Giovanni Bianchi. Testimoni e maestri. Riferimenti per una nuova speranza politica.

Tra “politica” e “visione” c’è una discrasia temporale autentica, nel senso che i tempi della politica, intesi come tempi dell’organizzazione, non sono sincronici con la visone. Questi “Testimoni e Maestri”, questi “Padri fondatori”, di cui parla Giovanni nel suo libro, avevano visioni delle quali dobbiamo tenere conto nella ricostruzione dei passaggi storici e dell’eredità che noi, evidentemente, traiamo da loro. Però quelle visioni – che pure sono state significative e importanti – non sono riproducibili oggi.

1. leggi il testo dell’introduzione di Salvatore Natoli

2. leggi la trascrizione della relazione di Giovanni Bianchi

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Testo dell’introduzione di Salvatore Natoli a Giovanni Bianchi

Politica e visione

Tra “politica” e “visione” c’è una discrasia temporale autentica, nel senso che i tempi della politica, intesi come tempi dell’organizzazione, non sono sincronici con la visone. Questi “Testimoni e Maestri”, questi “Padri fondatori”, di cui parla Giovanni nel suo libro, avevano visioni delle quali dobbiamo tenere conto nella ricostruzione dei passaggi storici e dell’eredità che noi, evidentemente, traiamo da loro. Però quelle visioni – che pure sono state significative e importanti – non sono riproducibili oggi. Lo stesso popolarismo, nella forma aggiornata in cui noi l’avevamo pensato negli anni ’70, era sostanzialmente da noi concepito in una logica di coalizione di Centrosinistra; di rinnovamento della DC dopo la constatazione – anticipatoria da parte nostra – che, ormai, quel partito era entrato in una situazione entropica. Si trattava di una lunghissima anomalia, specificamente italiana, che ci ha portato a quella transizione violenta che negli altri Paesi non c’è stata. L’ha avuta la Francia, ma con caratteristiche diverse, nella fase de gaulliana, per altro tipo di ragioni. Noi non abbiamo avuto Bad godesberg; abbiamo avuto un partito comunista, che ha rafforzato, ha “drogato”, una crescita innaturale della DC che l’ha pervertita, fino al punto che era diventata tutto e il contrario di tutto, e non teneva più. In fondo era, poi, l’intuizione di Moro: “prepariamoci all’opposizione…”. Quindi, c’era questa patologia che, poi, è esplosa, e “Mani pulite” è stato – come suol dirsi – lo “spillo nel palloncino”, non la ragione del crollo. Il popolarismo noi l’avevamo pensato prima dell’esplosione della crisi e – ripeto- l’avevamo concepito come rinnovamento della DC di cui vedevamo, con un certo anticipo, la fine nei cascami. Bisognava darsi una mossa e, da qui, la ripresa del popolarismo. Molte di quelle cose noi, oggi, le possiamo rimettere sul tappeto, però in una forma completamente diversa.

Maturi sì o no per il bipolarismo?

Vengo alla situazione politica di oggi e la metto così, per capirci velocemente: la società italiana, nel suo complesso, è matura per un’espressione politica veramente “bipolare” oppure no? Questa è la domanda che, a mio avviso, dobbiamo porci, prima di vedere il destino dei partiti. Interroghiamoci: per quello che noi sappiamo, la società italiana ha davvero una vocazione bipolare o non ce l’ha? Io ritengo che dai risultati elettorali, dai sondaggi, dall’ultimo successo che ha avuto la coalizione – chiamiamola – “ulivista”, in Italia si sia sviluppata un’idea di bipolarismo e che la nostra società sia matura per un sistema di questo tipo. Però, su questa “maturità” occorre mettere qualche punto interrogativo. Anzitutto, perché non veniamo da una tradizione bipolare, ma “tutta al centro”: parlavo, appunto, di questa patologia della DC, che era diventata “partito-società”, che si era mangiato tutto. Se, poi, pensate che, prima, avevamo avuto vent’anni di fascismo, dobbiamo constatare che per sessant’anni c’è stata un’Italia “monocolore”, con una democrazia molto debole anche nella fase precedente al ventennio fascista. La verità è che l’Italia è sboccata nel post-moderno senza aver vissuto la modernità; questo è il peso grande che ha la società italiana: di non esser mai stata moderna e di essere stata sbattuta nel post-moderno senza essere mai stata moderna. Tanti nostri traumi dipendono dal fatto che non abbiamo avuto la modernità, non abbiamo avuto il capitalismo. Ci siamo trovati, in una società cattolica, rurale e contadina, proiettati in una post-modernità con un secolo – un secolo e mezzo di assestamento, dove l’Italia non si sapeva dove stava.

Il centro è palude

Per cui, venendo al punto, ci sono motivi per dire che la società italiana è matura per il bipolarismo, ma ce ne sono anche altri per dire di no. Ho sempre sostenuto che il “centro” come fatto politico non esiste; non è mai esistito! E’ un’ «invenzione» politica, ma dalla Rivoluzione francese in avanti, noi abbiamo al centro una plaude, nel senso che il centro è fortemente indeterminato e bassamente orientato; è “pragmaticamente” politico e, quindi, in quanto tale, è costituito dal complesso delle persone potenzialmente assembrabile da una parte o dall’altra, a seconda che la proposta politica sia convincente o meno.

