Salvatore Natoli presenta: Giovanna Procacci. Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale.

E’ un libro importante, bello, utile. Direi che, per un riferimento ai contesti culturali rispetto al tema che affronta, questo libro abbia dei risultati non minori di quelli che Foucoult ha raggiunto, con la differenza che qui c’è un modello di riferimento che è appunto Foucoult stesso.

E questo sin dall’esordio del libro, cioè quando la povertà emerge come questione specifica, come una serie di eventi che diventano tema di un governo.

L’attualità della problematica è data dal fatto che la povertà, lungi dall’essere sparita, è un problema sempre presente nelle nostre società,  per molti versi endemico. La Procacci dice: “una costante aciclica del sistema economico, come prova in modo paradossale il fatto che non abbia smesso di aumentare durante la forte crescita economica degli anni ‘80, governata sì, ma tutt’altro che sparita, anche se ha cambiato la fisionomia.

La questione della povertà è affrontata all’interno dell’ordine liberale e si considerano anche le contraddizioni che, come questione sociale, essa apre dentro l’ordine liberale e nel suo tentativo di ordinamento della società. La povertà diventa “questione sociale” quando diventa una questione rilevante nell’ordinamento della società. La politica della povertà, così intesa, è non meno importante della politica della ricchezza. Da questo punto di vista si inscrive in modo determinato dentro il capitolo della economia classica, che è la ricchezza delle nazioni. La povertà è un afttore della ricchezza delle nazioni. E’ quindi un problema rilevante della strutturazione della società.

Se la questione è posta in questi termini allora diventa un problema di inclusione dei poveri (la strategia della inclusione dei poveri nella cinta dei governati) e quindi si sottrae alle modalità con cui prima era stata trattata, cioè si sottrae alla sfera della carità e della repressione. In quanto sottoposta  a carità e repressione la povertà era considerata non come una questione dell’ordine sociale, ma una questione di margine dentro la società. Da questo punto di vista, dice la Procacci, la povertà come questione non è un oggetto naturale, ma è l’effetto di quelle pratiche con cui una società determinata tende a definire un campo di fenomeni come povertà.

Fin quando la povertà non è evocata, cioè finchè non si pensano delle strategie che la fanno emergere, è un fenomeno che c’è nella società, ma non si specifica in senso lato come povertà e, meno che mai, come governo della stessa.

Secondo la carità medioevale “I poveri sono in mezzo a voi”, ma non c’è un problema tematizzato del governo di questa forza,  perchè nel momento in cui la povertà diventa oggetto di strategie, diventa una forza sociale, un potenziale dentro la società.

Questo è un tema molto importante che si sviluppa soprattutto nella prima parte del libro. La questione sociale Foucault la fa risalire alla metà del XVIII secolo con la scomparsa delle terre comunali in Inghilterra ed essa già si configura come problema eminente e significativo che si stacca da un modo di concepire la povertà in termini di ospitalità e di internamento. La povertà prima era pensata in termini di ospitalità, di carità e faceva parte delle figure di internamento di cui Foucault parla nella storia della follia: i vagabondi venivano raccolti per ragioni di ordine pubblico, non solo per essere protetti, ma per proteggere la società da loro. E’ un tema che emergerà più avanti.

Questa figura caritatevole dell’assistenza non ha più significato perchè si risolve in un finanziamento pericoloso – dice la Procacci – che immobilizza la ricchezza. Bisogna valorizzare  la popolazione: da una dimensione periferica ed assistenziale delle masse povere bisogna passare ad una che ne veda una forza valorizzabile, una forza lavoro. Vista così la povertà non si configura più come  l’oggetto di una assistenza caritatevole, ma come un esercito di riserva. C’è una iniziale trasformazione dei poveri in proletari. La la figura del povero si disegna secondo due assi fondamentali in questa epoca: una deriva sempre più marginale (cioè il povero che tende sempre più alla delinquenza) e l’operaio in via di proletarizzazione. Quindi diciamo che la povertà è questa zona intermedia dove qualcuno discende – l’operaio che si proletarizza – e qualcuno si perverte – il misero che diventa delinquente.

