Maria Cristina Bombelli. La passione e la fatica.

“In Italia non c’è consapevolezza di quanto grave sia la situazione sul fronte delle donne. Vi invito a consultare il sito del Word  Economic Forum che, in base alle ultime rilevazioni pone l’Italia al 47° posto su 59 paesi. Quando ne ho discusso con il mio capo (il direttore generale che in Bocconi mi aveva richiesto informazioni ed io riferivo questo dato) la sua prima risposta è stata: “Non è vero”. Oggi leggevo su La Repubblica che, su un’analoga situazione riguardante l’innovazione, il Ministro Stanca dice: “Non è vero”. Cioè noi abbiamo questa tendenza a dire che non è vero. Non è vero un cavolo!”

1. il testo dell’introduzione di Marica Mereghetti non è disponibile

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Trascrizione della relazione di Maria Cristina Bombelli

Qualche premessa
Anzitutto vi ringrazio molto per avermi inserito nell’elenco dei relatori ai vostri incontri. Sono un po’ emozionata per essere in questo Olimpo. Credo che il mio libro sia più modesto di altri sui quali normalmente discutete, però sicuramente va a toccare alcuni temi che sono abbastanza vicini a quelli di vostro interesse.

Dico due  parole di premessa sul mio passato lavorativo, anche per spiegare come mai sono qui oggi. Sono nata come perito chimico; non sono un’accademica e non mi sento professoressa. Ho lavorato in fabbrica per tanti anni a Sesto, prima di laurearmi in filosofia. Quando la mia fabbrica ha chiuso, sono stata, con Granelli e altri, in una struttura che noi abbiamo a Sesto, per un po’ di anni, e infine ho lavorato alla CISL. Nell’84 sono passata alla scuola di direzione aziendale.

Affermo di non essere un’accademica pura perché ho lavorato sempre sull’organizzazione e sul comportamento organizzativo. Con il povero De Matteo ho fatto una grande esperienza: è un ambiente difficile, dove la passione e la fatica si sperimentano quotidianamente; però è un ambiente dove nei corridoi impari qualcosa; quando incontri qualcuno di solito, anche se è giovane, uno che ha studiato e che ha scritto, acquisti qualcosa; dai miei colleghi ho imparato tantissimo; non l’establishment ma i miei colleghi mi hanno insegnato parecchio. Altra esperienza significativa è stata, per due anni dal ‘94 al ’96 con Penati, quella di Assessore all’organizzazione del personale al Comune di Sesto, e che mi ha dato l’occasione di conoscere da vicino l’Ulivo. Avevo due bambini, di cui la seconda di due anni, per cui dopo due anni ho smesso; non ce la facevo proprio a tenere insieme tutte le cose, come spesso capita.

Partendo dall’organizzazione e del comportamento organizzativo mi sono accorta – ma era cosa evidente a tutti – che in Bocconi non c’era alcuno studio sulle donne e, quindi, abbiamo fondato il Laboratorio Armonia (i cui frutti si vedono in questo libro) che è un network di aziende associate, con una quota annuale, e poi noi facciamo ricerche. Quindi è stato un modo per trovare un finanziamento; come sapete è sempre difficile trovare i soldi per le ricerche e in questo modo…..(mi danno due mila euro all’anno, eh)… Ho cominciato con dieci aziende ed oggi il Laboratorio Armonia lavora con 23 aziende fra le più grosse d’Italia come l’ Alenia e la Telecom, mentre fra le multinazionali posso citare l’Ikea (gli svedesi sono molto attenti alle diversità), l’IBM, la Microsoft, ed altre.

Intendo dire, con un po’ di orgoglio, che in sei anni dal 2000 al 2006, abbiamo messo in piedi una roba abbastanza originale… che poi vi spiegherò meglio portandovi sul tema delle donne.

Dati “incredibili”
Il punto di vista che io posso offrirvi è aziendale: il mio mondo di studio e di lavoro è rappresentato dalle aziende; mi occupo di formazione e faccio consulenza aziendale. Ciò premesso, voglio fare tre considerazioni di ordine politico (mi sembra che questo sia un contesto di natura politica e quindi mi lascio andare su cose politiche) e poi, invece, vorrei riprendere i temi centrali che vengono fuori dalle nostre riflessioni sulle donne, sul loro lavoro, sul loro rapporto con il potere.