Le condizioni storiche di significanza del centro

In una situazione dove le estreme si presentavano come pericolose – nel ’48: i comunisti da una parte, la possibile ripresa del fascismo dall’altra parte – allora il Centro apparve come una proposta politica “difensivo-offensiva”. Ma non è che ci fosse un centro nella società; c’era una paura, un’incertezza, una mobilità rispetto alle quali il Centro degasperiano si presentava come una proposta aggregante che diceva: “io vi redimo, vi metto al riparo da questi pericoli”. E’ stata una grande “invenzione” politica che ha ridotto la labilità sociale, perché ne ha ridotto il sentimento di esposizione. E’ così che è diventata una proposta. Questa è la storia della Democrazia Cristiana, “non popolare”, del dopo-guerra. Quindi il centro, come fatto politico, non è mai esistito: al centro ci sono le onde; il centro è costitutivamente ondivago. In sostanza: il centro è potuto diventare una proposta politica nel momento in cui esistevano pericoli estremi da cui difendersi. Ma un centro smette di essere una proposta politica significativa quando i pericoli estremi non ci sono più. Quindi noi, oggi, siamo in una società non di “centralità politica” – né la si può riproporre (ecco perché non nasce più la DC) – ma siamo in una società che al centro è fortemente magmatica. Ecco il punto: in una situazione del genere se ci sono proposte bipolari convincenti, la società si bipolarizza; in caso contrario, la società rimane ondivaga al centro.

Le due visioni in campo: socialità e individualismo

Pertanto, quando io parlo di “maturità”, non dico che c’è un’intenzione decisa nell’elettorato verso il bipolarismo; c’è una “vocazione “, che può crescere e intensificarsi se la proposta bipolarizzante è convincente, ma se ciò non avviene le onde stagnano al centro, in modo indeterminato e, quindi, suscettibili di tutto: di corruzione, di spartizione e … di quant’altro noi ben sappiamo. Allora, se questa mia lettura della società sta in piedi, io dico che una proposta bipolare “convincente” bipolarizzerebbe il sistema, non tanto perché la società sia convinta di questo, ma perché ha una vocazione dentro di sé, perché non ci sono più posizioni “estreme” da cui difendersi, per cui è impossibile riproporre un centro come la DC, quel Centro forte che diceva: “io significo un’alternativa radicale al fascismo e al comunismo”. Oggi nessuno può fare questa affermazione e, quindi, il centro si può presentare – a proposito di “visioni” – con un’impostazione molto domestica e modesta del cosiddetto “partito moderato” che, però, non è la Democrazia Cristiana che, invece, era la “grande forza”, la “grande muraglia” contro la possibilità dell’avvento del comunismo o della ripresa del fascismo. Adesso il centro che cos’è? Può essere come quello tedesco, come sono i “Popolari” in Europa, cioè a dire, un partito moderato – conservatore. Oggi la differenza, fondamentalmente, è tra politiche più o meno “sociali” e politiche più o meno “individualiste”. Ecco: se noi vogliamo trovare un “tracciato ideologico” (e qui torna il tema della “visione”), noi abbiamo, da un lato, politiche genericamente sociali – sia nel senso tradizionale della redistribuzione del reddito, sia nel senso (che veniva fuori dal dibattito) della nuova ecologia e dell’interesse, in generale, per il mondo – e, dall’altro, politiche con caratteristiche di impronta individualista. Questa, nella società italiana, è la sensibilità che divide.

Elogio a Tabacci

Ora, due proposte politiche precise, svilupperebbero la vocazione bipolare. Dove sta, a questo punto, il deficit che mantiene l’Italia in questa dimensione oscillante? Io dico: nel sistema della politica, che paga ancora – e dolorosamente – l’idea di tenere in piedi vecchie organizzazioni e vecchi apparati di potere. E ciò avviene non solo e non tanto per il forte interesse al mantenimento di un ceto politico (in genere, io sono assai duro su questo: ci sono molte persone che preferiscono perdere pur di rimanere dirigenti e che pensano che i “peones” siano fungibili, ma loro – i Signori degli apparati – no!), quanto perché esiste un punto di vista, a mio avviso, sbagliato sulla società o, quanto meno, se non sbagliato, intenzionato a dirigere la vocazione della società verso la “moderazione”. Io, su questo aspetto, concordo con Giovanni nel considerare importante  e “simbolica” la figura di Tabacci, il quale non fa un discorso da “gruppo dirigente interessato”. Lui dice: “La società italiana non è matura per il bipolarismo. E’ il vestito che non le si addice!”. Qui non abbiamo il basso profilo di chi vuol continuare a fare il “capetto”, ma qualcuno che dice: “per la società italiana, il bipolarismo è troppo stretto; non riesce a tenere insieme le tante differenze esistenti e, quindi, esplode; dobbiamo tenere conto di queste differenze e tornare a una politica di coalizioni; quindi che cosa dobbiamo fare? Facciamo la Germania!”. E’ un’idea chiara, nitida; direi – provocatoriamente – perfino convincente. Allora, per venire alla politica, io dico e dichiaro qui: siccome l’idea di Tabacci è convincente; non è espressione di sopravvivenza di ceti parassitari; è una lettura della società (“l’Italia ha troppe differenze per poterle bipolarizzare”); ebbene, se è così, torniamo al proporzionale! E non sarebbe un arretramento, ma l’efficientizzazione del sistema politico.

Siamo ormai al bivio: o Prodi o Tabacci

Se è vero che le troppe differenze non possono essere tenute insieme perché esplodono; se è questa la lettura da dare alla società italiana; se ha ragione Tabacci, allora facciamo quello che dice lui! Se, invece, c’è una vocazione di tipo bipolare, allora facciamo quello che dice Prodi. I tempi, secondo me, sono molto brevi, perché bisognerà scegliere velocemente qual è il progetto per la società italiana.

