La sinistra e Dossetti.

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Ritratto-Dossetti

La sinistra e Dossetti: “l’Unità” (1946-1951) A cura di Luigi Giorgi

Dopo aver affrontato e commentato gli interventi più importanti di Dossetti riportati da “Il Popolo”, la nostra attenzione si sposta ora sul rapporto tra la sinistra e il professore reggiano: confronto rivisitato attraverso gli articoli dei quotidiani e delle riviste del Pci e del Partito socialista, che aiutano a ripercorrere il difficile ed aspro dialogo tra i partiti della sinistra marxista e la vicenda e l’opera del politico democristiano.

Per un maggiore approfondimento rimando al mio La sinistra e Dossetti, “Bailamme” n. 28/5, gennaio – dicembre 2002, pp. 231-266.

Questa intervista al segretario del Pci  è sintomatica dei rapporti fra Dossetti e la sinistra italiana. Prima della rottura del “Tripartito” c’era da parte del partito comunista un forte interesse nei confronti del professore reggiano che si univa ad una profonda stima per il suo lavoro, soprattutto in sede costituzionale, dove Togliatti e Dossetti collaborarono nella prima sottocommissione. Dopo la rottura del governo fra i tre grandi partiti di massa, l’atteggiamento del Pci nei confronti di Dossetti mutò in maniera sostanziale. Il segretario del Pci scriverà, infatti, tempo dopo su “Rinascita” che, con riferimento al Congresso di Venezia, l’opposizione di Dossetti a De Gasperi era: «di tendenze nettamente fasciste e arriva al punto di ricalcare persino nelle parole le formule del fascismo (tutto il potere alla DC; corporativismo economico; anticomunismo)».

Intervista a Togliatti, “l’Unità”, 8 novembre 1946, ora in L Giorgi, Una vicenda politica. Giuseppe Dossetti 1945 – 1956, Scriptorium, Cernusco sul Naviglio 2003, p. 296 – 297.

Il compagno Togliatti ha concesso da un redattore del <<Nuovo Corriere>> di Firenze la seguente intervista

– Vuole ragguagliarci sullo stato dei lavori al quale si è giunti nella Commissione della Costituente cui Ella partecipa?
– A dire il vero la situazione si presenta al quanto confusa. Per quanto si riferisce a noi comunisti, però, già si presentano chiaramente almeno due punti di nostro dissenso fondamentale da altre correnti. Il primo riguarda l’organizzazioni della regione, il secondo la formazione della seconda Camera. Noi siamo favorevoli al decentramento regionale di una parte, anche grande, delle funzioni amministrative dello Stato: siamo però contrari, e decisamente contrari, a fare di ogni regioni una specie di staterello autonomo. L’unità politica d’Italia è un bene troppo grande ed è anche, diciamolo pure, una conquista troppo recente, perché noi possiamo consentire a metterla in forse per accontentare le manie di qualche dottrinario o le ambizioni di qualche gruppo di politicanti. La classe operaia è razionalmente unitari. Naturalmente, la più larga autonomia alla Sicilia ed alla Sardegna, per le ragioni storiche e politiche che tutti sanno. Quanto alla seconda Camera, noi l’accettiamo in principio, ma siamo contrari a che essa venga costituita in modo tale e le si diano poteri tali da farne una specie di freno antidemocratico e conservatore. La Democrazia italiana ha bisogno di essere stimolata, e non frenata,sulla via del progresso politico e sociale.

– Riguardo però alla determinazione degli indirizzi economici e sociali della Repubblica, non si è raggiunto l’accordo tra i rappresentati comunisti e quelli della D.C.?
Effettivamente nella prima sottocommissione, di cui faccio parte, e di cui fa parte un gruppo di deputati democristiani – alludo agli onorevoli La Pira, Dossetti, Moro – che più conseguentemente di altri mi pare interpretino il pensiero sociale cattolico, comunisti, socialisti e democristiani si sono senza difficoltà trovati d’accordo nell’affermare che il regime democratico italiano dovrà avere un contenuto sociale determinato. Vogliamo affermare nella Costituzione  alcuni diritti  della persona umana che vanno al di là di quelli puramente politici e formali dell’89 il diritto allo sviluppo e al perfezionamento della persona, il diritto al lavoro, al riposo, ecc. Naturalmente, questi diritti dovranno non solo essere affermati, ma garantiti; e per garantirli occorrerà indirizzare  in modo diverso la vita economica del paese. Ma è proprio qui che si presenta la necessità e la possibilità di una collaborazione tra le correnti di pensiero e d’ azione sociale progressive, cattoliche da un lato, laiche dall’altro. Noi lavoriamo per questa collaborazione. Da essa speriamo possa venire una democrazia veramente nuova.

– Che cosa pensa della progettata fusione e della progettata alleanza tra i liberali e i qualunquisti?
– Che cosa vuole che ne pensi? In Toscana avete un proverbio che dice : << Da Montelupo si vede Capraia: Il demonio li fa e poi li appaia >> Il demonio, in questo caso, sono i gruppi dirigenti antidemocratici della grande industria e della grande proprietà fondiaria. Liberali e qualunquisti ne esprimono, sebbene in forma ancora diversa, i propositi e le aspirazioni. Si fondano e alleino alla buon’ora; la cosa sarà pienamente logica. Ma non vengano poi a rompere le scatole a noi, quando sosteniamo che anche i partiti operai, cioè il socialista e il comunista, hanno il diritto e il dovere di unirsi e anche di fondersi, per creare un solo grande partito laico dei lavoratori italiani del braccio e della mente.

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L’ articolo di Reichlin preso in esame commentava il Congresso nazionale della DC, tenutosi a Venenzia. La sua attenzione si appuntava sul discorso di Dossetti, che veniva interpretato come un semplice puntello alle esigenze del governo e del Presidente del Consiglio: la “sinistra” dossettiana, in definitiva, si piegava, secondo il giornalista de “l’Unità” ai voleri della maggioranza del partito ricalcandone, addirittura, le posizioni politiche. Non veniva colto il profondo dissenso fra le posizioni del professore reggiano e quelle dello statista trentino, che avvolgevano un ampio panorama: dalla questione sociale alla necessità di un coordinato e preciso piano di interventi economico, fino allo stesso rapporto con le forze di sinistra e con lo schieramento di destra.

A.Reichlin, Un solo rappresentante della “sinistra” è entrato finora del Consiglio della d.c., “l’Unità”, p. 5, 5 giugno 1949, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica, cit. pp. 297 – 299.

Una tendenza si è rivelata improvvisamente al Congresso di Venezia, una corrente che non ha nulla a che fare con Dossetti, Gronchi, Iacini. Giordani e compagni; una tendenza numerosa ma che non si è coagulata, che non è arrivata a trovare una direzione propria, e che quindi ha finito col disperdersi.  E’ la corrente dei d. c. che ce l’ hanno con la << cricca >>.  Ce l’ hanno con la cricca dei ministri, dei deputati e dei dirigenti del partito.  E questo stato d’animo che fino a mezzogiorno di ieri il Congresso aveva cercato di soffocare come una vergogna in famiglia, si è scoperto senza ritegno nella notte di ieri e nel piccolo colpo di scena relativo alla composizione del Consiglio nazionale di cui abbiamo parlato. Subito dopo quel voto la <<crisi>> che si era andata determinando in seno al Congresso è entrata in una fase nuova. I delegati, abbandonati al loro destino (lo stesso Dossetti non aveva avuto il coraggio di trasformare la disputa sullo statuto in una decisiva battaglia politica e, anzi, aveva tentato di gettare acqua sul fuoco), sono stati assaliti da una specie di rimorso, misto a paura  e delusione. E stamattina, quando siamo arrivati al Palazzo del Cinema, si parlava già nei corridoi di un piano preparato durante la notte dalla Direzione per rovesciare la situazione. Le prime ore sono trascorse nell’indifferenza e nella noia e già i congressisti sembravano aver ripreso un po’ di coraggio, tanto da impedire al povero On. Monterisi di parlare contro la riforma dei contratti agrari, quando improvvisamente l’On.le Piccioni, si è presentato alla tribuna. Di scatto sono stati accesi nell’aula potenti riflettori che dopo aver vagato un attimo sulla faccia dei delegati, si sono incrociati sull’On. De Gasperi che in quell’attimo aveva fatto il suo ingresso sul palcoscenico. E’ scoppiato l’applauso. L’atmosfera è mutata. Su questa breccia l’On. Piccioni si è buttato con tutto il suo peso <<Amici – egli ha detto – considero questa prima fase dei lavori congressuali come scarsamente soddisfacente >>. Con tono di arroganza Piccioni ha sfidato i capi dell’opposizione a mostrare la faccia e a prendere apertamente posizione. Sfruttando con grande abilità e senza scrupoli la delusione di quella parte dei congressisti che conserva qualche legame con la <<base>> per il mancato intervento dei dossettiani nella battaglia della sera prima. Piccioni è riuscito a distogliere lo stato d’animo di confuso risentimento del Congresso dalla Direzione e a indirizzarlo verso Dossetti e Gronchi, che egli ha accusato – fra gli applausi generali – di pescare nel torbido. Per il resto Piccioni non si è differenziato da Cappi se non per un ancora più accentuato anticomunismo e per una violenza sanfedista che ha scosso la platea ed impaurito gli oppositori. Subito dopo il discorso di Piccioni sono cominciate le votazioni per l’elezione dei consiglieri nazionali. Il Congresso si è così trasferito nei corridoi, mentre nell’aula è cominciata la parta finale organizzata dai registi della Direzione. Essa consiste nel far sfilare alla tribuna i ministri d.c. – Pella, Segni e Fanfani nel pomeriggio di oggi; Gonella e Vanoni e forse Scelba, domani – i quali imbottiscono i crani dei congressisti con l’apologia della loro opera <<ispirata alla idealità della dottrina cristiana >>. Abbiamo chiesto ai rappresentati della <<sinistra>> che cosa si ripromettessero di fare per ridar vita al Congresso prima della sua chiusura ufficiale. << Niente – ci hanno risposto – noi non ci batteremo in sede assemblea. Una nostra sortita in campo aperto anche se ci procurasse gli applausi di molti congressisti, indurrebbe la Direzione a stringere i freni ed a premere – attraverso i dirigenti provinciali e i parlamentari che essa controlla – sui delegati perchè  tutti i nostri candidati vengano esclusi dal Consiglio nazionale >>. La linea di condotta della << sinistra >> d.c. al Congresso sta tutta in questo ragionamento che rivela una mentalità ed un costume politico nettamente opportunistici. In realtà il discorso che Dossetti si è deciso a fare in serata non può essere dispiaciuto a De Gasperi. Lo ispiratore di <<Cronache Sociali>> ha identificato infatti la linea d’azione che la sua corrente indica alla D.C. dopo il 18 apri!e con una frase di De Gasperi: << Fino a quando non riusciremo a liberare parte notevole della classe operaia dal comunismo, la nostra battaglia non sarà finita >>. Ma come fare ? Dossetti ha spiegato al Congresso che fino a quando la classe lavoratrice non verrà inserita attivamente nello Stato – in uno Stato democratico, completamente diverso dal passato – il comunismo continuerà ad avanzare. Per un attimo (anche per colpa di un confuso accenno dell’oratore all’unità di tutti i lavoratori) è aleggiato fra i delegati sgomenti e allibiti lo spettro del Tripartito. Ma si trattava di un equivoco. <<Amici – ha urlato Dossetti agitandosi come un ossesso – questo significa mutare forse mutare la formula di Governo, stendere la mano, illudersi, tormentarsi di fronte al pericolo comunista ? No, amici! >>. Che cosa significa allora ? Lo si è capito molto bene dopo, quando Dossetti, sollecitando gli istinti peggiori dell’assemblea ha criticato il governo per la sua <<tolleranza>>, la sua <<timidezza>>, i suoi <<complessi di inferiorità >> verso le altre forze politiche, si è messo verbalmente a sinistra del governo sul piano sociale, ma ben più a destra sul piano politico. Tutto ciò – siamo sicuri – servirà molto bene a De Gasperi nel suo discorso di domani (che concluderà il Congresso) per ripetere ancora una volta di fronte al Paese e agli altri partiti  il gioco del <<moderatore>> e del <<centrista>>, dell’uomo di Stato insomma il quale mosso dagli interessi generali della Nazione si pone al di sopra del suo stesso partito e difende la libertà di tutti i cittadini. Accenniamo appena al discorso di Gronchi. Quest’uomo per certi aspetti di notevole statura – si è presentato al Congresso di Venezia con i miseri resti di quella vasta base costituita da sindacalisti, vecchi  popolari i di sinistra o parlamentari che, fino a un anno fa lo sosteneva. Tradito anche da Rapelli, Ravaioli, Tambroni e Del Bo, il Presidente della Camera si è confuso nella lista << La Via >> che non raggruppa alcuna tendenza definita e si collega vagamente al centro-sinistra. Gronchi ha polemizzato amaramente ma pacatamente con Dossetti e con la Direzione del partito, qualificandosi ancora come un uomo rimasto sulla linea dell’ ala progressista del vecchio Partito Popolare. Poco prima aveva parlato il ministro del Lavoro Fanfani, il quale ha piattamente elogiato la propria opera e, dopo aver affermato che è pronta e sta per essere presentata al Parlamento una legge antisindacale, ha annunciato la sua adesione alla corrente di Dossetti. L’annuncio non ha destato nessuna impressione. Pochi minuti prima erano stati resi noti i risultati dell’elezione dei primi 21 membri del Consiglio nazionale (quelli che rappresenteranno le regioni): soltanto uno è della corrente di Dossetti tutti gli altri appartengono alla lista ufficiale della Direzione del partito. Se il voto di stasera è – come sembra – indicativo, la giornata di domani, in cui verranno eletti gli altri 50 membri del Consiglio, non ci riserverà alcuna sorpresa. Segnaliamo a puro titolo di curiosità un lungo colloquio che si è svolto stanotte in una camera della pensione Pannonia tra Scelba e Dossetti.

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Questo è uno dei primi commenti che il quotidiano del Pci fece sulla scelta di Dossetti di abbandonare la Dc. Tale decisione era ritenuta non un semplice affare personale ma un preciso atto politico. “l’Unità” non perdeva l’occasione però per attaccare l’inconsistenza e la debolezza della stessa “corrente” dossettiana”, che era stata omogeneizzata alla volontà della maggioranza del partito. Era forse una reazione determinata dalla delusione corrispondente alla  speranza che Dossetti e il suo gruppo potessero aprire una breccia nella Dc così da intavolare un dialogo proficuo con le forze della sinistra. Tale desiderio, però, con questa decisione del professore reggiano sembrava andare definitivamente perduto.

Il capo della sinistra democristiana abbandona per protesta le cariche di partito, “l’Unità”, 9 ottobre 1951, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica, cit. pp. 299-300.

Una notizia clamorosa, destinata ad avere larghe ripercussioni politiche, ha caratterizzato il terzo giorno dei lavori del Consiglio Nazionale democristiano. L’on. Giuseppe Dossetti, il più noto esponente della cosiddetta corrente <<di sinistra>>, in una lettera inviata all’on. De Gasperi, ha annunciato le proprie dimissioni dalla Direzione e dal Consiglio Nazionale della D.C. Le voci di un abbandono della vita politica attiva da parte dell’on Dossetti trovano così piena conferma. Le dimissioni sono motivate dal fatto che la D.C., nella sua azione di partito e di governo, é venuta meno agli impegni politici, economici e sociali che erano stati assunti da De Gasperi e dai suoi nel Consiglio Nazionale di Grottaferrata. Ciò dimostra tra l’altro, secondo l’on. Dossetti, che il gruppo dominante nella D.C. ha proceduto ad accentrare arbitrariamente nelle proprie mani tutto il potere, soffocando le istanze e le possibilità dl azione delle correnti. Si prevede che il gesto di Dossetti troverà solidali altri esponenti della <<sinistra>> come gli on.li La Pira, Lazzati, ecc. La notizia ha suscitato immediatamente vivi commenti. Il tentativo dei portavoce ufficiali di limitare l’avvenimento ad un e caso di coscienza personale di Dossetti non ha trovato rispondenza. Il fatto sembra in realtà l’espressione di un turbamento molto largo esistente non solo nella DC ma in vastissimi strati e ambienti cattolici: crisi di incertezza e di disagio per la politica generale seguita dal governo cattolico dell’on. De Gasperi. Si ricorda la posizione di riserbo e di resistenza che i dossettiani opposero all’epoca dell’adesione del Governo al Patto Atlantico, posizione che venne abbandonata solo quando le gerarchie ufficiali del Vaticano e il Papa stesso si pronunciarono in senso favorevole al Patto. Del resto le stesse reazioni <<sociali>> addotte ora dai dossettiani per spiegare le proprie dimissioni si collegano direttamente alla politica estera seguita dal governo, e agli impegni di riarmo, i quali hanno dato un colpo mortale a tutti i vantati programmi e <<sociali>>degasperiani. Il gesto del massimo esponente della <<sinistra>> d.c in questo particolare momento politico, non può quindi non assumere un significato assai profondo e preciso. Ma è anche chiaro come ci ai trovi dl fronte od una, prova del fallimento o dell’incapacità politica di questa corrente la quale, partita con tentazioni battagliere, forte dl numerosi appoggi, e con una << base >> discretamente larga a disposizione nel partito, ha finito col farsi assorbire dal gruppo dominante (vedi il caso Fanfani) e poi col ritirarsi dalla scena (Dossetti). Intanto il Consiglio Nazionale della D.C. ha proseguito i suoi lavori in un clima sempre più accentuato di << unione sacra >>, ossia proprio nel clima preferito e vo1uto dai degasperiani. Dopo la sparata anticostituzionale e antidemocratica del segretario Gonella (secondo notizie di stampa sarebbe intenzione del governo varare anche << norme miranti a punire la propaganda sovversiva e antinazionale tra le forze armate e il villipendio delle istituzioni democratiche >> ), i discorsi più interessanti delle ultime due giornate sono stati quelli di Gronchi, Piccioni, Rapelli e Fanfani. Sia Piccioni che Fanfani, insistendo sul carattere pre-elettorale di questo Consiglio, hanno battuto sulla necessità di mettere a tacere i contrasti interni per orientare tutta l’attività in senso esclusivamente anticomunista; Rapelli, con un intervento più degasperiano di De Gasperi ha posto la propria candidatura (di cui si parla con insistenza) alla direzione della CISL, al posto dell’on. Pastore che sarebbe in disgrazia. I lavori del Consiglio Nazionale sono stati chiusi dall’on. Gonella, con un nuovo discorso in cui le tentazioni reazionarie e illiberali sono ancora più scoperte e marcate che non nella relazione di apertura. Gonella ha insistito perchè i gruppi parlamentari d.c. puntino soprattutto sulla sollecita approvazione delle varie leggi sulla << difesa civile >>, contro le libertà sindacali contro la libertà di stampa contro le occupazioni di terre contro la difesa delle fabbriche, tutte leggi che – secondo i1 segretario della D.C. – dovrebbero << garantire le istituzioni democratiche >>.  Infine Gonella ha confermato per febbraio la convocazione del Congresso nazionale della D.C. Sono stati poi eletti sei nuovi membri della Direzione democristiana in sostituzione dei quattro chiamati a incarichi di partito e dei dimissionari Dossetti e Berlanda; gli eletti sono l’on. Alessi, ex presidente del- la regione siciliana, e cinque figure di secondo piano: Barbi, Orcalli, Sangalli, Dal Falco, Branzi. Il dibattito alla Camera sulla politica estera del governo e sul viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti riprende stamane a Montecitorio. Il discorso più atteso è, naturalmente quello di Togliatti. Oltre a lui sono ancora iscritti a parlare gli on.li Gonella, Covelli, Clerici, Giannini: per cui si dubita se la discussione sarà conclusa entro stasera o se piuttosto la risposta di De Gasperi non dovrà essere rimandata a domani mattina. Alla vigilia della conclusione del dibattito, e quindi del voto, la situazione più confusa è quella che si registra in campo socialdemocratico. E’ noto come un membro del PSSIIS, l’on. Giavi, sia uno dei tre firmatari (assieme agli on.li Giuseppe Nitti e Donati) del1’o.d.g. presentano alla Camera, che reclama una politica di distensione di pace e di ragionevole limitazione del riarmo. L’adesione di Giavi a questo o.d.g. è stata violentemente attaccata dalla destra socialdemocratica e dal giornale << La Giustizia>> che chiede esplicitamente l’espulsione del deputato dal PSSIIS. Si attende ora il discorso di Saragat per sapere come voteranno i socialdemocratici o per lo meno per sapere quale sia l’orientamento ufficiale della direzione.

