Salvatore Natoli. Parole della filosofia o dell’arte di meditare.

Questo libro di Natoli è un’ottima introduzione alla filosofia, consigliabile a tutti coloro che vogliono intendere cosa è la filosofia e come si muove il pensiero quando fa filosofia. Per lo più in Italia le introduzioni alla filosofia sono manuali strutturati secondo percorsi cronologici che procedono per autori e movimenti (I presocratici, Platone, Aristotele….): spesso rischiano di smarrire il gusto della meditazione, limitandosi a presentare una carrellata di soluzioni tra le quali la successiva smentisce la precedente. Nella tradizione della filosofia anglosassone invece le introduzioni alla filosofia sono organizzate in forma problematica (cosa è la verità? Siamo liberi?…), ma spesso perdono lo spessore storico dei problemi, e rischiano dogmatismo e semplicismo. Questo libro mi sembra raggiunga e mantenga il delicato equilibrio tra dimensione teoretica e dimensione storica: insegna a pensare in modo autonomo attraverso il pensiero di alcuni classici di elezione e giunge con linguaggio sempre cristallino alla profondità. Non è un libro facile, ma è un libro chiaro.

1. leggi il testo dell’introduzione di Roberto Diodato

2. leggi la trascrizione della relazione di Salvatore Natoli

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Testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Salvatore Natoli

Questo libro di Natoli è un’ottima introduzione alla filosofia, consigliabile a tutti coloro che vogliono intendere cosa è la filosofia e come si muove il pensiero quando fa filosofia.

Per lo più in Italia le introduzioni alla filosofia sono manuali strutturati secondo percorsi cronologici che procedono per autori e movimenti (I presocratici, Platone, Aristotele….): spesso rischiano di smarrire il gusto della meditazione, limitandosi a presentare una carrellata di soluzioni tra le quali la successiva smentisce la precedente. Nella tradizione della filosofia anglosassone invece le introduzioni alla filosofia sono organizzate in forma problematica (cosa è la verità? Siamo liberi?…), ma spesso perdono lo spessore storico dei problemi, e rischiano dogmatismo e semplicismo. Questo libro mi sembra raggiunga e mantenga il delicato equilibrio tra dimensione teoretica e dimensione storica: insegna a pensare in modo autonomo attraverso il pensiero di alcuni classici di elezione e giunge con linguaggio sempre cristallino alla profondità. Non è un libro facile, ma è un libro chiaro.

Ora per raggiungere i suoi scopi, mostrare il farsi del pensiero con chiarezza e profondità, Natoli sceglie opportunamente di procedere per parole chiave poste in relazione, talvolta in relazione oppositiva, ma più frequentemente in rapporto di riverbero, come se potessero intendersi nel loro senso solo se pensate insieme. E’ un buon modo di procedere perché è probabilmente vero che il pensiero filosofico si sia organizzato e si organizzi per coppie concettuali, e che sia investigabile attraverso la decostruzione delle coppie fondamentali. Natoli non punta però al ribaltamento delle coppie, come fanno i filosofi oggi di moda che hanno l’ambizione di oltrepassare la tradizione della filosofia occidentale, ma punta all’intreccio dei concetti, alle loro corrispondenze, ai loro reciproci effetti. Ciò per abituare il lettore al dipanarsi del pensiero, e quindi a pensare in modo proprio. Il compito che risulta infine da questo esercizio è un compito etico, particolarmente urgente nella contemporaneità:

Ma fare filosofia rielaborando le sue grandi parole ci predispone a qualcosa d’altro e di più decisivo: ci abitua a pensare filosoficamente tutte le parole, a ponderarle. Oggi non esiste più alcun divieto di parola, tutti parlano, anche se spesso finiscono per dire le medesime cose. Ma quanti danno peso a quel che dicono? … Analizzare l’impiantarsi delle categorie, considerarne gli spostamenti, le mutazioni semantiche, seguire le parole nelle loro distorsioni e nei loro adattamenti è già rimedio, è conoscenza. Nel tempo della chiacchiera, in un tempo mai come questo lontano dal silenzio, il lavoro sulle parole è esercizio teoretico, ma anche azione morale: lavorare su di esse significa sottrarle all’equivoco, e questo lo si può fare se se ne mostrano, appunto, gli usi equivoci, impropri. E tuttavia può capitare di imbattersi nella distorsione dei “modi propri”, nella scomposizione dei canoni ordinari della comunicazione: tutto ciò meritati una particolare attenzione perché non è affatto detto che si tratti di patologie del linguaggio, di un uso alterato dei termini, di un’improprietà dei concetti, ma, al contrario tutto ciò può essere spia dell’impiantarsi di nuove funzioni semantiche, dell’emergere di riferimenti nuovi, può denotare il prodursi di inedite dimensioni di senso. Capita che le parole non afferrino più la realtà, che esauriscano il loro compito, che si logorino, e questo accade in modo particolare quando i sistemi, entro cui esse sono abitualmente definite, custodite, protette, si disfano. E tuttavia proprio in queste emergenze le parole non periscono, piuttosto migrano. Parole migranti, ma cariche di tutta la loro storia e perciò esplosive, riserva illimitata di significati: antiche per concetti nuovi, nuove per riproporre temi antichi, parole, infine, per tenere la rotta, zattere per transitare. Per quanto lo spaziomondo sia divenuto fluido, per quanto ci si muova in peregrinazioni senza meta, non esiste viaggio che non abbia inizio e non conosca sosta. Da dove, per dove? Dove ci sono le parole. E lì, si tocca terra.

Già si annuncia così il compito etico, che è l’intenzione tipica del pensiero filosofico di Salvatore Natoli; teniamo inoltre a mente gli attori principali che Natoli attira sul palcoscenico del suo teatro filosofico: soprattutto Aristotele e Heidegger, e come sempre sullo sfondo Nietzsche e Foucault.

Ma ora per mostrare e problematizzare il percorso di questo libro procedo così: riporto una citazione adatta secondo me a illustrare il senso di ciascuna coppia oppositiva trattata da Natoli, e su questa pongo una domanda.

La prima coppia, ovviamente non oppositiva, è filosofia-meraviglia:

Ora l’insolito è appunto il luogo della meraviglia e come tale della filosofia.

Lo stupore destina alla verità da intendere non tanto come l’oggettivamente dato, bensì come la tensione tra il celato e il disvelato, il sempre da presso e l’infinitamente distante. Ci sono attimi che rendono nuovo il mondo non tanto perché aggiungono qualcosa di nuovo rispetto a quel che c’è, ma perché sprofondano tutto quel che c’è nel senza fondo dell’origine.

L’origine affiora nella distanza, essa emerge nell’effettiva esperienza dello sprofondare. Nella loro abituale stabilità e persistenza le cose sono così presenti da risultare irrilevanti, sono così ovvie da divenire facilmente fungibili. Solo sullo sfondo del loro svanire ci si interroga sul loro provenire e proprio a partire dall’aleatorietà delle cose sorge la domanda intorno al senso del loro essere.

Rispondere alla sfida dell’enigma impegna alla risposta. Ma come farlo, come dare volto all’assenza? Tramite simulacri, maschere del chaos. E il teatro filosofico. I discorsi, gli argomenti cercano, per quel che possono, di dare stabilità agli eventi, elaborano forme che sembra siano capaci di salvaguardarne il senso, che risultano persuasive, convincenti e a questo titolo s’impongono. L’episteme, la scienza, non è una verità che si sottrae al tempo, ma è un tempo della verità. Sta per quel tanto che regge, ma l’origine è più profonda di ciò che la riempie. L’abisso costantemente si riapre. Da qui una doppia faccia della verità. La verità come aletheia: il non nascosto, l’aprirsi originario dell’esperienza che è tutt’uno con il venire dell’uomo all’essere, con il suo stare al mondo. Un’apertura questa che nessuno decide per sé, su cui nessuno ha potere, ma in cui ogni uomo viene semplicemente a trovarsi.