Nell’ipotesi in cui ci convincessimo che esistono diversità di collocazione e di sensibilità che devono essere rispettate e seguite nelle loro peculiarità, allora si torni al proporzionale. In questo caso, certamente non può non pensarsi – e qui la nostra tradizione laburista sparisce – ad un grande partito “moderato” e ad un grande partito (chiamiamolo) “riformista”, con le ali, cioè, … Germania. Un’operazione di questo genere produrrebbe molti sgretolamenti, a cominciare dalla totale riformulazione di Forza Italia che è, infatti, quello che dice Tabacci: “Berlusconi deve favorire questa ristrutturazione, uscendo di scena – magari con tutti gli onori – consegnando all’Italia un modello di tipo tedesco, dove esiste un partito, fondamentale, di centro e alleanze che, di volta in volta, si formano; su programmi più o meno labili, ma si formano.

Anche lì, poi, si hanno minoranze alle “ali” (leggevo che La Fontaine vuole presentarsi in alternativa a Schroeder: che cosa diventa? Il Bertinotti della Germania? Possibile; però, col sistema proporzionale, si finisce per allearsi e il Governo si fa!).

Per concludere su questo punto io – ripeto – non vedo il ritorno al proporzionale in questa forma – se fatto bene (e, qui, sono d’accordo con Sartori) – come un arretramento, ma come un modo per razionalizzare e rendere efficiente il sistema politico.

Personalmente, come sensibilità mia, io sono per la bipolarizzazione; ma, allora, facciamola! Il discorso che va sostenuto in modo serrato è questo, perché oggi noi siamo in un equivoco, in cui non c’è un’evidenza di scelta tra questa posizione e l’altra. Occorre superare un certo pragmatismo (che a me sembra volgare e dove non vedo progetto politico) di chi, a parole, nega di voler tornare al proporzionale, ma poi in realtà è quello che desidera, occhieggiando dall’altra parte e facendo intendere che, se le cose falliscono, … ci si rimette assieme.

Se noi, dall’altro lato, diciamo: “no, il proporzionale non ci piace; vogliamo sviluppare la vocazione bipolarizzante che la società ha espresso, ormai, in numerose, ripetute circostanze”, allora ha ragione Prodi; bisogna forzare il processo. Ho apprezzato in Prodi due cose: anzitutto che non parli dileadership, ma di primership (io sto alle dichiarazioni e le parole sono importanti: non il Partito “del leader”, ma del “Capo del Governo”) e, poi, il fatto che abbia espresso la volontà di spendere il suo impegno per l’Ulivo, anche a costo di sacrificare la candidatura a Primer (interruzione di Giovanni Bianchi: «recupera la “vocazione”, rispetto alla “professione”!»), determinando così una convergenza tra la sua vocazione politica con quella bipolarizzante della società italiana. Bisogna, quindi, spingere in questa direzione, con tutte le riserve e le attenzioni tattiche utili allo scopo. Questa è l’indicazione di fondo. Naturalmente, le conseguenze di questo schema sono molteplici e vanno approfondite, ma è venuto il momento di decidersi in un senso o nell’altro. Prodi ha fatto bene a imporre un’accelerazione, come aveva fatto sul tema dell’Europa.

Europeismo, sì o no

Con l’Europa vengo a un secondo punto della “visione”. Prodi, in Europa, l’accelerazione l’ha esercitata; gli Stati l’hanno attaccato giudicandolo troppo europeista (di ben altra natura è l’ostilità che suscita Berlusconi!). In quella forzatura Prodi ha fallito, perché gli Stati nazionali – ai quali chiedeva un passo indietro – non l’hanno seguito e l’hanno pagata, però, sul piano della mancata adesione alla Costituzione. Del resto non si può presentare l’Europa, sostanzialmente, come un insieme di norme che possono apparire “costrittive” e non, invece, come un passaggio storico inevitabile, come un destino sul quale si gioca la nostra stessa sopravvivenza politica (“o facciamo l’Europa o spariamo”!). Anche lì (notate come le cose grandi e quelle piccole finiscano per assomigliarsi): questo frazionismo europeo è analogo al frazionismo partitico dentro l’Italia. Come da noi il frazionismo partitico impedisce il decollo della bipolarizzazione, così il frazionismo statalista nel Continente non fa decollare l’Europa. Certe cose non si possono fare con la riserva mentale; o si fanno o non si fanno, altrimenti si rimane nel sogno. Vedete, la “visione del mondo” – intesa come proposta di modello di civiltà, che esprime dove vogliamo andare – ci vuole, ma per non diventare un sogno (e, quindi, potenzialmente una delusione), la visone va supportata da una politica, cioè da un’organizzazione che, ogni giorno, la fa vivere nell’esperienza della gente.

Spezzare le “inerzie interessate”

Se consideriamo la tradizione e il personale politico dell’Ulivo, noi non abbiamo un deficit di programma. Il problema è che, se la politica non si bipolarizza, si parlerà sempre meno della “visione” e apparirà sempre di più la divisione. Se, invece, si bipolarizza, allora è chiaro che non si parlerà più di Margherita, di liste, ecc. ecc., e il focus si sposterà sulla “visione”.

Tutto sommato, poi, sui contenuti (politiche del lavoro, dei giovani,…) non è vero che il Centrosinistra non abbia queste sensibilità; inoltre dispone di un personale politico-tecnico di qualità decisamente superiore a quello del campo concorrente (noi – insomma – non abbiamo Maroni, abbiamo Padoa Schioppa!) che è certamente in grado di scrivere un programma. Da questo punto di vista, i numeri ci sono e non è vero che non abbiamo il personale per il programma. Il problema è che la politica non ha scelto quale visione potenziare, e la visione non può stare in piedi senza un’opzione della politica che sviluppi nella società una vocazione piuttosto che l’altra.

