Salvatore Natoli. Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio.

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Salvatore Natoli. Il buon uso del mondo. Agire nell'età del rischio.

1. leggi l’introduzione di Roberto Diodato a Salvatore Natoli

2. la trascrizione della relazione di Salvatore Natoli non è disponibile

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presentazione di Giovanni Bianchi (5’32”) – introduzione di Roberto Diodato (27’20”) – relazione di Salvatore Natoli (1h 4″’58”) – prima serie di domande (12’33”) – risposte di Salvatore Natoli (19’31”) – seconda serie di domande (13’48”) – risposte di Salvatore Natoli (26’50”)

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Testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Salvatore Natoli

Qualcuno di voi certamente ricorderà alcuni dei libri di Salvatore Natoli che sono stati presentati qui al Circolo Dossetti negli scorsi anni. Possiamo ormai tracciare un percorso che secondo una finalità precisa conduce al libro che discutiamo oggi, almeno a partire da Progresso e catastrofe. Dinamiche della modernità, che si concludeva con la proposta di un’etica del finito, un’etica della quale Natoli aveva già impostato i fondamenti nel volume I nuovi pagani, ma che restava ancora da pensare organicamente (cioè al di là del ritmo imposto dalla forma in un altro dei suoi testi che abbiamo presentato, il Dizionario dei vizi e delle virtù) nella determinatezza dei suoi contenuti. Successivamente, in particolare con il libro La felicità di questa vita, Natoli riempiva questo spazio vuoto del pensiero, della comunicazione e della discussione filosofica contemporanea. Alcuni di voi ricorderanno che La felicità di questa vita voleva essere quasi un manuale-guida per la felicità, un’esortazione a praticare la costruzione della felicità, a farla emergere nelle condizioni limitate e finite della nostra vita. In quel libro la costruzione della vita felice prendeva la forma di un’arte, di una perizia, di un’attività sapiente capace di affrontare virtuosamente ostacoli e difficoltà. Si trattava del progetto di un’etica che non si appoggia alla fede in un Dio (nemmeno in quella del Dio dei cristiani, come Natoli ci ha spiegato nel libro La salvezza senza fede, che pure abbiamo qui introdotto e commentato), né alla speranza di una vita eterna. Per Natoli la dimensione etica, la dimensione dell’ “abitare insieme” da cui dipendono i comportamenti fondamentali, appare come aspetto radicale della vita, fin dalla nascita, poiché noi non siamo puro inizio: il venire al mondo equivale infatti a un “essere posti”, e dunque nascere è l’origine di una relazione e in generale è l’aprirsi della relazione uomo-mondo. La nascita racconta l’originarietà di un legame, un legame che pone innanzitutto la nostra fondamentale finitezza, poiché esprime immediatamente che noi non siamo autosufficienti a esistere, ma esistiamo solo in quanto siamo nella relazione con altri.

La relazione uomo-mondo – ci ha insegnato Natoli – non è mai una relazione astratta soggetto-oggetto: è, fin dall’inizio, essere con altri; dunque, possiamo dire, nella nostra origine troviamo la “comunità”. La comunità è anzi “originaria”, si dispiega come ambiente umano imprescindibile che segna la nostra appartenenza e con essa la nostra identità, la nostra individualità. Questo è il nostro “mondo”, il mondo umano: si tratta quindi di farne “buon uso”.

Al Buon uso del mondo è dedicato appunto il libro che oggi presentiamo, libro che porta come sottotitolo Agire nell’età del rischio. Superficialmente potremmo allora intendere che ci troviamo in un’età rischiosa, che rende difficile “usare bene” il mondo, ma meno superficialmente si comprende subito che qualsiasi epoca è rischiosa, e che è sempre difficile capire cosa significhi “uso buono” del mondo, anche perché la parola “uso”, che ovviamente proviene da “usare”, può facilmente farci pensare che il “mondo”, cioè l’insieme delle nostre relazioni e delle risorse disponibili, possa essere un mezzo che “usiamo” per raggiungere un fine, il fine della vita buona e felice, e quindi possa essere ridotto a uno strumento (sono appunto gli strumenti le cose che vengono “usate”) di soddisfacimento del desiderio o di una specie di inclinazione a una generica felicità. Cerchiamo allora di intendere con maggiore precisione cosa significhi per Natoli “buon uso del mondo” e quali siano a suo parere i rischi propri e specifici della nostra epoca.

