Michele Salvati. Il Partito Democratico.

Michele Salvati, senza pretendere di scrivere un testo epocale, ed anzi precisando, come ha avuto la discrezione di fare nell’ introduzione a questo testo, che si tratta di una raccolta di scritti di occasione, è comunque riuscito, sia pure a distanza di due anni, ad avere in qualche modo ragione prima del tempo reclamando l’apertura di un processo che ora è in atto e che potrebbe portare all’approdo che Salvati e molti altri “sognatori” auspicavano da tempo.

1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani

2. leggi la trascrizione della relazione di Michele Salvati

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Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Michele Salvati

Avere ragione prima del tempo.

La nostra fase storica non sembra troppo amica del pensiero sistematico applicato alla politica: probabilmente è una forma di rivincita rispetto alle “grandi narrazioni” crollate miseramente nella seconda metà del XIX secolo

Il dato di fatto è che almeno dal 1989 in poi – il “fantastico ‘ 89” – non sono apparse opere di teoria politica capaci di forzare oltre l’orizzonte dei titoli dei giornali: utilizzo il 1989 come punto di partenza perché esso fu l’ anno cruciale, prima per la messe di titoli sul bicentenario della Rivoluzione francese che suggerivano autorevolmente alla sinistra che sarebbe stato meglio se quella rivoluzione non ci fosse mai stata, e poi per il crollo dei regimi del socialismo realizzato che produsse una messe di titoli sul futuro della sinistra scritti generalmente da persone che poi sarebbero finite nella destra peggiore che questo Paese abbia mai visto nel suo periodo repubblicano. Tant’ è, occorre che ogni tempo abbia i suoi “idola fori” , e peggio per noi se si chiamano Adornato o Giddens.

Bisogna dire invece che Michele Salvati, senza pretendere di scrivere un testo epocale, ed anzi precisando, come ha avuto la discrezione di fare nell’ introduzione a questo testo, che si tratta di una raccolta di scritti di occasione, è comunque riuscito, sia pure a distanza di due anni, ad avere in qualche modo ragione prima del tempo reclamando l’ apertura di un processo che ora è in atto e che potrebbe portare all’ approdo che Salvati e molti altri “sognatori” auspicavano da tempo.

Beninteso il percorso non è facile, e questo era abbastanza evidente fin dal “manifesto” pubblicato nella primavera del 2003 da Salvati sul “Foglio” in cui in sostanza si affermava l’ alternativa secca fra la possibilità di sopravvivenza ed il rischio di declino nella scelta di dar vita a forme di aggregazione che tenessero insieme la parte più consapevolmente riformista della coalizione di centrosinistra, che egli individuava apertamente nella Margherita e nella maggioranza dei DS insieme allo SDI e ad altre forze minori. Tali forze avrebbero poi dovuto auspicabilmente allearsi con le forze del “riformismo radicale”, che Salvati individuava non tanto in Rifondazione comunista, quanto in quella galassia di sinistra critica, sotto il profilo politico e sociale, che andava allora aggregandosi sotto la guida di Sergio Cofferati, prima che l’ asse Bertinotti – D’Alema sul referendum sull’ articolo 18 lo dirottasse sui lidi felsinei.

Se debbo essere sincero, la parte più debole dell’ impianto complessivo del lavoro di Salvati mi pare proprio tutto il ragionamento che egli costruisce sulla questione dei contenitori. Lungi da me l’ atteggiamento sprezzante di chi afferma la superiorità dei contenuti solo per conservare i contenitori così come sono: e poi, come si disse da una cattedra più alta,a vino nuovo otri nuovi. Purché sia nuovo il vino, però, e quindi la giustificazione di un cambiamento così epocale, un partito politico che metta insieme culture e soggettività diverse e per lungo tempo avversarie nel primo tempo della storia repubblicana, sia dovuta ad una reale e piena accettazione di una nuova stagione, e dietro di esso vi sia saldezza di elaborazione e capacità di un nuovo approccio nei confronti della società civile.

Occorre dire che Salvati non è caduto nel vezzo, frequente in molti osservatori, di ricondurre i movimenti al movimentismo nel senso peggiore della parola: al contrario egli è il primo ad ammettere che le istanze espresse dai movimenti possono anche riconoscersi nei filoni maggioritari del riformismo, e proprio per questo, anzi, possono divenirne un additivo. Qualcosa del genere, per dire, l’ha detta recentemente anche Romano Prodi. Il vero problema, ed è un po’ il filo rosso che percorre quest’ opera (per sua inevitabile natura) rapsodica  è la capacità delle forze politiche di cogliere la densità delle questioni sollevate dal tempo presente, piuttosto che coltivare nostalgie o, piuttosto, mitologie di un tempo che non fu ma che appare bello perché diverso dal presente.

Basti pensare alle inopinate discussioni di questa estate sulla “rinascita della DC”: la lettura corrente di certi incontri al vertice dell’ associazionismo cattolico -volendo dirla piatta- era che si fosse di fronte ad un processo di riaggregazione dell’ associazionismo cattolico eterodiretto dalla CEI per arrivare alla ricostituzione della Democrazia cristiana in vista de duplice fallimento del progetto berlusconiano e di quello ulivista. E’ una lettura errata: in questi anni il laicato cattolico ha imparato ad usare la propria testa e a esercitare la propria responsabilità. Pensiamo, dialoghiamo, discutiamo, ci confrontiamo, cerchiamo l’ unità nella fede e nella Chiesa, ma sappiamo che il senso della nostra responsabilità è di prenderci consapevolmente i rischi nel campo che ci è proprio Il problema piuttosto è quello di aprire una stagione in cui la rete sociale ed educativa dei cattolici italiani – con le differenziazioni che pure esistono e che legittimamente debbono esistere- sia capace di incidere nell’ opinione pubblica, nella politica e nelle istituzioni , non attraverso un qualche partito unitario dei cattolici, disegno velleitario ed irrealistico, ma evocando concretamente temi e questioni già presenti del resto nell’ agenda del Paese. Le tre forme storiche del partito di ispirazione cristiana (la DC murriana, il PPI sturziano e la DC degasperiana) ebbero il merito di far entrare a pieno titolo i cattolici nella storia politica del Paese, di salvarli dal gentilonismo, ossia dalla tentazione di agire solo per la tutela dei propri interessi e non di quelli generali, e infine di renderli forza di governo. Le contraddizioni e le opacità del periodo democristiano, nonché l’ avanzato stato di secolarizzazione della società e la diversa consapevolezza della presenza dei cristiani nella storia soprattutto all’ indomani del Concilio Vaticano II , hanno eroso i fondamenti di quella presenza storica, e lo stesso fatto che la nascita del PPI di Martinazzoli nel 1994 fosse stata seguita da due scissioni sul lato destro nel giro di un anno credo sia indicativo dell’ esaurirsi di una fase.