Per concludere: io ritengo che, oggi, il ritorno al proporzionale – se pensato in termini moderni, sull’idea che la società italiana è troppo differenziata per essere bipolarizzata – non rappresenti un arretramento. Però deve essere pensato con grande chiarezza, sapendo che ciò vuol dire assumere il modello tedesco. Se, viceversa, si ritiene che la società italiana abbia una vocazione bipolare, occorre interpretare questa vocazione e darle una visione. Si scelga tra questa alternativa.

Lo stallo in cui ci troviamo è frutto della combinazione del deficit di intelligenza del ceto politico e del mercato degli interessi consolidati. Il dilemma è questo: può la società spezzare, rompere, sbriciolare queste “inerzie interessate”? Oppure queste ultime disinteressano sempre più la società alla politica? La mia paura, il mio timore è che la società è troppo debole per spezzare gli interessi, ma il gioco degli interessi è troppo forte per disinteressare la società. E se così è, i tempi diventano lunghi e la società italiana, se Argentina non è … insomma, verso là si dirige!

Trascrizione della relazione di Giovanni Bianchi

Nell’occhio del ciclone

Trovo opportuno il tema “Riferimenti per una nuova speranza politica”, ma soprattutto l’ulteriore tematizzazione del testo “Testimoni e maestri – Materiali per un laburismo cristiano”. Viene utile in questa fase – tutt’altro che pacifica per quanto riguarda le forme della politica – che impone da parte nostra (senz’altro da parte mia) anche una presa di posizione di coscienza.

Pino Trotta pensava alla “fune spezzata” (capirete, poi, perché) e di funi che rischiano di spezzarsi ce ne sono anche in questo momento; poi le funi si riannodano – questa è la politica – ma in qualche caso è anche bene che si spezzino o, almeno, siano sottoposte a tensione. Il testo è dedicato proprio a Pino, perché la Sua grandezza nascosta sia dagli amici resa evidente: è più che una dedica; è anche una cifra, uno stigma, un raccogliere il testimone da parte di tutti noi (la nostra – grazie a Dio – è un’impresa comune, forse anche troppo francescana, ma… va bene così!).

Questo è l’incontro conclusivo del ciclo gennaio/giugno 2005 che – lo ricordo – è stato scandito da Marco Revelli (“La politica perduta”: il tramonto di un paradigma plurisecolare); da Michele Salvati (“Il partito democratico”: pensate a quanto l’argomento sia d’attualità!); da Ilvo Diamanti (con le sue “Mappe”: siamo un po’ tutti – almeno io, settimanalmente – alla predica di Ilvo, quasi “diamanti dipendenti”); da Francesco Casavola (“Custodia del tempo”: il discorso sull’ “etica” della Costituzione); da Danilo Zolo (“Cosmopolis”: la crisi dell’unilateralismo americano).

Il testo che oggi consideriamo penso che ben si inserisca per le sue tematiche -che segnano, al tempo stesso, una distanza e una vicinanza – nell’occhio del ciclone nel quale la politica italiana si trova. Prevedo mesi turbolenti; ma dico francamente che la cosa non mi spaventa più di tanto perché, in certi momenti, “opertet ut scandala eveniant” e, quindi, le cose vanno affrontate!

La politica tra Eremo e Metropoli

Ho imparato che c’è una grande distinzione e uno spazio misurabile tra quella che chiamerei evangelizzazione politica e la pratica della politica corrente. Non necessariamente la politique politicienne, ma anche la politica militante o dei militanti, quel che oggi ne residua dopo la fine del mito dell’Ulivo (e la politica vive di miti generatori), dopo i girotondi, dopo l’abbandono di Cofferati. Dopo la “corrente calda” – alla quale sono iscritto e affezionato – che, come dicono i geografi della Corrente del Golfo, pare essersi raffreddata…

Pino Trotta – cui questo libro è dedicato, e non solo perché l’ha voluto –  desiderava un testo di battaglia, chiaro, non lontano dal rigore. Non alieno dalla profondità, capace com’ è sempre stato nel costume della nostra collaborazione di far interagire piani diversi, all’insegna di due coordinate: Spiritualità e Politica, traducibili anche in Eremo e Metropoli, exergo, logo, progetto e, addirittura, destino del Circolo Dossetti.

Pino è morto – diagnosi che non ho taciuto in pubblico – per il liquefarsi del nostro comune “sogno popolare”. Per questo eravamo scesi a Roma. Perfino la coabitazione in via Orti di Trastevere aveva questo sapore, godeva di questa culturale atmosfera. Come non notare che il grande ombrello del popolarismo sturziano ci pareva fosse ereditato, inverato e ingrandito dall’Ulivo di Romano Prodi? Non a caso tutte le correnti del pluralismo aclista vi si ritrovarono nel 1996 spontaneamente, subitamente, naturalmente e finalmente “radunate”.

La fune spezzata

Pino ha voluto questo libro nel quale ci sono parti da lui direttamente composte, ispirate, suggerite. Aveva in testa un titolo, che ne era il tema e la trama di fondo: La fune spezzata. Lo ricorda bene l’editore Giovanni Napolitano. S’è spezzata la fune, e s’è spezzato pure Pino. L’assemblaggio iniziale del testo e la programmazione di questo sesto corso di formazione politica del Circolo Dossetti, operazione condotta in simbiosi con Salvatore Natoli, sono l’ultima fatica – mica soltanto intellettuale – di Pino Trotta.

Con libera fedeltà Fabio Milana, che ne è erede e continuatore – ha curato i manoscritti, fatto il reading, strutturato il tutto con questo ritmo e solfeggio, dopo iniziali incertezze e titubanze.