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“l’Unità” commentava di nuovo, dopo lo scritto del giorno precedente, le dimissioni di Dossetti dalla Dc, e precisamente la lettera inviata al Consiglio Nazionale del partito l’8 ottobre del 1951. Nell’interpretazione della missiva dossettiana si coglievano, da parte del quotidiano comunista, alcuni grumi importanti di verità, anche se veniva calcata un po’ troppo la mano nei giudizi generali, indotti con ogni probabilità dall’aspro scontro politico – ideologico di quegli anni. Colpisce comunque come non si rinunciasse a  portare anche una stilettata nei confronti di tutta l’opera dossettiana, che si era arresa, per il quotidiano del Pci, ai voleri di De Gasperi.

Dossetti nella sua lettera di dimissioni denuncia l’involuzione antipolare della DC, “l’Unità”, 10 ottobre 1951, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica, cit. pp. 300 – 302.

Le dimissioni dell’ on. Dossetti dalle cariche politiche che rivestiva nel partito democristiano clamorosamente annunciato nel corso del recente consiglio nazionale, si sono rapidamente venute precisando nel loro significato e nella loro portata. La tesi del << caso personale >> e del << desiderio di dedicarsi ai prediletti studi di diritto canonico >> prontamente prospettate dai gruppi democristiani maggioranza, sono rapidamente tramontate. Le dimissioni del deputato di Reggio Emilia coincidono con la fine di qualsiasi attività politica organizzata della corrente della <<sinistra regolare>>. Infatti è stato annunciato che la rivista che esprimeva le istanze politiche dei dossettiani, Cronache Sociali, cesserà le pubblicazioni o uscirà con un nuovo titolo e con diverso orientamento, e che i vari membri di questa ex – corrente si considereranno da ora in poi liberi di comportarsi come meglio credono. Sul contenuto della lettera con cui Dossetti ha annunciato a De Gasperi le sue dimissioni si apprendono però intanto interessanti indiscrezioni. Nella sua lettera l’ex leader della <<sinistra>> dichiara esplicitamente che la D.C. dopo le ultime evoluzioni, non ha più la possibilità di essere uno <<strumento rinnovatore della vita politica e sociale del paese >>. Inoltre Dossetti accusa il gruppo degasperiano di <<salazarismo>>, cioè di aver effettuato una identificazione tra partito, gruppo parlamentare e governo, e di aver lasciato al presidente del consiglio poteri autocratici e piena libertà di azione. La lettera accusa in pratica la D.C. di essere divenuta uno strumento della conservazione: la linea di politica estera seguita dal governo ha finito col dare via libera allo interno alle forze reazionarie, le quali si sentono ormai pienamente appoggiate dal governo stesso. Mentre l’organo ufficiale della D.C. Il Popolo, non ha dedicato ieri neanche una parola alle dimissioni di Dossetti, il giornale del prof. Gedda Il Quotidiano, ha pubblicato un commento che è da ritenersi il più interessante e il più indicativo tra quanti hanno visto ieri la luce. Il portavoce della corrente più reazionaria e filofacsita dell’Azione Cattolica scrive a chiare note non solo che la corrente dossettiana  <<si era sfaldata o affievolita nella sua azione o era stata convogliata nella grande corrente che ora si chiama di centro sinistra e che in sostanza fa capo a De Gasperi e Gonella >>; ma afferma addirittura  che <<  il clima creato dalla nuova situazione internazionale e interna e dall’affiatamento che va creandosi  sempre più stretto fra partito, gruppi e parlamentari  e governo rende sempre  meno efficienti e quindi sempre meno utili – anche per quel tanto di utilità che possono avere – le correnti, le tendenze, i gruppi più o meno organizzati >>. <<Dimettendosi dalle cariche, cioè ritirandosi >> aggiunge Il Quotidiano, << Dossetti dichiara in certo modo di riconoscere la situazione di sostanziale compattezza del partito e di rispettarla >>.Con questo, il giornale dell’estrema destra dell’Azione Cattolica esprime da un lato, la sua attuale solidarietà con il gruppo dominante in seno alla D.C e la sua adesione alla politica estera atlantica e alla politica interna antipopolare che esso attua; e, dall’altro lato, viene ad appoggiare l’autoritarismo del medesimo gruppo in seno alla D.C., con la conseguente condanna non solo dei dossettiani, ma in genere di tutte le correnti. L’involuzione reazionaria dei dirigenti d.c. viene così confermata; ed è davvero difficile affermare che questo fatto, come ha scritto Il Corriere della Sera, << assicuri compattezza alla D.C>>. Si può dire, caso mai, che la D. C troverà qualche nuovo appoggio a destra, specie in vista della prossime amministrative nel Mezzogiorno: ma questo processo non può non provocare nuovi turbamenti e nuovi sbandamenti in seno a larghe masse cattoliche gravitanti attorno alla Democrazia Cristiana e all’A.C. Oggetto di molti commenti continua ad essere il <<suicidio politico >> dell’on. Dossetti e dei suoi amici i quali – con tutta evidenza – hanno pietosamente e clamorosamente ceduto alle autorevoli pressioni che li invitavano a non discutere più in alcun modo l’azione di partito e di governo dei degasperiani. Da parte sua la corrente gronchiana di Politica Sociale intende presentare quanto prima una << dichiarazione – manifesto >>, che dovrebbe essere firmata da una ventina di deputati. La dichiarazione si pronuncerebbe per un’interpretazione restrittiva e non oltranzista del Patto Atlantico. Questa corrente critica in particolare l’entrata di Grecia e Turchia nel Patto Atlantico. Queste notizie confermano come i contrasti e le esibizioni nel partito di maggioranza, lungi dall’essere stati sanati dall’ultimo Consiglio Nazionale e dal clima per –elettorale che Gonella e Piccioni hanno tentato di suscitare, si vadano invece allargando e approfondendo. In correlazione con l’ultima fase del dibattito di politica estera alla Camera, i vari gruppi parlamentari sono andati presentando gli ordini del giorno sui quali l’assemblea dovrà pronunciarsi. Oltre all’o.d.g. Donati – Giavi – Giuseppe Nitti e all’o.d.g Paietta – Mazzali, che riportiamo in altra parte del giornale, ne è stato annunciato un altro da parte del gruppo democristiano. Su quest’ultimo il governo intenderebbe porre la questione di fiducia, richiedendo la votazione per appello nominale. E’ attesa però una dichiarazione di voto dell’on. Giordani nella quale quest’ultimo, pur non ponendosi in contrasto con l’o.d.g ufficiale dei d.c., inviterà De Gasperi a promuovere qualche iniziativa a favore del mantenimento della pace e ad aderire a qualsiasi proposta del genere proveniente da altre parti. Anche i socialdemocratici hanno presentato un loro o.d.g firmato da Zagari. Pur riaffermando la  <<necessità>> per l’Italia  di <<far parte del sistema di sicurezza occidentale >>, lo o.d.g Zagari contiene affermazioni non prive di novità, data la parte da cui provengono. <<Pur avendo dato il governo la preventiva autorizzazione  al riarmo della Germania occidentale >>, il documento del PSSIIS invita il governo stesso << a riconsiderare il problema qualora si manifesti una possibilità concreta  di riunificazione di una Germania  democratica, la cui neutralizzazione possa porsi come pegno per la pacificazione e il graduale disarmo del mondo >>. Dopo alcune enunciazioni di carattere sociale, l’ o.d.g Zagari invita anche il governo << a sostenere tutte le iniziative seriamente fondate che sono rivolte alla distensione dei rapporti internazionali e al consolidamento della pace >> (e qui c’è un’eco evidente della mozione Giavi ); infine si esprime la preoccupazione per le conseguenze di <<uno sforzo per il riarmo che abbassasse ulteriormente il livello di vita delle classi più povere >>. L’Esecutivo del PSSIIS si riunirà questo pomeriggio ed esaminerà tra l’altro il cosiddetto <<caso Giavi>>.

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La sinistra e Dossetti: “Avanti!” (1946-1951) A cura di Luigi Giorgi

Il dicembre del 1946 registrò la mozione di sfiducia “Dossetti – Lazzati” presentata durante il Consiglio nazionale del partito (9 –15 dicembre 1946). L’articolo qui riportato apparve sull’ “Avanti!” il 15 dicembre dello stesso anno. In questo scritto si commentava positivamente la “sortita” della sinistra democristiana. Ciò rappresentava, secondo il quotidiano socialista, un momento importante, foriero di ulteriori sviluppi nel campo delle alleanze politiche e in grado di dare vita ad un’azione riformatrice più vasta e socialmente più qualificata. Occorreva però anche uno sforzo dello stesso fronte delle sinistre “marxiste”, in modo da costruire un proficuo rapporto con la “nuova sinistra” della DC, basato su reciproche garanzie, su un nuovo atteggiamento e su una diversa elaborazione e percezione del socialismo stesso.

p. em., Una sinistra democristiana, “Avanti!”, 15 dicembre 1946. Documento pubblicato su “Bailamme”, n. 28, gennaio – dicembre 2002, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica. Giuseppe Dossetti 1945 – 1956, Scriptorium, Cernusco sul naviglio 2003, p. 303 – 304.

Il travaglio attuale dei partiti riflette il travaglio del Paese lo sforzo cioè di superare la crisi attuale o riconducendo la situazione alla misura borghese del 25 luglio 1943, secondo i piani delle destre oppure facendo un nuovo passo innanzi, secondo è nella nostra volontà (sic). Il 2 giugno ha chiuso un periodo e ne ha aperto uno nuovo.Quelli che sono in gestazione sono i fronti su cui si combatterà la nuova battaglia di contenuto, stavolta, più sociale che politico. Sotto questo aspetto il fatto politico più importante, dopo il nostro prossimo Congresso di Roma, resterà, io credo, l’improvvisa affermazione politica della sinistra democristiana. Che ci fosse ognuno lo sapeva, dove fosse non appariva chiaro. Il suo promotore, avv. Ravaioli, era un poco ai margini della Democrazia cristiana, nè si poteva individuare la sinistra nell’on. Gronchi, che è piuttosto il centro sinistro del suo partito come De Gasperi, per temperamento ed abitudine mentale, ne è il centro – destro. Ora proprio in questi giorni nel corso delle riunioni romane del Consiglio Nazionale della Democrazia cristiana, per la prima volta la sinistra ha parlato. Forse il motivo che l’ha spinta alla ribalta è stata la iniziativa politica del conte Jacini, forse più dello stesso al tripartito è valso l’attacco all’unità sindacale provocare la sua affermazione. Fatto sta che con la mozione Dossetti-Fanfani il Consiglio Nazionale della Democrazia cristiana ha visto spuntare la sinistra. E’ un fatto importante, è un fatto suscettibile di larghi sviluppi e che noi dobbiamo considerare come un elemento positivo della presente maturazione di un vasto schieramento popolare. Ci si intenda bene. Noi non abbiamo motivo alcuno di augurarci una scissione della Democrazia cristiana, ma abbiamo mille ed una ragione per augurarci che nel seno del partito cattolico l’ala sinistra si affermi e vinca, in rappresentanza di forze sociali obiettivamente di sinistra – operai ed operaie, contadini, impiegati – le quali sono rimaste finora, per motivi e terrori confessionali schiavi delle destre. Naturalmente in politica non ci si può accontentare di desiderare qualcosa, ma occorre lavorare in modo da facilitare l’avvento della cose che si desiderano.Noi desideriamo una sinistra cattolica con la quale divenga concretamente possibile affrontare i problemi sociali della nostra epoca e politici del potere ai lavoratori. A sua volta la sinistra cattolica ha il diritto di desiderare una sinistra laica, che non turbi la pace religiosa. Questa infatti non è l’ora di fare le pulci ai preti nel campo teologico o ideologico in genere, ma è quella cui la sorte della democrazia si decide con la riforma agraria e la riforma sociale. Una sinistra di lavoratori cattolici decisa a battersi per la terra ai contadini e per la nazionalizzazione e la socializzazione dell’industria monopolistica, deve sapere che essa non rischia di trovarsi domani minacciata o insultata nella sua fede e nell’esercizio della sua fede. Una sinistra cattolica decisa a colpire al tronco le radici del fascismo le radici della conservazione sociale (che sono tutt’uno) deve sapere che lavorando in questa direzione coi socialisti e coi comunisti non rischia di trovarsi imprigionata domani in uno Stato totalitario, suscitatore di una religione di Stato da contrapporre alla religione dei nostri padri. Su questo punto non devono esistere equivoci. Il nostro materialismo marxista comporta un certo giudizio sulle religioni, al quale non rinunciamo, ma non comporta la persecuzione religiosa e neppure l’intolleranza religiosa. Il nostro laicismo è al contrario tolleranza, rispetto della libertà della coscienza rispetto alla libertà del pensiero, per i cattolici e naturalmente anche per noi. Il nostro laicismo è affermazione concreta della separazione delle funzioni dello Stato e della Chiesa non turpiloquio contro la Chiesa. E’ solo quando la religione si muta in braccio spirituale della tirannia, dell’oppressione e dello sfruttamento che noi abbiamo qualcosa d adire. Ma è proprio il momento quello in cui hanno qualcosa da dire tutti gli autentici cristiani. Un’altra garanzia che noi dobbiamo dare alla sinistra cattolica, perché essa possa sinceramente e ardentemente lavorare con noi sul piano sindacale, è che non ci incamminiamo verso un sindacalismo di Stato o un totalitarismo politico di Stato, ma che la nozione di conquista del potere si accompagna alla vigile tutela di tutte le forme di vita autonoma degli individui e delle categorie, di iniziativa dal basso, di autogoverno. Si può dire che il socialismo sta nell’affermazione dell’inno turatiano << Il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà >> altrimenti detto che l’emancipazione ha da essere l’opera dei lavoratori stessi. E’ con questa prospettiva che conviene salutare la prima affermazione di una sinistra democristiana.

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Il quotidiano socialista, a pochi giorni dall’inizio del congresso democristiano di Napoli, dimostrava ancora un vivo interesse nei confronti della corrente “dossettiana”. Essa era percepita  come la parte della DC che con più decisione si contrapponeva, nell’elaborazione e nell’azione, alla maggioranza “degasperiana” del partito e che operava, inoltre, per condurre la Democrazie Cristiana lontano da chi lo spingeva verso lidi di lotta “antipopolare”.

A. Corona, La sinistra democristiana, “Avanti !”, 4 ottobre 1947. Documento pubblicato su “Bailamme”, n. 28, gennaio – dicembre 2002, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica, cit. pp. 304 – 305.