E allora dove si colloca la povertà? Si colloca in quello spazio che sta in mezzo tra classi pericolose e classi laboriose. Il problema fondamentale è quello di fare in modo che i poveri accedano al diritto. Nel testo si legge: “I poveri, malgrado la loro miseria, non possono che essere uguali”. Qui si introduce una nozione molto importante, la nozione di naturalità. C’è una dimensione di uguaglianza naturale fra gli uomini. Una delle caratteristiche fondamentali della uguaglianza naturale tra gli uomini è data dal fatto che c’è una connessione stretta tra lavoro e ricchezza. E allora la miseria è un deficit dello sviluppo di queste capacità naturali dell’uomo, è una patologia, perchè dal punto di vista naturale non ci dovrebbe essere miseria.

In altri contesti questo era avvenuto in politica:  quella invenzione astratta e formale era  però operativamente forte per generare inclusione, perchè c’è un punto di vista minimo in base al quale tutti sono uguali. E quindi la povertà non è un fenomeno necessario alla società, ma una sua patologia, una distorsione perchè per natura non dovrebbe essere così.

Su questa base i diritti degli uomini – si dice a pag.35 – non si fondano sulla loro storia, ma sulla loro natura. Mentre la storia è occasionale, frutto di variabili, la natura no. Se c’è la povertà qualcosa della natura è stato distorto, non è stato sviluppato bene. E’ a partire da qui che si sviluppa la prima parte del libro “la povertà come questione sociale”.  L’ordine naturale diventa una categoria di inclusione massima e la miseria è la cifra dell’allontanamento dalla natura. Questo è anche  giocato in termini strettamente politici, perchè il fatto della miseria diventa un elemento di critica dell’assolutismo.

Il modello che si applica alla povertà è un modello fisiocratico (se noi lasciamo funzionare la natura come dovrebbe, la povertà non ci sarebbe), di  qui la connessione molto stretta tra lavoro, proprietà, ricchezza, consumo.  Notate un elemento importante: la connessione tra lavoro e proprietà configura  l’abolizione della miseria in termini di realizzazione degli individui. C’è questo nesso molto forte tra lavoro e proprietà e noi vedremo chiaramente che se si pensa all’abolizione della ricchezza nel senso di lasciare spazio alla individualità, proprio perchè pensata, così non riuscirà a risolvere il problema della povertà. Comunque questa connessione c’è: il  lavoro, la proprietà e la ricchezza. La ricchezza la dobbiamo pensare in termini molto specifici: la ricchezza è la possibilità di consumo che ha una società, da qui tutta la celebrazione del lusso. I poveri devono essere eliminati nel senso che devono essere trasformati in consumatori; se i poveri non sono trasformati in consumatori, inevitabilmente il modello della ricchezza delle nazioni fallisce. Ricordo che questa era una delle battaglie sindacali degli anni ‘80 quando ripartì la politica dei salari. La Federazione dei metalmeccanici diceva: “se non pagate gli operai chi consuma?,  per chi costruite le macchine?”.

Produzione, ricchezza, consumo: nasce  la dimensione del lavoro utile. Ci deve essere una coerenza tra produttori e consumatori, bisogna dare lavoro alla povertà. Il che comportava una critica al salario inteso come mera  sopravvivenza; la mera sopravvivenza avrebbe certamente ridotto il consumo. Questo sul piano politico rompeva l’alleanza fra la nobiltà e la miseria (perchè erano, da questo punto di vista, due dimensioni che si sostenevano nel fenomeno del parassitismo: la rendita accompagnava la povertà lasciandola durare endemicamente e sostenendola in termini di sopravvivenza). La dinamica invece lavoro-proprietà-consumo spezzava questa alleanza tra donatori e beneficiati.

L’economia politica partiva dall’assunto che si produce per consumare, e supponeva che ci potesse essere una proporzione tra produzione e consumo. Questa dimesnione tra produzione e consumo non era data perchè c’entrava in modo decisivo la variabile della popolazione e dello standard di consumi della popolazione. Non è detto che l’eccesso di produzione produca consumatori, perchè ci deve essere la mentalità e l’abitudine a consumare.