Un percorso scomodo

“Testimoni e maestri. Materiali per un laburismo cristiano”. Un titolo che farà arricciare il naso a una parte non esigua del vertice attuale della Margherita.

Ebbene, Pino nel suo arcigno rigore e l’esperienza della rivista “Bailamme” mi hanno insegnato che è buona igiene mentale della politica misurare prima le distanze e poi le vicinanze. L’evangelizzazione politica (uso il termine con ironia) non è la politica quotidiana, ma non è neppure la politologia. Prende le mosse dall’oggi, dai colli di bottiglia tattici perché sa che sempre da lì passano comunque le strategie… Fa formazione in questa fase, nella quale tutti concordano nel dire che è necessaria, con la stessa disinvoltura con cui tutti concordano nel rimandarla alle calende greche.

Solo personaggi come noi, disperatamente votati alla Speranza, possono dedicarsi con passione ad organizzare corsi di formazione alla politica. Gli uomini di questi partiti non solo non vogliono, ma temono la formazione perché essa disciplina passioni e vocazioni, crea competenze, produce concorrenti.

Noi ci siamo collocati volutamente in questo deserto. Conoscendo direttamente il sarcasmo di Sergio Quinzio: “E dov’è un luogo deserto in questo deserto?”. Francescani. Matti come i primi francescani, finiti tutti ai margini dell’Ordine e picchiati, a partire dal Fondatore. Parla di sé Francesco quando predica “letizia”, “perfetta letizia” a frate Leone (l’avevano malmenato i suoi, dopo averlo estromesso).

Evangelici. Per strada. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt. 10, 8).

Così nascono questi corsi. Così nasce questo libro. Non faccio previsioni sulla “perfetta letizia”. Quindi evangelizzazione politica è pensare in cammino, gestendo da laici le cose politiche, come dice Gaudium et Spes, prendendo sul serio le cose, come dice Gilson.

Con il gusto del lavorare insieme. Del fare squadra. Circondati non tanto dal relativismo quanto piuttosto da un narcisismo disperato e cannibale. Cosicché quando avrà finito di divorare figli e nipoti rivolgerà i denti alle proprie membra. Disperato più che protervo: ci si ripiega sul proprio interesse particolare per mancanza di orizzonti. Perfino un po’ stupido. Mi ripeteva Giancarlo Brasca, amministratore della Cattolica, l’uomo più vicino a Lazzati: “Vedi Giovanni, un malvagio lo puoi convertire, ma a uno stupido che cosa gli fai?”

“Testimoni e Maestri”: perché?

Primo, perché chi non sa da dove viene, non sa neppure dove andare (io, in questi giorni, nelle nostre vicende, confesso che anziché moltiplicare le telefonate – un po’ ne ho ricevute; sono in alcuni “giri” e, a qualche titolo, tra i promotori dell’iniziativa bresciana di alcune sera fa – ho preferito rivedermi le tappe del film che sta alle spalle. Poi, magari, ne parliamo).

Secondo, perché in politica, a differenza che nella vita, uno i genitori li può e li deve scegliere. Fino a inventarseli per desiderio e bisogno di consumo, come hanno fatto Bossi e i Leghisti con i Celti.

Terzo, perché la “transizione infinita” non è affare di regole elettorali, ma di culture politiche. Ed è sotto gli occhi di tutti l’impotenza delle ingegnerie organizzative a toglierci dal pantano.

Questo è l’unico Paese al mondo che dopo la Caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha azzerato, da destra a sinistra, da sinistra a destra, l’intero sistema dei partiti di massa. Non è successo così né in Germania né in Francia, e neppure in Lussemburgo. E i partiti nelle democrazie che conosciamo non sono surrogabili da alcunché. Si possono dare partiti personali, ma non leaders senza partiti. Il Gianfranco Fini che sciocca Alleanza Nazionale alla vigilia del voto referendario sulla procreazione assistita è lì a testimoniare. Ma il Romano Prodi della precedente legislatura e il Silvio Berlusconi della attuale dicono la stessa favola e cantano la medesima canzone. Facciamo lo schema. Non si vincono le elezioni con il programma. Si vincono con la “visione”, come ha tempestivamente scritto il Sindaco di Roma Walter Veltroni sull’”Espresso”. Il programma serve per governare. Ma un governo non regge, non dura una legislatura, se non è sorretto da un tessuto di forze politiche coeso. Qui stiamo. Le cronache di questi giorni, l’esito terremotante del voto della Assemblea Federale della Margherita non narrano le incompatibilità caratteriali e le divaricanti ambizioni dei protagonisti: dicono che dopo il bottino elettorale delle elezioni regionali qualcuno nel Centrosinistra ha riaperto la partita. Non è un allenamento. E’ una partita vera dai tempi e dagli esiti incerti.

Si poteva pensare a tempi diversi: quelli che, come Romano Prodi, intendono correre verso il traguardo del Partito Democratico. Quelli che, più attenti alle sfumature dell’identità, reclamano un ritmo meno affannoso e maglie più larghe. Ora è affacciabile l’ipotesi di un bivio: chi dalla inesistente Seconda Repubblica vuole finalmente approdare alla Terza battendo bandiera ulivista, chi preferisce tornare a una rivisitata e rifatta Prima Repubblica ritmata da una sistema elettorale nuovamente proporzionale. Devo dire, per verità di cronaca, che il più trasparente e saldo corifeo di questo percorso mi pare Bruno Tabacci.

Insomma, in mezzo al guado non si potrà sostare troppo a lungo e,  alla fine della solita estate torrida e del solito autunno caldo, la rigidità dell’inverno dovrebbe affacciarsi su un panorama politico meno confuso e frastagliato.