I democristiani non ammettono volentieri che nel loro partito si ripresenti la divisione tradizionale dl tutti gli organismi politici, e specialmente di quelli a carattere composito, o interclassista come essi amano dire. E  in realtà sarebbe difficile negare che il partito cattolico non si sia mostrato finora so-stanzialmente compatto di fronte alle sue decisioni. Il cemento esterno, rappresentato dal vincolo con-fessionale, ha sempre finito col prevalere sulle istanze di natura più schiettamente politica. Ma è un fatto tuttavia che questa divisione esiste, e che la Democrazia cristiana non sfugge alla logica della sua composizione. Esiste una deriva dichiarata, conservatrice e spesso nettamente reazionaria, che non fa mistero delle sue intenzioni e non ha pudore nell’esporre i suoi programmi. Finora anzi l’unica che abbia preso apertamente posizione, ed anche la unica che sia riuscita ad imporre al partito le sue soluzioni Anche quando non le riuscì di strappare l’adesione ufficiale alle proprie tesi, il predominio intrinseco e gli appoggi le permisero di rifarsi largamente sul comportamento pratico del partito. Quanto successe in merito al problema istituzionale ha il valore di un esempio tipico: la sinistra repub- blicana  ottenne  la vittoria al Congresso di Roma dello scorso anno ma sarebbe certamente difficile dire dire che  l’azione pratica della Democrazia cristiana nel suo complesso e nei suoi addentellati si sia  poi svolta nella campagna  per il <<referendum>> ~ in conformità di quel deliberato. Quanto agli sviluppi successivi, c’è solo da osservare che il conte Jacini, <<leader della destra >>, predicava a tutti i venti nel ‘46 e prima del ‘46 ciò che l’on. De Gasperi ha fatto solo nel ‘47. Che ci sia un centro, è altrettanto incontrovertibile. Esiste come raggruppamento politico, ed esiste nei suoi inconfondibili tratti fisionomici, come tendenza al compromesso e al trasformismo. La figura del <<leader>> del partito ne è l’incarnazione tipica. Distinto da lui come posizione personale, ma sostanzialmente identico come azione politica finisce per essere l’on. Gronchi. E come tutti i centri, con Gronchi o con De Gasperi anche quello democratico cristiano ha sempre finito col fare il gioco della destra. Esiste infine una sinistra. Parlarne oggi, da parte nostra, mentre è in corso un dibattito parlamentare sulle sorti del Governo democristiano, può apparire ovviamente interessato. Ma ciò che di questa sinistra ci interessa di più, non è farci illusioni sui suoi voti, ma prendere atto delle sue idee. Finora, la sinistra democristiana ha sempre mostrato nei confronti delle altre correnti una spiccata timidezza. Timidezza particolarmente spiccata in quella parte della sinistra, che si rifà ai motivi popolareschi del vecchio partito popolare, ed ha i suoi esponenti in quella generazione. La debolezza di atteggiamento è qui chiaramente conseguenza della inattualità e della scarsa validità intrinseca di quei motivi. Un più vivo fermento ideale si ritrova invece nella sinistra della nuova generazione, quella comunemente detta <<dei professori>>. Essa non ha nascosto le sue perplessità di fronte alla svolta politica della Democrazia Cristiana, come non nasconde le sue critiche all’indirizzo generale del partito. Già al tempo della formazione del quarto Governo De Gasperi si lessero su <<Cronache Sociali>>, che è l’organo della tendenza, delle esplicite riserve sulle possibilità del ministero democristiano di uscire dalla stretta delle forze conservatrici di cui aveva cercato lo abbraccio per ottenere la maggioranza parlamentare. <<Politica d’oggi >, espressione della vecchia sinistra, giustificava la crisi con la speranza e l’illusione, di padroneggiare queste forze, più potenti nel Paese di quanto lo siano a Montecitorio. Attualmente, essa fa blocco con la direzione, anche se quella s’è dimostrata nei fatti illusoria. Il bilancio di <<Cronache Sociali>> è assai più significativo, ed ha un valore di ammonimento per tutto il partito. Esse constatano apertamente il fallimento di una esperienza che pretendeva di riuscire a mantenersi neutrale fra le forze in gioco, e contano come estrema speranza su una iniziativa che sganci la Democrazia cristiana da quanti, fuori e dentro si essa, la spingono sul terreno della lotta antipopolare. E’ un saggio avviso, che la giovane sinistra democristiana dà all’on. De Gasperi e a tutto il suo partito. In quale misura essi ne terranno conto, si vedrà dai prossimi sviluppi e dal prossimo Congresso.

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L’ “Avanti !” commentava la lotta sullo Statuto che si era consumata durante il Congresso nazionale della DC di Napoli, mostrando un occhio di riguardo per la battaglia combattuta da Dossetti. Era “contestato” però, anche se con discrezione e moderazione, il fatto che lo stesso esponente della “sinistra” DC non aveva approfittato di quel confronto semplicemente procedurale per trasformarlo in uno scontro “politico”, in grado di portare un cambiamento nella strategia e nella direzione del partito.

E. Rossi, Disperati tentativi della sinistra di sfuggire al soffocamento, “Avanti !”, 19 novembre 1947, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica, cit. pp. 305 – 307.

Mentre non era ancora spenta l’eco del discorso di De Gasperi, la regia del Congresso organizzava un piccolo colpo di stato, che avrebbe potuto avere, senza la reazione dell’assemblea, conseguenze drastiche per quel minimo di democrazia interna che nel partito cattolico ancora sopravvive. Improvvisamente, in piena catalessi congressuale per i <<problemi del lavoro>> delibati dallo spirito della Rerum novarum  e del codice di Malines dall’ on Taviani, nei fumi dell’ebbrezza <<meridionalista>> provocata dalla vesuviana retorica dei paglietta clericali l’on. Tambroni, valletto della direzione, proponeva che il Congresso deliberasse l’allargamento dell’ eligendo consiglio nazionale da trentadue a cinquanta membri. Quale l’origine della proposta? Nella notte le salette del San Carlo erano rimaste illuminate. Nutrite e spesso violente discussioni si erano svolte fra elementi della direzione uscente e l’on. Dossetti, esponente della sinistra. Si trattava di concordare una linea per l’elezione del consiglio nazionale, garantendo alla sinistra un certo numero di posti. Ma avendo la direzione dovuto riconoscere che i rispettivi schieramenti nelle assemblee consentivano ai seguaci di Dossetti una rappresentanza abbastanza forte nel consiglio nazionale, l’accordo non si poteva raggiungere. La presentazione pura e semplice di liste separate, mentre non salvava la direzione dai pericoli che essa temeva, avrebbe certamente dato luogo ad una discussione del Congresso, a tutto favore della sinistra. Allora l’on. Piccioni faceva presentare la proposta di allargamento del consiglio che modificava sostanzialmente lo statuto all’articolo 69. Questo numero, dunque, stava per mettere, s potrebbe dire in posizione orizzontale la corrente di sinistra. Infatti con la presentazione di liste separate la direzione aveva messo in moto tutti i propri fedeli dall’on. Dominedò agli <<ascari>> della periferia ed ai sacerdoti presenti fra i delegati. Cosi si sarebbe votato in definitiva su una serie di liste somiglianti, contro una unica lista di sinistra. Evidentemente avrebbe avuto la maggioranza la lista della direzione, la quale, con l’allargamento del consiglio si assicurava l’ingresso di nuovi elementi di destra necessari per neutralizzare completamente i pochi <<sinistri>> che fossero riusciti  essere eletti. L’azione, in sostanza, coincideva col piano generale di strozzamento del Congresso. Lo stesso ordine del giorno, per cui la discussione politica è stata separata dalla discussione tecnica sui problemi sociali e del Mezzogiorno, è la direttiva generale di questo piano. D’altra parte, l’elusiva relazione Piccioni aveva un solo punto preciso: la richiesta al congresso di dare al partito una struttura più centralizzata, a cui appunto mirava il tentativo di eliminazione della sinistra. La manovra era però fatta abilmente cadere da Dossetti, il quale ha ancora una volta dovuto rilevare come il <<leone >> Ravaioli si sia fatto ammaestrare anche in questa occasione dalla tendenza Piccioni. Infine quest’ultimo, intervenendo nella discussione che ha occupato tutto il pomeriggio, cercava di influenzare il congresso con la sua autorità. La sua figura, poco simpatica ai più, esasperava l’ostilità dei delegati che a grandissima maggioranza respingevano la proposta della direzione. Le liste dei candidati al consiglio nazionale verranno presentate fino a domani mattina alle nove e nella giornata si voterà. E’ quindi da immaginarsi il formicolare di candidature e di candidati attorno agli esponenti più influenti. L’on. Dominedò, che è il capolista del partito dei pretendenti, subì un collasso quando un congressista propose che nessun membro del consiglio nazionale avrebbe potuto, alle prossime elezioni, essere presentato come deputato. Certo la sinistra poteva, obiettivamente, profittare della questione apparentemente di procedura per sferrare un attacco che, data l’atmosfera, avrebbe avuto notevoli risultati. Ma non ha voluto fare il tentativo (senza che per ora si debba attribuire il fatto a quel che ieri chiamavamo la <<destrificazione delle sinistre democristiane >>), anche perchè la sua manovra interna sembra volersi basare sul rafforzamento del Partito. Se la sinistra fosse certa delle posizioni che acquisterà si potrebbe dire che non ha torto.  L’interesse della direzione alla proposta Tambroni era, d’altra parte da collegarsi ai contatti che si stavano svolgendo nei corridoi del congresso tra Dossetti i sindacalisti e Gronchi per la formazione di una lista comune e la presentazione della mozione finale. Sembra, tuttavia che difficoltà per la mozione siano sorte quando Gronchi insisteva pérche fosse munita di una premessa contenente un’apertura del governo e del Partito verso le sinistre. Ciò, ad opinione della maggioranza di coloro che partecipavano a queste trattative, metterebbe, dopo il discorso De Gasperi, in difficoltà il governo. I lavori sono continuati anche in seduta notturna. essi riprendevano infatti alle ore 22 per l’esaurimento della discussione tecnica sulla relazione Taviani. I lavori hanno occupato buona parte della notte, e si è continuato a discutere sui problemi del lavoro e del mezzogiorno d’Italia. Al solito, molta demagogia e poco costrutto.

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Il riferimento di questo articolo è il CN della Democrazia Cristiana tenutosi a Grottaferrata dal 29 giugno al 3 luglio del 1951. In quella riunione lo scontro fra le correnti si accese subito: sul banco degli imputati furono messi i dossettiani accusati di essere voluti entrare nella Direzione senza però fornire poi a questa un leale e convinto appoggio. Dossetti giocò, in quella occasione, la sua ultima partita nel tentativo di ottenere una nuova compagine governativa in grado di seguire e portare avanti la politica riformistica di cui il Paese aveva bisogno, e che in parte aveva già avuto inizio (nel maggio del ’50 si erano presi i primi provvedimenti per la Calabria e nel luglio dello stesso anno si era approvata la “Legge stralcio”). Ma la linea Pella rappresentava per De Gasperi un valico insormontabile, la guerra di Corea consigliava inoltre, al grosso del partito, di gestire le riforme più che ampliarle in direzione di una loro migliore incidenza sulla realtà sociale ed economica della Penisola.

F. Gerardi, La sostituzione dei ministri Sforza e Pella chiesta da Dossetti al Consiglio Nazionale DC, “Avanti !”, 3 luglio 1951, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica, cit. pp.  307 – 308.

Tre giorni non sono stati sufficienti al Consiglio Nazionale della Democrazia cristiana per concludere i suoi lavori; questi sono pertanto proseguiti per tutta la giornata di oggi e la conclusione è stata rimandata a domani. Sempre domani si avrà l’intervento fiale di De Gasperi. La <<cortina di ferro>> che per quattro giorni ha isolato i consiglieri democristiani nel convento francescano di Grottaferrata, non ha impedito il diffondersi di una ricca messe di notizie che pongono in una luce del tutto diversa il troppo ottimismo dei rari comunicati ufficiali. Così, mentre questi ultimi informavano brevemente sulla concordia di tutti i consiglieri e sulla comune volontà di aderire al piano programmatico dell’on. De Gasperi, si è appreso che proprio nella mattinata di oggi la lotta è entrata nel più vivo con l’intervento dell’on. Dossetti, capo della corrente di sinistra del partito, il quale ha chiesto in termini espliciti la sostituzione dei ministri Sforza e Pella. L’intervento dell’on. Dossetti va ricollegato ad un interessante particolare, solo ora  diffusosi, sulla seduta di sabato scorso. In questa seduta il deputato dossettiano Lazzati aveva affermato che il regresso elettorale della Democrazia cristiana era da imputarsi esclusivamente alla politica dell’on. De Gasperi. Questo aveva allora replicato vivacemente che l’insuccesso era invece da attribuirsi all’ostruzionismo operato dai dossettiani all’interno del partito e che, al contrario, se tale insuccesso non aveva raggiunto proporzioni ben più gravi, il merito era proprio suo, cioè dello stesso on. De Gasperi al quale il popolo aveva dato un vero e proprio <<mandato di fiducia>>. Ricollegandosi a questo episodio l’on. Dossetti ha questa mattina affermato che una simile interpretazione dei fatti verrebbe a togliere ogni possibilità di collaborazione fra la sinistra e le altre correnti. Oltre a tutto, secondo l’on. Dossetti, le parole dell’on. De Gasperi dimostrano che non è la sinistra a rifiutare la collaborazione ma è lo stesso Presidente del Consiglio a renderla impossibile poiché, con una simile impostazione, egli mostra di desiderare non certo dei collaboratori, ma di togliere di mezzo i critici. L’on. Dossetti ha concluso affermando che la sua collaborazione si poteva avere solo su una base politica, mutando la politica estera e la politica economica e gli attuali titolari dei relativi dicasteri. Dossetti ha chiesto una politica estera di maggiore fermezza e dignità nei confronti dell’America e una politica economica che promuova forti investimenti sociali. Da notare che Dossetti ha precisato i nomi dei due ministri, anche per evitare di coinvolgere De Gasperi nel suo attacco, e rendere così possibile un accordo. L’on. Dossetti ha anche annunciato che avrebbe precisato le sue richieste in un ordine del giorno. A Dossetti ha per primo replicato l’on. De Gasperi, il quale ha cercato di sminuire l’importanza della sua boriosa risposta all’on. Lazzati e quindi, per la parte economica, l’on. Pella. Questi ha prima ricordato i propri meriti nel combattere la minacciata inflazione dopo la svalutazione della sterlina dopo lo scoppio della guerra in Corea, e si è poi lamentato della generale mancanza di responsabilità sia da parte dei suoi << troppi accusatori >> che da parte dei propri difensori. Pella, come al solito, si è quindi mostrato ottimista sul futuro e ha preannunziato per l’ottobre forti ribassi sui prezzi all’ingrosso. In merito alla data sulla crisi di Governo, nulla di nuovo è venuto dal Consiglio della Democrazia cristiana. E’ pertanto probabile che qualora il Consiglio raggiunga un accordo sulla formazione della data e sulla futura azione di Governo, anche i riottosi dei gruppi parlamentari democristiani si assoggetteranno da attendere lo autunno. Se invece il Consiglio non raggiungerà un accordo fra le varie correnti si può prevedere che la lotta si rinnoverà in seno ai gruppi parlamentari. Intanto l’on. Latanza del gruppo dei <<vespisti >>, ha comunicato ai giornali di dimettersi dal partito per <<dissensi politici >>. Per quanto riguarda la politica, così violentemente criticata dall’on. Dossetti nella persona del ministro repubblicano Sforza, l’organo ufficiale del Partito repubblicano italiano avanzava già oggi una risposta alle critiche dossettiano, affermando che tali critiche nascono da una concezione <<pomposa e teatrale>> della politica estera. Sul medesimo tema la Voce repubblicana pubblica un lungo quanto inutile articolo di risposta all’editoriale del segretario del Partito socialista italiano, pubblicato domenica dall’ Avanti ! al segretario del nostro Partito che aveva posto l’esigenza di rovesciare l’attuale <<tendenza>> interpretativa del Patto atlantico, dando cioè al Patto un seno di limitazione invece che di estensione, la Voce repubblicana replica confermando a parole la natura difensiva del Patto stesso, ma smentendola poi con i fatti, poiché afferma che gli episodi di Augusta, Livorno e Napoli, dove sono stati impiantati comandi e basi militari americane, inutilmente chiamati con termini meno evidenti, rientrano nella <<logica della forza contro l’aggressore >>. In tale <<logica>> potrebbe evidentemente rientrare tutto, anche una guerra <<preventiva>>. Nel quadro dell’intera giornata occorre segnalare la riunione degli esponenti liberali dissidenti con il segretario del Partito liberale italiano, avvocato Villabruna. Sembra che domani i vari gruppi elaboreranno un manifesto programmatico sulla base del quale si dovrebbe raggiungere la riunificazione. La stampa governativa ha cercato ad ogni modo di manovrare l’episodio delle dimissioni dal Partito liberale dell’on. Corbino al fine di mettere il bastone fra le ruote della riunificazione liberale che dovrebbe accentuare il carattere antigovernativo del partito. Negli ambienti del Partito liberale italiano il fatto ha suscitato vivaci proteste. Si ricorda fra l’altro che proprio l’on. Corbino, nemmeno dieci giorni fa si mostrava un acceso antigovernativo e che il suo radicale mutamento di opinione ha coinciso proprio con l’indebolimento della posizione del ministro del Tesono, on. Pella. Si ricorda anche che nel ’46 lo stesso Corbino rischiò la espulsione dal partito per aver accettato un incarico ministeriale senza prima aver ricevuto la autorizzazione dal partito. Negli stessi ambienti si smentisce anche che il Consiglio nazionale che si riunirà il 14 prossimo possa decidere la convocazione del congresso del partito liberale (come dovrebbe anche fare la socialdemocrazia) per esaminare l’opportunità di un ritorno al Governo.

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In questo articolo il giornale del Partito socialista  commentava le dimissioni di Dossetti dalla DC. Il giudizio in merito collimava in buona parte con quello dell’altro grande quotidiano della sinistra, “l’Unità”. Interessante è però notare alcune valutazioni, come il peso dato, nella decisione del parlamentare emiliano, alla politica estera ed alle presunte, velleità “autoritarie” di De Gasperi, che intendevano “riassumere” il partito nel governo. Da notare che il quotidiano del Psi non si lasciava andare a commenti di sorta sulla presunta sconfitta, o omogeneizzazione subita dai dossettiani.

F. Gerardi, Dossetti accusa la direzione d. c. di essere uno strumento della reazione, “Avanti !”, 10 ottobre 1951, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica,cit. pp. 308 – 309.