La prima osservazione è che, secondo me, in Italia non c’è consapevolezza di quanto grave sia la situazione sul fronte delle donne. Vi invito a consultare il sito del Word  Economic Forum che, in base alle ultime rilevazioni pone l’Italia al 47°  posto su 59 paesi. Quando ne ho discusso con il mio capo (il direttore generale che in Bocconi mi aveva richiesto informazioni ed io riferivo questo dato) la sua prima risposta è stata: “Non è vero”. Oggi leggevo su La Repubblica che, su un’analoga situazione riguardante l’innovazione, il Ministro Stanca dice: “Non è vero”. Cioè noi abbiamo questa tendenza a dire che non è vero. Non è vero un cavolo! Se voi guardate analiticamente quel rapporto, vi accorgete che si tratta di dati di tipo ISTAT dei diversi paesi (poi si può discutere se quelli del Bangladesh sono più o meno affidabili); voglio dire, che sono dati puri, non sono percezioni soggettive. Tra l’altro è interessante che nel rapporto, su 5 parametri, quello dove l’Italia è all’11° posto –  cioè insieme agli altri paesi avanzati – è l’indicatore della salute, perché in Italia, effettivamente, non c’è discriminazione di cura fra uomini e donne come invece, purtroppo, avviene in tanti paesi del terzo mondo; quindi, si vede con evidenza che lì non c’è un problema femminile. Quanto, però, agli altri quattro indicatori – che poi, sommati, fanno il rating del 47° posto sui 59 paesi – riguardanti la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, il loro numero nei posti di comando, e così via, i dati sono drammatici. Cito sinteticamente: 3 % nei consigli di amministrazione, ultimi in Europa (in questi anni ci hanno superato Portogallo, Grecia e Spagna che contendevano con noi l’ultimo posto); ultimi per partecipazione al mercato del lavoro, e così via; e siamo il paese più denatale del mondo (1,2  figli per coppia)!

Su questo ultim’aspetto ritorniamo,  perché vorrei discutere. C’è qualcosa che non quadra: se i figli fossero l’ostacolo alle carriere… Noi siamo più denatali della Cina che ha fatto una politica drastica per ridurre la natalità. Ebbene: noi siamo più bravi della Cina a obbligarci a non fare figli! Non è una bella roba. Quindi un grido di allarme sui dati.

Nessuno pensa al merito
Secondo tema politico, già suggerito da Marica: la riflessione sui meccanismi di selezione aziendali e politici (perché poi le organizzazioni hanno modi di lavorare molto simili). Il tema forte è come vengono create le classi dirigenti: cooptazione versus meritocrazia. Anche su questo noi non siamo abbastanza allarmati, a destra e a sinistra. Perché se è vero che nelle Amministrazioni pubbliche – diciamo, per intenderci, l’occupazione del potere di secondo il livello; chi fa politica sa benissimo di che cosa sto parlando – la selezione è fatta cooptativamente a destra, analogamente è fatta a sinistra; in questo Paese nessuno si occupa del merito. Questo è un punto di grande rilievo politico sul quale tornerò tra poco.

Il bene e il male non hanno sesso
Terza osservazione preliminare che definisco “politica”, prima di entrare nel discorso. Io non vorrei – e sono molto categorica su questo punto –  accreditare l’idea del “maschile cattivo/femminile buono”. Questo deve essere molto chiaro. Sapete che, negli studi organizzativi, una delle mie maestre è Rosabeth Moss Kanter che, già nel 1997, scrisse un libro “Maschile e femminile in azienda”, dove veniva fuori con chiarezza (e su questo ho impostato le mie ricerche) che le donne hanno meccanismi diversi ma analogamente problematici rispetto agli uomini. L’indicazione di questi studi è che la diversità è un valore e che, quindi, è con l’equilibrio del maschile e del femminile che si producono le cose migliori. Questo lo voglio dire all’inizio perché è difficile ragionare sul maschile e sul femminile come, del resto, è sempre complicato ragionare sulle categorie macro: italiani-cinesi; Nord-Sud… Io in questo momento lavoro molto in Cina  e sono circondata dagli stereotipi che sento sui cinesi. Quando noi prendiamo un universo e lo categorizziamo, è sempre in agguato il rischio dello stereotipo, cioè quello di attribuire le stesse caratteristiche a tutto l’universo. Io lo dico subito perché poi, lavorando su uomini e donne, questo è un rischio. Con questo libro e negli studi del Laboratorio Armonia, sicuramente abbiamo trovato dei fili rossi che riguardano gli uomini e le donne, cioè dei comportamenti più omogenei al maschile e al femminile, ma ovviamente ci  possono essere delle eccezioni. Quindi lo dichiaro proprio perché credo che il maschile e il femminile usato in questa accezione sia più un’ipotesi che altro.