Viene introdotta una considerazione molto fine intorno a Malthus: il rapporto con il sottoconsumo. Se l’abitudine della maggioranza non è orientata al consumo (si parla di società scozzese), ma è abituata alla frugalità, non si vede come possa sostenere l’economia perchè non appartiene alla sua  logica. Se non si fanno uscire  i poveri da questo contesto, lungi dal produrre dei consumatori, destabilizziamo la società. Se non c’è un orientamento determinato al consumo, possiamo introdurre dinamiche viziose e pervertite dentro la società. Quindi se le abitudini della maggioranza della popolazione restano quelle attuali, la domanda rimarrà del tutto inadeguata ad assorbire i prodotti di una massa considerevole di capitali.

Questo punto di vista armonioso non può darsi a lungo. La povertà non può essere governata in termini di mera logica economica, perchè ciò sviluppa controfinalità. Secondo Malthus non c’è un equilibrio tra produzione e consumo. A fronte di questa posizione ce n’è un’altra, che diventa tema della riflessione di Sismondi, dove si parte dall’idea che il fine della società è quello di realizzare la felicità di tutti, ma questa felicità deve essere realizzata in tutte le condizioni. La considerazione che introduce Sismondi è che un tempo il produttore consumava quello che produceva e il sovrappiù entrava nello scambio; il tempo di lavoro del produttore era alternato in se stesso: c’era un tempo per produrre e un tempo per consumare. In una società dove c’è la divisione del lavoro questo non è più possibile, anzi non è più la stessa persona che lavora e si riposa, se c’è qualcuno che lavora, qualcun’altro che si riposa. Il che vuol dire che il lavoro ha un ciclo continuo e la distribuzione del non lavoro è distribuita in diverso modo tra le parti della popolazione. E allora le  condizioni non sono più eguali e quindi il bisogno cessa d’essere il regolatore della produzione. La produzione non è più regolata dal bisogno, è regolata dal profitto perchè i bisogni individuali non sono più la norma di questo progetto di felicitazione. La norma, il regolatore comune di questo, è il profitto e, quindi, lo scambio. Questo vuol dire che nonostante ci sia produzione, nonostante ci sia ricchezza la povertà resta, per molti versi è ineliminabile. Quindi la logica meramente economica non riesce a risolvere il problema della povertà.

A questo punto emerge una dimensione singolare che la Procacci chiama l’economia sociale, una cultura della povertà. Questa è una dimensione significativa e importante che porta il governo della povertà proprio al centro: si deve far risolvere il problema della povertà, che l’economia non può risolvere,  e lo si porta ad una sfera della società che non è, in senso stretto, neanche quella politica. Qui c’è una tensione molto forte, perchè la logica liberale dei diritti prevede che tutti accedano al diritto, ma pensa alla soluzione di questo problema in termini individuali, dinanzi a un fenomeno che è massimamente sociale e, quindi, non può essere risolto in termini individuali. Bisogna trovare un cuscinetto che freni l’impatto delle masse sulla politica, permettendo alla politica di mantenere una logica individuale; nello stesso tempo si tratta di neutralizzare questa spinta sociale della povertà ineliminabile. In questo caso è necessario un modo attraverso cui la società amministra la sua povertà, senza chiamare direttamente in causa la politica, trasformando in fenomeno paraeconomico e parapolitico quello della povertà. Questa è l’economia sociale. Essa rappresenta (pag.31) un nuovo modo di prendere in considerazione le questioni economiche,  privilegia l’analisi degli effetti propriamente sociali dell’economia. L’economia sociale nasce operando sugli effetti specifici dell’economia. L’economia sociale più che articolarsi per scuole manifesta sensibilità. Mentre in economia ci sono delle scuole ben definite, in posizioni anche controverse tra loro, in questo caso ci sono delle sensibilità, dove si possono individuare delle tendenze. Nel libro si dice che, dinanzi a questo problema della risoluzione della povertà, questa sfera intermedia, nè politica nè economica, serve ad evitare l’impatto diretto, la pressione: Le tendenze delle sensibilità: una socialista, l’altra cristiano-sociale, l’altra liberale e l’altra solidarista. Queste sensibilità occupano quell’area che Marx chiama della “economia volgare”: essa tende a risolvere i problemi economici non in una logica puramente economica. Marx  li critica perchè si mette da un  punto di vista di una logica economia che risolva il problema della povertà. Gli economisti volgari vogliono , invece, controllare la povertà, attutirla, ma non eliminarla. L’economia volgare si fa carico della povertà, ma la colloca nella sfera degli effetti della produzione, mentre il problema di Marx è di eliminare la povertà rendendo funzionale la produzione: una produzione che non crei i poveri.