La notizia delle dimissioni dell’on. Dossetti è stata oggi per tutta la giornata centro dei commenti degli ambienti politici. Il gesto del capo della più qualificata corrente di opposizione interna della D.C. viene concordemente giudicato un punto di arrivo nel processo di involuzione antidemocratico del partito dl maggioranza, dove evidentemente non estate più la possibilità di esercitare una libera critica. Significativo a questo proposito il fatto che alle dimissioni dell’on. Dossetti si accompagna anche la soppressione della rivista cattolica Cronache Sociali che, sebbene considerata come la pubblicazione ufficiale della corrente dossettiana, aveva per altro raccolto ripetute volte scritti di deputati e di autori cattolici estranei alla corrente stessa. Ridicoli appaiono così i commenti della stampa governativa che cercando di minimizzare al massimo il <<caso Dossetti>> pretendono di interpretare le dimissioni del deputato reggiano come il simbolo di una riconquistata unità del partito. Del resto lo stesso on. Dossetti ha specificato, nella lettera al Presidente del Consiglio, le ragioni delle sue dimensioni << La situazione alla quale è giunta la D.C. – scrive l’on. Dossetti – esclude che essa possa ormai essere <<strumento>> rinnovatore della vita politica e sociale del Paese >>. Secondo Dossetti, la D.C. è ormai solo uno strumento della conservazione: causa principale di questa involuzione è la politica estera del Governo, che ha finito per risvegliare le forze reazionarie che ormai sono da essa appoggiate incondizionatamente. Per ciò che riguarda la struttura interna del partito, l’on. Dossetti ha accusato di autoritarismo la Direzione degasperiana che in realtà ha posto il partito a disposizione del Governo, mentre il rapporto avrebbe dovuto esattamente l’opposto; cioè proprio al partito sarebbe spettato il compito di stimolare e indirizzare l’azione del Governo.  Le dimissioni dell’ on. Dossetti non sono però destinate a rimanere un fatto isolato nella vita del partito democristiano. Non tutti i parlamentari democristiani appaiono infatti disposti a rinunciare a ogni loro prerogativa per ridursi a una semplice <<macchina per votare>>, secondo l’espressione adoperata da un deputato democristiano. Si annuncia già, da parte degli aderenti alla corrente gronchiana di <<Politica Sociale>>, la prossima pubblicazione di una <<dichiarazione manifesto >>nella quale figurerà una ferma posizione in favore di una interpretazione restrittiva, anzichè oltranzista, del Patto atlantico. Nel gruppo gronchiano, a quanto si apprende avrebbe anche suscitato sfavorevole impressione l’apporto dato dall’on. Da Gasperi, nella sua qualità di ministro degli Esteri, alla inclusione della Grecia e della Turchia nel Patto atlantico. Secondo il gruppo gronchiano, tale iniziativa americana è destinata ad aggravare il pericolo di un immane conflitto mondiale. E’ infine annunciato, nel corso dell’ attuale dibattito parlamentare di politica estera, una dichiarazione di voto dell’on. Giordani, il quale si preoccuperebbe di far partire dal gruppo democristiano sia pure a titolo personale, una voce favorevole a tutte le iniziative di pace, da qualsiasi parte esse vengano. Come è noto, in questo senso, esiste già un o.d.g. pacifista presentato dagli onorevoli Donati, Glavi, Giuseppe Nitti; negli ambienti governativi si dà però già per certo che il Presidente del Consiglio respingerà tale o.d.g. che pure è in sostanza la ripetizione di un o.d.g. accettato mesi fa dal Governo, per non mostrare all’America che il voto di fiducia raccolto nell’attuale dibattito è condizionato all’ attuazione di una politica estera diversa da quella concordata a Ottawa e a Washington, dove si è parlato di tutto fuorchè dl pace. La votazione sul dibattito dl politica estera attualmente in corso avverrà pertanto su un o.d.g. dell’on. Bettiol e Amadeo presidenti del gruppo parlamentare d.c. e repubblicano, o.d.g. che si limita ad approvare incondizionatamente i risultati degli accordi di Ottawa e di Washington.

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La sinistra e Dossetti: “Rinascita” (1949-1950) A cura di Luigi Giorgi

In questo scritto, apparso su “Rinascita” nel giugno 1949, si affrontavano e si analizzavano i risultati del Congresso della DC a Venezia. Il suo autore, Pietro Ingrao, tracciava il quadro di un partito ripiegato su se stesso nella difesa di un’identità essenzialmente conservatrice e anticomunista. In questo esame della Democrazia Cristiana non mancavano pesanti stoccate nei confronti della «sinistra» democristiana. La componente vicina a Dossetti, nello specifico, veniva attaccata come presunto puntello “integralista” del “regime” degasperiano. Il professore reggiano, definito “riformatore vaticanesco”, era accusato di velleitarismo in campo sociale e di ambizione politica legata ad interessi personalistici.

Pietro Ingrao, Verso il totalitarismo clericale, documento pubblicato su “Bailamme” n. 28, autunno 2002, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica. G. Dossetti 1945 – 1956, Scriptorium, Cernusco sul Naviglio 2003, pp. 310 – 315.

Un giudizio sul recente congresso della Democrazia cristiana, svoltosi a Venezia tra il 2 e il 5 giugno suppone una concisa informazione sugli schieramenti esistenti in quel partito e un richiamo alla situazione generale del Paese alla apertura del congresso stesso. Alla vigilia del congresso la direzione del Partito democratico cristiano, la direzione del governo e dei gruppi parlamentari, i posti chiave dei ministeri e degli enti, da cui si controlla la vita del Paese, apparivano tutti solidamente nelle mani di un gruppo di uomini politici, palesemente omogeneo per provenienza politica, per mentalità, per legami e tradizioni a cui si mostrano obbedienti: De Gasperi, Piccioni, Scelba, Cappi, Cingolani, Gonella, con l’appendice di alcuni «nuovi arrivati » quali Taviani, Andreotti, Pella, ecc. E’ questa la cosiddetta corrente « maggioritaria » per larghissima parte composta da vecchi quadri del partito sturziano, che fanno pesare la loro passata esperienza amministrativa, la ostentata capacità di intrigo parlamentare, la consuetudine delle lotte politiche e la non smentita investitura del Vaticano. Sino a oggi e stata questi corrente o meglio questa congrega che ha esercitato il monopolio delle cariche, ha determinato l’indirizzo generale; e chi ha voluto – clericale o non – partecipare alla spartizione delle prebende ha dovuto sinora passare sotto quelle forche caudine: corrente maggioritaria, perciò, prima di tutto per l’influenza determinante che essa esercita nel partito. Questa corrente si autodefinisce il « centro »; ma qui la definizione appare dubbia: esistono infatti delle forze che nel partito d. c. si collochino a destra di questi uomini, esiste una destra democristiana ? Certamente esiste nella Democrazia cristiana un’ala numerosa, che rappresenta direttamente la parte più retriva dell’agraria italiana e che va da figure del tipo di Reggio d’Aci al marchese Rivera. Altrettanto certo è però che essa ha perduto largamente in caratterizzazione giusto da quel dicembre 1946 in cui De Gasperi decise la rottura del « tripartito » : da quel giorno la destra democristiana è divenuta assai meno distinguibile, semplicemente perche’ tutto il gruppo dirigente della Democrazia cristiana ha accettato esso di spostarsi a destra ; Scelba è andato molto più in là della linea politica che proponeva un Jacini. Questa destra infatti non ha sentito nessun bisogno, alla vigilia del congresso e durante il congresso, di differenziarsi in modo particolare dai De Gasperi, dai Piccioni, dai Pella. Vi è stata invece, se pure confinata nelle riviste specializzate e in giornali di scarsa tiratura, una polemica da parte della cosiddetta sinistra. Qui si presentavano due gruppi: l’uno che faceva capo a Gronchi, venuto alla luce nell’ autunno  ’48 al Convegno di Pesaro, composto da sindacalisti di sinistra (Rapelli),da uomini che, avevano condotto la battaglia repubblicana al congresso di Roma, (Ravaioli, Tambroni, ecc.), da giovani intellettuali venuti da poco al partito (De Bo); è un gruppo il  quale si è sfaldato alla vigilia del congresso, spaventato dai fulmini dei « maggioritari » e del Vaticano, assorbito in parte dalla manovra corruttrice di De Gasperi, lasciando praticamente solo Gronchi. L’altro gruppo è quello che fa capo a Cronache Sociali: il gruppo dei <<professorini>> della Università del Sacro Cuore, dal Dossetti a La Pira, a Fanfani, a Malvestiti, a Lazzati; gruppo per gran parte nuovo al partito, composto di intellettuali formatisi nell’Azione Cattolica, ispirati a una sociologia di chiara marca corporativa. Essi si definiscono di sinistra, ma tengono a differenziarsi dalla sinistra tradizionale democristiana, e hanno ragione: manca a essi completamente quella esperienza sociale e mutualistica che fu dei gruppi sindacalisti e cooperativisti del Partito popolare, quella esperienza di lotta di classe e di legami con le masse, viva nell’ala migliolina. Si è detto di loro che parlano con voluttà di « istanze » e di « mediazioni », con una terminologia più adatta ai dibattiti dottrinali che a essere compresa dai lavoratori. Non sembra esatto però il rilievo che siano privi di attitudini pratiche, almeno se si considerano i posti che sono riusciti già a procurarsi in seno al governo e al Parlamento. Certo che essi sono riusciti a presentarsi al congresso come il gruppo più organizzato in contrapposto a quello dei <<maggioritari>>. Un articolo programmatico, apparso a metà di maggio su Cronache sociali, caratterizzava abbastanza nettamente la posizione da essi assunta verso la direzione del partito. Nessuna differenziazione sulla questione sostanziale: i <<dossettiani>> si dichiaravano d’accordo con i « maggioritari » sulla rottura del « tripartito » e sul blocco anticomunista e antipopolare del 18 aprile. Essi riconoscevano però << che l’equilibrio del 18 aprile era essenzialmente provvisorio, dato il numero di voti raggiunto dall’opposizione anticostituzionale >>; riconoscevano che « il blocco politico di tutte le forze anticomuniste significava l’allontanamento delle riforme di struttura di ogni tipo e grado, significava il mantenimento dell’ordine capitalistico e l’indebolimento progressivo della classe operaia… »; riconoscevano infine che il 18 aprile rompeva l’unità tra la classe operaia e il ceto medio, da cui erano nati la Resistenza e il nuovo regime repubblicano. Insomma, in quell’articolo programmatico, pubblicato alla vigilia del congresso, i « dossettiani » ammettevano il carattere di involuzione dell’operazione politica compiuta il 18 aprile e ponevano il problema di « una apertura del blocco del 18 aprile verso le istanze sociali di quelle classi che avevano votato per il Fronte democratico popolare, iniziando la loro progressiva liberazione dall’ipoteca << comunista >>; spiegando che « non si tratta di assistere la classe operaia attraverso movimenti propriamente caritativi e neppure di partecipare soltanto alla sua battaglia sindacale con foga migliolina; ma di accettare la maggiorità operaia e di fondare sull’intesa politica di essa con il ceto medio lo Stato democristiano, l’unione popolare». La critica della corrente « maggioritaria » veniva così formulata: << pare a essa (alla corrente maggioritaria) che convenga mantener soprattutto la compattezza del blocco anticomunista con l’appello ideologico e la mediazione spicciola: un ricambio di una maggioranza, una politica che offra alla classe operaia un’opzione democratica che non significhi il cedimento al paternalismo padronale, una politica di unità popolare, una formula di opinione pubblica diversa dal 18 aprile, se sono nelle prospettive della corrente maggioritaria; non sono però apparse nelle sue concrete iniziative politiche. In conseguenza questa corrente non ha molto da dire al congresso di Venezia altro che invitare a lasciar fare>>. Qualcuno potrà anche stupirsi di ascoltare da bocca democristiana critiche così gravi, che confermano a ogni passo, sia pure nel linguaggio dell’Università del Sacro Cuore, il significato profondamente reazionario dell’operazione del 18 aprile. Per comprendere i motivi non occasionali, bisogna riflettere al momento in cui si annunciava il congresso della Democrazia cristiana: dopo le elezioni sarde, che avevano segnato un regresso notevole del partito dominante, un’avanzata della opposizione popolare; mentre la politica di Pella scatenava una ondata di malumore nello stesso ceto medio e si riaccendevano nel Paese imponenti lotte sindacali. Si annunciava inoltre il Congresso democristiano mentre fra gli stessi alleati della D. C. era di nuovo in discussione la formula politica del 18 aprile e si riproponeva, in tutta la sua urgenza, il problema dei rapporti con l’opposizione, viva e vitale malgrado le profezie dei reazionari. La <<sinistra >> democristiana registrava nel suo malumore questa condizione obiettiva: ma prigioniera del suo anticomunismo, essa si riduceva nella sua ala grochiana a una critica agli uomini (Sforza, Tremelloni); nel gruppo dei dossettiano si esauriva nelle analisi dottrinarie, nell’accaparramento dei posti ministeriali, nel circolo vizioso: << per conquistare la classe operaia, bisogna abbattere il comunismo; per abbattere il comunismo, bisogna conquistare la classe operaia >>. La conclusione era il nullismo dichiarato: niente da fare ieri dinnanzi al blocco reazionario del 18 aprile varato dai maggioritari (« o accettare o condannarsi alla astensione politica »), e oggi questa dichiarazione : << Siamo d’altro canto ben consci che un « terzo tempo » (quello delle riforme) non può essere opera esclusiva della sinistra d. c., ma deve essere accettato dai dirigenti della corrente maggioritaria », e cioè da coloro che le riforme non le hanno fatte e non le vogliono fare. Gronchi, da parte sua, il giorno prima dell’apertura del congresso, in una lettera alla Libertà annunciava praticamente il suo ritiro sull’Aventino. Ad ogni modo questi << oppositori di Sua Santità >> avrebbero dato battaglia a Venezia, e fino a che punto e in che modo? La seconda giornata del congresso – dopo la prima cerimonia ufficiale – si svolse nettamente sotto il segno del malumore, della critica dell’insofferenza verso la direzione, verso i parlamentari e verso i ministri (valga per tutti il grido che accolse Spataro, presidente del gruppo parlamentare: << Ciarlamento, ciarlamento>>!) con una sorta di intonazione qualunquista. Direi però che i limiti di questa opposizione, o per lo meno i limiti dei gruppi che aspiravano a guidarla sono apparsi evidenti sin dalla tanto sottolineata relazione Rumor, che seguì alla scialba e inutile chiacchierata di Cappi. Rumor ha parlato per tre ore paziente, implacabile, a stomaco vuoto, dalle 12 alle 15 di del venerdì. Il tema che egli ha trattato s’intitolava: << Necessità vitali del lavoro italiano>>; e la sua doveva essere la relazione che centrava nel congresso il motivo sociale e insieme il punto dolente della situazione (quello che più allarmava i deputati, i grandi elettori, le clientele): la disoccupazione. A leggerla si trova dapprima una parte dottrinale in cui, accanto ad altrettante enunciazioni anticollettiviste, vengono respinte alcune affermazioni del liberismo: tutto in un modo non molto diverso da alcune note tesi del Toniolo e del corporativismo neotomista. Si passa poi all’esame della situazione del Paese e si trova l’affermazione che è indispensabile dopo la battaglia contro la fame e quella per la stabilizzazione della moneta, arrivare al « terzo tempo », al tempo delle riforme. Il guaio è nel seguito, quando si va a cercare qualcosa di concreto appunto sulle riforme, se non fatte almeno da fare. Il Rumor  ammette che l’altissimo indice di disoccupazione, è problema strutturale del nostro Paese (<< Il problema della disoccupazione è qualcosa di congenito con la nostra realtà italiana; latente in essa, risolto in tempi di emergenza  produttiva sotto la sferza di esigenze politiche e militari, rinasce ogni volta che si ristabilisce una normalità di rapporti economici interni ed esteri >>) e critica l’indifferenza dinanzi al problema e le errate impostazioni delle vecchie classi dirigenti. Ma quando egli passa ad analizzare i termini della attuale crisi di occupazione, ripete tutta una serie di posizioni tipiche proprio di quelle vecchie classi: dall’invocazione di leggi antisindacali all’elogio dello sblocco dei licenziamenti, alle menzogne sul sabotaggio degli operai. L’elemento più sintomatico e rivelatore forse però non è qui, dove il Rumor, probabilmente, concede qualcosa alla gente che egli ha dinanzi; ma, direi, è proprio nella parte positiva della sua relazione, dove pure egli afferma abbastanza nettamente la opportunità di un intervento regolatore dello Stato, nel tema della politica di investimenti e lavori pubblici, nella questione dell’istruzione professionale, nel tema, della distribuzione del lavoro, nel campo della previdenza, e delle pensioni. In tutta la lunghissima relazione, della proposta e di un programma di un mutamento delle strutture non vi è nemmeno un rigo: quando si fa, un timido e fugace accenno alla riforma agraria, essa è vista soprattutto sotto l’angolo del vincolare o « riaffezionare » il contadino alla terra, impedendone la urbanizzazione. Allo stesso modo quando egli pone la questione delle industrie e del rapporto fra operai e sviluppo della azienda: qui non si parla più di nazionalizzazioni; si ha una matta paura di enunciare la partecipazione operaia alla gestione dell’azienda; qui non si vede una nuova classe dirigente che si porta alla testa del processo produttivo e dà ad esso un altro corso. Altro che la <<maggiorità operaia >> di cui scrivevano Cronache sociali ! Qui siamo nel più scadente paternalismo, che concede appena una correzione statale, di tipo assistenziale ,al marasma dell’iniziativa padronale. Qui il problema politico, posto dalla Resistenza, di una posizione delle classi lavoratrici vita nazionale – problema riconosciuto a parole nelle dissertazioni dottrinarie di Cronache Sociali scompare: restano il padronato, i ministri democristiani e le visitatrici o gli assistenti della Azione Cattolica… E vedremo poi che, a vigilanza e a conforto di tutto ciò, resta Scelba. Se questo è Rumor ancora peggio è Dossetti. Nel discorso di questo << leader della sinistra >>, di questo riformatore vaticanesco, il problema delle riforme e del rinnovamento della vita italiana si immiserisce in una questione di coordinamento di ministeri e di commissariati (forse per questo De Gasperi si è affrettato ad offrigli un posto?), dove non giunge nemmeno un’eco lontana della lotta delle masse. Del resto qui non si tratta solo di Dossetti; mentre si svolgeva il congresso democristiano, a poche centinaia di chilometri i braccianti nella Valpadana erano impegnati nella loro eroica battaglia: crepitavano i mitra della Celere, gli agrari scendevano fino al delitto, quattro braccianti cadevano assassinati: nessuno al congresso della democrazia cristiana ha sentito di spendere una parola di solidarietà verso la grande lotta dei braccianti; nessuno ha avuto un accento di indignazione dinanzi agli assassini; nessuno ha chiesto al governo per i braccianti qualcosa che fosse diversa dalle persecuzioni e dalle manganellate della Celere. Nessun sindacalista ha parlato, che ponesse il problema del salario degli operai e degli impiegati, della vita nelle fabbriche, degli attentati ai diritti dei sindacati e delle Commissioni Interne: la lotta di centinaia di migliaia di chimici, di metallurgici, di tessili, di statali non ha trovato un solo difensore. Questo era il partito di Achille Grandi? Alla prova dei fatti, questa era la « sinistra riformatrice » che dalle colonne delle riviste dottrineggiava sul « terzo tempo », e a questo si era ridotta la tanto conclamata battaglia! Contro cosi disarmati paladini non doveva esser difficile a Piccioni riportare la palma. Piccioni probabilmente s’era spaventato più che del malumore aleggiante nella sala, verso la direzione, di una scaramuccia che vi fu la sera del venerdì intorno alla composizione del Consiglio nazionale e al numero dei parlamentari che dovevano farne parte: la <<sinistra>>, con Dossetti alla testa, chiedeva di ridurre tale numero e vi riuscì con un compromesso. La questione toccava i rapporti fra partito e gruppo parlamentare e dietro la sua apparente aridità si nascondeva la spinta, che cercava di far pesare maggiormente le aspirazioni della base (anche nei suoi aspetti settari, di esclusivismo di partito) sul gruppo dirigente, che esercita ormai da un pezzo il monopolio delle cariche e delle decisioni. Ad ogni modo quando già Dossetti si era ritirato e aveva accettato il compromesso, alla mattina, del sabato, penultimo giorno del congresso, Piccioni partì all’attacco riesumando pari  pari l’impostazione del 18 aprile: blocco anticomunista, cui dovevano essere subordinati tutti gli altri motivi e le altre esigenze. Non si preoccupò nemmeno di compiere un esame della politica del governo, dei suoi risultati, delle sue prospettive: le parole che più sovente risuonarono nel suo discorso furono l’appello alla fede all’unità di sentimento, alla fiducia nella missione anticomunista della Democrazia Cristiana. Si è parlato molto del discorso di Scelba, e forse si è data poca attenzione al discorso di Piccioni, i1 quale ha avuto accenti quasi altrettanto gravi e in ogni modo ha aperto la strada, se mai con tono più decente e con meno errori di grammatica, a molte delle affermazioni di Scelba : per lo sfrenato accento di odio anticomunista ; per la sfacciata enunciazione del regime clericale (<< Noi non ci sentiamo investiti provvisoriamente del mandato dell’opinione pubblica; noi ci sentiamo investiti permanentemente >>) per l’appello alla <<maggioranza>> contro gli scrupoli e le «morbidezze » (<< Io non condivido affatto l’opinione di qualcuno che vorrebbe contestare comunque alla D.C. una presa di posizione più larga e più effettiva in quelle che sono le leve di comando della vita economica del Paese >> ). Insomma il discorso di Scelba non è stato qualcosa a sè: esso è nato dalla rinuncia della sinistra alla battaglia, dall’apologia anticomunista di Piccioni, dall’incapacità di discutere e di risolvere i problemi del Paese. Mancata o fallita la ricerca di una piattaforma nuova, rinnovatrice; respinta fanaticamente, a priori, ogni possibilità di intesa o anche di distensione con le forze popolari; ridotti gli stessi alleati al rango di satelliti, chi aveva da parlare, chi aveva ragione era Scelba. No alle riforme, no alla distensione, no a una politica estera larga e unitaria: dunque – poichè tutti ammettevano (da Piccioni a Dossetti) che la classe operaia e le sue organizzazioni erano vive, vitali e sempre presenti – ci voleva il manganello, e forza, con l’arrembaggio ai posti, con il regime permanente e dàlli al «culturame »! La stessa esaltazione: sfrenata della ragione di parte, compiuta senza veli da Scelba, era un modo di acquietare in una sola torbida corrente malumori, dissensi, doglianze, e in fondo era, in maniera brutale, pratica, lazzaronesca, lo stesso appello celestiale alla unita’ del sentimento, che Piccioni aveva invocato per ridurre alla ragione e al silenzio gli oppositori e gli irrequieti: il sanfedismo come cemento della barcollante unità del partito. E su questo terreno si incontrava meravigliosamente con Scelba lo stesso Dossetti, a nome del suo totalitarismo cattolico, della sua intransigenza teologica, del suo corporativisrno antiautonomista, a nome dei Gedda, dei Comitati civici, dei dottrinari del Sacro Cuore. Non per nulla, sui loro cartelli i delegati di Reggio Emilia portavano, affratellati: « Viva Scelba e viva Dossetti!». De Gasperi, è vero, ha tentato una mitigazione di questo sanfedismo brigantesco ed esclusivo; ma non ne ha toccato o spostato la sostanza. Sul piano della prospettiva ha confermato la desolante rinuncia al programma innovatore, già accettato sottoscrivendo la Costituzione; e l’unica carta che ha saputo presentare è stata quella, logora, scontata, esemplare delle vecchie classi fallite e dei problemi non risolti della struttura sociale italiana: la carta dell’emigrazione. Sul piano dei rapporti con le altre forze politiche persino verso i suoi stessi alleati – ed è stato rilevato dalla stampa socialdemocratica – egli ha ripetuto, con frasi melate, la minaccia intollerante: o con noi o contro di noi; per un’altra << forza>> non vi è diritto di cittadinanza. Il suo <<centrismo>> si è precisato così non come un’effettiva posizione politica, ma come una differenza di tono, di apprezzamento dei modi e dei termini, come furberia diplomatica ed esperienza di compromessi. In questo senso a De Gasperi sono utili e la violenza grossolana di Scelba e l’intransigenza teologica di Dossetti (non a caso egli non ha detto una parola del discorso, più impegnativo, di Gronchi e ha paternamente concesso al Dossetti l’investitura di capo dell’opposizione): tra le quali egli piazza la sua prudenza, la sua primogenitura anticomunista, i collaudati servigi resi al Vaticano e all’America. Ma dove è, nel suo discorso, una critica chiara alle aperte e gravi posizioni anticostituzionali sviluppate poche ore prima da Scelba? Non vi è; è vero che egli non dice quello che dice Scelba: alla prova dei fatti si può ritenere cioè che De Gasperi è per la politica di Scelba, ma ancora mascherata, coperta dal belletto della legalità parlamentare cui invece Scelba è già pronto a rinunziare. Cosi come dinanzi al totalitarismo cattolico di Dossetti, De Gasperi non respinge la sostanza di un siffatto regime, ma preferisce ancora prudentemente la semicopertura socialdemocratica, pacciardana e liberale, la formula di una egemonia clericale contornata da un certo numero di satelliti. Tutto ciò ormai è il segreto di Pulcinella; e il congresso di Venezia ha rappresentato davvero una tappa in questo cammino chiarificatore. Credo che raramente l’assise di un partito abbia suscitato un’indignazione cosi larga e riprovazioni cosi violente in settori tanto diversi dell’opinione pubblica e dello schieramento politico. E’ facile oggi rintracciare negli stessi fogli e nei discorsi coloro che parteciparono al blocco del 18 aprile quella formula: « regime clericale », che pure un anno fa parve una definizione faziosa e artificiosa degli uomini del Fronte popolare. In questa luce non è azzardato definire il congresso di Venezia non solo congresso di rinuncia e di involuzione, ma congresso di insuccesso dinanzi al Paese e all’opinione pubblica. Si potrebbero fare, qui, delle considerazioni sui tempi accelerati di questa involuzione democristiana. La spiegazione e nei fatti, i quali sono cosi vivi e impetuosi da corrodere dieci e cento maschere. Per il<< 18 aprile permanente>>, che si poneva nei sogni della cricca dirigente della Democrazia cristiana, condizione indispensabile erano la rinuncia delle masse alla lotta e la disintegrazione dell’opposizione popolare: questa rinuncia e questa disintegrazione non vi sono state. E grandi lotte delle masse oppresse, diseredate, colpite da miseria crescente hanno costituito la prova del fuoco che strappa gli orpelli, che fa scoppiare le contraddizioni e logora gli schemi della propaganda bugiarda. Sembra che la cricca dirigente della Democrazia cristiana, legata ormai quasi fisicamente ai ristretti gruppi dell’oligarchia finanziaria italiana, non abbia inteso questa lezione. Il congresso di Venezia è venuto dopo lo scacco delle elezioni in Sardegna cosi come la svolta reazionaria del dicembre-gennaio ‘47 venne dopo gli scacchi e la crisi delle amministrative autunnali di Torino, Roma, Firenze, Genova. Allora nello sforzo cieco di recuperare voti e consensi a destra, la Democrazia cristiana preferì rompere e l’unità delle forze popolari e spezzare in due la nazione. Vorrà anche stavolta accentuare il suo scivolamento verso il fascismo per odio alle forze popolari e per sete, disperata dei voti degli agrari, degli industriali delle benedizioni dei Vescovi di Santa Romana Chiesa?