Poi devo dire con franchezza che rispetto alle fatiche c’è una forte enfatizzazione. Io, adesso, faccio molta di quella formazione aziendale che si chiama one-to-one , cioè personalizzata. Ci sono questi coach, vengono chiamati così; io sono coach di tante aziende e quindi ascolto molte donne, e devo dire che le problematiche sono sempre quelle.

Queste erano alcune osservazioni preliminari, perché non vorrei che poi – e questo mi dà molto fastidio negli studi femminili o femministi – che venga fuori il femminile come “buono”, come giudizio di valore; non è così. Ci sono cose buone e altre non buone. E’ vero che alcuni fenomeni che vedremo, alcune fatiche delle donne, inducono a riflettere su come curare le organizzazioni oggi malate, ma probabilmente se fossero le donne a ricoprire ruoli di “capo” avremmo bisogno degli uomini per correggere le distorsioni delle organizzazioni.

Dalla fatica alla passione: il lavoro fattore di identità.
I temi da approfondire sono molti come, ovviamente, capita in un testo e in un percorso di ricerca. Io tendo a dividerli in tre grandi aspetti. Il primo è il cambiamento del lavoro ed ha a che fare con il titolo di questo libro. La passione. Lo slogan che uso è più noto in termini di passaggio dal fordismo al post-fordismo che in Italia, in realtà, proprio pensando alla concorrenza cinese,  non è completamente compiuto. Si tratta del passaggio dei paesi industriali avanzati ad un’economia della conoscenza, dell’intangibile, dei servizi, rispetto alla situazione dei paesi in via di sviluppo, più legati ad un’economia ancora fordista. Noi a Sesto abbiamo smontato il nostro impianto della Falk e lo abbiamo venduto ai cinesi. Però allora non si parlava tanto della Cina. Sesto S. Giovanni – non lo dico perché qui ci sono due sestesi – è un paradigma di un cambiamento molto forte. Nel 1994 sono stata Assessore: il nostro problema era proprio quello di ricostruire l’identità  della città, la ex Stalingrado d’Italia. Voi pensate come, anche in termini identitari, fosse triste essere chiamati “ex”. Devo dire, anche come cittadina di Sesto, che lì si vede il passaggio dal fordismo e al post-fordismo: sono scomparse le vecchie aziende; oggi vai in giro, e vedi Vodafon, la Sony a Cinisello, c’è l’Università che sta arrivando, c’è Banca Intesa, ecc., e quindi questo passaggio si coglie a vista d’occhio.