Ora questo libro di Natoli è secondo me un ottimo esempio di un genere filosofico, la cosiddetta “filosofia applicata”, che sta assumendo sempre maggiore rilevanza nel panorama editoriale italiano, anche se con risultati talvolta discutibili; non si tratta tanto, in questo genere filosofico, di dimostrare delle tesi attraverso quella serrata argomentazione logica che è tipica del genere teoretico, quanto di applicare a questioni concrete tesi filosofiche che sono state altrove sostenute, difese e dimostrate. E’ quanto qui fa Natoli: i risultati che prima sommariamente delineavo, cioè la sua “etica del finito”, viene qui calata nell’esistenza dell’uomo contemporaneo e nei suoi problemi tipici. Questi sono esplicitati dai vari capitoli, e spesso danno il titolo ai paragrafi del libro. La prima tra le questioni fondamentali affrontate, che compare subito, nel primo capitolo intitolato Il fare e l’agire, è quella del senso del lavoro oggi: il lavoro tra fatica e opera, il lavoro come emancipazione, l’importanza di potere propriamente appropriarsi del proprio lavoro, la globalizzazione e l’emergenza lavorativa, la differenza tra il lavoro come professione e il lavoro come dedizione. Quello del lavoro è un problema davvero emergente, che certamente va riconfigurato in relazione a nuovi parametri sociali ed economici; differente è l’approccio di Natoli, che per parlarci filosoficamente del senso del lavoro oggi fa riferimento non solo a quegli autori classici della filosofia che ci saremmo aspettati di trovare, come Hegel, Marx e Weber, ma soprattutto ai grandi classici che hanno costruito le basi della nostra cultura occidentale: Omero, Esiodo, Eschilo, Platone, Aristotele… fino a Dante. Il risultato del percorso di Natoli parte dalla constatazione che “nella società contemporanea la misura del valore è sancita più dai criteri esterni – la produttività, il risultato, il guadagno – che dalla propria soddisfazione. Non bisogna meravigliarsi allora, se molti s’immergono febbrilmente nel fare per “riuscire”, anche se non sempre sanno davvero in che cosa. Ma questo non è concesso a tutti. Ci sono persone che devono adattarsi a fare quel che fanno, senza alternative … Non a tutti è concesso scegliere, realizzare, come si diceva un tempo, la “propria vocazione”. Chi può dire a pieno titolo: questo è il mio lavoro, in esso e con esso mi realizzo? In molti casi ci si deve ritenere fortunati già solo per il fatto di averlo trovato. Non resta che adattarsi. Ma non è così. Certo, non si possono cambiare vita e mestiere a proprio piacimento, ma se non è dato riscattare la propria fatica nell’ “opera”, la si può riscattare nella “bontà del servizio”, assumendo consapevolmente la propria condizione e trasformandola in “compito” ”.

Ora questa esortazione è comprensibile, e dipende dall’esigenza di emancipare la logica del lavoro da quella, in senso esteso, del profitto: una tale emancipazione coincide con la liberazione dall’asservimento: non essere asserviti al profitto, al successo, al risultato ecc. vuol dire uscire dalla condizione di servitù innanzitutto interiore nei confronti dell’”economico” inteso in senso stretto e riduttivo e inaugurare una logica completamente differente, quella dell’ “economia del dono” , capace di intendere il lavoro come bene sociale, come attività relazionale finalizzata al bene comune. Però ho un’osservazione da muovere a Natoli su questo punto, che può servire forse anche per preparare un po’ il dibattito: la condizione necessaria, anche se secondo me non sufficiente, che rende plausibile la trasformazione dell’opera in compito nella direzione di un’etica del servizio, è la reciprocità, la quale, come scrive Natoli, “è un libero mettersi a disposizione”; però questa specifica libertà non è appannaggio dell’individuo o in potere dell’individuo, proprio per la sua intrinseca relazionalità: io posso esercitare una personale benevolenza, ma se l’altro non la esercita a sua volta la reciprocità non si dà, semplicemente non c’è, e non è in mio potere porla nel mondo. Ora è questa la nostra situazione e lo è da quando esiste una qualsiasi società: esistono gli sfruttatori e gli sfruttati, i signori e i servi, i padroni e gli schiavi, oggi come ieri. Natoli scrive: “Nessuna fatica è sprecata se produce bene. Certo, per molti il lavoro continua a essere una fatica, ma da esso si può ugualmente riuscire a trarre una soddisfazione se lo si vive nei termini di una “relazione altruistica” e non solo come una prestazione obbligata, spesso insoddisfacente”. Ecco, io questo purtroppo non riesco a condividerlo, anche se mi piacerebbe poterlo fare: non credo sia “bene” vivere un lavoro, nel caso questo dovesse appartenere, come molto spesso accade, alla catena dello sfruttamento, come “relazione altruistica”, perché ciò rischierebbe di anestetizzare l’insoddisfazione e di ammorbidire la risposta di opposizione e di lotta, e la volontà di cambiamento. Insomma alla nostra attuale situazione non si può opporre, io credo, l’economia del dono di cui parla Natoli, che rischia, contrariamente alle sue intenzioni, di essere una forma di pacificazione che non muta i rapporti socio-economici fondati sul profitto, mentre si può cercare forse di opporre una costantemente rinnovata consapevolezza di tali rapporti, sempre più aggiornata, precisa, gelida e spietata, faticosamente capace di mostrare alle coscienze intorpidite dal consumismo il mostro della disuguaglianza sociale.