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Questo articolo comparve su “Rinascita” nell’aprile del 1950. Il Consiglio Nazionale di Roma (16 –20 aprile 1950) vide Dossetti entrare, con forti perplessità, nella nuova Direzione del partito. In tale occasione egli assunse anche l’incarico di coordinatore dei gruppi parlamentari. Rodano dalle colonne del mensile comunista valutò molto negativamente questa decisione dell’onorevole reggiano. Per l’esponente del Pci ciò significava la sconfitta definitiva del “dossettismo”, esperienza per altro già segnata, a suo avviso, sia da un’impotenza strutturale della corrente stessa sia da un peccato “originale” determinato dall’appoggio dato da Dossetti all’operazione degasperiana che aveva posto fine all’esperienza del “tripartito”.

Per una valutazione più completa dello scritto di Rodano rimandiamo al saggio “La sinistra e Dossetti”, Bailamme n. 28 autunno 2002, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica. G. Dossetti 1945 – 1956, pp. 315 – 317.

L’ultimo consiglio nazionale del Partito democristiano si è concluso con un compromesso, che, se anche a prima, vista sembra quasi incredibile, a un esame approfondito non può risultare né inspiegabile, né inopinato. Si vedano innanzitutto i fatti. Esiste – e sarebbe forse meglio dire esisteva – nella Democrazia cristiana una corrente, la quale, sempre e in modo particolare dal congresso di Venezia a oggi ha cercato faticosamente di opporsi all’indirizzo, ai metodi, alla politica di governo e di partito della maggioranza degasperiana. Questa corrente, che dal suo leader più preparato e più attivo prende nome di dossettismo ha praticamente iniziato al recente consiglio nazionale la sua definitiva dissoluzione nelle fila della maggioranza; ed infatti, mentre ha contribuito a formare una direzione, in cui si trova in nettissima e impotente minoranza, ha lasciato entrare il suo massimo dirigente in una segreteria di partito composta per tre quarti dei peggiori tra i degasperiani: basti pensare al Rumor e al Tupini giovane. Se qualcuno poi presumesse di poter trovare le ragioni di questa resa a discrezione in contropartite politiche adeguate e soprattutto precise, dovrebbe presto ricredersi: v’è stata qualche frase di critica alla politica finanziaria ed economica del ministro Pella, alcune di questa frasi – è il caso dell’on.Campilli – sono state particolarmente felici, ma tutto è rimasto lì. Troppo poco per l’abbraccio fra Dossetti e De Gasperi ! I fatti sono dunque del tutto illogici. E all’osservatore estraneo, e che non abbia approfondito lo studio dell’interna situazione di crisi del mondo cattolico italiano, non può apparire che un’unica spiegazione plausibile: il mondo cattolico è un ambiente chiuso, rinserrato in una cittadella oramai secolare, e in esso non possono verificarsi contrasti effettivi d’opinione e di interessi, e quindi lotte politiche vere e proprie. A prima vista, è difficile dar torto a un simile osservatore; e infatti vi è nell’opinione della <<cittadella>> una buona parte di verità. E’ un fatto: le correnti, che, di tempo in tempo, svariano e corrugano ai giorni nostri la superficie del mondo cattolico italiano si ricompongono sempre, vengono metodicamente riassorbite nel conformismo generale e di fondo. In altri termini, la preoccupazione del nemico esterno – di Annibale alle porte– ha sempre prevalso e continua a prevalere sui dissidi e sui tentativi di differenziazione, riconducendo ogni cosa a una grigia unità. Ma, per vera che sia, questa spiegazione, se non viene qualificata, pecca di generico. Le sfugge ad esempio che, sebbene siano orami cinque se coliche il mondo cattolico è rinserrato in una situazione di <<cittadella>>, si è tuttavia verificata tutta una graduale profonda evoluzione nel personale politico dei cattolici, che quindi lotte vi sono state, sviluppi sono avvenuti, contrasti sono stati in qualche modo risolti e non semplicemente riassorbiti.  Sfugge quindi, in particolare – ed è appunto questo l’elemento più importante – che tale evoluzione si è arrestata proprio oggi; che noi assistiamo, cioè, al fenomeno davvero decisivo, e il cui significato non sarà mai meditato abbastanza, della più completa mancanza di rinnovamento nel personale politico del mondo cattolico italiano. Che altro è infatti il dossettismo  se non il tentativo di un simile rinnovamento ? Suo scopo sarebbe il determinare all’interno del mondo cattolico una circolazione delle elites (l’espressione sociologica si adatta perfettamente alla mentalità e alla cultura dei dossettiano); e le insistenti apparenze, contro ogni intenzione, di machiavellismo e di conquista di posizioni denunciano ad un tempo la volontà di un simile obiettivo e la strutturale impotenza a raggiungerlo. La questione allora diviene ben più precisa. Ciò che ci si deve chiedere, se si vuol dare una spiegazione al recente compromesso, è perché mai il dossettismo sia caratterizzato da una così invincibile impotenza a costituirsi in corrente effettiva e a rinnovare il suo partito. La realtà è che il dossettismo ha un suo vizio d’origine. E’ legge inderogabile del mondo cattolico, appunto per la fase storica di chiusura e di difesa che sta attraversando, che il suo personale politico possa rinnovarsi solo nei periodi in cui entrano in crisi i sistemi politici, che rappresentano e organizzano le varie forze economiche e sociali in giuoco. In tal senso, il mondo politico cattolico è sempre a rimorchio, e può rinnovarsi solo nella misura in cui si rinnovano lo Stato e la società. Certo così è sempre accaduto; e l’ultima esperienza quella del partito popolare, è anche l’ultima verifica: il mondo cattolico ha potuto esprimere un personale politico nuovo, solo dopo che era venuta maturando l’estrema rovina del sistema giolittiano, ossia della concezione e organizzazione liberale dello Stato e della società. Ma la crisi e la catastrofe del sistema fascista, a causa della particolare natura totalitaria del fascismo stesso che aveva impedito ogni effettiva elaborazione di formule politiche nuove, furono affrontate di necessità con il personale politico e le impostazioni; che già erano stati travolti dal rapidissimo processo rivoluzionario dell’altro dopoguerra. Poiché infatti il crollo del fascismo non fu il rinnovamento, ma la semplice, necessaria premessa materiale per esso. La conseguenza è evidente: anche per il mondo politico cattolico risquadernò il vecchio personale sturziano e centrista, assolutamente inadeguato ai problemi e ai termini nuovi. E’ in questa luce che si può arrivare a comprendere tutta la portata storica, sia pure potenziale, di quelle nuove formule di processo politico – unità antifascista, tripartito – che la direzione del movimento operaio, attraverso un energico sforzo di rinnovamento, seppe proporre al paese ed imporre ai troppo riluttanti, per un tempo sventuratamente troppo breve. Certo, il tripartito significava lo sprigionarsi e il mettersi in movimento di tutte le forze storiche a lungo compresse con tutti i loro innumerevoli problemi, e significava quindi anche la sollecitazione impellente a che sorgessero e si sviluppassero le formule e gli uomini nuovi, capaci di padroneggiarle organicamente e di risolverle in una situazione di progresso. Il tripartito era dunque la via per uscire definitivamente dal fascismo ed era soprattutto garanzia dell’avvenire. Tutte le forze nuove erano vitalmente interessate all’esistenza di questa loro <<incubatrice>> ideale. Quelli che oggi sono in modo sempre più malinconico e inutile il dossettismo, e che erano allora il potenziale politico nuovo del mondo cattolico, non seppero comprendere tutto questo: e qui sta il loro paralizzante vizio d’origine. Non seppero quindi comprendere, in particolare, che se era funzione specifica della Chiesa diffidare del tripartito a causa dell’ideologia dei comunisti, che ne erano – a loro onore – i promotori, i vecchi popolari, invece, lo avversavano e ne affrettavano la fine in funzione, per così dire, <<antidossettiana>>, ossia essenzialmente, con l’obiettivo di impedire il rinnovamento del proprio partito. Potevano le nuove forme potenziali del mondo cattolico portare un contributo importantissimo allo sviluppo storico del nostro paese distinguendo ideologia da politica e salvando così il tripartito con il dire cose chiare alla Chiesa e con il patteggiare onestamente contropartite altrettanto chiare con i comunisti. Potevano con queste salvare se stesse, la <<circolazione dell’élites nel mondo cattolico e l’avvenire; imprigionate invece nell’anticomunismo aprioristico, hanno finito con l’essere il dossettismo, gruppo dai procedimenti indecifrabili e comprensibili solo agli iniziati. Oggi essi hanno tra le mani soltanto un keinesismo, cui le giustapposizioni evangeliche dell’onesto La Pira conferiscono solo un aspetto comico, e alcune complesse, anche se giuste, formule giuridiche sui rapporti fra governo e partito: troppo poco per fare una politica, la quale, se vuole essere tale, deve porsi il problema dei rapporti con tutte le altre forze sociali e politiche e uscire dalle semplici questioni tecniche o interne, e quindi di setta. E i risultati sono infatti conformi: la crisi sempre più larga che investe il paese, si riverbera solo in modo effimero, e senza lacuna conseguenza positiva, nei contorcimenti del dossettismo, che avrebbero potuto e dovuto invece contribuire ad esprimere delle formule di soluzione. Ma tutto questo è così grave e così sollecitante una definitiva involuzione, che tutti gli onesti democratici e i politici degni di questo nome non possono non sentire il dovere di moltiplicare gli sforzi per trovare formule nuove di soluzione a una situazione che diviene sempre più pesante, e della quale il sintomo più appariscente è appunto questa grigia immobilità del Partito democratico cristiano, che, in quanto malsana e senza sbocchi, rimane monolitica pur nel suo vano e superficiale eclettismo.