Io non sono un’economista e voglio ragionare dal versante di cui mi occupo, che è quello del comportamento organizzativo. Come vivono le persone questo passaggio? Non voglio parlare qui della precarizzazione dei rapporti di lavoro, che è un altro tema anche molto importante; ma proprio di questo nuovo fenomeno che viene chiamato workaholism ed è molto legato a questo passaggio dal lavoro “obbligato”, che faccio perché devo vivere, al lavoro che faccio perché mi piace. E’ un passaggio molto importante; non tutti, purtroppo, l’hanno realizzato perché molti ancora oggi lavorano per la necessità di guadagnare. E’ importante perché rappresenta un discrimine forte. Se parliamo delle donne che fanno le pulizie negli uffici è evidente che appena possono non lavorano. Ci sono lavori faticosi, alienanti, dai quali è ovvio che, appena possibile, si scappa, a meno che non vi siano altre motivazioni: mi sono inserita in un gruppo, ho rapporti di amicizia e, tutto sommato, anche se si tratta di un lavoro umile, riesco comunque (questa, prima della rivoluzione industriale, era la caratteristica del lavoro artigiano) ad avere una identificazione nel prodotto del lavoro. Il passaggio che oggi si verifica nell’economia della conoscenza è proprio questo: la mia identità si modifica – e questo sia al maschile che al femminile – e il lavoro diventa un elemento importante della mia identità . Lo vedete a livello empirico e micro, quando ci si presenta: dopo trenta secondi che ci si conosce… “ma tu che cosa fai?” Una volta non era così, non avremmo domandato a uno “ma tu che cosa fai?”. Dopo i preliminari, dopo le prime due o tre cose: “ma tu cosa fai?”. Il biglietto da visita  diventa il lavoro che faccio. Allora cambia il rapporto, nel senso che cambia quello che io richiedo al lavoro come persona molto identificata, che ha una passione, e quello che il lavoro mi può dare. Quindi diventa identità. E’ chiaro che poi le organizzazioni spesso cercano di attirare l’identità delle persone, un po’ come le tele di ragno, perché in questo modo la gente lavora di più. Ed è interessante osservare che in molte organizzazioni si è “sedotti e abbandonati”, per usare termini in voga tanti anni fa: ti fanno credere che ti daranno, ma in realtà poi ti abbandonano. Secondo me, è un po’ una tendenza generale; cioè noi oggi, almeno quelli appassionati del loro lavoro, vorremo dal nostro lavoro molto di più di quanto il lavoro dà. E quindi molto spesso c’è una frattura, una cesura.

E qui torniamo al workaholism, che spesso vuol dire dipendenza dal lavoro. In questo siano  molto supportati dalle tecnologie. Io prima di venir qui ho aperto la posta di questa mattina; io sono una e-mail a vita; cioè apro la posta a tutte le ore del giorno e della notte, quando mi capita, perché non si sa mai se mi ha scritto qualcuno. Avendo anche alcuni progetti internazionali, gli amici americani mi scrivono di notte, gli amici in Cina mi scrivono di notte per cui c’è sempre qualcuno… e mi sento dentro a una comunità: è grave però, nel senso che questa addition può diventare patologica, e bisogna stare attenti, perchè se qualche volta non c’è posta ti arrabbi: “ma come, quel cretino, gli ho mandato un messaggio e non mi ha ancora risposto”. C’è un bel libro che parla dell’ “io saturato” nella dimensione della tecnologia. Il cellulare va spento, io riesco a spegnerlo con molta serenità. Ci sono quelli che nelle riunioni rispondono sempre; ma – dico io – aspetta un momento, mettilo in silenzioso per lo meno. E’ così importante? Ci sono strumenti che ci portano a diventare workaholist e, poi, noi stessi siamo conniventi, perché ci piace lavorare. Chi lavora in questi contesti so che capisce molto meglio di chi, magari, dice: “ma questi sono un po’ matti”.

Rispetto al tema delle donne, è importante considerare questo passaggio. Ho fatto un dibattito, due anni fa a Radio Popolare, e due persone mi hanno domandato la stessa cosa; due uomini di circa 50 anni, mi hanno detto: “ma lei quanto guadagna?”. Ho risposto: “perché volete sapere quanto guadagno?”. E loro: “perché lei farebbe bene a stare a casa se fa la somma”. Che io avessi voglia di lavorare non era proprio un’ipotesi da considerare. Ma io voglio lavorare!

Questo era il primo punto che volevo analizzare: il tema delle donne nelle carriere utilmente inserito in un discorso più generale del cambiamento del lavoro e dal conseguente cambiamento del rapporto tra le persone e il lavoro che è interessante tenere sotto controllo.

L’alibi della maternità
Il secondo tema che mi preme affrontare è quello dei meccanismi di carriera: lo ritengo fondamentale. Non penso – lo dico con convinzione – che il problema sia la maternità. Ho dichiarato recentemente a Famiglia Cristiana che, se noi continuiamo (dico noi donne e chi se ne occupa) a dire che il problema delle donne è la conciliazione lavoro/famiglia, la cura dei figli, aumentiamo lo stereotipo che oggi alberga nella maggior parte degli imprenditori italiani. Ho litigato su questo con un collega che diceva: “il nostro lavoro di ricercatori, di universitari, è un lavoro come gli altri; tu devi fare un grande push all’inizio della carriera e poi riscuoti in qualche modo e decidi di fare figli”. L’osservazione risponde alla realtà: Se voi andate a vedere, per esempio, nelle aule MBA della Bocconi, le donne non ci sono, perché il Master in Business Administration viene fatto qualche anno dopo la laurea, e dopo un po’ di esperienza lavorativa; si arriva, così, intorno ai 30-35 anni che è l’età giusta in cui una dice: “o faccio un figlio o non lo faccio più”. Ed è vero che le donne in Italia, in certi luoghi non le incontri più. Noi abbiamo un’aula di inglese internazionale dove le donne non ci sono. Nelle altre school europee la situazione è totalmente diversa.