L’economia sociale, scrive la Procacci, appare come una formazione discorsiva composita e si inscrive entro una triplice concettualizzazione: la filantropia, l’economia e la tradizione di polizia. L’asse della loro alleanza è rappresentato dall’elemento morale. Abbiamo una sorta di moralizzazione della povertà. Cosa vuol dire? Vuol dire che la povertà crea sostanzialmente malessere dentro la società. E qui c’è tutto il discorso del povero legato al pericoloso, all’aggressivo, al delinquente, anzi addirittura il povero è visto e considerato come l’energia naturale allo stato puro, non addomesticato dalle istituzioni.

Questa situazione ha caratteristiche di natura repressiva, ma anche una dimensione di moralizzazione della società: se  la miseria è veicolo dentro la società di malessere e di delinquenza, in un certo senso deve esere limitata. Così si comincia a definire dentro l’economia sociale quello che in senso moderno possiamo chiamare il “servizio sociale”. Notate: non nella logica del diritto, ma nella logica del servizio. La società deve essere risanata, placata. Nella logica del diritto invece la povertà dovrebbe essere eliminata. Qui la si assume come un fatto. L’economia sociale lavora dentro una realtà che è pericolosa. L’istanza è più di moralizzazione della società nel suo complesso, quindi di rendere innocua, meno melefica la povertà. Questa moralità è pensata in termini di scienza: il rapporto tra il fisico e il morale dell’uomo non ha caratteristiche etiche, ma ha caratteristiche scientifiche, nel senso che si parte dall’idea che la immoralità nasce da condizioni oggettive di disagio che bisogna risanare. E’ l’idea di una igienizzazione della società. C’è tutto un lavoro sul territorio per considerare gli ambienti dove vivono i poveri, come vivono: l’igiene anche dentro le fabbriche, il grado di pulizia degli ambienti di lavoro. Nell’800 si pensò al libretto di lavoro, una specie di anamnesi della vita lavorativa, allo stesso modo con cui si faceva una storia clinica della malattia. In questo caso la fabbrica comincia a sviluppare una dimensione di controllo interno di polizia. La  natura del controllo è poliziesca, ma senza l’intervento dello Stato: lo Stato delega a livello di organizzazione del lavoro il suo intervento di polizia. Questa igienizzazione ha anche un potere di orientamento, come in genere le polizie, perchè , come noto, le polizie non sono soltanto repressive, ma  hanno un potere di controllo elevato. La morale, insomma,  si presenta come forma di igienizzazione. Se volessimo parlare in termini contemporanei: meccanismo autoimmune di sviluppare capacità di difesa dalle sue aggressioni esterne, dai suoi fenomeni tossici. Questo esige di sviluppare sempre di più l’istanza del servizio. In questi termini come si definisce il problema della miseria? Non l’eliminazione delle disuguaglianze, ma l’attenuazione delle differenze. Si parte dal dato che la povertà non si toglierà mai dalla società e, a partire dal laboratorio della miseria, si prepara l’intero corpo sociale alla trasformazione dei costumi. La povertà è l’indice di ciò che la società non deve essere e, quindi, diventa un grande laboratorio conoscitivo delle patologie della società al fine di produrre nella società una forte integrazione.