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La sinistra e Dossetti di Luigi Giorgi – Bailamme n° 28

Il rapporto fra Giuseppe Dossetti e i partiti della sinistra italiana è stato frastagliato, segnato dalle tumultuose vicende del dopoguerra. Ha risentito, inevitabilmente, della radicalità del confronto politico–ideologico in atto fra i due mondi usciti vincitori dal secondo conflitto mondiale. L’incontro, e lo scontro, con le forze di sinistra è stato condizionato, quindi, dagli avvenimenti particolari di quel periodo, cambiando a seconda dello svolgimento di questi.

Il tutto sembra fermarsi dopo l’abbandono da parte di Dossetti della vita politica per riaffacciarsi, però, con nuovo vigore polemico, durante la campagna elettorale del 1956 che vide il professore reggiano impegnato, nella tornata amministrativa di Bologna, a contendere il posto di primo cittadino al candidato principe del PCI, Giuseppe Dozza. Sarà in tale occasione che verranno a galla di nuovo i problemi e i temi principali di quel rapporto così complicato e così avvincente. Nella città felsinea si tornerà a parlare più che di questioni amministrative, nonostante l’impegno di Dossetti si esplicasse soprattutto in questo campo, di tematiche legate al tempo passato, alla grande politica nazionale. Tutti i discorsi degli oratori di sinistra, scesi in campo in grande stile, da Togliatti a Nenni, da Pertini a Pajetta, tenderanno ad insistere sul ruolo di Dossetti in ambiti diversi da quello amministrativo, proprio di quella occasione. Ma andiamo con ordine. Il confronto fra Dossetti e la sinistra italiana vive ed è influenzato dai singoli problemi contingenti di quel periodo, e in base a questi si declina di volta in volta in modo diverso. Questa relazione può essere divisa in due momenti: uno che riguarda il periodo costituente e l’impegno nella scrittura della legge fondamentale dello Stato, e l’altro susseguente allo scioglimento da parte di De Gasperi dell’esperienza tripartitica, che aveva retto fino al maggio 1947 il governo del Paese.

Il lavoro nell’Assemblea Costituente mise a contatto Dossetti con i leaders del PSI e del Partito Comunista, suscitando stima reciproca e ammirazione per l’impegno, l’intelligenza e la preparazione che il deputato emiliano metteva nell’elaborazione della Costituzione. In questo periodo, appunto, cresce e si sviluppa l’interesse della sinistra per il professore reggiano, cosa che ci viene dimostrata dagli articoli dei quotidiani di partito della sinistra stessa. Questa attenzione, per quanto genuina e seria, si accompagnava comunque, al di là dello specifico storico segnato dalla Costituente, ad un disegno politico da parte della sinistra ben definito. Si cercava, in definitiva, un aggancio con le masse cattoliche, in special modo con i lavoratori cattolici, in un’ottica governativa. Questo però non sarebbe potuto avvenire senza l’impegno comune della DC, e perciò si cercava di far emergere quei lati del partito democristiano più socialmente qualificanti e qualificati, in grado di creare sostanziali e profonde affinità fra i due schieramenti. E’ degli inizi del 1946 un discorso di De Gasperi, tenuto a Napoli, che lasciava intravedere, a giudizio del PCI, la possibilità di un tracciato comune, foriero di ulteriori e significativi sviluppi, scriveva “l’Unità” in proposito che: << il Presidente del Consiglio ha tracciato le linee generali della ricostruzione nazionale “Queste linee – egli ha affermato – sono date dal lavoro che deve avere una preminenza sul capitale. Ed è infine giusto raggiungere una più equa distribuzione della ricchezza” >>. Era, questa dello statista trentino, una dichiarazione importante, seria e sentita, certo è che si sarebbe esplicata, in seguito, in modo diverso dai “desiderata” dei dirigenti della sinistra. Togliatti coglieva al balzo l’occasione, cercando di portare la DC verso quelli che, a suo parere, erano i lidi di un serio rinnovamento sociale ed economico. Il “migliore” rilasciava, infatti, a “l’Unità” una intervista in cui cercava di dipanare quel complesso sistema politico, a livello di rappresentanza e di interessi, che a suo avviso era la DC: l’intervista al giornale di partito aveva come titolo “O Fattore di progresso sociale e politico. O fattore di conservazione e di regresso”. Questo scritto rappresentava un vero e proprio invito al chiarimento sia per lo Scudocrociato sia, forse, per lo stesso PCI. Quale, in definitiva, l’atteggiamento da tenere nei confronti della DC ? << Orbene noi conosciamo un partito della democrazia cristiana i cui militanti hanno contribuito all’elaborazione, per esempio, al programma di Napoli della CGIL – affermava il segretario del PCI – Si trattava di un programma di profondo rinnovamento economico e sociale nel campo tanto dell’industria che dell’agricoltura, che della previdenza. Dall’altra parte vediamo un partito della DC che, nel Mezzogiorno, presenta spesso a capo delle sue liste aristocratici latifondisti e, nel settentrione grandi industriali conservatori, i quali non possono essere certamente d’accordo con quel programma >>.

L’elaborazione politica che riguardava orizzonti più ampi si accompagnava alla collaborazione fra Dossetti e le varie anime della sinistra italiana nell’impegno costituente, ricorda Vittorio Foa che: << Se i democristiani più anziani apparivano in una luce nuova, ancora di più lo apparivano, ed erano, i giovani. A partire dal gruppo di Dossetti tutto proiettato sul futuro >>. Il gruppo dossettiano veniva individuato come un momento potenzialmente innovatore del mondo cattolico in grado, inoltre, di portare ad un serio e profondo cambiamento dell’Italia, e in condizione di fornire delle fondamenta salde all’esperienza del governo tripartito. Ancora un’intervista di Togliatti riportata da “l’Unità” ci aiuta a comprendere meglio la questione: << Riguardo però alla determinazione degli indirizzi economici e sociali della Repubblica, non si è raggiunto l’accordo tra i rappresentanti comunisti e quelli della DC ? – chiedeva l’intervistatore al leader comunista, con riferimento alla scrittura della Costituzione – Effettivamente nella 1 sottocommissione, di cui io faccio parte – rispondeva il segretario del PCI – e di cui fa parte un gruppo di deputati democristiani – alludo agli onorevoli La Pira, Dossetti, Moro – che più conseguentemente di altri mi pare interpretino il pensiero sociale cattolico, comunisti, socialisti e democristiani si sono trovati, senza difficoltà, d’accordo nell’affermare che il regime democratico italiano dovrà avere un contenuto sociale determinato. Vogliamo affermare nella Costituzione alcuni diritti della persona umana che vanno al di là di quelli politici e formali dell’ ’89, il diritto allo sviluppo e al perfezionamento della persona, il diritto al lavoro, al riposo ecc. Naturalmente questi diritti dovranno non solo essere affermati, ma garantiti e per garantirli occorrerà indirizzare in modo diverso la vita economica del paese. Ma è proprio qui che si presenta la necessità e la possibilità di una collaborazione tra le correnti di pensiero e d’azione sociale, progressive, cattoliche da un lato, laiche dall’altro. Noi lavoriamo per questa collaborazione. Da essa speriamo possa venire una democrazia veramente nuova >>. Togliatti coglieva, dunque, la specificità dell’impegno di Dossetti e del gruppo di amici a lui vicino, sia come valore in sé sia nell’ambito di un più vasto disegno di assestamento della compagine governativa. Il lavoro di Dossetti, a ben vedere, assumeva un valore maggiore nell’ambito di un progetto funzionale al mantenimento di quella formula di governo, in modo che questa si dirigesse, oltretutto, verso la collaborazione con le altre forze progressiste del Paese, nell’ottica di un Partito Comunista diverso: un partito nuovo per una democrazia progressiva. Le due cose ben presto, sulla scia degli eventi, si sovrapposero lasciando spazio al rapporto privilegiato e intriso di “politicismo” fra De Gasperi e Togliatti. Tale situazione finì per stritolare gli intenti dossettiani. L’interesse per Dossetti cresceva nei quotidiani della sinistra: egli veniva individuato, con non poca confusione, sia come capo dell’ala frondista del partito sia come elemento di destra all’interno della DC: << Nella Nuova Direzione – scriveva in proposito “l’Unità” – […] sono entrati alcuni elementi dell’Italia settentrionale, come Caffi e Ceschi che sono notoriamente di sinistra e uno dei leader delle sinistre, Quinto Tosatti e mancano elementi di destra come l’Avv. Petrone, l’on. Fanfani, e l’on. Dossetti, l’on. Andreotti che non sono stati rieletti >>. Altri avvenimenti incrociavano le strade di Dossetti e dei partiti di sinistra: la discussione sull’articolo 7 e la mozione di sfiducia Dossetti – Lazzati durante il Consiglio Nazionale del partito del dicembre 1946.

Il dibattito sull’articolo 7 segnava un punto importante nella vicenda fra la sinistra e Dossetti. Il problema dell’inclusione o meno dei Patti Lateranensi nella Costituzione era molto controverso, sia perché si rischiava di mettere in discussione tutta l’impalcatura giuridica della nascente carta costituzionale sia perché i Patti erano frutto dell’accordo fra il Vaticano e il regime Fascista. Ciò creava malessere soprattutto nei partiti della sinistra che accettando una tale impostazione correvano il rischio, di fronte ai propri elettori, di avallare un provvedimento firmato dal passato regime contro il quale molti avevano combattuto e sacrificato la propria vita. Il mondo cattolico, allo stesso modo, viveva con inquietudine questa situazione. Dossetti e De Gasperi erano consapevoli che una buona parte dei cattolici era stata la base di consenso del Fascismo e che bisognava riconquistare questi e le stesse gerarchie vaticane alla nascente forma repubblicana dello Stato, perciò il loro impegno nella soluzione di questo contenzioso fu forte e deciso. Il dibattito in merito marcava delle divisioni anche all’interno della sinistra, ricorda Foa che per Togliatti: << i rapporti con la Chiesa potevano essere un elemento costitutivo della democrazia italiana. O persino l’idea di una possibile legittimazione reciproca della Chiesa e del partito >>. Foa individuava nell’ansia di reciproco riconoscimento il motivo che indusse Togliattti e il PCI a votare a favore dell’articolo 7, riconoscendo nella stessa preoccupazione, dettata dalla voglia di consolidare l’esperienza governativa, il motivo del fallimento di questa, scrive infatti che: << Quella volta, nel marzo 1947, il fallimento fu totale: i comunisti che si attendevano un consolidamento dell’alleanza di governo si trovarono meno di due mesi dopo fuori dal governo stesso >>.

“l’Unità” prestava una certa attenzione al dibattito costituente, mostrando la contrarietà del PCI sul contenuto dell’articolo che doveva disciplinare i rapporti tra Stato e Chiesa: <<D’altra parte la relazione e gli articoli presentati dall’on Dossetti tendono essenzialmente a due obiettivi – scriveva il quotidiano fondato da Gramsci – il primo è di far riconoscere dallo Stato l’ordinamento della Chiesa come ordinamento originario il che equivale a far riconoscere la sovranità della Chiesa; il secondo è di far inserire nella Costituzione, con un richiamo esplicito il Concordato attualmente vigente nella forma stessa in cui è stato firmato dal governo fascista. Gli articoli dell’on.Le Dossetti non contenevano poi l’affermazione esplicita della sovranità dello Stato nei confronti di tutte le organizzazioni religiose […] e proponevano d’inserire ancora una volta nella Costituzione l’affermazione della religione cattolica come religione di Stato, principio contrastante con altri presentati e difesi dallo stesso Dossetti […] Da un lato i comunisti respingono l’affermazione che possa esistere una religione di Stato, essendo questo principio contrario a tutta la evoluzione del pensiero moderno, anche cattolico. Lo Stato e la Chiesa cattolica devono quindi essere riconosciuti come indipendenti e sovrani ciascuno nella sfera che gli compete >>. Dossetti comunque non aveva mai parlato di religione cattolica come religione di Stato, almeno in termini assoluti e totalitari, anzi aveva difeso la separazione fra i due ordinamenti, salvaguardando il Concordato del ‘29 per cautelare i cattolici e la Chiesa verso il futuro. “l’Unità” aveva una linea morbida ed evidentemente incline al dialogo, visto anche l’impegno dello stesso segretario del partito in tal senso. Tale atteggiamento andava inquadrato nel disegno strategico di una più ampia collaborazione con le masse dei lavoratori cattolici tramite, anche, un’eventuale cooptazione di questi alle idee del PCI. L’”Avanti !”, quindi il partito socialista, si dimostrava un po’ meno disponibile al dialogo sul tema, scorgendo anzi nel dibattito in corso una scarsa volontà dei costituenti democristiani di creare una carta costituzionale figlia della collaborazione di tutti, scriveva infatti Lelio Basso che: << Anche questa volta i colleghi democratico–cristiani hanno perduto una buona occasione per dar prova della loro sincera volontà di collaborare con i partiti democratici alla preparazione di una carta costituzionale che non sia strumento di parte, approvata da una debole e occasionale maggioranza, ma rappresenti la volontà dell’immensa maggioranza del popolo. Erano in discussione i rapporti fra Stato e Chiesa e da nessuna parte si erano fatte proposte che potessero comunque costituire una pur lontana minaccia alla pace religiosa>>. L’articolo fu votato nel marzo del 1947, Dossetti intervenne sulla questione il 21 dello stesso mese. “l’Unità” fece di quell’intervento un resoconto molto centrato sulla cronaca, riportando le parole dell’oratore che erano funzionali all’idea del partito, e alle quali il PCI si appigliava per motivare il suo voto favorevole: << Alle obiezioni di carattere politico l’oratore risponde solo limitandosi a constatare che il popolo ha dato la maggioranza ai Partiti che si erano impegnati a mantenere i Patti. Alle 18.50 dopo 110 minuti di discorso l’oratore conclude sostenendo che l’art. 5 assieme alle affermazioni di carattere sociale, dà un contenuto nuovo alla costituzione >>. Le riflessioni si facevano più circostanziate nei giorni seguenti, scriveva Renzo Laconi su “l’Unità” che: << La maggioranza sull’articolo 7 è stata determinata con piena consapevolezza dal nostro partito che ha così accettato fin nelle loro ultime conseguenze i risultati della votazione democratica del 2 giugno, ed ha rinunciato anche a talune delle sue legittime riserve e preoccupazioni pur di non dividere le parti più avanzate della classe operaia e del popolo italiano dalle masse dei lavoratori cattolici, pur di conservare l’unità popolare italiana >>. Stessa considerazione veniva fatta, in definitiva, da Franco Rodano su “Rinascita”, che vedeva, nel voto del gruppo comunista, un atto di responsabilità di fronte al Paese, in quanto dinanzi all’irrigidimento di una parte del gruppo democristiano: << non rimaneva al gruppo paralamentare comunista che […] nell’interesse dell’unità delle masse popolari e della pace religiosa aderire a votare l’art 7. Ogni diverso atteggiamento sarebbe stato contrario, al punto cui erano giunte le cose, alla politica unitaria e nazionale del partito comunista e alla sua stessa concezione della democrazia come integrale e diretta democrazia di popolo >>. L’atteggiamento del PCI e del suo leader veniva riassunto, con poche parole e metodi spiccioli, da Silvio Negro su il “Corriere della Sera”, dove scriveva riguardo al dibattito sull’articolo 7, che: <<neanche il peritissimo discorso di un tecnico del diritto, il democristiano Dossetti, era riuscito a metterla (la discussione) sui binari di una soluzione accattabile per tutti. Ma la sostanza del dibattito non era lì ed era stato De Gasperi a richiamarla questa sera nei suoi termini concreti “La questione vera – egli ha detto – è di chiarire se la Repubblica accetta o non i Patti del Laterano, che hanno chiuso un secolo di polemiche e stabilito la pace religiosa in Italia […] secondo noi la pace religiosa è indispensabile all’Italia e alla Repubblica” […] E Togliatti in sostanza ha dato ragione a De Gasperi >>.

L’attenzione per Dossetti si mostrò più pressante da parte della sinistra, dei suoi quotidiani almeno, in relazione alla mozione di sfiducia che egli presentò, insieme con Lazzati, durante il Consiglio Nazionale del partito del dicembre 1946. Questo fatto determinò tutta una serie di reazioni nella sinistra italiana, portando alla luce anche alcune differenze rispetto alla posizione dossettiana, che rispecchiavano diversità più generali, sulle prospettive, sui progetti, sulla stessa politica delle alleanze con la DC e il mondo cattolico.

Il Consiglio Nazionale del partito era stato movimentato dalle prese di posizione di diverse componenti; la destra internaaveva riunito il proprio gruppo per proporre un cambiamento di linea politica. Le elezioni amministrative,inoltre, avevano visto un sostanziale arretramento della DC tale da allarmare i vertici del partito. In questo contesto si sviluppava e prendeva corpo il dissenso dossettiano che trovava forma nella mozione presentata durante l’assise romana. “l’Unità” sembrava dimostrare un certo interesse per l’iniziativa dossettiana, pur facendo risaltare in modo forse improprio il ruolo di Fanfani. Questo accadeva sopratutto perché il deputato di Arezzo aveva ribadito la necessità di continuare nell’esperienza governativa con i comunisti: << La mozione di Dossetti è vivacemente critica nei riguardi della Direzione e della Segreteria del partito – riportava il quotidiano del PCI – la cui azione viene giudicata insufficiente e sostanzialmente richiede un mutamento nella direzione politica del partito. A sostegno della mozione Dossetti è intervenuto Fanfani che ha fatto un importante intervento sul tripartitismo. Egli si è dimostrato nettamente favorevole ad esso ed ha voluto illustrare le ragioni, storiche e non tattiche che impongono alla Democrazia Cristiana di collaborare con i comunisti. Nei riguardi del partito comunista Fanfani ha sconsigliato ogni irrigidimento ideologico, perché è necessario collaborare con chi, come nel caso dei comunisti, è portatore di molte giuste esigenze >>. L’atteggiamento de “l’Unità” era alquanto morbido, concedeva poco alla specificità dell’azione dossettiana. Essa era vista soltanto in relazione all’esperienza del tripartito, non come un momento di cambiamento sostanziale all’interno della DC: si intuiva, forse, che l’esperienza di governo che coinvolgeva i tre grandi partiti di massa stava per volgere al termine. Un’analisi più approfondita, anche in questo senso, veniva fatta in un altro articolo de “l’Unità”, uscito il giorno dopo quello appena citato, in cui partendo dall’intervento del Segretario Piccioni si scriveva: << Egli (il Segretario) pur pronunciandosi per il mantenimento del tripartititsmo ha difeso l’operato della Direzione dagli attacchi mossi dalla sinistra, ed ha sostenuto che il partito non deve allontanarsi dalla posizione cosiddetta centrista. L’on. Piccioni ha vivacemente polemizzato con Dossetti e Fanfani, i quali, come è noto, avevano più aspramente di tutti criticato la linea seguita dalla Direzione, colpevole di non aver realizzato la necessaria collaborazione con le sinistre e con gli altri partiti popolari >>.