Ciò non significa, beninteso, che il filone storico del popolarismo sia esaurito, ma che oggi quel filone può trovare una sua vitalità sia nelle “buone pratiche” dell’ associazionismo sia anche nella prassi politica, saldando la domanda sociale con la risposta istituzionale, sapendo che comunque vi sarà sempre un’ eccedenza della società civile rispetto alle istituzioni.

Mi sembra che i problemi principali di questa fase storica siano essenzialmente due, uno a livello globale ed uno a livello nazionale. A livello globale , ovviamente, il problema è quello della crisi della globalizzazione e delle sue conseguenze in termini di miseria crescente e di instabilità economica e sociale che è connessa anche al problema della lotta al terrorismo. Ha ragione un prestigioso esponente dell’ establishment politico – finanziario internazionale come Joseph Stiglitz, ex Direttore della Banca mondiale quando dice che la globalizzazione potrebbe ancora funzionare se ci fossero diritti civili e sociali più diffusi, ed il problema a monte, evidentemente, è quello della volontà politica e di chi può stimolarla: torna il tema della società civile internazionale, lanciato da autori  come Hirst, Rifkin e Bauman. Il tema di carattere nazionale è quello del declino del sistema industriale del nostro Paese: ormai non è più solo un prestigioso sociologo come Luciano Gallino – spesso ospite dei nostri incontri del “Dossetti”- a lanciare l’ allarme, la preoccupazione è generalizzata. Un Paese moderno non può pensare di mantenere un’ economia competitiva basandosi solo sulla moda, gli agrumi ed il turismo. Si pone quindi il problema di una nuova politica economica, che sia anche una politica di sviluppo finalizzata alla piena occupazione, sia tutto da esplorare e che coinvolga anche la responsabilità delle forze sociali accanto a quelle economiche e politiche.

Ma c’ è una questione più radicale, che tocca le modalità organizzative della democrazia, se vogliamo l’ essenza della democrazia stessa. Un’ analisi non affrettata anche se un po’ schematica ci fa dire che la democrazia, la democrazia moderna come la conosciamo, nata dall’ incontro non sempre armonico fra il sistema di derivazione anglosassone delle istituzioni rappresentative e delle garanzie costituzionali e quello rousseauiano del rispetto della volontà popolare e della promozione dei diritti sociali, sta oggi affrontando la terza delle grandi crisi che   l’hanno travagliata nel corso del XX secolo e che evidentemente proietta la sua ombra anche sul secolo successivo.

La prima crisi fu quella successiva al primo conflitto mondiale, con quella che fu chiamata l’ irruzione delle masse sulla scena politica e sociale: non fu più possibile per le classi dirigenti dei Paesi occidentali ridurre la decisione politica alla cerchia ristretta delle classi colte ed abbienti, ma si dovette fare i conti con masse operaie e contadine che si erano andate organizzate spesso nell’ illegalità. In più, la rivoluzione dell’ ottobre 1917 in Russia aveva per la prima volta dimostrato che l’ impossibile era possibile, e che le idee di Marx potevano uscire dagli scaffali polverosi della biblioteca del British Museum e farsi programma e prassi di governo. I cattolici furono sfidati anch’ essi e non è un caso che in Italia l’ organizzazione politica del Partito popolare segua di soli due mesi la fine della guerra, e che nella Germania della disfatta imperiale e della Repubblica di Weimar i cattolici dello Zentrum avviassero una collaborazione politica con i socialdemocratici. Solo che l’ ascesa dei totalitarismi trovò i cattolici impreparati, come del resto la maggior parte dei movimenti politici, incapaci di cogliere la nuova sfida: i cattolici, in particolare, non seppero colmare il distacco di un’ immaturità politica che spesso affidava alle gerarchie il compito di mediazioni politiche che spettavano invece ai laici.

La seconda crisi è successiva all’ ultimo conflitto mondiale, e sfidava i sistemi democratici sulla capacità di rispondere agli accresciuti bisogni sociali a fronte della seducente e radicale proposta dei sistemi del socialismo reale. Fu allora che ebbe impulso la costruzione dello Stato sociale, nato nell’ area britannica e scandinava dall’ esperienza delle socialdemocrazie, che cercava di coniugare la democrazia con i diritti sociali di massa, creando così, come ebbe a dire Beveridge, un “onorevole compromesso” fra democrazia e capitalismo. Sotto questo profilo i cattolici ebbero un ruolo fondamentale, sia in Inghilterra, dove appoggiarono i laburisti, sia in Francia, dove il partito cattolico collaborò da subito con i socialisti, sia soprattutto in Italia dove il problema sociale si accompagnava alla presenza minacciosa del maggior partito comunista d’ Occidente. Giorgio La Pira pose il problema in termini poetici ed apocalittici parlando delle “attese della povera gente”, Giuseppe Dossetti ed Amintore Fanfani lo affrontarono sotto il profilo politico, Enrico Mattei e Marcello Boldrini sotto quello imprenditoriale, mentre Ezio Vanoni, Francesco Vito, Pasquale Saraceno e una schiera di giovani economisti le cui propaggini arrivano fino a Nino Andreatta e Romano Prodi si dedicarono a studiare nuovi modelli economici e sociali. Fu una fase felice, che coincise anche con la più grande espansione in termini di sviluppo economico e diritti sociali dei Paesi occidentali, i cosiddetti “trentes glorieuses”  , che ebbero termine con lo choc petrolifero del 1974 ma che furono rese permanenti dalle strutture di Welfare  sviluppatesi nelle varie realtà nazionali in forme più o meno simili.