Sapere di non sapere, come all’inizio: ma ciò non vuol dire disperare, ma sapere che anche se non si dispone di verità esaustive si possono a ogni modo trovare buone ragioni in favore della vita e perciò viverla bene. Presumere definitività è impossibile ma tutto quel che esiste trova sufficiente giustificazione se gli uomini sanno amministrare la loro transitorietà. La sapienza è inattingibile, le scienze imperfette, l’inadeguatezza umana alla verità e le verità incomplete di ogni scienza riconsegnano gli uomini per intero alla loro finitezza. Né sapienti dunque, né ignoranti, ma semplicemente amici della sapienza e quindi di necessità filosofi. I concetti che la filosofia ha nel tempo elaborato, lungi dall’essere luoghi incondizionati di verità sono da intendere come artifici estremi, espedienti” tramite cui nel tempo l’umanità ha cercato di tenere testa all’enigma: scenari di senso in una fuga senza fine. E tuttavia non è affatto detto che chi cerca sempre trovi.

Ora la prima domanda, brutale e banale, è questa: come si configura una speranza di verità se la sapienza è in attingibile; come si differenzia, se si differenzia, questa posizione da quella scettica? Come si misura la bontà delle ragioni, o la sufficienza delle giustificazioni se la verità è destinata a essere sempre altrove?

La seconda coppia, all’apparenza oppositiva è apparenza-realtà. In questo capitolo Natoli si occupa soprattutto di precisare il senso e lo sviluppo della teoria della verità come adeguazione della mente alla realtà (e in effetti il tema della verità è il filo conduttore e il motivo ricorrente di tutto il libro), ma qui preferisco sottolineare un altro collegato aspetto del problema. Natoli scrive:

“Apparenza” è una parola stregata della filosofia; lo è al pari della sua complementare: “essere” o, appunto, “realtà”. Apparenza è una parola per un verso allucinatoria, per l’altro paralizzante. Se ciò che appare non corrisponde a ciò che è, quel che è inevitabilmente sfugge. Nell’ambito dell’esperienza viene così a spalancarsi uno spazio senza confini, popolato d’improvviso da fantasmi, da immagini vane, tutt’al più da simulacri. E allucinazione. Per altro verso, abitualmente si parla di apparenza solo in opposizione a una realtà piena, assoluta, risolta. Ma una siffatta realtà – ammesso che esista – non può che differire da quel che appare. Se così non fosse tra apparire ed essere si darebbe coincidenza e perciò non sarebbe possibile parlare di apparenza. Messa in questi termini, la nozione d’apparenza postula l’esistenza di una realtà assoluta e incondizionata. Ma dal momento che tale realtà non si dà – né può mai darsi in ciò che appare – essa necessariamente si risolve in qualcosa di presupposto e insieme di inaccessibile. Di qui il paradosso: la realtà è sempre in qualche modo inventata, l’apparenza è in qualche modo reale.

Ora la nostra, è stato detto, è l’epoca dei simulacri, di immagini che non hanno più un modello: immagini di immagini all’infinito. E’ ciò che si vede bene nel mondo della comunicazione di massa, dell’informazione, della pubblicità, della comunicazione politica, e nel mondo virtuale della rete; che fare? Pare che il nostro stesso essere, quello che ciascuno di noi è, sia il suo apparire, siano le forme del suo apparire, pare che sia impossibile un “sentire” se stessi autonomo e originale. Che fare?