L’”Avanti!” mostrava un’attenzione maggiore e un’analisi più approfondita e circostanziata sugli eventi romani. Si registrava, da parte del quotidiano socialista, la nascita di una sinistra democristiana, che poteva essere foriera di importanti sviluppi per la politica italiana e per la sinistra nel suo insieme, così da realizzare sia una compagine governativa più solida sia un rinnovamento profondo e sostanziale del Paese. Emergeva anche una certa differenza all’interno dello stesso movimento socialista su quelli che avrebbero dovuto essere le sorti del partito nel futuro. Si sperava che la sinistra DC potesse far breccia nel monolite democristiano e portarlo verso posizioni socialmente più qualificate: << Il fatto politico più importante […] resterà io credo – si poteva leggere su quel quotidiano – l’improvvisa affermazione politica della sinistra democristiana. Che ci fosse ognuno lo sapeva, dove fosse non appariva chiaro […] Ora proprio in questi giorni, nel corso delle riunioni del CN della DC, per la prima volta la sinistra ha parlato >>. L’articolo si soffermava, in seguito, sul perché questa componente si fosse spinta alla ribalta. Si dava, a differenza de “l’Unità”, un ruolo fondamentale in questa presa di posizione più che all’attacco portato al tripartito, alla minaccia che veniva fatta all’unità sindacale. La comparsa di questa sinistra democristiana restava, comunque, un evento degno della massima attenzione: << E’ un fatto importante – scriveva il quotidiano socialista – è un fatto suscettibile di larghi sviluppi e che noi dobbiamo considerare come un elemento positivo della presente maturazione di un vasto schieramento popolare >>. A che cosa avrebbero potuto condurre questi sviluppi ? L’ “Avanti !” univa sapientemente, nel rispondere a questa domanda, la consapevolezza della politica reale con le aspirazioni per un rinnovamento dell’Italia, scriveva infatti che: << Noi non abbiamo motivo alcuno di augurarci una scissione della DC, ma abbiamo mille ed una ragione per augurarci che nel seno del partito cattolico l’ala sinistra si affermi e vinca, in rappresentanza di forze sociali obiettivamente di sinistra – operai ed operaie, contadini, impiegati – le quali sono rimaste finora per motivi e terrori confessionali, schiavi delle destre […] Noi desideriamo una sinistra cattolica con la quale divenga concretamente possibile affrontare i problemi sociali della nostra epoca e quelli politici del potere ai lavoratori >>. L’articolo proseguiva con un invito esplicito alla sinistra italiana ad abbandonare un “facile” e semplicistico anticlericalismo e ad intavolare una politica di collaborazione basata su reciproche garanzie. Appello che sembrava rivolto, più che al PCI che mostrava una certa disponibilità in tal senso, visto l’atteggiamento che si andava delineando in seno alla Costituente, ad alcune anime eccessivamente radicali, nel loro laicismo, presenti nel partito socialista: << la sinistra cattolica ha il diritto di desiderare una sinistra laica, che non turbi la pace religiosa. Questa infatti non è l’ora di fare le pulci ai preti nel campo teologico o ideologico in generale, ma è quella in cui la sorte della democrazia si decide con la riforma agraria e la riforma sociale. Una sinistra di lavoratori cattolici decisa a battersi per la terra ai contadini e per la nazionalizzazione e la socializzazione dell’industria monopolistica, deve sapere che essa non rischia di trovarsi domani minacciata o insultata nella sua fede o nell’esercizio della sua fede. Una sinistra cattolica decisa a colpire al tronco le radici del fascismo e le radici della conservazione (che sono tutt’una) deve sapere che lavorando in questa direzione coi socialisti e i comunisti non rischia di trovarsi domani imprigionata in uno stato totalitario, suscitatore di una religione di stato da contrapporre alla religione dei nostri padri >>. L’articolo passava poi a formulare un esplicito invito alla sinistra nel suo complesso: un appello che suonava quasi come una sollecitazione ad una forma di socialismo più conforme sia alla realtà italiana sia ad uno spirito umanitario e di tolleranza: << Il nostro materialismo marxista comporta un certo giudizio sulle religioni al quale non rinunciamo, ma non comporta la persecuzione religiosa e neppure l’intolleranza religiosa […] Il nostro laicismo è affermazione concreta della separazione delle funzioni dello Stato e della Chiesa, non turpiloquio contro la Chiesa >>. In chiusura del suo scritto il giornalista dava delle direttive concrete da seguire, in modo da portare le forze della sinistra socialista e cattolica alla collaborazione: << Un’altra garanzia che noi dobbiamo dare alla sinistra cattolica, perché essa possa sinceramente e ardentemente lavorare con noi sul piano sindacale, è che non ci incamminiamo verso un sindacalismo di Stato o un totalitarismo di Stato, ma che la nozione di conquista di potere si accompagna alla vigile tutela di tutte le forme di vita autonoma degli individui e delle categorie, di iniziativa dal basso, di autogoverno. Si può dire che il socialismo sta nella affermazione dell’inno turatiano ” Il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà”, altrimenti detto che l’emancipazione dei lavoratori ha da essere l’opera dei lavoratori stessi. E’ con questa prospettiva che conviene salutare la prima affermazione di una sinistra democristiana >>. L’esortazione era forte ed accorata, faceva emergere, inoltre, le varie anime che si agitavano in seno al partito socialista e alla sinistra tutta: esemplare è, a mio avviso, il richiamo fatto all’autogoverno, all’iniziativa dal basso, che celava una concezione quasi “consiliare” della gestione del potere e della stessa idea del socialismo. Forse non era l’appello più adatto da fare alla sinistra democristiana nella versione dossettiana, tutta attenta, a quel tempo, ad un effettivo rinnovamento dello Stato e ad una sua valorizzazione in senso democratico e partecipativo. Di certo si segnava un significativo, per quanto ristretto, percorso di dialogo e di attenzione. Sulle colonne de l’”Avanti!” si continuava a registrare una certa riflessione sulle sorti della componente dossettiana, di cui veniva ribadita, in un articolo di qualche giorno dopo, l’importanza per il destino della politica della Democrazia Cristiana: << Non è dunque marginale il ruolo sostenuto dalla mozione Dossetti Lazzati – scriveva l’”Avanti” – E’ attorno alla posizione conquistata dai 29 voti contrari alla Direzione (posizioni chiaramente di sinistra) che vedremo con molta probabilità concentrarsi tutte le forze democratiche che nella DC hanno fin’ora avuto vita sommessa […] C’ è dunque motivo per supporre che dietro i 29 voti di sinistra contrari alla politica centrista (ossia di destra) della Democrazia Cristiana, marci una tendenza che, a torto, lo on. Piccioni definisce piccola e marginale >>.

La crisi di maggio e la rottura del governo tripartito cambiavano gli scenari della politica italiana, lo stesso Dossetti spariva dai resoconti dei quotidiani di sinistra, tutti intenti nel dibattere con quello che era il personaggio più grosso della tenzone e cioè il Presidente del Consiglio.

Un richiamo a qual momento della storia della Repubblica però verrà fatto da Togliatti anni dopo, durante un intervento per le elezioni amministrative tenutesi a Bologna nel 1956 e nelle quali Dossetti si candidava alla carica di Sindaco contro il comunista Dozza. Il leader del PCI tenne infatti un comizio per sostenere il candidato del partito, e approfittò di quella occasione per tornare sulla rottura del tripartito.

Palmiro Togliatti partiva da una sorta di riconoscimento dell’operato di Dossetti nel dopoguerra, pur con forzature di tipo ideologico: << Riconosciamo però che egli fu uno di coloro che compresero che era necessario modificare completamente l’indirizzo delle cose in Italia – disse Togliatti – e che bisognava per riuscire ad operare questa trasformazione, aprire la strada all’avvento di una nuova classe dirigente – la classe operaia – e modificare le strutture della società. La libertà politica stessa – egli diceva – non si può difendere se non si rinnovano le strutture politiche e sociali del Paese >>. Dopo questa prolusione iniziale, Togliatti passava a considerare quello che era stato poi il comportamento concreto di Dossetti, che egli riteneva non conseguente al suo pensiero. Veniva così affrontato dal Segretario del PCI il nodo della rottura del governo tripartito: << Nei fatti, però, come operò egli ? – disse – Come si condusse nel periodo successivo quando usciti dalla guerra di Liberazione, esisteva una grande unità di forze popolari che se si fosse mantenuta avrebbe permesso al Paese la realizzazione di quelle profonde riforme economiche, politiche e sociali di cui tutto il popolo ha bisogno ? Questa unità venne improvvisamente rotta […] Come si comportò l’On Dossetti ? >>. Qual’era, dunque, la risposta che Togliatti dava al comportamento dell’onorevole reggiano? La sua analisi partiva, ancora una volta, dal riconoscimento del fatto che Dossetti avesse capito l’importanza dell’unità dei tre grandi partiti di massa: << Egli aveva compreso l’unità – affermò- aveva compreso il valore non contingente, non passeggero dell’unità, aveva compreso il valore profondo dell’unità come strumento per il rinnovamento di tutta l’Italia; ma appoggiò – chiosava il leader comunista – si schierò con coloro i quali ruppero l’unità, li appoggiò nell’opera loro >>. Questo il giudizio che a posteriori Togliatti dava del ruolo di Dossetti nelle vicende che avevano visto la fine del “tripartito”; il segretario del PCI indugiava troppo, a mio avviso, sul reale potere di Dossetti nella DC e sbagliava sulle intenzioni di Dossetti in merito. Egli visse, senza dubbio, quella vicenda con travaglio e perplessità, ma ritenne, allo stesso tempo, che anche in mancanza di quella formula fosse possibile ottenere un programma di adeguate riforme sociali ed economiche. In quel contesto, inoltre, invitava la DC ad un ruolo più partecipe e protagonista, che avrebbe dovuto già esserci nella formula tripartitica, ma che, a maggior ragione, nella situazione che si andava determinando, il partito avrebbe dovuto pretendere per sé. Togliatti nel prosieguo del suo intervento bolognese, faceva delle affermazioni interessanti circa l’abbandono di Dossetti, in cui lasciava trasparire una certa attenzione nei confronti del deputato emiliano e della sua opera passata, esprimendo quasi un sentimento di delusione per il fallimento di quella esperienza. Pensieri che però, nell’intervento del leader comunista, finivano poi nel calderone della propaganda elettorale: << Egli ha parlato […] a proposito di noi ed ha usato un termine pesante, ha parlato di tradimento. Ebbene, noi possiamo dire che se vi è in Italia, se vi è stato in Italia in questi ultimi dieci anni, un uomo politico che ha sempre tradito se stesso, tradito l’idea per cui si era mosso inizialmente, partendo dall’esperienza della guerra di Liberazione, questo è stato lui. Perché quando, nel 1951, l’orientamento, non soltanto conservatore ma reazionario, del partito della democrazia cristiana e dei suoi alleati divenne ancora più chiaro […] il prof. Dossetti riconobbe che non aveva più nulla da fare […] e abbandonò la lotta, capitolò, si ritirò in disparte […] lasciò la via aperta a coloro i quali cercavano di andare oltre […] fino all’infame tentativo della legge truffa, fino all’alleanza con le forze più reazionarie della società italiana; lasciò che queste andassero avanti per questa strada […] noi possiamo sempre rinfacciargli il suo passato e dire che per un uomo che nel 1945 si mosse da quelle posizioni e l’una dopo l’altra le ha abbandonate, questa è la prova delle contraddizioni, è la prova del tradimento di se stesso >>.

La rottura del “tripartito” segnerà, quindi, un diverso atteggiamento della sinistra nei confronti di Dossetti, che verrà attaccato spesso e pesantemente come gli altri esponenti della DC.

L’attenzione verso il deputato reggiano tornava a farsi viva in occasione del Congresso nazionale della DC tenutosi a Napoli dal 15 al 20 novembre del 1947. Era ancora il partito socialista e il suo quotidiano ad occuparsi della sinistra democristiana che si preparava alla riunione partenopea. Achille Corona, infatti, dalle colonne de l’”Avanti!” analizzava la nuova sinistra interna alla DC che si andava sostituendo alla vecchia: << Esiste […] una sinistra […] Ma ciò che c’interessa di più, non è farci illusioni sui suoi voti, ma prendere atto delle sue idee […] Finora la sinistra democristiana ha sempre dimostrato nei confronti delle altre correnti una certa timidezza, che è come un riflesso della coscienza di essere quasi eretica nel Partito, e che si traduce nelle tendenze a ripiegare il capo sotto le ali al momento del pericolo e delle decisioni risolutive […] Un più vivo fermento ideale si ritrova nella sinistra della nuova generazione, quella comunemente detta dei professorini. Essa non ha nascosto la sua perplessità di fronte alla svolta politica della democrazia cristiana, come non nasconde le sue critiche all’indirizzo generale del Partito >>. Veniva colta la specificità della nuova sinistra rispetto alla vecchia e, in riferimento agli scritti apparsi su “Cronache Sociali”, emergeva la speranza che l’opera di questo gruppo contribuisse a sganciare la DC da politiche antipopolari: << Il bilancio di Cronache Sociali – scriveva il quotidiano socialista – è assai più significativo ed ha un valore di ammonimento per tutto il partito. Esse constatano apertamente il fallimento di un’esperienza, che pretendeva di riuscire a mantenersi neutrale tra le forze in gioco, e contano come estrema speranza su una iniziativa che sganci la democrazia cristiana da quanti, fuori e dentro di essa la spingono sul terreno della lotta antipopolare. E’ un saggio avviso che la giovane sinistra democristiana dà all’on. De Gasperi e a tutto il suo partito. In quale misura essi ne terranno conto, si vedrà dai prossimi sviluppi e dal prossimo Congresso >>. Pochi giorni dopo, in occasione del dibattito parlamentare scaturito dalla mozione di sfiducia presentata a Montecitorio da Nenni e Togliatti, mozioni che vennero entrambe bocciate nella notte fra il 4 il 5 ottobre,ancora il quotidiano socialista, a riprova di una certa attenzione, tramite le parole di Lelio Basso, esprimeva giudizi sul comportamento di Dossetti: << Persino Dossetti (veniva riportato nell’articolo un brano di uno scritto dossettiano apparso su “Cronache Sociali” il 15 settembre 1947, dal titolo “Il Vero Impegno”) che pochi giorni prima aveva denunciato le storture della politica degasperiana […] si è allineato per mettere la sua cultura e il suo impegno a sostegno di una tesi capziosa, che era viziata nella forma e sleale nella sostanza >>.

Il Congresso di Napoli si svolgeva all’insegna dell’unità, il partito tendeva a ricompattarsi in vista delle prossime elezioni politiche. “l’Unità” non concedeva molto alla posizione di Dossetti durante il Congresso, soffermandosi soprattutto sulle questioni procedurali che avevano visto il deputato emiliano dare battaglia durante le giornate congressuali: << La mozione Dossetti – scriveva l’organo del PCI – si limitava a determinare il pericolo rappresentato da un ritorno offensivo della destra e a chiedere alla DC un programma sociale, non senza riportare l’affermazione cara a Pastore e a De Gasperi, che le sinistre minacciano la rottura del fronte del lavoro. La battaglia si è accesa quando la commissione per lo Statuto ha proposto che venisse aumentato il numero dei componenti del Consiglio Nazionale >>. L’”Avanti!”, partendo dalla stessa questione, dava un giudizio più compiuto sull’opera della componente dossettiana, lasciando trasparire un certo disappunto per l’esito che il dissenso della sinistra DC aveva avuto nel Congresso, non chiudendo totalmente, però, le porte ad un futuro dialogo: << Certo la sinistra poteva, obiettivamente profittare della questione apparentemente di procedura per sferrare un attacco che, data l’atmosfera, avrebbe avuto notevoli risultati – scriveva Edoardo Rossi- Ma non ha voluto fare il tentativo ( senza che per questo ora si debba attribuire il fatto a quel che ieri chiamavamo la destrificazione delle sinistre democristiane ) anche perché la sua manovra interna sembra volersi basare sul rafforzamento del Partito. Se la sinistra fosse certa – chiosava il giornalista – delle posizioni che acquisterà in avvenire si potrebbe dire che non ha torto >>. Il 1947 si chiudeva politicamente con il Congresso di Napoli: stava per iniziare la lunga campagna elettorale che avrebbe portato alle elezioni del 18 aprile e alla vittoria della DC.