Il triangolo che si viene a costruire è il nesso tra tutela, polizia e prevenzione. Tra le figure della moralizzazione della società fondamentale è la assistenza, che si colloca nello spazio “nè dono nè diritti”, con delle capacità autoorganizzative della società stessa. Il sapere dell’ordine sociale diventa il luogo proprio di questa moralizzazione. Sapere l’ordine a partire dal disordine e, quindi, produrre un ordine di società autoimmune, che costantemente dissineschi dentro di sè tutti i fattori che sono germi di distruzione e di corruzione. L’economia sociale è’ un nuovo soggettto posto a metà strada tra lo Stato e gli individui, capace di riassorbire nel suo registro di legittimità i disordini e le divisioni sociali. E’ una dimensione non politica che dissinesca il politicamente pericoloso.

Questo meccanismo finirà poi per impattare fortemente la politica, soprattutto nella seconda metà dell’800, quando maturerà un progetto liberale classico: siccome l’uomo è libero attraverso il lavoro e attraverso il lavoro produce proprietà, se noi vogliamo allargare davvero questo modello di diritti a tutti, dobbiamo mettere tutti nelle condizioni  di poter lavorare. Se lo Stato liberale non mette tutti nella condizione di poter lavorare, questo diritto rimane formale, ineseguito. Il problema della povertà, se si vede nella luce del diritto, impatta immediatamente la politica.  E allora vengono fuori tutte  questioni importanti: se il lavoro è il solo mezzo legittimo per assicurarsi la sopravvivenza,  allora non si può affidare alla sorte. Quando il diritto al lavoro diventa un’istanza di tutti, è necessario che ci sia un programma politico che tolga questa aleatorietà.

Nel libro ci sono molte considerazioni interessanti sull’apertura degli ateliers. Anche questi possono essere pensati nella doppia forma: è lo Stato che dà una forma di assitenza generalizzata (e quindi daremo un giudizio negativo), oppure è un modo attraverso cui davvero di crea lavoro per quelli che sono fuori dal lavoro? Questa è la questione.  Accanto alla dimensione del diritto al lavoro è connessa  strettamente quella del diritto all’assistenza. Una assistenza che non sempre è prodotta dallo Stato. Questo modello di economia sociale si perfeziona  in strutture e organizzazioni più articolate che sono le associazioni. La risposta alle istanze politiche non viene dallo Stato, lo Stato non è capace di allargare i diritti, però nella società si istituiscono istituzioni di forma parapolitica che disimpegnano questo. Quindi abbiamo lo svilupparsi grandissimo nel corso dell’800 e del ‘900 delle associazioni. La società, cioè, si associa con caratteristiche molto politiche, perchè queste sono pressioni sociali sullo Stato:  non è più la moralizzazione, sono organizzazioni che premono sullo Stato. In senso lato non sono associazioni operaie e la difesa delle forme di lavoro e  il modo di acquisire lavoro è anche un modo per regolare la povertà. Il sindacato era, da un lato, tutela, da un altro aveva una funzione contrattuale, ma il sindacato era anche un  cartello contro il crumiraggio, perchè altrimenti avrebbe avuto un esercito di riserva che avrebbe impoverito complessivamente tutta la base dei lavoratori. L’avversario non era solo il padrone, avversari erano tutti quelli che non si sindacalizzavano e di fatto facevano il gioco del padrone. La società si articola in queste formazioni. Vediamo come a questo punto il liberalismo mostra una sua strutturale, interna crisi, una sua contraddizione perchè non riesce a realizzare in concreto quella libertà degli individui che tematizza in astratto. Il problema della democrazia si formula inevitabilmente come inclusione delle masse. Quindi a fronte dell’allargamento vero e concreto dei diritti si sviluppa il tema del dovere del cittadino: tutti i cittadini hanno il dovere di ridistribuire la ricchezza dentro la società. Perchè il liberalismo diventi qualche cosa di concreto, cioè democrazia, perchè tutti abbiano accesso al lavoro, è necessario che non si pensi questo individualmente, perchè individualmente non si può risolvere il problema. Ci deve essere un dovere di tutti i cittadini nei confronti di tutti. Su questo si sivluppano poi le grandi lotte ottocentesche. Questi sono gli elementi strutturali sui quali si sviluppa la tematica fondamentale dello stato sociale moderno. Coinvolgimento di tuttala società con diverse responsabilità per una reale redistribuzione del diritto: quindi il problema della povertà diventa nel corso dell’800 e del 900 un problema fortemente politico.