La terza crisi è quella attuale, che per comodità può essere fatta risalire alla caduta del Muro di Berlino e al trionfo del sistema capitalista in tutto il mondo, travolgendo non solo gli orrori e gli errori del socialismo reale, ma anche i sistemi di welfare del “secolo socialdemocratico”. Il capitalismo nella sua versione globalizzata, basata più sulla finanza che sulle strutture produttive, ha finito per travolgere l’ “onorevole compromesso” di cui parlava Beveridge, imponendo una lettura uniformante dei fatti economici e sociali che ha messo preoccupazioni tradizionali come la piena occupazione, la tutela della salute, la salvaguardia previdenziale agli ultimi posti dell’ agenda politica. Peggio ancora, questo sistema che l’ insospettabile studioso conservatore statunitense Edward Luttwak ha definito del “turbocapitalismo” ha invaso lo spazio tipico della politica e della società civile, corrompendo il livello della mediazione istituzionale e rendendo di fatto la democrazia il paravento di poteri forti che agiscono finanziandola pesantemente (come nelle campagne elettorali negli USA), o magari intervenendo direttamente (come nel desolante caso italiano). Questo modello neo capitalista implica anche una volontà generalizzata di controllo che non esclude i metodi forti, come dimostra il fatto che dall’instaurarsi dell’ età aurea vaticinata da Bush senior alla caduta dei regimi socialisti sono scoppiati non meno di quattro conflitti sanguinosi variamente motivati ma tutti riconducibili alla volontà espansiva del capitalismo globalizzato verso nuovi mercati e contro tutto ciò che veniva percepito come limite a tale volontà espansiva.

Ora, se le cose stanno così la questione del partito democratico, della sua differenziazione dal riformismo tradizionale di matrice socialdemocratica , della necessità di distinzione rispetto all’ area del riformismo più radicale – tutte questioni importantissime, si badi bene- passa inevitabilmente in secondo piano, o forse diventa più importante perché non è più solo la questione di un contenitore ma di un soggetto portatore di interessi e di istanze complessi.

In questo senso credo debbano essere recuperati ed anzi messi al centro della nostra riflessione comune due elementi, uno metodologico e l’ altro concettuale, che forse negli ultimi tempi hanno rischiato di essere un po’ obliati.

Il primo è quello del “processo”, ossia della costruzione di una nuova soggettività politica senza precostituirne gli esiti, senza avere la pretesa di costruire a partire dai tetti, cercando piuttosto di individuare fondamenta programmatiche solide su cui impiantare l’ edificio che si va a costruire. Mi sembra importante che un pensatore della tempra di Giorgio Ruffolo, la cui matrice socialdemocratica è nota a chiunque, abbia ricordato in una recente intervista il famoso principio del grande maestro del riformismo europeo, Eduard Bernstein, per cui  “il  fine è nulla e il movimento è tutto”: slogan non a caso assolutamente inviso a Lenin e ai suoi in quanto implicitamente negatore dell’ approdo escatologico alla società socialista che i bolscevichi avevano elevato da ipotesi politica ad articolo di fede materialista. Ciò si rende a maggior ragione necessario nel momento in cui, come rilevava recentemente Enrico Morando, si cerca di fare una cosa veramente nuova, non una riedizione del patto ciellenista, non una nuova variante della solidarietà nazionale o di altri progetti abortiti, sapendo peraltro, come ebbe a rilevare già oltre vent’ anni fa Pietro Scoppola, che se il progetto berlingueriano e moroteo fallì fu perché, a differenza del primo centrosinistra, non ebbe alcuna elaborazione progettuale condivisa alle spalle. Un pericolo, del resto, che già Romano Prodi si sta occupando di sventare con la suggestione della “Fabbrica delle idee”.

Il secondo elemento, anche più interessante, è quello del recupero della valenza propulsiva sul cammino dell’ integrazione del  pensiero politico di quelle che potremmo chiamare le appartenenze originarie, i filoni ideali che hanno sostanziato fin qui le differenze ed ora debbono convergere verso il progetto federativo.

Per chi viene dal filone popolare, cattolico democratico, cristiano sociale, parole che possono essere utilizzate come sinonimi anche se lo sono solo parzialmente, si tratta di sapere se, una volta usciti dal paradigma democristiano, e anzi da quello stesso del partito di ispirazione cristiana, è possibile dare gambe e sostanza a qualcosa di diverso e di nuovo in cui l’ identità non sia solo il pretesto per dividere ma il lievito che fa crescere ed il sale che dà sapore.

Si pongono quindi, e le pongo all’ autore, alcune questioni interessanti:

1.    Se il problema è quello di dare impulso ad un progetto riformatore, tale progetto da dove trae la sua legittimità? Abbiamo visto come un risultato non pieno della lista unitaria dell’ Ulivo alle elezioni europee dello scorso anno abbia quasi portato all’ affossamento del progetto di Prodi: ciò significa che dobbiamo considerare il progetto a rischio ad ogni tornata elettorale più o meno malriuscita?

2.    Quale è il legame vitale fra il progetto da costruire modello “work in progress”  e le tradizioni storiche? Il problema se lo è posto lo stesso Salvati recensendo un testo di Umberto Ranieri estremamente critico verso l’ ulivismo in nome della tradizione socialdemocratica, ma evidentemente vale anche per altri.

3.    Infine, la questione del programma, perché è chiaro che il discrimine fra destra e sinistra sta ancora nel modo di porsi di fronte a certi problemi, e troppo a lungo abbiamo sentito criticare la scarsa attitudine riformista di chi non riteneva che la guerra preventiva fosse il veicolo privilegiato della democrazia o di chi pensava che le politiche del lavoro dovessero agevolare le ragioni dell’ impresa prima di quelle dei lavoratori. Eppure contenuti e contenitore dovrebbero coincidere, vero?

Trascrizione della relazione di Michele Salvati

“Menù” per la discussione

Cari amici, voglio ringraziare Lorenzo per la sua impegnativa relazione: l’ha letta con una certa fretta, e voi avete potuto seguirla sul testo scritto. Sono sicuro che non avete avuto modo di approfondirla, come spesso accade per i testi scritti: un’argomentazione segue l’altra e non c’è il tempo di assimilare la  prima che già arriva la seconda. Il vantaggio è di poter ruminare e meditare il testo a casa, ciò che farò anch’io perché esso pone problemi reali, importanti e talmente grandi che, con tutta franchezza, non so da che parte iniziare a rispondere.

Procederei in modo diverso da Lorenzo, non avendo preparato una relazione scritta. Ho qualche appunto su questioni molto diverse e penso di presentarvi una serie di “menù” per la discussione, lasciando a voi la scelta in quale piatto mettere il naso e la forchetta, e in quale direzione sviluppare la discussione che seguirà. Un po’ come al ristorante, dove il “menù” è ampio, ma poi la scelta avviene su un limitato numero di portate perché non si può mangiare tutto. Ritengo che questo sia il modo più utile per affrontare una tematica così ampia come quella che Lorenzo ha condensato nella sua ricca introduzione.