E proprio al consumo come orizzonte valoriale del nostro tempo è dedicato il secondo interessante capitolo del libro, intitolato Homo oeconomicus: il denaro, la produzione, il consumo. Tutti gli esseri umani desiderano la felicità, ricorda Natoli con Aristotele: ma il denaro può dare la felicità? Il denaro come equivalente astratto delle merci, le quali oggi non contano tanto per il loro valore d’uso e nemmeno per il loro valore di scambio, quanto, nelle nostre società mediatizzate, postindustriali e postmoderne, per il loro valore simbolico, per quanto e come ci consentono di apparire sulla scena del mondo, di ottenere riconoscimento, consenso, di essere apprezzati, amati persino. Denaro quindi non è soltanto ricchezza come possesso di beni, è espressione di valore: del mio, del tuo valore, “perché – come recita una nota pubblicità – io valgo”. Da questo punto di vista il denaro, dice giustamente Natoli seguendo Simmel, è “codice di comunicazione”: “Crea aspettative, genera legami sociali, performa le psicologie, modella le esistenze”. Natoli descrive bene l’ambiguità della società del consumo, che da un lato sembra accrescere le nostre possibilità di scelta e la nastra capacità di “fruire del mondo”, dall’altro in realtà, attraverso meccanismi sofisticati di comunicazione, formatta i nostri desideri, modellizza i nostri gusti, eterodirige i nostri comportamenti di consumo. La nostra vita diventa un inseguire desideri che continuamente ci trascinano, costruiti per lasciarci continuamente insoddisfatti in un paradossale movimento statico, un “falso movimento”, un movimento che non porta da nessuna parte, se non ad avvinghiarsi sul proprio stesso desiderio. Natoli cita il Dialogo della moda e della morte di Leopardi per dire questa “psicologia del consumatore: desiderante, confuso, mutevole, che si disfa al più presto dell’oggetto del suo piacere per non patirne l’assuefazione e sperimentarne la vanità”. Il risultato è un aggiornamento del divertissement pascaliano: “Per evitare questa pena bisogna tenere occupata quanto più si può la vita, è necessario stare sempre in movimento: lavorare, dunque, per guadagnare, guadagnare per consumare sempre di più”. La soluzione indicata da Natoli proviene dalla filosofia di Spinoza, autore che mi pare stia alla base di tutto il libro. Spinoza scrive: “Poiché tutto ciò di cui l’uomo è causa efficiente, è necessariamente buono, nessun male, dunque, può accadere se non da parte di cause esterne”; da ciò Natoli trae: “Consumare, quindi, non è affatto un male, se si inscrive nel buon uso del mondo; lo diventa se ci asserve”. Perciò Natoli pensa alla figura di un “consumatore attivo”, di un “consumatore intelligente”, di un vero “primato del consumatore”, vero in quanto edificato a partire da un sapere, un “sapere delle cause”, e della nostra posizione nell’ordine delle cause, si potrebbe dire spinozianamente. Da un lato, credo, non si può non essere d’accordo con Natoli, e anche col suo richiamo all’ascesi intesa come esercizio, allenamento all’astinenza, come nella tradizione epicurea e stoica, che è al tempo stesso comprensione, sapere del mondo e di se stessi. Credo però si debba anche rilevare non soltanto che, ovviamente, questa è, e lo è espressamente e con tutta evidenza nell’epicureismo, nello stoicismo e in Spinoza, una posizione estremamente elitaria, ma soprattutto che l’odierna sofisticata complessità degli strumenti di persuasione di massa programma e costruisce l’apposita figura del “consumatore intelligente” come ibrido individuo-massa, che tanto più pensa di poter dominare il desiderio incarnato nel feticcio-merce (il feticcio: dominio del sensibile per mezzo del significato soprasensibile in esso incarnato: oggi il brand, la marca… come stile di vita: life-style, mind-style) tanto più ne è dominato.