Non è solo una previsione, è anche un auspicio. Perché, essendo il Centrodestra a pezzi e il Centrosinistra in frammenti, il dato complessivo non può non segnalare una allarmante fragilità della nostra democrazia, per ora tenuta al riparo dalle avventure dal pur logorato scudo europeo.

Mi è venuto in questi giorni alla mente un colloquio romano con Beniamino Andreatta, nello studio ministeriale di Enrico Letta. Si trattava allora di scegliere se restare nei Popolari o passare all’Asinello di Romano Prodi. Nino era convinto che Romano non dovesse accettare l’incarico di Bruxelles per restare in Italia, rimboccate le maniche, a costruire il Partito dell’Ulivo. Gli chiesi in disparte: “Ma allora perché va?”. Risposta: “Perché ha scelto la professione al posto della vocazione”. Max Weber non benedicente.

Il passaggio sarà duro. A me pare a questo punto inevitabile.

Quarto motivo. Dal momento che i protagonisti che tengono la scena attuale paiono, non solo a me, nani figli di giganti, ho voluto con questo testo risalire ad alcuni dei giganti e ai loro, possibili o probabili, ispiratori: De Gasperi, Simone Weil, don Lorenzo Milani, Emmanuel Mounier, Giuseppe Dossetti.

Quinto motivo, il sottotitolo: materiali per un laburismo cristiano. E’ una dizione che ho usato in pubblico per la prima volta al convegno dei Cristiani Sociali organizzato da Mimmo Lucà ad Assisi due anni fa. Me l’ha suggerita un volume cospicuo pubblicato per le Edizioni Lavoro da Vincenzo Saba nel 1996 dal titolo Quella specie di laburismo cristiano, Dossetti, Pastore, Romani e l’alternativa a De Gasperi. 1946-1951. Non solo i referenti sono per la gran parte diversi. Ma totalmente diverso è l’approccio.

Intervista a De Gasperi del 17 aprile 1948

Non a caso il riferimento in positivo (e non in opposizione) è una citazione letterale di Alcide De Gasperi. Si tratta dell’intervista pubblicata da Corrado Calvo sulla prima pagina de “Il Messaggero” di Roma sabato 17 aprile 1948, alla vigilia della grande consultazione popolare che avrebbe assegnato alla Democrazia Cristiana la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento con il 48,5% dei suffragi. Alla domanda del giornalista: E’ esatto parlare in questo caso di una “forma” di laburismo? De Gasperi risponde con la proverbiale laconicità:

“Certamente. Vinceranno un laburismo e una democrazia sociale… (sta parlando De Gapseri, non Dossetti!) corrispondenti all’ispirazione storica della nostra civiltà e alle caratteristiche naturali del popolo italiano”.

E nella colonna accanto il leader trentino definisce la linea di marcia del partito, fattasi poi nelle citazioni quasi occasione di culto (che, peraltro, non ha impedito la generale – quanto indebita – derubricazione di quel “cammina”, al più rassicurante e statico “guarda”):

“Mi riferisco a tutto il programma cristiano-sociale in materia, ricordando che siamo un partito di centro che cammina verso sinistra”.

Ma che cos’è quel cosiddetto “laburismo cristiano”? e come si colloca?

A questa domanda le pagine del libro cercano, su sentieri inusuali, una possibile risposta. E qui ripercorro, quindi, il testo (da pag. 20 a pag. 24: sono pagine scritte con Pino) nella parte in cui si tenta di dare il senso di questo “laburismo”.

Laburismo cristiano

Certamente il XX secolo è un secolo complesso. La stessa definizione di “secolo dei totalitarismi”, se coglie alcune caratteristiche reali, non vede le differenze che fanno il comunismo diverso dal nazismo o dal fascismo e non vede soprattutto l’ “altro” dai totalitarismi che ha segnato non meno la sua vicenda storica.

Bisogna cominciare a guardare invece al XX secolo come ad un secolo dalle grandi articolazioni interne, tragico, carico di speranze ed illusioni che hanno coinvolto miliardi d’uomini in carneficine mai viste prima, ma anche in grandi speranze di riscatto sociale, politico, culturale.

Quello che ha contraddistinto i grandi protagonisti del ‘900 è stato un dato di fondo: la mancanza di limite alla politica. La politica è apparsa come lo strumento, insieme alla guerra, per la costruzione di un mondo nuovo, di un uomo nuovo, di una nuova umanità. Più che di totalitarismi io parlerei di questo carattere assoluto della politica, di una politica che non conosceva i suoi limiti, capace di un protagonismo epocale che avrebbe risolto attraverso gli strumenti dello Stato, dell’economica, del Partito i problemi drammatici lasciati irrisolti dal vecchio mondo liberale.

Lo stesso liberalismo dovette completamente riformarsi per avere qualcosa di nuovo da dire. Keynes e il New Deal avevano innovato profondamente i fondamenti dell’ideologia liberale miseramente fallita nella crisi del ’29 e totalmente incapace a governare quella entrata delle grandi masse nella storia che è il fenomeno più vistoso del secolo appena trascorso. A poco è serviva per questi immani movimenti della storia l’idea di una mano invisibile del mercato. Il mercato stesso era diventato un problema.

Ma non si vuole qui fare neppure per cenni lo scenario di un secolo straordinariamente ricco d’esperienze, si vuole piuttosto segnalare la presenza di un pensiero politico e sociale che pur cresciuto nell’epoca dei “totalitarismi” seppe rispondere agli stessi problemi, conservando quell’idea del limite della politica che gli veniva dalle profonde radici cristiane della sua ispirazione. Questo pensiero e questa esperienza per molti versi esemplare è appunto “quella sorta di laburismo cristiano”, per tornare al titolo del bel libro di Saba.

