettuale. Non intendo nulla che la sinistra possa elaborare sul piano culturale antropologico sia un prodotto intellettuale; avrebbe potuto anche in qualche modo organizzare gli intellettuali come una volta si faceva e sopra tutto gli intellettuali funzionano se hanno delle domande, se hanno una committenza, se c’è un partito che li interriga e poi sappia raccogliere il risultato, ma non se vivono della loro produzione intellettuale in qualche modo esaltati nella loro competenza, o qualcosa del genere.

Mi soffermo abbastanza anche sul rapporto con i tecnici, ma sopra tutto quello che mi sembra sia mancato in questo partito è l’elevazione a livello….la promozione politica di coloro che potevano essere mediatori tra un mondo intellettuale di competenza e la politica. Non che questi non ci siano stati ma non hanno mai avuto una loro promozione nella politica. La politica è rimasta appannaggio del professionismo e sempre più si sono determinati dei gironi tra inside e rothside (?) La politica ha sicuramente bisogno di una funzione tecnica ma la funzione tecnica è rimasta separata, poi l’appropriazione dell’elaborazione tecnica per come e quando è rimasta in mano sostanzialmente della politica, tra virgolette.

L’ultimo tema che c’è nel libro, c’è in due capitoli, ed è il tema, il punto dell’Italia profonda. Anche questo è un pezzo vissuto. Ecco qui mi sono convinto che la sinistra non ha trovato le antenne per comunicare con questo mondo. E’ vero questo mondo è lontano dalla tradizione della sinistra, prima ho parlato di cultura solidaristica, di responsabilità ecc., ecc., ma forse i valori individuali sono molto diversi, però ricordiamoci che questo è un pezzo quasi maggioritario dell’Italia. Noi non possiamo ignorare questo pezzo e certamente è un pezzo a cui ci siamo rivolti ogni tanto con ammiccamenti, con qualche frase di circostanza, qualche promessa di sgravio fiscale. Ma non è questo il punto. Il punto è che questi vivono una quotidianità fatta di rapporto con la burocrazia, di rapporto col fisco, sistema ordinamentale ecc., ecc,, che in qualche modo interferisce con la loro vita, con la loro capacità, con i loro umori. E non sono individualizzati, sono legati da connessioni di rapporti associativi; sono essenzialmente le associazioni quelle che determinano poi un giudizio anche rispetto ad un programma politico, rispetto ad un evento politico, che li riguarda naturalmente.

Noi non siamo stati capaci di entrare nella micro-legislazione perché il quadro politico che abbiamo selezionato è un quadro che guarda alla grande politica. Non si è formato risolvendo problemi. Il mio stupore è stato quanto si affidassero a quei possibili canali interlocutori perché sentivano poter comprendere le istanze minute che venivano presentate, perché è su quel terreno, sul terreno della quotidianità, che si risolve il rapporto con loro.

Quindi un rapporto politico fatto di impegno quotidiano a risolvere problemi, non tanto l’agitazione, il genericismo delle parole d’oggi. Certamente occorre avere la capacità tutto questo di ricomporlo in un livello politico, in un incontro con dei valori, a ricongiungere singolo e micro determinazioni con i grandi scenari di dove condurre il paese.

Questo è un risultato difficilissimo e tra le altre cose l’approccio liberale non ha aiutato. Non ha aiutato perché ci ha portato a considerare tutto questo mondo come un mondo di corporativismo, un mondo di corporativismo che andava inciso, vinto, ecc. ecc., a furia di liberalizzazioni, di introduzioni nel mercato, ecc. ecc. Cosa in se intellettualmente pure vera nel senso che si può difendere, ma irrealistica sul piano delle analisi nel senso che chiunque abbia tentato questa via ha perso. Quando l’abbiamo tentata noi abbiamo perso con quasi tutte le categorie, né gli altri non l’hanno manco tentata, fra le altre cose.

Allora bisogna avere un’analisi precisa delle forze in campo e questo non vuole dire che noi dobbiamo codificare, accettare la società corporativizzata. No, ma che dobbiamo trovare la soluzione degli interessi anche in una ingegneria istituzionale in cui questi possono rappresentare se stessi, possono intanto mediare tra se stessi prima di mediare con la politica, in cui si portano a vedere il perseguimento dei propri  interessi dentro un orizzonte che è un orizzonte del paese, dell’interesse collettivo. I vantaggi di questo dovrebbero essere sia il fatto che le politiche possono trovare consenso, se non trovano consenso non passano, che c’è un’opera di segnalazione di tante situazioni disperse che non arrivano alla politica e che debbono arrivare, sia il fatto che si ha a che fare con una società che non è fatta di individui isolati, è fatta di individui connessi fra di loro in associazioni che noi riconosciamo e forse si può perseguire un universalismo e quindi non un particolarismo per cui dai a questo, dai a quest’altro, ma si compone un quadro generale che però deve rispettare i canoni di universalismo. Forse si può trovare per un’altra via che non sia quella del mercato.

Noi ci siamo trovati a proporre il mercato quasi come sfida in un momento in cui mostrava la sua colnta, siamo stato colti in contro tendenza, non solo la sinistra italiana ma anche la sinistra europea e questo è forse il motivo per il quale un evento che doveva invece mettere in ginocchio l’antagonista storico della sinistra ed esaltare invece una visione che era tradizionalmente stata di questo settore dello schieramento politico, invece ci ha visto declinare. Non siamo riusciti a capire che c’era anche (era generoso il tentativo, la nostra società aperta ecc. ecc), ma c’era nel corpo sociale insicurezza, paura, desiderio di protezione, desiderio di adattamento e la destra è finita per apparire più credibile.

Quindi un ripensamento generale importante che va fatto della politica. Come vedete non ho parlato di nessuna questione di carattere contingente. C’è un qualcosa, un cammino di lungo periodo che va fatto impostando l’intera cultura, D’altra parte cultura vuol dire egemonia nella società ed è l’humus nel quale nascono progetti, nascono programmi e nasce una caratterizzazione, un’identità dei militanti. Sino a che la cultura rimane indefinita, un mare magum di suggestioni diverse, non elaborate, e oltre tutto qualche volta anche contraddittorie, il partito nel quale dobbiamo mettere una speranza per una rinascita della sinistra non decolla, non decolla nell’animo della gente, non decolla il suo prestigio. Il prestigio, poi lo dico nelle conclusioni, è una cosa molto più importante del consenso elettorale. Perdere prestigio è molto peggiore che perdere consenso elettorale. E noi dobbiamo ritrovare questo prestigio sociale.

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