A mio avviso c’è un meccanismo mentale per cui tutti gli imprenditori dicono che il problema è la maternità. E come mai, allora, tutte le donne single e che non hanno figli, o quelle sposate senza figli non fanno carriera? Se il problema fosse la maternità… L’Italia, poi, è il Paese più denatale del mondo… Le donne senza figli dovrebbero arrivare tranquillamente, e invece…!

I capi clonati
Mi rendo conto che, sostenendo questo, mi espongo a critiche perché è vero che la maternità rappresenta un problema e che la conciliazione è difficile, però mi sembra che il problema più grosso, in questo momento, siano i meccanismi di carriera che sono profondamente cooptativi. Il potere è omofilo, nel senso che promuove quelli uguali a se stesso. Se andate in giro lo vedete: sono tutti uguali anche fisicamente, nel vestire, nel parlare; soprattutto  se il leader è forte … in Italia abbiamo esempi conclamati (perché ridete?).

Molto prima che il “nostro” scendesse in politica, noi abbiamo fatto un’indagine sulla sua azienda e la cosa era già uguale così: cioè  il pallino nella cravatta era uguale! Esiste una clonazione della leadership, e non sono la sola a sostenerlo (vi segnalo, al riguardo, un libro molto bello di Kets de Vries, “Leader, giullari e impostori”, consigliandovi la lettura anche della prefazione che, secondo me, si attaglia benissimo a qualche personaggio italiano; più dedicata agli “impostori” che non ai leader). Cioè quando voi avete una realtà organizzativa in cui non ci sono regole precise –  ed è il caso della politica – i meccanismi di selezione sono fatalmente cooptativi. Chi ha il potere prende quelli uguali a se stesso. Nessuno dice: “ non voglio una donna in azienda”, non solo perché non sarebbe politically correct, ma perché ci credono. Io sono convinta di questo. L’altro giorno, una mia amica coach, direttore marketing in un’azienda di distribuzione petrolifera, unica donna in quello che si chiama il board di gestione, dice all’amministratore delegato: “quest’anno dovremmo affrontare il problema delle donne perché nella nostra azienda c’è un problema di donne”. Lui la guarda (otto uomini, lui e lei; quindi, anche simbolicamente, è evidente che il problema c’è) e dice: “Abbiamo un problema di  donne? Davvero? Ma non mi risulta. Noi non abbiamo mai fatto niente contro le donne”. Ecco io vi invito a riflettere su questo, nel senso che un conto è fare qualcosa contro le donne – ci mancherebbe altro – e un conto è fare qualcosa per le donne, che è diverso. Quindi il normale meccanismo, il meccanismo cooptativo e il potere non regolato, tirano fuori degli impliciti culturali. Nel nostro caso, l’implicito culturale è: le donne è meglio che stiano a casa.

Due opposte dimensioni del tempo
Torno sul tema della meritocrazia, che considero molto importante. Noi siamo un paese non meritocratico. Non lo siamo nella scuola, dove la meritocrazia c’è, ma non  si salda con gli universi altri, come quello del mercato del lavoro. I migliori a scuola di solito – tranne i geni che, anche se non vanno a scuola, sono bravi ed escono fuori lo stesso – non sono i migliori nel mercato del lavoro, tanto è vero che io, proprio perché mi occupo di diversity, volevo insinuare il dubbio ad alcune aziende associate che prendono solo i 110 e lode: non so se fanno bene. Perché, secondo me, ci sono dei 90 bravissimi; non so se rendo l’idea. Quindi, c’è un universo meritocratico, rispondente a certi tipi di valori e di criteri, che però non sono quelli che contano altrove. Nell’universo aziendale difficilmente c’è meritocrazia, e in quello politico ancora meno. C’è uno sforzo in alcune aziende, là dove si guarda alle prestazioni, però si tratta di timidi tentativi, come si riscontra nei dati aggregati macro-economici (i dati micro sono le tessere del puzzle macro). Per esempio – lo cito sempre come uno degli aspetti fondamentali –  il tema della cultura del tempo: è uno dei fattori più escludenti per le donne, perché la cultura prevalente, oggi in Italia (anche qui parlo di uno stereotipo, ma che pare diffusissimo), è che chi sta di più in ufficio è più bravo; ed è un errore fondamentale.