L’epoca del suo massimo e breve sviluppo fu quella dell’immediato dopoguerra, ed esso ha tra i suoi padri fondatori, oltre ad Alcide De Gasperi, personaggi come Dossetti, La Pira, Lazzati, Vanoni, Saraceno, Paronetto, per citare i più noti. Questo lo sottolineo per un motivo preciso (e sta qui la mia presa di distanza dallo stesso canovaccio di Saba): ho avuto una discussione molto dura intorno al titolo del libro di Saba con Ciriaco De Mita, il quale voleva espungere dalla storia di questo pensiero il “laburismo cristiano”. Invece vediamo che non solo uomini come Dossetti, Pastore e Romani (indicati, sull’altro versante, da Vincenzo Saba) fanno parte di questo filone, ma lo stesso De Gasperi “battezza” così la sua visione strategica, alla vigilia del 18 aprile! Questo la dice lunga vuoi di certe ricostruzioni sui non meglio definiti “ceti medi” e su ipotesi “centriste” – fatte con l’occhio a un futuro anche prossimo (ritengo che, ormai, la cosa sia sul tappeto e questi mesi ci diranno come evolverà) – vuoi dei tentativi di circoscrivere ad una piccola parte della Sinistra democristiana questo riferimento al “laburismo cristiano” che, invece, attraversa in modo assai più ampio il cattolicesimo politico. Mi riferisco, ad esempio, a gran parte dell’associazionismo e, in particolare, alle ACLI che – sia pure inconsapevolmente (non si sono forse mai definite di “laburismo cristiano”) – hanno incrociato questo pensiero, proprio per tenere una certa posizione e per distinguersi dall’altro filone che è quello “socialdemocratico”.

Ma quali sono le principali caratteristiche del “laburismo cristiano”?

Primato della persona

Innanzitutto – affermato il limite – il valore enorme della politica e dello Stato, ma anche – ripeto-  la consapevolezza profonda dei loro limiti. Viveva in questa esperienza un’antica tradizione, quella della difesa del primato della persona e delle autonomie sociali dinanzi alla Volontà Generale che si era espressa nella Grande Rivoluzione del 1789.

Persona e Comunità erano elementi irriducibili che nessuna ideologia politica o forma Stato poteva assimilare e cancellare, pena il suo stesso fallimento politico e sociale. Era tutto il tema dei “corpi intermedi” che la Dottrina sociale della Chiesa aveva sviluppato in encicliche memorabili. Era stata una corrente di pensiero, questa, per molti versi marginale nell’Italia liberale, una sorta di resistenza ai processi di modernizzazione e di costruzione in Italia di uno Stato moderno.

A fare di questa corrente di pensiero un’arma politica di modernizzazione dello stesso Stato liberale era stato, agli inizi del ‘900, Luigi Sturzo.

Ricordi “aclisti”

Solo a seguito del ragionamento che ho qui sintetizzato si può capire come, a un certo momento, nel 1984, Pino e il sottoscritto – contro corrente, inaspettatamente, direi “ex abrupto” – in un convegno a Brescia, al Centro “Paolo VI”, propongano il “popolarismo sturziano”. Ricordo perfettamente che avevo svolto la mia relazione, in un venerdì sera, alla presenza dell’allora Presidente nazionale Domenico Rosati, il quale mi disse: “mi lasci dormire una notte”, perché si trattava di andare contro corrente. Ma era in nome di quanto ho sopra detto che noi ritornavamo a Sturzo, ben sapendo tutte le difficoltà di pre-comprensione alle quali andavamo in contro. Vi dico solo a questo riguardo che, in occasione della nazionalizzazione dell’industria elettrica voluta da Riccardo Lombardi, le ACLI milanesi avevano litigato su tutti i giornali italiani – in prima fila l’allora Presidente Clerici – con Luigi Sturzo che le accusava di “cattocomunismo” e di essere “comunisti di sagrestia”! Eppure la nostra riproposizione dall’interno dell’Associazione – che poi si è estesa (ricordo che alla “tavola rotonda” conclusiva di quell’incontro bresciano era presente Mino Martinazzoli, all’epoca Ministro Guardasigilli) – costituì un fermento che passò in canali molto più estesi e che attraversò anche il tentativo di ridar corso – chiusa la Democrazia Cristiana – ad un’esperienza popolare. Il nuovo partito si chiamerà, non a caso, “Partito Popolare Italiano”!

Il popolarismo di Luigi Sturzo

Tornando al progetto sturziano di modernizzazione dello Stato liberale, agli inizi del XX secolo, è sul piano di un completo e agonistico liberismo che andava ripensato l’intero impianto costituzionale e amministrativo dell’Italia unita. Non si trattava di rivendicare solo i calpestati diritti della Chiesa, né di creare sacche di resistenza alla moderna economia di mercato, alla libertà dei moderni. Il “popolarismo” entrava nel merito specifico delle domande di un’economia di mercato e della politica moderna, evidenziandone le espressioni riduttive e l’incapacità di portare a compimento quella “rivoluzione liberale” che era stata soffocata dal mito della Nazione e dall’accentramento statale. Dal mito dello stesso mercato, inteso come spazio omogeneo, uniforme e non orientato alle diverse vocazioni territoriali. Insomma nel mondo stesso dell’economia liberale e dello Stato liberale era nato un programma nazionale di un partito di cattolici che ne chiedeva una profonda riforma.