Qui si pone la conclusione del libro: la povertà non è più, forse, una questione sociale. La storia del welfare ha davvero realizzato l’inclusione, ha davvero eliminato la povertà? Se il welfare si pensa come assistenza non è più sostenibile. Abbiamo i problemi realtivi al prolungamento dell’età media, ci sono dei problemi per cui questa dimensione dei doveri sociali deve essere ridefinita.

La cosa rilevante del libro è  come si definisce la povertà nella nostra società. Se la logica dell’esclusione si può pensare in termini unicamente di reddito –  visto che l’inclusione si è realizzata nella nostra società – oggi, quando si definisce la povertà, si definisce in termini diretti, si parla di soglia, soglia di povertà. Ma possiamo dire che il reddito sia sufficiente per definire l’ordine di esclusione o di inclusione? Nel senso che al di sotto di un certo reddito si può parlare di assistenza? I partiti conservatori dicono che al di sotto di un certo reddito si deve parlare di assistenza. Una parte interessante del libro dice che l’welfare americano è stato di questo tipo. L’America non ha mai avuto welfare, ma ha sostanzialmente assistito i drop out della società, non ha avuto welfare nel senso del diritto al lavoro come abbiamo detto prima.

Per esempio nella nostra società si può ragionare in termini di povertà se si pensa all’accesso che i soggetti hanno all’informazione o alla cultura come un bene fruibile che diventa anche un bene economico.  Qui è citato Sen, il quale, quando parla della felicità pubblica, definisce la felicità come una possibilità di avere nel carnet della propria vita non solo denaro, ma anche l’accesso ad altri tipi di realtà e di scambio. Noi abbiamo anche degli esclusi di questo tipo. Di fronte a questa dimensione ormai irrefutabile della articolazione della società in ampliamento dei diritti, e quindi una definizione delle compatibilità a livello alto, c’è invece un governo della società che, grosso modo, funziona come  un governo senza società, nel senso che si dà largo spazio alle cheances individuali. La povertà la si gestisce allocandola in ambienti di sopravvivenza.

Qui c’è una riflessione interessante: l’urbanizzazione della povertà, quelle che nel nostro linguaggio vengono dette le periferie. Il problema non è di far accedere tutti alla cittadinanza, ma di sostenere la povertà nelle periferie. Questo è un altro modo classico per placarla. Al cittadino che sta in quel luogo viene dato quel servizio: c’è un sostegno secondario e marginale che stabilizza la marginalità e non è, invece, un accesso generalizzato ai diritti. Se parliamo di luoghi possiamo parlare di urbanizzazione dentro la città, ma anche nello spazio mondo abbiamo dei luoghi dove si alloca la povertà e lì resta.

A conclusione la domanda che io pongo è questa: in una inclusione ampiamente avvenuta, qual è la natura dell’esclusione? Quali sono i parametri di riconosciblità dell’esclusione? Abbiamo visto come nel corso dell’800, quando il problema della povertà diventa politico, la politicizzazione della povertà dà ragione a Marx: le masse premono per entrare, in qualche modo scardinano e portano a casa risultati, nel momento in cui la povertà è localizzata ha più la possibilità di entrare, oppure la nostra società oramani ha cercato di neutralizzare  la povertà non togliendola, ma stabilizzando in essa delle sacche endemiche di miseria, che possono essere neutralizzate, ma non possono scardinare l’assetto del sistema, a maggioranza inclusa?

Questo è un problema che ci riguarda in modo particolare.

Risposte dell’autrice, Giovanna Procacci, alle domande poste.