Io cito sempre, in dibattiti come il nostro, l’episodio dell’amministratore delegato di una nota grossa azienda il quale, mostrandomi la conformazione dell’edifico, diceva: “io ho messo il mio ufficio al centro di questo  ferro di cavallo, così alla sera vedo le luci che stanno accese”. E io ho pensato: “bravo pirla, se uno lo sa accende la luce e va a casa”. Pare che in una banca, uno degli impiegati facesse proprio così: lasciava accesa la luce della scrivania, con una giacca di riserva appoggiata sulla sedia. Chi passava diceva: “ è andato in bagno, poi adesso torna; che bravo…”. C’è ancora questa grossa deformazione mentale: che la presenza equivalga al lavoro. Questo, se volete, si ricollega alla nostra incapacità organizzativa, mentre nelle aziende nordiche, o tedesche, o svizzere le cose non vanno così. Ieri ho partecipato ad una riunione che è durata due ore e poteva durare 20 minuti; ero furibonda alla fine; era una riunione con un professore della Bicocca, e io…  dicevo: “stringiamo, io devo andare a casa dai miei figli, ho cose da fare”. Lui no, evidentemente no!

Lavorare per obiettivi
Ecco questo è un tema fondamentale: una cultura organizzativa per fare le cose in un tempo determinato, per lavorare sugli obbiettivi. La parola chiave, secondo me, è proprio questa: lavorare sugli obbiettivi, perché così ci si organizza meglio (questo è proprio il mio lavoro) e poi, però, ci sono anche dei criteri di valutazione più oggettivi. Se il risultato voluto è stato raggiunto, ce ne andiamo a casa, dopo sei ore di lavoro: io, che sono una donna, a curare mio figlio o a fare la calza perché mi piace; tu, che sei uomo, a fare quello che ti pare, magari a fare la calza perché piace pure a te, anche se non hai mai osato dirlo. Probabilmente è meglio per tutti! Questa è una roba impensabile in Italia, tanto è radicato nella cultura manageriale l’assioma: presenza uguale lavoro. Ci sono dati di alcune ricerche da cui risulta che noi lavoriamo di più di altri paesi europei con un  PIL inferiore. Non è una gran cosa! Vedete quali sono i meccanismi che poi escludono le donne? Io ho accennato a queste cose: il sistema della meritocrazia., il tempo e la cultura del tempo; l’ultima cosa, che già citava Marica, sono i giochi del potere.

Il potere e il conflitto: giochi al maschile
I giochi: uso questo termine a ragion veduta. Se voi osservate qualsiasi asilo nido o scuola materna, i bambini giocano in un certo modo, le bambine giocano in un altro modo. Il gioco di competizione e di aggressività è gioco maschile. Non lo dico come giudizio di valore, ma come constatazione di fatto. Una mia amica, con la quale si discuteva di regali ai bambini, mi diceva che lei non regalava pistole a suo figlio e lui sparava con le forchette. Bisogna anche dire che c’è una questione un po’ ideologica su questo. Io ho regalato una volta, mi ricordo, a mio nipote, che adesso ha 30 anni, un macinino del caffè; me l’ha tirato dietro dicendo disgustato: “è da femmina”. Aveva 4 anni. Cioè, come dire, resistiamo a queste mode culturali, però forse c’è anche tanta normalità in tutto questo. I giochi del potere sono al maschile, è un fatto. Cito sempre l’esempio di quando ero assessore (c’è qualcuno qui che era in consiglio comunale in quel periodo): io mi ricordo che c’erano momenti in cui l’aggressività saliva ed io, che ero l’unico assessore donna in giunta, dicevo: “adesso vado a casa”! Perché? Perché stavo male. E c’era chi mi diceva: “ma divertiti!” Traduco in termini simbolici, ma anche un po’ di comportamento; però credo che sia un’esperienza che noi donne abbiamo subìto spesso facendo politica: in certi momenti avremmo preferito stare a casa invece di essere lì, perché il nostro obbiettivo era di raggiungere il risultato e non di avere il voto contrario dell’opposizione. Perché tendiamo naturalmente, il più delle volte, a voler comporre i conflitti piuttosto che a radicalizzarli.