Centralità del lavoro

Questo passaggio del “popolarismo” è indispensabile per capire quella “specie di laburismo cristiano”, che però, a differenza del “popolarismo”, attraversa fino in fondo la crisi degli anni trenta e il fallimento del liberalismo. Senza governo politico del ciclo economico non si dà che catastrofe sociale. Governo politico vuol dire intervento attivo dello Stato nell’economia, attraverso gli strumenti più disparati. Ma insieme con lo Stato c’è bisogno di una nuova forma di partito: l’irruzione delle grandi masse nell’agone politico esigeva grandi macchine organizzative per la partecipazione e la formazione politica di milioni di uomini e di donne. Irruzione delle grandi masse voleva anche dire affermazione esplicita dellacentralità del lavoro nel nuovo mondo che si andava a costruire.

La nascita del laburismo cristiano si spiega in questo contesto: centralità del lavoro, centralità della politica, centralità di un progetto di società. In questo progetto di società rimaneva fondamentale sia il limite della politica, lontana da qualsiasi mito palingenetico, sia l’autonomia della società come primato della libertà degli individui e dei gruppi.

Lo Stato non crea la società. Essa preesiste in tutta la sua libertà, ma lo Stato ha il compito di darle forma, di stabilire delle priorità, di orientare consapevolmente al bene comune perché possa realizzarsi la libertà concreta delle persone.

Laburismo e Costituzione

Aggiungo una considerazione su un aspetto che ritengo importante e che traggo dalla “lezione” di Casavola nell’incontro del 16 aprile: questo laburismo di cui sto parlando ha lasciato la sua impronta più significativa nella Costituzione repubblica che non esito a definire, sotto questo profilo, una Costituzione “laburista”. Penso non solo ai “principi fondamentali” (artt. 1, 3 e 4) nei quali, più espressamente, è disegnata l’etica, l’anima della nostra Carta, ma all’interno Titolo III sui “Rapporti economici” della prima parte, dove la volontà di tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni” (art. 35, 1° comma) si esplicita in un complesso di garanzie su ogni aspetto del fenomeno, con un’ampiezza e un’incisività che, probabilmente, non hanno riscontro nelle altre Costituzioni occidentali. Ho svariate ragioni per rimarcare quest’aspetto: anzitutto perché siamo in “emergenza costituzionale”, non solo per quanto riguarda la seconda parte della Carta, ma anche sulla prima; in secondo luogo, perché la “precarizzazione” che il lavoro ha subito in quest’ultima fase discende da fattori non meramente economici, ma culturali e giuridici (la cosiddetta “riforma Biagi” – povero Biagi! – ha definitivamente commercializzato il lavoro ferendo gravemente quella “centralità” che, tra l’altro, coincideva con il costante magistero della Dottrina Sociale della Chiesa, sull’assoluta irriducibilità del lavoro a mero fattore della produzione); in terzo luogo perché la difesa dell’etica della Costituzione – sempre per dirla alla Casavola – è diventata uno dei punti di maggior discrimine fra le due “visioni” che si contendono il campo nel nostro Paese.

Dal mito al programma riformista

Il primato della società sullo Stato differenzia il laburismo cristiano dal mito socialista e comunista, quello della creazione di un uomo nuovo, di una società nuova attraverso la statalizzazione della società e del mercato. Il Laburismo cristiano, sin dall’inizio, non si presenta come un mito, ma come un programma concreto che si affatica sempre intorno alla complessità della società nel tentativo di dare figura politica a processi altrimenti drammatici. Esso si presenta come un insieme di riforme che non preparano alcuna rivoluzione ma che trasformano dall’interno, nella pazienza dei processi, le dinamiche della società civile. Se non c’è alcun mito dello Stato (di qui l’avversione viscerale verso ogni forma di totalitarismo), se ne coglie tuttavia anche l’enorme importanza per orientare i grandi processi di redistribuzione della ricchezza e incalzare creativamente gli stessi sviluppi dell’economia. Nessuna statalizzazione, ma capacità di intendere l’importanza dell’impresa pubblica per stimolare e sorreggere, anche attraverso il conflitto, quella privata. Importanza della riforma fiscale per creare una società solidale, capace di sviluppare i grandi servizi sociali della scuola, della sanità, della previdenza. Importanza della ricerca come sostegno all’impresa e allo sviluppo civile del Paese.

Il ruolo del partito

Da tutto questo nasceva la centralità del partito e del suo progetto culturale. Un partito di popolo, espressione delle diverse realtà territoriali, un partito plurale al suo interno per le diverse sensibilità culturali e civili. In questo senso le “correnti” non rappresentavano solo interessi, ma interpretazioni della società.

Ecco, io penso che quando si volge al passato tutto il ‘900 si fa torto a questa esperienza che al ‘900 sopravvive. Essa, a differenza di quella socialista e comunista, attraversa un secolo ma non vi si riduce.

Nessuna ansia palingenetica e nessun assoluto della politica l’hanno tentata, anche se della politica moderna ha colto e usato fino in fondo gli strumenti fondamentali: quelli dello Stato e del partito.

Mi sembrano oggi consumate non solo l’idea comunista travolta dalla macerie del muro di Berlino, ma anche quella socialdemocratica attraversata da una babele di linguaggi. Tramontata è l’idea stessa, tutta ottocentesca e novecentesca, di sinistra.

Non si tratta oggi di pensare ad una nuova sinistra secondo uno schema ormai logoro, si tratta di avventurarsi in un mare completamente nuovo.

Mi domando allora se quella “sorta di laburismo cristiano” non possa oggi essere il nucleo di una diversa esperienza politica che ancora una volta abbia al suo centro il lavoro, il compito della politica di realizzare il bene comune, il rispetto interiore per la libertà della persona e delle comunità.

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