A questo punto procediamo direttamente all’ultimo capitolo del libro (al quale Natoli giunge dopo aver discusso argomenti fondamentali: la virtù, la verità, la libertà…) che si intitola Democrazia e virtù civili. Natoli chiarisce innanzitutto cosa sia la “politica” e ne individua due sensi fondamentali, il primo classico, aristotelico, per il quale la politica “è quella pratica che permette agli uomini di cooperare insieme in vista del bene di tutti”, l’altro, che si impone soprattutto nella modernità, intende la politica come quella “potenza” che ha il compito di contenere la “pre-potenza”: politica è qui insieme di leggi adatte a contenere una violenza altrimenti naturale dell’uomo sull’altro uomo, concezione che deriva da un pessimismo antropologico di fondo che appare giustificato dall’esperienza. Questa seconda accezione di politica risulta però temperata, dice Natoli, dall’idea a essa complementare, di derivazione cristiana, che la intende come “reciproco servizio”, per cui sinteticamente abbiamo come risultato che la politica è un “esercizio del potere che però trova – o dovrebbe trovare – la sua ragione e la sua legittimità nell’esplicazione di un “servizio””. Ora la “democrazia” come forma della politica specifica l’essenza del “servizio”. Natoli riflette sul concetto di democrazia confrontandosi soprattutto con l’analisi di Schumpeter, per il quale la democrazia è in senso stretto un’invenzione moderna che consiste innanzitutto in un metodo per realizzare il bene comune: “ il metodo democratico è quell’insieme di accorgimenti istituzionali per giungere a decisioni politiche che realizza il bene comune permettendo allo stesso popolo di decidere attraverso l’elezione di singoli individui tenuti a riunirsi per esprimere la sua volontà”. Ora è chiaro che questa definizione tratta da Schumpeter non chiude bensì apre tutta una serie di problemi: la democrazia è intesa come rappresentanza, per cui singoli individui dovrebbero esprimere una comune volontà popolare, l’individuo sarebbe così espressione e incarnazione di una “volontà comune”. E’ ovvio che ci si trova di fronte a un’utopia, in quanto l’individuo è in realtà sempre portatore di interessi particolari, e l’idea di “volontà comune” è un’astrazione. Natoli studia con molta attenzione questo paradosso, calandolo nella situazione culturale contemporanea, determinata e quasi dominata dalla pervasività delle mediazioni comunicative, della televisione da un lato, di internet dall’altro, con l’enorme quantità di informazione incontrollabile e di occulta persuasione che tali dispositivi comportano e implementano. Si tratta di vere e proprie agenzie formative di massa che tendono a destrutturate e trasformare radicalmente il classico processo di costruzione della personalità attraverso la cultura (quello che i tedeschi chiamavano Bildung), che ha avuto certamente ancora nel corso di parte del Novecento il compito di formare la coscienza almeno dell’élite politica, ma che oggi sembra impossibile anche solo ricordare. Natoli mostra bene come la democrazia come sistema politico non si definisca attraverso la competizione delle élites secondo programmi tendenzialmente razionali, ma attraverso la competizione delle élites secondo capacità di manipolazione dei dispositivi, mezzi che coincidono con i messaggi tanto quanto i messaggi coincidono con i mezzi. Di fronte a questo, alla complessità sociale e alle emergenze della comunicazione contemporanea, non ci sono ovviamente ricette semplici per il ben essere democratico. Natoli ricorda giustamente che del resto “la democrazia procedurale – garanzia imprescindibile di ogni effettiva democrazia – di per sé non è sufficiente a evitare l’atomismo sociale: non riesce, per sé sola, a generare comunità . Capita allora di frequente che gli uomini si considerino reciprocamente come mezzi e reciprocamente si usino … Tuttavia, c’è chi ritiene che per diffonderla sia legittimo imporla, ma è improbabile che una democrazia possa essere imposta, casomai può essere fatta maturare, assecondata. Infatti, un potere diviene prepotente e perfino spietato non tanto quando è “normalmente” malvagio – per la naturale imperfezione degli uomini – ma quando si presenta con il volto del bene. Questo gli permette di arrogarsi il diritto di perpetrare qualsiasi delitto”. Dunque il potere politico, per essere servizio, per essere realmente democratico, dovrebbe in primo luogo limitare se stesso, la sua pretesa di assolutezza, di verità. Eppure il potere è gli uomini che lo esercitano. Si comprende allora l’esortazione conclusiva di Natoli, ancora sulla scorta di Spinoza: “contro la violenza bisogna far sbocciare la generosità, che come insegna Spinosa “è la cupidità (il desiderio consapevole) con cui ciascuno si sforza per il solo dettame della ragione di aiutare gli altri uomini e di riunirli in amicizia”. Certo, tutto ciò è molto bello, si potrebbe però ricordare che questo Spinosa lo scriveva nell’Etica, che era un libro destinato, per sua esplicita ammissione, a pochi, e non certo al popolo. Mi sembra allora che tutto sommato Natoli condivida l’idea fondamentale di Platone: bene sarebbe che i filosofi governassero, quei filosofi che attraverso l’esercizio ascetico e la meditazione hanno finalmente compreso che cosa voglia dire che “l’uomo è un Dio per l’altro uomo”

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