Siria: la porta degli imperi

Se dovessimo fare un’analisi delle visioni geopolitiche della Siria dal punto di vista delle grandi potenze regionali (Russia, Turchia, Iran e Arabia Saudita), tutte concorderebbero nel considerare Damasco “la porta di accesso” al Medio Oriente, il cui controllo garantisce l’egemonia della regione. La rilevanza geo-storica siriana fa si che nel paese si concentrino una pletora di interessi di ex imperi e non (Impero Russo, Impero Persiano, Impero Ottomano e Impero Americano) confliggenti gli uni con gli altri che hanno causato il collasso del paese.

L’invasione della Turchia di questi giorni rappresenta quindi l’ennesima ambizione di droit de regard della regione a cui si accompagna una forte frammentazione del sistema Sykes-Picot (1916), la cui centralità siriana rappresenta il pivot di questo cambiamento.

La Turchia ambisce a “restaurare” un ruolo neo-ottomano in tutto il Medio Oriente ricalcandosi un proprio enclave esclusivo all’interno del quale esercitare la massima autorità. Durante la Guerra Fredda, Ankara era stata relegata a stato cuscinetto stricto sensu in funzione anti-sovietica con la sua entrata nell’Alleanza Atlantica (e N.A.T.O) durante il Consiglio di Ottawa (1952) insieme alla Grecia.

Finita la Guerra Fredda (1991), Ankara, con l’ascesa di Erdogan al potere durante le elezioni del 2002, ha riscoperto un proprio mythomoteur storico rappresentato dal bacino elettorale dell’Anatolia di cui il Reis è stato un abile interprete.

La dottrina Erdogan si ispira alla Dottrina di Ahmet Davutoglu del panislamismo che vede nella Siria la porta di accesso a tutto il Medio Oriente, necessario per fare della Turchia il rule maker della regione.        In questa visione il parossismo curdo è centrale perché ha una duplice connotazione: una interna onde evitare la frammentazione della nazione turca con la nascita di uno stato curdo indipendente (formato dal Rojava siriano e dal Kurdistan turco) e una esterna volta a togliere un ostacolo alle grandi ambizioni turche nel Siraq.

Durante i primi anni della guerra civile in Siria (2011-2015) Erdogan nei confronti dei curdi siriani aveva applicato la logica del divide et impera impegnandosi formalmente a supportare militarmente i curdi in funzione anti-ISIS ma in pratica ricoprendo il ruolo di plaque tournante dei jihadisti di Daesh, rifornendoli delle migliori armi. Fallito il piano, Ankara ha deciso di intervenire manu militari nel nord-ovest del paese ad Afrin prima con il tacito assenso della N.A.T.O e con il placet regio di Mosca, adesso in modo unilaterale mettendo in crisi non solo gli equilibri di potere all’interno dell’Alleanza Atlantica ma anche l’alleanza de facto con la Russia e l’Iran.

Le diatribe di questi giorni tra Ankara e Washington sono il risultato di una crisi più lunga risalente al fallito golpe turco (2016) orchestrato secondo l’intelligence turca con il consensusamericano tramite Fetullah Gulen, esule negli USA, per il quale Erdogan ha chiesto l’estradizione, di fatto mai avvenuta. Tuttavia, nonostante le numerose polemiche sulla baldanza delle considerazioni dell’amministrazione Trump sul clichécurdo, il Pentagono è consapevole dell’importanza strategica della Turchia all’interno dell’Alleanza Atlantica, nonostante il doppio gioco degli ultimi anni, non solo in funzione anti-russa ma soprattutto in funzione anti-iraniana. Una Siria “iraniana” tout court creerebbe problemi sia con Israele sia con l’Arabia Saudita dato che si vedrebbero accerchiati da una potenza nettamente ostile. Pertanto il “ritiro” delle truppe americane dal Nord della Siria si traduce in una legittimazione americana del modus operandi turco nel contesto siriano, avviando una proxy war contro l’influenza persiana sfruttando le ambizioni turche che potrebbero degenerare in una guerra con Damasco e di conseguenza contro Teheran e tutti gli alleati della regione compreso Hezbollah.

Per la Russia la Siria è: “la porta di accesso russa nella regione” (Caterina II la Grande) e questo spiega l’intervento militare russo nel novembre del 2015 a fianco del regime di Al-Asad e il grande attivismo diplomatico del presidente Putin nella regione. L’idea di un possibile regime change a Damasco con l’ascesa di un regime sunnita-salafita sarebbe stato catastrofico non solo per gli interessi geopolitici russi nella regione ma anche per la stabilità interna della nazione visto il rischio di una possibile “revanche” cecena, nonostante i grandi investimenti economici fatti nella regione che l’hanno resa la “Dubai” della Russia. Infatti, la guerra civile in Siria, dal punto di vista del Cremlino, è anche se non in primis una guerra civile russa combattuta al di fuori dei confini nazionali, dopo le due guerre civili in Cecenia (1994-1995, 1999-2009), tra una Russia filo-mosca (costituita sia da cristiani sia da mussulmani che si riconoscono nella Russia di Putin) e una Russia fondamentalista islamica (formata da élite di ceceni che combattono in Siria come jihadisti) che ha come ambizione la creazione di un grande Dar Al-Islam caucasico esteso fino all’interno dei confini russi. La diplomazia di Putin non è quindi una plaudente panoplia da esibire in patria in nome di antichi nefasti imperiali ma incarna la volontà anche di preservare gli alleati della regione, rafforzandoli e allargando la propria sfera di influenza anche all’Iran, sebbene tra i due ex imperi non “corra buon sangue”, implementando quell’ “asse sciita” iraniano creatosi durante gli anni ’80 del secolo, integrato con la collaborazione di Ankara nella regione con i colloqui di Astana (2017). Perciò le iniziative turche nella regione sono i prodomi di un possibile indebolimento del front runner di cui Putin è stato l’artefice come ha dimostrato il suo atteggiamento poco proclive nell’accettare un’occupazione forzata del nord della Siria.

Certamente la tanta paventata pace siriana è un sogno utopico mentre la guerra una realtà concreta che sembra non finire mai. Il tradimento dell’Occidente nei confronti dei curdi, in nome della vecchia logica di potenza, sminuisce l’immagine politica degli USA, dell’Unione Europa e della N.A.T.O. Si appresta ad aprirsi una nuova guerra in Siria, forse molto più pericolosa della precedente, in cui il rischio di escalation tra le potenze regionali è molto alto, non dimenticando l’appartenenza della Turchia all’Alleanza Atlantica con tutte le conseguenze che può avere l’art. 5 del Patto Atlantico sull’Occidente.

Marco Corno

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