Ripeto il discorso iniziale sui grandi stereotipi: non voglio dire che le cose siano sempre esattamente così, ma di solito vogliamo lavorare in un clima più rilassato, più umano; infatti poi nelle aziende dove si è superato questo conflitto le donne sono bravissime perché non hanno più il problema.

Una debole autostima
Voglio, infine, parlare di donne, perché fin’ora abbiamo parlato di organizzazione aziendale ma non di donne e le donne ci mettono del loro; è quello che emerge da queste difficoltà, le famose fatiche che non sono solo quelle della conciliazione, ma anche quelle interiori; della fatica del potere e dei giochi ne abbiamo parlato. Io adesso insegno; ho un corso che prima non avevo (e mi devo adattare a quell’età lì), che mi conferma queste cose. Ho delle bravissime studentesse inconsapevoli di essere stanche… Ce n’è una che chiamo sempre “la bella e brava” perché è una ragazza secondo me bravissima, di una timidezza  assoluta, di una incapacità di mostrare le cose che ha. Allora le dico: “guarda che sei bella e brava”; le faccio, come dire, un’iniezione di fiducia tutte le volte che la vedo. Adesso lei mi risponde che si è laureata bene e che la sua “bella e brava” le chiede consigli su che cosa fare dopo. Io prevedo che questa ragazza al colloquio di lavoro – com’è dimostrato dalle ricerche – darà il 10 % di quello che sa. E’ dimostrato che, sulle stesse competenze, le donne più spesso evidenziano il bicchiere mezzo vuoto della vita  e gli uomini il bicchiere mezzo pieno. Sulle stesse competenze. Quindi c’è un problema, diciamo, di autostima che le donne devono conquistare ancora adesso. Secondo me è un problema non solo italiano ma generalizzato. L’unica eccezione, devo dire, la trovo in Cina, soprattutto nella zona di Shangai, che è una zona un po’ particolare,  perché anche le amiche shangaiesi mi dicono: “guarda che qui non abbiamo nessun problema; te li tieni in Italia ma non portarli qui perché qui siamo meglio degli uomini”. E anche gli uomini lo dicono, ma non so se è vero; ancora qualche viaggio e poi vi dico se è vero.

Però diciamo che, generalmente, c’è questo problema di autostima, che è collegato al discorso culturale più generale, che aveva già affrontato Marica. Perchè ha introdotto la televisione qua? Non è solo per il modello, che comunque è pesantissimo, ma anche per dire che le ragazze di oggi, rispetto alla mia generazione (io ho 53 anni quest’anno), sono più sfortunate. Ho mia figlia che ha 14 anni; non la invidio. Devono costruire un’ identità partendo da un’immagine corporea che è impossibile. Io dico sempre alle mie ragazze:  “andate a vedere un concorso di Miss Italia degli anni ’50 e vedrete delle belle donne tutte diverse: qualcuna con un po’ di cellulite qui, l’altra con un po’ di cellulite là; qualcuna col seno grosso, qualcun’altra col seno piccolo. Provate a vedere il concorso di Miss Italia oggi: sono tutte uguali.” E questo essere tutte uguali produce poi un discorso di creazione di identità dove tu non sarai mai accettata per il modello che hai. Vi do un compito a casa: prendete 10 ragazze a caso e chiedete loro di dirvi se si sentono belle. Tutte vi diranno di no.