Tra l’altro, questa è una scuola di formazione e, quindi, ho motivo di supporre la presenza di persone intenzionate e predisposte a interrogarsi, a continuare a leggere e a studiare; penso, così, di fornirvi anche indicazioni bibliografiche utili per gli obiettivi del nostro incontro.

Lista unitaria per le elezioni europee

Mi riferisco, anzitutto, al libro (“Il partito democratico”, ed. Il Mulino) perché da esso è partita questa raccolta di articoli e  da qui ha preso le mosse, adesso, anche Lorenzo, il quale ha opportunamente messo in rilievo che il volume è stato pubblicato alla fine del 2003, cioè dopo che Romano Prodi aveva reso note le considerazioni che stanno dentro il libro; considerazioni di un politico, forse un po’ “sognatore” –  come diceva Lorenzo – ma che affronta una corposa realtà politica. Dico questo perché la proposta di una lista unitaria per le elezioni europee è stata un’iniziativa di notevolissima importanza, che dimostra – se ce ne fosse ancora bisogno –  il coraggio e lo spessore politico di Romano Prodi. Questa storia di considerarlo un “professore”, fa torto alla vera natura di Romano, che è un politico con straordinaria capacità di decisione e di spiazzamento delle altre posizioni in campo. Considerate: venir fuori, alla vigilia del suo rientro nella politica italiana, con un’idea così ardita e, a prima vista,  intempestiva! Sì, perché la formazione di una lista unitaria in un contesto proporzionale, com’è stato quello delle elezioni europee, esponeva al pericolo di un fallimento e, sebbene ciò non sia accaduto, il rischio è stato pesante.

Tenete presente che queste elezioni, oltre ad avere una non grande partecipazione, solitamente sono occasioni in cui ci si conta per identità separate; almeno così vengono vissute dalle forze politiche. Sono fatte proprio per contarsi, mentre resta in secondo piano l’obbiettivo di esporre idee e portare avanti politiche sull’Europa  e sul suo processo di integrazione.  Ciò avviene non soltanto in Italia, ma anche in altri paesi. Sono veramente fatte per contarsi.

Allora, in elezioni del genere, strettamente proporzionali, uscire con l’idea della lista unica –  o lista “unitaria” come, poi, si è chiamata –  è stata una mossa molte forte che ha rimesso in piedi l’Ulivo attraverso una semplicissima proposizione: questa è l’idea, chi l’accetta? Chi non l’accetta è liberissimo di farlo, però non ponga veti al processo che la lista unitaria innesca.

La fase precedente: sconforto nel Centrosinistra

Vi ricordate qual era la situazione durante la prima fase del Governo Berlusconi? Si parlava in continuazione dell’Ulivo, della necessità di presentare un programma e di far fronte comune contro le iniziative incalzanti e pericolose che il Governo stava mettendo in campo. Richiamo la raffica di provvedimenti personali sulla giustizia, che Berlusconi sfornò proprio nei primi sei mesi, quando avrebbe dovuto fare tutt’altro, mentre fece solo quello. E lo spiazzamento e la mortificazione che c’era nel nostro campo del Centrosinistra!

L’incapacità di arrivare ad una politica comune: sostanzialmente i gruppi parlamentari invece di allargarsi per  costituire un gruppo unico, coincidente quanto meno con l’Ulivo, si ripiegavano in logiche partitiche molto anguste. Questa era la situazione.

Conati di riformismo

Ci furono tentativi, anche molto generosi, da parte di alcuni parlamentari, con l’obiettivo di invertire la tendenza. Vicende ignote al grande pubblico, seguite solo dagli “addetti ai lavori” e dagli appassionati della politica. Un’iniziativa significativa fu quella di costituire un gruppo parlamentare trasversale tra i partiti dell’Ulivo – che fu chiamato “Gruppo Artemide”, dal luogo dove gli aderenti si incontravano – al quale partecipavano riformisti dei DS, della Margherita e dello SDI e che ebbe un certo successo, fino ad arrivare al tentativo di definire una piattaforma programmatica comune che superasse il puro antagonismo antiberlusconiano. Si ragionava così: Berlusconi mette in campo una sua proposta sull’art. 18 o, più in generale, sulla politica del lavoro?  E noi che cosa diciamo? Per l’area tematica che ho citato a titolo di esempio, partecipavano persone come Tiziano Treu, Nicola Rossi e tanti altri; e si spaziava dalle politiche del lavoro al welfare, alle questioni di politica internazionale.

La spinta antagonista e il ruolo di Cofferati

Ebbe però il sopravvento la logica antagonista sotto la spinta dell’atteggiamento antiberlusconiano, che in quel periodo era molto forte, anche per giusti e comprensibili motivi, e che si stava diffondendo nella società. Ricordate: era il momento dei girotondi, dei no-global, di Genova.

Questo era lo stato delle cose e l’animus dominante nel popolo del Centrosinistra, non soltanto dei DS, ma anche di quelli che seguivano la Margherita e dei movimenti cattolici di base.  Così si comprende il significato della grande manifestazione di S. Giovanni: quei tre milioni di persone, convocate dall’allora Segretario della CGIL; era il momento in cui Sergio Cofferati sembrava il leader di questo atteggiamento, frenando un’ opposizione moderata e programmatica che, punto per punto, avrebbe voluto costruire in Parlamento un ampio schieramento, che avesse anche  il suo momento di diffusione in quelle grandi manifestazioni di massa, ma si fosse, al tempo stesso, dedicato alla costituzione di un grande soggetto politico o, almeno, di un gruppo parlamentare. Si pensò, invece, in altro modo: basta con queste alchimie di voler fare un gruppo dell’Ulivo; di ragionare di  maggioranze e minoranze e cose del genere; discutiamo prima delle fondamentali questioni programmatiche.

Contenuti e contenitori: un rapporto da rimettere a fuoco

Naturalmente questa fu una fase a  doppio taglio, perché è perfettamente vero –  anche Lorenzo  lo ha detto –  che sono le scelte programmatiche di fondo il collante che dovrebbe unirci; di fatto allora (ma, spesso, tuttora è così) le questioni di programma furono quelle che dividevano, soprattutto per questo antagonismo, questo metter in contrasto contenitore e contenuto: è un punto su cui bisogna porre una certa attenzione.