Il 1948 si apriva con il VI Congresso del PCI, tenutosi a Milano dal 5 al 10 gennaio. In quell’occasione Togliatti tornava ad attaccare la DC come partito reazionario e conservatore, badando a dividere, però, fra la politica di quel partito e i suoi elettori che, a giudizio del leader comunista, non trovavano un’espressione adeguata del dissenso presente nelle loro fila. L’attacco finiva per riguardare di nuovo la “sinistra democristiana”: << Ha parlato del Partito della Democrazia Cristiana – riportava “l’Unità” circa il discorso del segretario– nel suo complesso e chiedo scusa a quei lavoratori iscritti al Partito della Democrazia Cristiana che sentono ripugnanza per questa politica. So che ve n’è una massa. Ma l’oratore osserva che questa massa, pur aspirando a una politica democratica da parte del suo partito non trova un’adeguata espressione politica nei suoi dirigenti, la cosiddetta “sinistra democristiana” che si è rivelata finora solo come una forma raffinata di gesuitismo >>. L’anno delle elezioni scorreva nel mezzo di una campagna elettorale molto agguerrita e accesa, a cui anche Dossetti partecipava con passione e impegno. La sinistra tornava ad interessarsi, nei suoi periodici, del deputato emiliano al termine dell’anno che aveva visto la vittoria della DC nelle elezioni politiche. Compariva, infatti, sulle pagine di “Rinascita” un lungo articolo di Pietro Ingrao che prendeva le mosse da uno scritto di Dossetti, comparso su “Cronache Sociali” (“Ripresa”, apparso il 15 novembre del 1948 ), per criticare sia il governo sia la stessa componente vicina al professore reggiano. Ingrao partiva da una lunga citazione di un branodell’articolo di Dossetti, in cui il professore reggiano portava critiche importanti al governo. Egli attendeva, infatti, la ripresa dell’attività dell’Esecutivo per valutarne l’efficacia e per saggiare la capacità della DC di influire sulle sue decisioni; lamentava, però, che troppo si era atteso per vedere concrete realizzazioni: i vari problemi inerenti alla situazione sociale ed economica chiedevano una sollecita risposta. Da queste considerazioni dossettiane, Ingrao giudicava che il governo del 18 aprile era ormai usurato: il suo commento partiva con una stoccata a Dossetti, che nei contenuti verrà riproposta anche in seguito, e alla posizione del suo gruppo: << Abbiamo riportato un brano dell’articolo dell’on. Dossetti […] che ha suscitato un certo rumore. Alcuni vi hanno voluto vedervi l’annuncio di una prossima crisi ministeriale, altri il primo colpo, concordato con De Gasperi, portato contro i ministri socialdemocratici e il conte Sforza; altri infine, vi ha veduto un nuovo episodio di quella “corsa alle poltrone”, che Scelba auspicò in giugno e cui hanno partecipato validamente anche i “puri” del cosiddetto gruppo dei “professori”>>. Ingrao ironizzava sulla presunta “purezza” dei “professorini”, come se questa venisse intaccata dalla partecipazione politica “tout court”, attribuendogli un aggettivo che essi certamente avrebbero rifiutato e che, sicuramente, non avevano cercato. Nel prosieguo del suo scritto intravedeva, forse, quello che era un grumo di verità contenuto nell’articolo di Dossetti, per quanto non espresso in quei termini e con quei toni, e che era usato oltretutto con finalità diverse da quelle del PCI: << Noi più semplicemente – scrisse Ingrao – vi troviamo una preziosa confessione dell’usura cui è giunta, dopo soli cinque mesi di governo, la coalizione reazionaria uscita vittoriosa dalla elezioni di aprile […] Il Dossetti ha ragione ad allarmarsi. Basta girare l’angolo della strada di casa o recarsi al mercato a sfogliare la stampa governativa o scorrere le cronache delle agitazioni e delle lotte per convincersi che le sue preoccupazioni sono fondate >>.

Nel 1949 la DC celebrava il Congresso del “terzo tempo” teorizzato da Mariano Rumor. Nell’assise veneziana Dossetti interveniva movendo critiche al governo, e augurandosi al contempo che i tanti problemi posti sul tappeto dalla realtà del Paese venissero risolti. Nel suo intervento De Gasperi dichiarava di comprendere i rilievi mossi dal suo interlocutore, ma invitava, altresì, i giovani critici a mettersi “alla stanga” per essere maggiormente propositivi. La posizione di Dossetti durante l’incontro nella città lagunare, trovò spazio, come era ovvio, sui giornali di sinistra, anche perché il deputato reggiano aveva invitato ad inserire in quella che egli chiamava “la casa dello Stato” la parte più dinamica del popolo italiano e cioè gli operai. La DC, inoltre, veniva esortata ad assumere un comportamento altrettanto fermo nei confronti dei ceti conservatori quanto quello tenuto verso, disse, “l’estrema sinistra”. Reichlin commentò per “l’Unità” il discorso di Dossetti, vedendovi delle sostanziali affinità con la linea di De Gasperi, pensando di scorgervi una volontà di omogeneizzazione del professore emiliano nei confronti della linea del Presidente del Consiglio: << In realtà il discorso che Dossetti si è deciso a fare in serata non può essere dispiaciuto a De Gasperi. Lo (sic) ispiratore di “Cronache Sociali” ha identificato infatti la linea d’azione che la sua corrente indica alla DC dopo il 18 aprile con una frase di De Gasperi “Fino a quando non riusciremo a liberare parte notevole della classe operaia dal comunismo la nostra battaglia non sarà finita”. Ma come fare ? Dossetti ha spiegato al congresso che fino a quando la classe lavoratrice non verrà inserita attivamente nello Stato – in uno Stato democratico diverso completamente dal passato – il comunismo continuerà ad avanzare. Per un attimo (anche per colpa di un confuso accenno dell’oratore all’unità di tutti i lavoratori ) è aleggiato fra i delegati sgomenti e allibiti lo spettro del tripartito. Ma si trattava di un equivoco >>. Mancava, in definitiva, in questo scritto, la percezione dell’alterità della posizione dossettiana rispetto a quella del leader trentino. Si pensava, forse, negli ambienti del PCI che Dossetti potesse assumere una posizione di rottura sostanziale con la DC, e per questo di fronte agli avvenimenti politici che si muovevano in direzione contraria emergevano sentimenti di scherno e feroce disappunto. Scriveva, infatti, Reichlin in chiusura del Congresso che: << Il gruppo degli effettivi dirigenti del partito – da Piccioni, a Cappi, a Spataro, a Fuochini, a Cingolani – si è stretto intorno a De Gasperi. L’ assemblea ha capito ed è scattata nell’applauso. Anche Dossetti, colui che De Gasperi, nel suo discorso si era compiaciuto di definire il “capo dell’opposizione” è salito sul palco e il suo gesto è sembrato un atto di sottomissione >>. L’esito del Congresso determinava molte reazioni, che a sinistra si caratterizzavano tutte per lo stesso tono: in definitiva la Democrazia Cristiana si era trasformata in regime e il dossettismo ne era diventato un puntello importante: << In realtà quello che noi dobbiamo rilevare – scrisse Basso su l’”Avanti !” – è che, in forma più o meno cruda, o se piace più o meno ipocrita, Scelba e De Gasperi, Piccioni e Dossetti, hanno espresso un unico concetto la definitiva trasformazione della Democrazia cristiana in regime […] Dossetti vi reca l’entusiasmo mistico della giovinezza che, sotto veste di un rinnovamento sociale, apporta il contributo di buona fede di larga parte dei giovani di base, nel quadro di una visione totalitaria, cementata dalla mistica religiosa anzichè dalla mistica nazionale >>. Medesime considerazioni emergevano nell’analisi comunista, scrisse infatti Togliatti, partendo dal discorso veneziano di De Gasperi, in cui il Presidente del Consiglio aveva definito il PCI un “partito diverso dagli altri” che utilizzava “la democrazia e la Costituzione come espediente transitorio per arrivare al potere”, che: << Al congresso del suo partito, poi, trascurando le attese manifestazioni di una opposizione democratica all’interno della stessa Dc, si è compiaciuto di avere oramai una opposizione, quella dei Dossetti e C, che è di tendenze nettamente fasciste e arriva al punto di ricalcare persino nelle parole le formule del fascismo (tutto il potere a tutta la DC; corporativismo economico; anticomunismo)>>. L’analisi cedeva a toni di aspra contesa politica, per quanto il motto, attribuito dal segretario del PCI a Dossetti, “tutto il potere alla DC” assomigliasse casomai, più che al fascismo, al comunismo in versione leninista di “tutto il potere ai soviet”. Sulla stessa linea si muoveva un commento di Ingrao: << Nel discorso di questo “leader della sinistra” – scrisse a proposito dell’intervento nel Congresso di Venezia – di questo riformatore vaticanesco, il problema della riforma si inserisce in una questione di coordinamento di ministeri e di commissariati (forse per questo De Gasperi si è affrettato ad offrirgli un posto ?) dove non giunge nemmeno un’eco lontana della lotta di massa […] La stessa esaltazione sfrenata della ragione di parte, compiuta senza veli da Scelba, era un modo di acquietare in una sola torbida corrente malumori, dissensi, doglianze, e in fondo era in maniera brutale, pratica lazzaronesca, lo stesso appello celestiale alla unità del sentimento, che Piccioni aveva invocato per ridurre alla ragione e al silenzio gli oppositori e gli irrequieti: il sanfedismo come cemento della barcollante unità del partito. E su questo terreno si incontrava meravigliosamente con Scelba lo stesso Dossetti, a nome del suo totalitarismo cattolico, e della sua intransigenza teologica, del suo corporativismo antiautonomista, a nome dei Gedda, dei Comitati Civici, dei dottrinari del Sacro Cuore >>. Ha ricordato Chiarante a proposito dei fatti posteriori al ’49 e all’assise veneziana che: << Allora la delusione (con riferimento all’entrata di Dossetti nella Direzione qualche tempo dopo il Congresso) diventa molto marcata e anche la preoccupazione che in qualche modo quella fosse una politica che serviva a coprire, a dare una veste di apparente socialità ad una linea di fondo che però era quella di Pella, quella conservatrice di ricostruzione del capitalismo italiano. Forse c’è poca attenzione per il fatto che in questa fase matura rapidamente la delusione di Dossetti>>.

L’ accusa di “intergralismo”, ripresa in qualche modo in quel periodo dalla sinistra, e che proveniva in maggior parte dal mondo cattolico, per Chiarante: << pesa sul giudizio che viene dato da sinistra […] come se da parte dei dossettiani ci fosse un’idea di autosufficienza […] del pensiero sociale cattolico rispetto alla complessità dei problemi aperti nella società contemporanea >>.

L’anno successivo smentiva le previsioni dei commentatori della sinistra: Dossetti e il suo gruppo, infatti, non entravano nel VI governo De Gasperi, in quanto questo Esecutivo non garantiva il necessario cambiamento in materia di politica economica e sociale. In particolare si chiedeva di mutare la linea economica voluta da Pella, dibattito iniziato, per altro sul finire del 1949. La componente dossettiana restava fuori dal governo, questa la cronaca data da “l’Unità” dei fatti di quei giorni: << A mezzogiorno La Pira si recava al Viminale recando le richieste ultimative della sua corrente: Industria per Fanfani e Lavoro per Dossetti. Per dare una risposta a questa richieste De Gasperi convocava nella sua abitazione tutto lo stato maggiore della DC […] Costoro decidevano di dire no ai dossettiani e questi, per bocca di La Pira comunicavano ufficialmente a De Gasperi che la corrente che aveva ricevuto il 25% dei voti all’ultimo congresso DC, usciva dal governo>>.

Durante il Consiglio Nazionale del partito, tenutosi a Roma nell’aprile del 1950, Dossetti accettava però di entrare, pur con perplessità, nella nuova Direzione del partito e di assumere l’incarico di vice segretario e di coordinatore dei gruppi parlamentari. La sinistra reagiva registrando sia il fatto che De Gasperi era dovuto venire a patti con una componente interna sia constatando la “disfatta del dossettismo” come opposizione interna al Presidente del Consiglio. La riflessione in merito era più completa nell’articolo di Rodanodal titolo eloquente “La disfatta politica del dossettismo”. Egli partiva dalla considerazione che la corrente dossettiana aveva tentato, con fatica, di opporsi al corso della politica del governo e del partito; essa però si era lasciata fagocitare dalla maggioranza nell’ultimo Consiglio Nazionale. Il dossettismo aveva tentato, in definitiva, il rinnovamento del mondo cattolico, aveva provato a promuovere, scrisse: << all’interno del mondo cattolico una circolazione delle elites (l’espressione sociologica si adatta perfettamente alla mentalità e alla cultura dei dossettiani), e le insistenti apparenze, contro ogni intenzione di machiavellismo e di conquista di posizioni denunciano ad un tempo la volontà di un simile obiettivo e la strutturale impotenza a raggiungerlo >>. Come mai però la componente dossettiana aveva fallito in questo suo intento? Perché era afflitta da un’impotenza di fondo che le impediva di costituirsi in corrente organizzata? Rodano attribuiva queste esitazioni e ritardi ad un unico vizio che caratterizzava dall’origine il “dossettismo”: non aver compreso, a suo tempo, il potenziale politico di rinnovamento espresso dal tripartito: << Non seppero, quindi, comprendere, in particolare, che se era funzione specifica della Chiesa diffidare del tripartito a causa dell’ideologia dei comunisti, che ne erano – a loro onore – i promotori, i vecchi popolari invece lo avversavano e ne affettavano la fine in funzione, per così dire, “antidossettiana”, ossia, essenzialmente, con l’obiettivo di impedire il rinnovamento del loro partito. Potevano le nuove forze potenziali del mondo cattolico portare un contributo importantissimo allo sviluppo storico del nostro paese distinguendo ideologia da politica e salvando così il tripartito >>. Rodano assegnava, al dossettismo, una forza eccessiva nel condizionamento della politica del partito (cosa che per altro egli vedeva mancare, all’inizio del suo scritto, in modo strutturale alla componente vicina la professore reggiano). Attribuiva, inoltre, una mistificante volontà a Dossetti di aver voluto la fine del tripartito, mentre egli visse quel momento con non poche perplessità. Il dossettismo terminava la sua funzione, a quanto sembra di capire, quando metteva fine all’opposizione interna alla maggioranza. La sua elaborazione politica non aveva, per Rodano, alcun valore specifico, non possedeva soluzioni interessanti e valide al di là della sua azione di disturbo nei confronti del Presidente del Consiglio. La mancata occasione del tripartito aveva, perciò, ridotto il dossettismo a: << gruppo dai procedimenti indecifrabili e comprensibili solo agli iniziati. Oggi essi hanno tra le mani soltanto un keinesismo, cui le giustapposizioni evangeliche e neo–tomiste dell’onesto La Pira conferiscono solo un aspetto comico, e alcune complesse, anche se giuste, formule giuridiche sui rapporti tra governo e partito: troppo poco per fare una politica, la quale, se vuole essere tale, deve porsi il problema dei rapporti con tutte le altre forze sociali e politiche e uscire dalla semplici questioni tecniche e interne, e quindi di setta >>. Sembra emergere la stessa diffidenza presente in Togliatti. Il dossettismo era poco “politico” nell’accezione classica, e in quella che in quel periodo, evidentemente, veniva data dai comunisti; lo era ancora meno quando cessava di criticare il governo dall’interno e non si poneva in alternativa alla maggioranza che governava il partito.

Il Consiglio Nazionale di Grottaferrata, del giugno – luglio del 1951, nel quale Dossetti e il suo gruppo venivano attaccati e dove, di fatto, si prendevano provvedimenti per “riassumere” il partito nel governo, aveva visto il deputato reggiano lottare per una nuova compagine governativa, in grado di promuovere nuove riforme e di superare la cosiddetta “linea Pella”. Questa sua proposta non fece breccia e così maturò di lì a poco la decisione di abbandonare la politica, che si esplicò negli incontri di Rossena (agosto-settembre 1951). Le sue dimissioni pervennero, attraverso una lettera, al Consiglio Nazionale del partito l’8 ottobre 1951. Anche in queste occasione si registrarono le reazioni dei partiti di sinistra. <<Le dimissioni sono motivate dal fatto che la DC, nella sua azione di partito e di governo – scrisse “l’Unità” – è venuta meno agli impegni politici, economici e sociali che erano stati assunti da De Gasperi e dai suoi nel Consiglio Nazionale di Grottaferrata […] Il fatto sembra in realtà l’espressione di un turbamento molto largo esistente non solo nella DC ma in vastissimi strati e ambienti cattolici: crisi di incertezza e di disagio per la politica generale seguita dal governo cattolico dell’on. De Gasperi >>. Per “l’Unità”, dunque, l’abbandono di Dossetti avveniva, non senza ragione, per il disaccordo con la direzione intrapresa dal governo. Il quotidiano comunista, però, non mancava di far rilevare come questa decisione rappresentasse la fine e il fallimento della corrente dossettiana: << è anche chiaro come ci si trovi di fronte ad una prova del fallimento e dell’ incapacità politica di questa corrente – scrisse il quotidiano comunista – la quale, partita con intenzioni battagliere, forti di numerosi appoggi, e con una “base” discretamente larga a disposizione del partito, ha finito col farsi assorbire dal gruppo dominante (vedi il caso Fanfani) e poi col ritirarsi dalla scena (Dossetti) >>.

Anche l’”Avanti!” sposava la stessa lettura del quotidiano del PCI, scriveva infatti che: <<Le dimissioni dell’on. Dossetti sono state concordemente interpretate un punto d’arrivo nel processo di involuzione antidemocratica del partito di maggioranza dove evidentemente non esiste più la possibilità di esercitare una libera critica […] Secondo Dossetti la DC è oramai solo uno strumento della conservazione […] Per ciò che riguarda la struttura interna del partito l’on. Dossetti ha accusato di autoritarismo la direzione degasperiana che in realtà ha posto il partito a disposizione del governo mentre il rapporto avrebbe dovuto essere esattamente l’opposto>>.

Con il ritiro, l’interesse della sinistra per Dossetti cessava, salvo riprendere brevemente, come già detto, nella tornata amministrativa del 1956. Terminava così un rapporto burrascoso, segnato da incomprensioni e critiche feroci a volte eccessive e ingiustificate.

Un mancato dialogo stretto nella morsa della situazione politica del tempo, che non permetteva alcuna evoluzione. Solo più tardi le due storie, della sinistra italiana e di Dossetti, si ritroveranno nella difesa della Costituzione. Questa ripresa del dialogo vedrà Ingrao, uno dei suoi più feroci critici nei tempi passati, come protagonista. Tutto ciò a simbolo di un comune impegno, di eguali aspirazioni troppo presto spezzate dalla contingenza della storia.

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