Perfette sempre e a ogni costo
Una volta facevo questo discorso con un gruppo di donne; c’era una ragazza giovane con un naso leggermente un po’ così; siccome parlavo contro gli interventi di chirurgia estetica, lei è venuta lì e mi ha chiesto perché ero contraria dicendomi: “sa io sto per farne uno”. Era una ragazza bellissima, alta due metri, misure giuste; aveva una gobbetta qua, una gobbetta che vi assicuro solo se si girava di profilo uno la  vedeva. La cosa paradossale è che si dimentica del 98% delle cose belle per fossilizzarsi sull’ 1 % delle cose brutte. Insisto su questo elemento che non è un elemento di colore: il corpo è il nucleo fondante dell’identità. Se non sono in sintonia con il mio corpo, se non mi sento bella (o, quanto meno, accettabile), come faccio poi ad andare ad un colloquio di lavoro a dire: “io sono brava a fare questo?” Infatti, quando poi ci sono le autocandidature, il maschio alza la mano e le ragazze sono ancora lì che pensano: “ma se alzo la mano che cosa penseranno di me? Ce la farò? Che figura farò?”.

Abbiamo costruito un corso per le donne “Dall’autostima alla leadership” per lavorare su tutti questi aspetti. Sulla storia della leadership solo due parole. Abbiamo dato una tesi ad una ragazza, perché andasse a vedere che cosa hanno detto i giornali italiani di Condoleezza Rice e di Colin Powell  a valle dei loro rispettivi insediamenti. Bene: devo dire che anche a me non è simpatica Condoleezza Rice,  però perché andare a vedere  che ha gli stivali da nazista (Corriere della Sera)? Quindi, come dire, una donna che assume una posizione di potere, a mio avviso, ha uno spazio molto più stretto degli uomini, perché l’uomo può sbagliare, può vestirsi male. La donna, un po’ perché è unica, un po’ perché è iperosservata, deve comportarsi in un modo sempre al massimo della performance. E’ questo diventa un’ulteriore complessità.

Superare gli stereotipi
Per concludere, tengo a sottolineare che noi abbiamo cercato di uscire da un discorso solamente femminile. Come dicevo prima, il Laboratorio Armonia sviluppa studi manageriali in un’ottica allargata, occupandosi di tutte le diversità. Ad esempio, noi abbiamo finito una ricerca che verrà pubblicata in questi giorni sul tema dell’esclusione degli over 45. Di stereotipi ce ne sono tanti. Prima citavo i cinesi, ma dobbiamo parlare di tutti gli extracomunitari. L’IKEA di Roma sta facendo un progetto insieme al Comune per l’inserimento degli extracomunitari; lì hanno inserito venti rifugiati politici.  A Sesto, un’azienda mi diceva: “Non abbiamo alcun problema con questi rifugiati: sono poliglotti, istruiti”. In altre parole: non capisco come mai i venti rifugiati non siano stati reclutati attraverso un normale iter selettivo? Occorre un progetto ad hoc del Comune di Roma per assumere i rifugiati? Allora voi capite quanto pesi l’elemento di stereotipo: non si accetta, che so, l’ingegnere senegalese, perché per forza il senegalese deve essere un “vu cumprà” e non può essere un ingegnere. Poi adesso arrivano gli indiani e i cinesi esperti in matematica, ma… lasciamo perdere.

Quindi il discorso delle donne e degli uomini coglie uno dei tanti elementi di diversità, che può essere culturale, etnica, oppure legata ai segmenti di età. Voi sapete che noi abbiamo un divieto di chiedere nell’assunzione se uno è uomo o donna. Non c’è invece un divieto, diversamente da altri paesi compresa l’America, di chiedere l’età. Bene: risulta che in Italia ancora oggi il 48% degli annunci richiedono l’età. Ma che senso ha, quando non c’è alcun studio predittivo che segnali l’età come elemento incidente sulla prestazione? Anzi, per essere chiari: da nostri studi, sembrerebbe che  le donne cinquantenni sono molto più motivate degli uomini e delle stesse donne di 45 anni per un inserimento lavorativo. Per forza: prima avevi la casa, la famiglia, la suocera… L’età diventa fattore di esclusione che sta diventando imperante oggi nelle aziende, dove vige un “giovanilismo” cronico che, poi, è anche contraddittorio: in certe richieste devi aver fatto questo, quello e quell’altro…, anni 35; dovresti aver cominciato a lavorare all’asilo!

Questo soltanto per dire che il nostro tema va inserito nel quadro di un discorso generale di gestione delle persone all’interno delle organizzazioni.

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