Allora Cofferati usò questo argomento: prima i contenuti e poi i contenitori; prima il programma e poi l’architettura istituzionale, quasi fosse intenzionale il fatto di evitare qualsiasi formazione di un gruppo dirigente dell’Ulivo ed ogni passo che andasse oltre le singole appartenenze politiche. Questo fu il senso di quella fase. Sia ben chiaro: ai contenuti credo moltissimo anch’io; non ci possono essere contenitori senza contenuti, ma voglio semplicemente sottolineare come, alle volte,  l’insistenza sulle questioni programmatiche – che spesso dividono –  nasconda la volontà di impedire un salto verso un soggetto politico più ampio. E nel caso di Cofferati, allora, fu proprio così.

La “mossa” di Prodi

Notate che, poi, la posizione espressa da Cofferati passò. Ed una delle ragioni fu proprio l’atto di coraggio –  non mi stancherò di ripeterlo –  con cui Prodi nell’estate del 2003 disse, sostanzialmente: “chi mi ama mi segua”. E’ un fatto che tutti nel Centrosinistra, sia i moderati che i più radicali, erano – e sono – convinti dell’insostituibilità della candidatura di Prodi in funzione “anti-Berlusconi”, e Prodi stesso ne aveva più volte accennato. Così, mise sul piatto la sua posizione in questi termini: chi vuole, per favore, costruisca la lista unitaria, costruisca l’Ulivo; chi non vuole la lista si astenga ma non ponga impedimenti o veti a questo processo politico. In pratica: chi vuole andare avanti insieme lo faccia, vada avanti. Un po’ come succede in Europa (e Prodi fece esplicito riferimento all’esperienza europea)  dove la logica è che se alcuni paesi hanno ragioni di comunanza più forti, vanno avanti e gli altri poi seguiranno, con liberissima scelta. Nessuna preclusione ad entrare nel “girone” dove si corre più in fretta ma, al tempo stesso, superamento del diritto di veto,  che era stato il meccanismo bloccante dei processi di maggiore integrazione e unione.

Decidere e rischiare: le “cifre” del politico di razza

Questo è stato l’atto politico di Prodi. Un atto coraggioso di un vero politico,  cioè di persona che prende decisioni e rischia. Sono le ragioni per cui considero Romano Prodi un politico mentre non ho la stessa opinione di altri, ad esempio di Giuliano Amato, che è forse più affascinante ed anche più intelligente di Prodi, ma non sa rischiare (son cose che a Giuliano Amato – che è un carissimo amico – posso dirle anche in faccia). Essere politico significa fare questo. Massimo D’Alema – per fare un altro esempio – è un politico: ha rischiato con l’idea del partito socialdemocratico; ha perso e ne ha tratto le conseguenze.

Insomma i politici rischiano e prendono decisioni; Romano Prodi lo ha fatto, mettendo in campo quest’ idea del partito riformista che oggi – esattamente in questo momento, al Teatro Brancaccio di Roma – dovrebbe incoronarlo come Presidente della Federazione Riformista. E’ un fatto – quello del Brancaccio –  essenzialmente celebrativo, perché gli organi di questa ipotetica formazione non si sa ancora bene quali saranno; naturalmente le cose sono sempre complesse nella fase di concreta realizzazione, ma l’importante è che il processo sia avviato e vada avanti.

La provocazione del mio libro

L’idea centrale di questo libro è precedente alla decisione di Prodi ed è nata proprio per esasperazione. Infatti il titolo originale (lo pubblicò così il Foglio) era “Se non ora, quando?”, che esprimeva una certa insofferenza per la completa egemonia che, in quel momento, Cofferati esercitava sullo schieramento di Centrosinistra, con la sua posizione di puro anti-berlusconismo, senza contenuti riformisti nel suo programma. Dicevo allora: se ci siete riformisti, se ci siete ulivisti, battete un colpo perché questo è il momento;  sembra che Cofferati voglia costruire un’unità della sinistra più radicale; e la sinistra più riformista che cosa fa? Costruisca anche lei una sua unità!

Chiesi ospitalità a Giuliano Ferrara sul Foglio, sede incongrua quanto ad affinità di posizioni politiche, ma molto importante ed efficace per la diffusione dell’idea e per la discussione che ne seguì e che venne notata anche da Romano Prodi, inducendolo ad una riflessione. Non voglio dire che quella mia provocazione abbia rappresentato il fattore scatenante del successivo intervento di Prodi, però, indubbiamente, c’era identità di disegno politico: costruire un’unità riformista, nella convinzione che i tempi fossero maturi.

La prima parte del libro presenta l’appello: “Se non ora, quando?”,  che nasceva da quella situazione di depressione della primavera del 2003, in cui si constatava  che in Parlamento non si riusciva a fare niente e che le iniziative di integrazione dell’Ulivo cadevano tutte miseramente e sembrava che il campo fosse tenuto dalla sinistra più radicale. A questo iniziale intervento provocatorio seguirono alcuni miei articoli sui quotidiani – furono, fondamentalmente, articoli su “La Repubblica”, dove allora scrivevo – nei quali davo conto degli andamenti del mio umore dopo i primi commenti che si andavano facendo sulla cosa.

Poi, finalmente, intervenne un peso massimo come Romano Prodi che, nel luglio,  lanciò formalmente la proposta e, a questo punto, i partiti dovevano rispondere. La grande fortuna fu che (per dirla alla Manzoni) “gli sventurati risposero”. E, sostanzialmente, la risposta fu positiva. Nel giro dell’estate, DS e Margherita – che sono quelli  che contano – dissero sì! Molto significativo, peraltro, anche  l’assenso dello SDI, che aveva respinto l’idea di D’Alema del partito socialdemocratico.