Questo libro parla del governo delle povertà quindi affronta le pratiche di governo, che notoriamente non appartenevano al movimento operaio. Non affronta le resistenze, le culture, i contromovimenti, anche se nel libro c’è una forte presenza di questi movimenti, che sono quelli che creano le situazioni di conflitto e, quindi, amplificano la necessità di governare, di ammonistrare la questione. Non li tratto come attori principali delle pratiche che analizzo. Io avrei voluto fare una genealogia del capitalismo invece che a partire dalle sue politiche della ricchezza, a partire dal suo uso della povertà, dalla sua politica della povertà. Se non ci fosse movimeno e conflitto le cose potrebbero andare molto più tranquillamente. Da che cosa nasce il conflitto, il conflitto che impone la necessità di governare? Il conflitto di cui parlo nasce da questa divaricazione fra diritti, fra uguaglianza formale, giuridica tra i cittadini (tutta l’espansione e la costituzionalizzazione dei diritti di cittadinanza che appunto rendono  i poveri uguali) e, invece, il mondo delle uguaglianze o disuguaglianze positive, concrete, sostanziali, cioè di mezzi economici, sociali, culturali per vivere, sperimentare questa propria cittadinanza. Mi interessava vedere come questa divaricazione producesse anche intelligibilità politica, comprensione politica nuova, innovazione politica.

La cosa che ho scoperto, scrivendo il libro, è che la povertà è stata all’origine di molta innovazione politica nella nostra società. La nostra società oggi non sarebbe quella che è, se non avesse dovuto scontrarsi con un problema specifico di povertà. Nelle società liberali, in cui c’era egualitarismo giuridico formale, il problema della povertà rappresenta una contraddizione particolare in quanto apre problemi di diseguaglianza in un mondo di eguali. Questo è il punto. Conta o non conta questa uguaglianza quando dobbiamo avere a che fare con la disuguaglianza? Oppure diciamo che siamo tutti eguali, poi ce lo scordiamo e ci mettiamo a lavorare sulle disuguaglianze come se niente fosse? L’analisi che io ho fatto dice invece che quella uguaglianza conta e quindi il problema politico della gestione della povertà nel mondo moderno occidentale liberale è legata a questa contraddizione politica fondamentale. E’ da questo punto di vista che la povertà ha prodotto innovazione politica: non solo non erano esclusi, come i mendicanti, i vagabondi di prima, respinti ai margini della società, non solo erano cittadini, ma il problema che rappresentavano, cioè il problema  della disuguaglianza, era un un problema cruciale su cui costruire l’ordine sociale. Cruciale perchè era la disuguaglianza fra eguali. Bisognava cioè costruire un ordine sociale di tipo gerarchico che organizzasse bene le disuguaglianze a partire da premesse egualitarie. Questa è la contraddizione di fondo che rende il problema della povertà particolarmete denso di significato e capace di produrre innovazione politica. E mi sembra che questa innovazione non sia mancata. Questa innovazione io la colloco essenzialmente in una tensione politica fra modello liberale (quello dei diritti che si allargano, della uguaglianza giuridica) e  invece qualcosa che vagamente potremmo chiamare democrazia, comunque strategie di socializzazione del rischio, strategie di solidarietà sociale, strategie di costruzione di problemi collettivi, di problemi sociali, che è di tipo anti-individualistico. Quindi non è vero, come oggi si tenta di far passare nel modello neo-liberale, che il liberalismo ha prodotto per conto suo tutta una serie di strutture politiche, di istituzioni, di modi di pensare la politica che a noi oggi sembrano normali, abituali, ma che sono nate in chiave antiliberale. E’ storicamente provato: tutte le grandi leggi sociali che passano in Europa negli anni fra la fine del XIX secolo e i primi dieci anni del XX secolo nascono contro i liberali. In Francia, p.e. la discussione parlamentare sulle leggi per il risarcimento degli incidenti di lavoro si protrasse per 18 anni. A volte pensiamo che solo i nostri politici non riescono a fare le leggi in tempi brevi…..