La precedente ipotesi di D’Alema: il partito socialdemocratico

L’anno precedente, infatti, D’Alema aveva confezionato un bel piatto, ricordate? Aveva detto: facciamo un’unione dei partiti di ispirazione socialista e, quindi, entrate per cortesia nei DS. Lo stesso nome “DS” aveva a che fare con l’iniziativa presa a Firenze, al congresso straordinario di Rifondazione Comunista, in cui D’Alema aveva auspicato che tutti coloro che si rifacevano all’idea socialista democratica entrassero dentro.  In buona sostanza, in che cosa consisteva la speranza di D’Alema? Quella per la quale ha combattuto da leader e ha perso (come dicevo, i leader combattono: vincono o perdono). L’idea – che, secondo me, nasceva da una visione sbagliata della società e della politica italiana – era la seguente: l’Italia è un paese anomalo ed io  voglio che diventi un paese normale. Nei paesi normali – pensava D’Alema – che cosa succede? Nei paesi normali, ai quali più direttamente possiamo guardare – come  la Francia, la Spagna, la Germania, l’Inghilterra –  esiste una destra conservatrice con le sue consuete caratteristiche e, poi, c’è l’agglomerato di sinistra il cui asse fondamentale è costituito da un partito socialista democratico. Questa è la situazione nei paesi “normali”; che cos’ è questa anomalia dell’Ulivo? Ricordate che D’Alema ce l’aveva a morte con l’Ulivo e con Prodi. In pillole, il suo ragionamento era: l’Ulivo è un’anomalia; e allora io, adesso, recupero tutti i socialisti, li tiro dentro, vado alle elezioni regionali, vinco, vado alle elezioni politiche, mi candido e… me la son messa! Dopo di che, dell’Ulivo, di vegetali e di altre cose del genere non se ne parla più; l’Italia diventa un paese normale; la Sinistra ha un grande partito socialdemocratico; i cattolici – meno male che ci sono – entrano pure loro  (come ricordava prima Lorenzo a proposito dei laburisti), ed entrano come  cattolici di sinistra, come coloro che laicamente scelgono una via di maggiore solidarietà e di minore liberismo, ed entrano all’interno del grande consesso socialdemocratico; noi, come Italia, diventiamo finalmente normali e come tali entriamo in Europa; ci affiliamo al PSE, e … tutto quadra!

Le ragioni “storiche” di un fallimento

Questa fu la scommessa di D’Alema e, guardate, non era né banale, né sciocca; era una scommessa da leader politico. Persa! Perché non teneva conto delle ragioni dell’anomalia (o anormalità) italiana; ragioni che sono specifiche del nostro paese e molto profonde e che determinano per la Sinistra italiana – cioè per il complesso di coloro che credono nella solidarietà ed hanno attenzione verso i più deboli e gli  esclusi; di quanti vogliono conciliare le libertà individuali con l’uguaglianza, intesa come pari opportunità per tutti (che è, poi, il grande messaggio del socialismo) – l’ impossibilità di esprimersi in un contenitore rappresentato da un partito socialdemocratico.

La questione cattolica

Una di queste ragioni affonda le sue radici addirittura nella fase della costituzione del nostro Stato unitario. Mi riferisco al “non expedit” e allaquestione romana. Il nostro Stato liberale unitario, nasce “contro” la Chiesa Cattolica, con un atto di espropriazione della sua base territoriale; e nasce con una violenta opposizione dell’intero clero, circostanza che non si verifica negli altri paesi pur cattolici, neppure in quelli profondamente tali: ciò che non avviene né in Francia, né in Spagna, avviene in Italia!

Nel nostro Paese i cattolici verranno recuperati alla politica in un secondo tempo, in forme diverse: prima attraverso il gentilonismo –  lo ricordava brevemente Lorenzo –  poi attraverso il pensiero e l’azione di personalità come Murri, Sturzo e, successivamente, De Gasperi, le quali riusciranno a traghettare il cattolicesimo politico all’interno del sistema italiano. Si tratta di una specificità tutta italiana. Vi siete mai chiesti per quale ragione nella cattolicissima Spagna, quando ritorna la democrazia nel ’75, non si forma una DC? Nasce solo una democrazia politica, anche se, in effetti, ci provarono pure lì,  ma presero una legnata terribile. Perché? E’ una questione che lascio aperta; poi semmai ne discutiamo, se interessa. Tornando al nostro discorso, questa è la prima grande “anomalia” del nostro Paese, che rendeva inattuabile il disegno di D’Alema.

L’egemonia comunista nella Sinistra

L’altra ragione ha a che fare con il secondo dopoguerra e risiede nell’ egemonia dei comunisti nel campo della sinistra laica, a differenza di altri paesi, nei quali pure si era partiti con una prevalenza del Partito Comunista su quello Socialista, ma poi per un insieme di ragioni (che non approfondisco adesso, ma sulle quali si potrebbe entrare perché sono aspetti di grande interesse), le cose si rovesciarono e si determinò la prevalenza dei socialisti sui comunisti.

In Italia, questa spaccatura della Sinistra tra comunisti e socialisti e la prevalenza dei primi sui secondi, fu una cosa drammatica; una condizione del tutto anomala, che ingenerò la totale impossibilità di alternanza nel governo del Paese.

Il nesso fra le due “anomalie”

Va considerato che le due singolarità italiane sopra descritte trovarono uno stretto legame fra loro, poiché la forza della DC nel dopoguerra, cioè la prima anomalia – quella del partito “cattolico” –  venne utilizzata per controllare e sconfiggere la seconda. Infatti, era così forte la minaccia comunista, che soltanto un partito con un solidissimo radicamento popolare appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche poteva costituire un valido baluardo. Ciò, peraltro, fece venir meno la normale contrapposizione destra/sinistra, altrove esistente, anche se una certa dialettica si trasferì (e fu tutta giocata) all’interno della DC, tra posizioni più liberali e orientamenti più solidaristi, entrambi esistenti in quel partito. Cosa questa che poi si accentuò quando il partito non fu più sufficiente e fu necessario recuperare i socialisti, sempre però come baluardo contro i comunisti, stante la permanente impossibilità di associare il Partito Comunista al governo.

La via alternativa: il partito democratico

In un paese con queste caratteristiche o particolarità (preferisco chiamarle in questo modo, perché nella storia non esistono “anomalie”), non poteva certo passare così, sic et simpliciter, l’invenzione del partito socialdemocratico. Ecco perché io sostengo con forza ed entusiasmo la soluzione alternativa; ecco perché sono convinto che la Sinistra, o –  per meglio dire – gli orientamenti di carattere solidaristico,  devono trovare un contenitore di partito democratico e non di partito socialista: perché i riformismi, nel nostro Paese, stanno all’interno di tradizioni politiche diverse, con un profondo radicamento nel passato; esse devono incontrarsi e stare unite, senza necessità di rinnegare identità di cui si è ancora – e giustamente – gelosi. Sono, infatti, grandi storie quelle dei socialisti, dei comunisti, dei democristiani e della sinistra DC. Sono grandi culture politiche che non vanno mortificate e compresse da un’egemonia socialdemocratica affermata su base astratta o di principio, che non avrebbe nulla a che fare con la nostra tradizione. Nascono dalla storia che abbiamo alle spalle e devono entrare dentro la storia che occorre costruire. Quindi, badate, questo progetto è tutt’altro che un disegno politicistico, minimalista, di puri contenitori. E’ un disegno storico, che ha radici e linfa nella nostra storia. Questa è la cosa che mi sta a cuore dire e far capire!

La seconda parte del libro

Il libro ha, poi, una seconda parte con saggi, anche più lunghi, che hanno origine dalla battaglia politica che io avevo condotto da parlamentare, durante la 13ª legislatura – quella passata – contro D’Alema, in buona sostanza. Sono scritti che rivelano, all’interno del partito, la fronda di una piccola componente – il gruppetto di Morando, Petruccioli, Turci e, poi, altri riformisti vari – contro l’ipotesi del partito socialdemocratico, nella convinzione dell’impraticabilità di quell’idea e che, sostanzialmente, diceva: D’Alema ti sbagli, vai a scornarti (come, poi, sarebbe accaduto!).

D’Alema, da leader politico qual è, ha capito e adesso è il più entusiasta di tutti nel sostenere Prodi, dopo averne dette di cotte e di crude: non ne avete idea! Tra l’altro, è una persona che non le manda a dire ed è fin troppo graffiante. Dal canto suo, Prodi ha una memoria da elefante e se le è legate tutte al dito.

Vi ricordate il famoso convegno di Gargonza (dal nome del bellissimo borgo toscano in cui si svolse il convegno)? D’Alema venne lì a dire: piantatela con questi vegetali e con queste piante; il partito socialdemocratico è il nostro destino. E, guardate – lo ripeto ancora – era un bel disegno, un grande disegno. Io, poi, che vengo dalla tradizione laica, se fosse stato possibile seguirlo, sarei stato il primo a sostenerlo; non avevo e non ho niente di ideologicamente contrario. Il fatto è che si trattava di un progetto irrealizzabile!

In onore di Beniamino Andretta

Allora – dicevo –  sono saggi che riguardano questa battaglia politica che io combattevo all’interno dei DS (io con i miei amici, naturalmente), e che Beniamino Andreatta combatteva all’interno dei Popolari e dei vari raggruppamenti dell’area del riformismo cattolico. Per questo il libro è dedicato a lui. Ma c’è anche un’altra ragione. Il giorno in cui ebbe quel malore, eravamo alla Camera e si esaminava la legge finanziaria. Era il 15 dicembre 1999; avevamo trascorso due ore insieme fra le 19 e le 21; poi andammo a mangiare rapidamente, conversando su un altro libro, un libro di economia (siamo economisti tutti e due) e poi… vederlo crollare sul banco, due ore dopo, alle 11 di sera, mentre si discuteva della finanziaria: è stato un colpo!

Sono profondamente amico di Andreatta e la sua assenza dalla battaglia politica è un vuoto di una gravità mostruosa; avrebbe potuto fare la reale differenza e Prodi ha perso l’intelligenza più acuta che aveva alle sue spalle (Parisi non può, certo, competere con lui). Questa è un po’ la ragione della dedica: faceva la mia stessa battaglia all’interno del Partito Popolare, e la cosa andava bene.

Una risposta concreta

Questi saggi sono in realtà i più impegnativi, perché approfondiscono in dettaglio l’insieme delle motivazioni che inducono a credere che l’idea del partito democratico non sia qualcosa come un puro contenitore – così, in astratto – ma sia la risposta ad un’esigenza storica, dopo che sono venute meno le ragioni di contrapposizione fra DC e PCI. Sì, perché, con il 1989, crollano le ragioni di questi due partiti; non solo – vedete – quelle del PCI, ma anche quelle del suo antagonista, cioè della “diga”. La DC aveva senso, mettendo assieme tutto, solo come diga; ma se il flusso che la diga doveva contenere non c’è più, anche la diga perde la sua ragion d’essere.

D’altra parte, non è un caso che in Italia le cose grosse, dal punto di vista della domanda della sinistra –  solidarietà e integrazione sociale – vengano da queste due grandi tradizioni: la comunista e la cattolica. Questi sono i veri filoni da cui attingere, dopo che la tradizione socialista è finita come tutti sappiamo. Quindi bisogna salvare queste due risorse, mettendole assieme. Un po’ come nel “compromesso storico”, in un contesto, però, bipolare. Quello era sbagliato perché metteva assieme tutti e non aveva molto senso. Invece, in una logica bipolare, si tratta di mettere un pezzo dell’uno e un pezzo dell’altro. Questo è  il senso dell’operazione.

La terza parte del libro: l’origine di un programma

La terza parte del libro ha a che fare sì con il mettere assieme queste tradizioni, ma per fare che cosa adesso? Perché – badate – nel 1989 non crolla soltanto un mondo politico, un sistema di partiti, il PCI e il suo opposto, la DC; ma nell ’89 e ancor prima – all’inizio degli anni ’80, con la Thatcher e con Reagan – crolla un modello di capitalismo e di sviluppo. Era un modello di sviluppo capitalistico “dal volto umano”, che alcuni grandissimi personaggi – da Keynes a Beveridge, in campo economico e sociale, ed altri grandi americani del periodo della guerra, per quanto riguarda il sistema di relazioni internazionali – disegnarono, dando origine a quanto poi venne deliberato a Bretton Woods, nel luglio del 1944.

Capitalismo dal volto umano

Il sistema si basava sulla moneta, che veniva pilotata dal paese egemone – cioè gli USA – in maniera tale da consentire a tutti i paesi industrializzati, vinti e vincitori, di fare una politica di piena occupazione. Non entro nei dettagli: questo è, a mio avviso, il senso di quell’operazione internazionale, fatta da democratici profondamente consapevoli del disastro del primo dopo guerra (quello della sconfitta della Germania da parte della Francia nel 1919, tanto per intenderci) che aveva generato, da un lato, la rivoluzione sovietica e, dall’altro, il fascismo e il nazismo. Nella mente di questi grandi protagonisti del secondo dopo-guerra, il comunismo rappresentava  il pericolo e la minaccia: un sistema che garantiva piena occupazione, in un mondo in cui il capitalismo produceva, invece, disoccupazione! Quando poi, nel 1957, i Russi mandano lo Sputnik nello spazio, si diffonde nel mondo un vero e proprio terrore.