Quindi sia politicamente (nel senso che c’è opposizione liberale) sia nei fondamenti, queste concezioni di tipo sociale hanno una origine fondamentalmente antiliberale. Il conflitto che io guardo è il conflitto tra questi due poli: uno di liberalizzazione, di emancipazione individuale, l’altro di socializzazione. Sono due poli in tensione fra di loro e naturalmente la realtà politica che mano mano ci si trova davanti è una realtà di compromesso, in cui si tratta di trovare delle forme compatibili. Non sto dicendo che il processo di costruzione sociale della risposta alla povertà ha avuto storicamente la capacità eversiva di far saltare il modello liberale, però ha sicuramente costretto il modello liberale a venire a patti con delle istituzioni, delle istanze politiche che mai si sarebbe sognato di produrre da solo o di accettare quando gli venissero proposte. Una fra queste, molto importante: il diritto sociale. Una persona ha questo diritto non in quanto individuo, ma in quanto appartenente a una categoria, a un gruppo, a una entità collettiva. Il diritto sociale all’assistenza nella situazione in cui uno cade in condizioni di povertà è un diritto sociale che stabilisce che l’assistenza è un diritto non è carita, quindi occorre individuare quali sono le strutture pubbliche, le risposte pubbliche di gestione. Uno per organizzare una risposta pubblica non può contare sul senso di carità. In termini di strutture pubbliche, di politiche pubbliche si tratta di sostituire un accesso a questa poitica non in termini di carità, ma in termini di diritto: io ho diritto ad essere assistito, come ho diritto al congedo per maternità ecc. Ho diritto soggettivamente, per me, ma questo diritto io lo ho soltanto in quanto in quel momento la mia condizione mi inscrive nel collettivo delle future madri. La società ha riconosciuto un valore sociale a tal punto da investirci pratiche, prezzi e diritti.  Allora vuol dire che il fondamento sulla base del quale io posso reclamare l’accesso a un servizio sociale, anche se  è un servizio che ricade su di me personalemente,  non è individuale. Quindi il diritto sociale è il risultato di un processso di socializzazione del diritto che la teoria liberale ha sempre tentato di rifiutare. Non a caso, adesso, in fase neoliberista, i diritti sociali sono sotto attacco. L’idea fondamentale del diritto liberale è che soggetto di un diritto è solo un individuo, in nome delle sue preregative individuali, del suo essere persona. Naturalemte poi questi diritti individuali cambiano in una società, a seconda delle fasi che si attraversano, però sono diritti individuali. Il diritto sociale introduce una rottura in questa logica individuale. Perchè introduce questa rottura? Perchè cerca di risolvere il problema politico di come trasformare, di come rendere indipendente la politica verso la povertà dalla carità. Perchè rendere indipendente la politica della povertà dalla carità? Perchè la carità è imprevedibile, è soggettiva, non ci si può fare affidamento, non si può costringere la gente ad essere caritatevole. Si può solo sperare che lo sia. E poi anche perchè la carità è un approccio di tipo individuale alla povertà. Su questo c’è stato un cambiamento fondamentale: perchè nascano delle politiche sociali che affrontano fra i temi politici la povertà (cosa che la società moderna industriale liberale ha avuto la necessità di fare da subito) è necessario costruire un programma collettivo globale della povertà, dire che la povertà ha delle condizioni sociali e quindi la soluzione della povertà può essere sociale. Questo è il grande passaggio: i mendicanti, i vagabondi, oggetto di carità e di repressione, erano sui margini della società, mentre i poveri moderni vengono inclusi, inglobati nell’ordine sociale, ma in più il povero moderno è un povero di massa. Tutte le descrizioni del XIX secolo descrivono il povero urbanizzato che non è mai solo, ma vive sempre in una situazione collettiva di povertà, nei quartieri poveri della città, intorno alle prime situazioni industriali. Il povero moderno è un povero massificato. E questo vuol dire che la povertà è costruita come una realtà collettiva e non più guardata in faccia, negli occhi di ogni povero, come rimane caratteristica del rapporto caritatevole che interviene a sollevare una condizione. Qua non si tratta di sollevare condizioni, non c’è umanità da questo punto di vista, c’è beneficenza pubblica.

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