Si diceva: questi non solo non hanno disoccupazione; hanno sì miseria, perché sono all’inizio del loro sviluppo, però questa miseria è equamente distribuita e, poi, dal punto di vista tecnologico, hanno la bomba atomica e riescono a mandare per primi nello spazio qualcosa che ruota attorno alla Terra! Qui, o si fa qualcosa, oppure noi ci scontriamo con questo sistema illiberale e tirannico.

La reazione fu straordinariamente positiva, all’insegna dell’idea che anche il capitalismo e il libero mercato dovevano dimostrare di essere in grado di generare piena occupazione e benessere. Allora, un grande teorico come Keynes e un altrettanto grande organizzatore come Lord Beveridge  inventano, sostanzialmente, lo stato del benessere, tenendo però sempre presente che esso è sostenibile in condizioni internazionali idonee, cioè solo se il Paese egemone gestisce la sua moneta –  che è anche moneta di riserva internazionale – in maniera tale da consentire ai singoli Paesi lo sviluppo, tenendo assieme welfare e occupazione.

Questo disegno ha caratterizzato i trenta anni gloriosi che vanno dal 1950 al 1980. Finita la ricostruzione, dopo il 1968, abbiamo avuto il periodo di maggior benessere, insieme alla spinta verso la massima uguaglianza sociale possibile. Sono gli anni in cui veramente si può cominciare a parlare di “libertà eguale”, perché ci sono paesi liberi in cui ciascuno ha il proprio disegno di vita e in cui c’è un sistema di mercato. Le condizioni di profittare di queste libertà (diritti civili, politici, ecc.), in precedenza riservate ai ricchi,  adesso sono distribuite su una grandissima massa di persone. Una fase straordinaria quella; che però poi crolla.

La svolta liberista

Anno terribile il 1980, perché vince Reagan negli USA, con un programma neo-conservatore che è quello ancora dominante adesso, e che è stato riconfermato nelle recenti elezioni USA; è un programma profondamente conservatore, estraneo alla nostra mentalità. Aveva cominciato la Thatcher in Inghilterra; i paesi anglo-sassoni sono quelli che partono in questa nuova direzione. Purtroppo fra questi paesi c’è l’America! Vedete, finchè vince la Thatcher in Inghilterra poco male. Ma se vince Reagan negli USA, vince nel mondo; questo è il problema.

Reagan ha il potere di imporre la sua visione al mondo e lo fa! Così entriamo in una fase molto difficile per la Sinistra in tutta Europa e in tutto il mondo. E non solo. I modelli politici italiani, per i quali noi avevamo combattuto e su cui avevamo costruito il nostro sistema politico, crollano. Ciò avviene perché la DC e il PCI, dopo l’80, non possono reggere. Il sistema – diciamo così, per un insieme di ragioni interne – va in condizioni di fusione e succede quello che conoscete bene: si passa da un sistema di convergenza al centro, in cui non c’era alternanza, a un sistema di ricambio della classe dirigente.

Considerate, però, quel che è avvenuto in Italia: che la classe dirigente sia cambiata e sia arrivato Berlusconi con i suoi, è stato proprio un bel guadagno. Voglio dire: ridateci la DC!

Bipolarismo all’italiana

Mi ricordo una volta, ero stanco di una riunione parlamentare e ho provato a parlarne con Giovanardi, che è un DC, un vero DC doc, di alto livello, che è andato a finire dall’altra parte. Giovanardi, tra l’altro, è molto più intelligente di quanto sembri; si maschera bene… se volete poi vi racconto alcuni particolari della sua carriera politica. Quel giorno mi fa: Michele, sei sempre convinto che questo sistema bipolare, questo sistema di alternanza, sia un’evoluzione positiva del sistema democratico? Lui lo diceva con parole un po’ grezze, alla Giovanardi, ma il succo era questo: no, questo è un Paese che, con enorme fatica, riesce ad esprimere “un” ceto dirigente decente; due ceti dirigenti decorosi e in alternanza tra loro non ce la farà mai!

Che cosa voleva dire? Che, sostanzialmente, nel giro dell’alternanza devi accettare tutto ciò che sta all’estrema sinistra, se sei a sinistra; e tutto ciò che sta all’estrema destra, se sei a destra dello spettro politico; e questo è condizionante. A destra ti condiziona la Lega; dall’altra parte ti condiziona Rifondazione Comunista. Guardate che questa idea di Giovanardi è condivisa da un’enorme quantità di persone, cosicché l’ipotesi di un ritorno al proporzionale, a seguito della delusione sul tipo di bipolarismo che abbiamo sperimentato, è largamente in circolazione; perché ognuno dei due blocchi è costretto a raccattare tutti; ma proprio tutti, tutti.

Così si spiegano le fortissime resistenze che esistono, in particolare, nella Margherita (c’è resistenza anche nei DS, da parte di un vecchio egemonismo della sinistra). Nella Margherita le resistenze sono legate a un ragionamento di questo tipo: ammetti che, prima o poi, intervenga una legge elettorale proporzionale; se noi siamo fusi con i DS, non siamo più attraenti, mentre se rimaniamo con la nostra identità, chiaramente centrista, a quel punto, ci mettiamo assieme con i Casini, i Follini, ecc., ed è fatta: torniamo a comandare noi. Questo è il succo che sta dietro alle resistenze.

Spunti biografici

Per farla breve, la terza parte del libro ha a che fare con “Uniti insieme per fare che cosa?”. E, a questo riguardo, vi fornisco due indicazioni bibliografiche che possono integrare quanto contenuto nel libro. La prima è “Due sfide per Romano Prodi”: si tratta di un lungo testo, di una trentina di cartelle, uscito sul “Riformista” dell’11 dicembre, nel quale c’è un’analisi molto dettagliata di che cosa è avvenuto tra il rientro di Prodi fino a dicembre. Penso che possiate trovarlo anche sul sito di “Libertà uguale”. La seconda è un libretto, distribuito dal “Riformista”, ancora nelle edicole, intitolato “Le riforme dei riformisti: come prepararsi a governare l’Italia nel 2006”, nel quale, dopo un’introduzione di Morando e mia, ci sono molti articoli approfonditi su tematiche varie come le politiche del lavoro, il welfare, le politiche internazionali e così via.

Io mi fermerei qui perché, se no, non diamo spazio al dibattito.

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