Per mezzo della coppia intelligenza-pensiero Natoli si interroga sul silenzio:

Tutto quello che ho detto credo che abbia sufficientemente mostrato come il pensiero è comunicazione, e come sia indescrivibile un pensare che non sia comunicare, ma la comunicazione comunica soltanto se c’è un contromovimento che in certo senso la blocca e la critica. La parola risuona solo nel silenzio, la parola originaria della creazione: “e Dio disse”. Se non c’è il silenzio, la parola non risuona, c’è la confusione. E importante, perché vi sia comunicazione, che questa comunicazione risuoni in un silenzio che non è l’assenza di parola ma è l’ascolto della sua attesa.

Il silenzio è il luogo dell’ascolto, quindi del rispetto e della relazione. Sarebbe bello se fosse così o se fosse possibile un tale silenzio e un tale rispetto. Chiedo: è possibile rendere politica la sua affermazione? Si tratta solo di una motivazione possibile nella singolarità della persona o di luoghi ristretti? Quali sono le condizioni pubbliche e contemporanee di possibilità, se esistono, della sua affermazione?

Attraverso la falsa opposizione Metafore/teorie Natoli mostra bene come qualsiasi teoria sia una struttura metaforica, una struttura di rinvio e di apertura, e come le metafore siano costituenti della civiltà:

Se la vita del linguaggio è la tradizione, ciò entro cui i linguaggi si definiscono sono le epoche. Le epoche sono la storia e questa, contrariamente a ciò che comunemente si crede, non è solo ricostruzione di eventi trascorsi, ma è attivazione di grandi metafore. Ciò vale per ogni storia, ivi compresa la storia delle idee. La dilatazione degli spazi articola lo spazio dell’esperienza, lo rende discontinuo e complesso, lo costituisce come temporalità. In questa circolarità il presente si proietta sul passato e rende metaforico ciò che è residuo; nel contempo la ricomposizione di quanto è trascorso diviene metafora di ciò che è presente. In questo riverberarsi c’è qualcosa di non obiettivabile e tuttavia di ospitale. La storia diviene mito. Il diverso dell’esperienza è trattenuto nell’unità del linguaggio che racconta, in quel dire che dice di sé attraverso le sue narrazioni.

Chiedo: ma quali sono oggi le grandi narrazioni che costituiscono civiltà? Non siamo di fronte a una pluralità non sintetizzabili di narrazioni che rendono impossibile comprendere la relazione tra passato e presente e i progetti per il futuro? Nell’attuale babele delle lingue come ci si può intendere? Non mancano oggi proprio i grandi miti comuni che rendono la terra una abitazione, un luogo abituale e comune?

Il capitolo dedicato alla relazione tra LUOGHI e FORME è forse il più teoretico del libro, e tratta dei processi di configurazione del mondo attraverso il logos. In questo denso capitolo a un certo punto Natoli un passaggio strategico, che incrocia filosofia e teologia:

Ammesso che Dio esista di per se stesso, è inattingibile nel suo essere: nei suo essere lacera la nozione stessa di essere; è maggiore di ogni pensiero e quindi, se lo si pensa in termini di essere, si rischia di non pensare Dio, si precipita in un totale equivoco. Il Dio cristiano nel momento in cui requisisce per sé la nozione di essere la fa deflagrare. Pensare Dio come essere, vuol dire non pensare davvero Dio? Come dunque attingerlo? Da qui prende avvio l’acosmismo moderno che ha trovato in Bruno la sua formulazione più alta. Bruno porta la modernità oltre se stessa prima ancora che cominci: Dio è l’infinito e l’infinito non ha per definizione confini. Non c’è più, dunque, un unico mondo, ma l’infinito, universo e mondi: “Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio totalmente infinito perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna parte infinitamente e totalmente”. Il mondo non è più il luogo stabile di tutte le cose, ma s’inabissa nell’infinto, il non luogo che ospita molteplici mondi, soprattutto lo spazio di un continuo migrare. Per tenere il filo ed evitare le derive bisogna seguire tracciati, disegnare mappe, identificare luoghi per arrivare, transitare, ripartire: termini di riferimento, luoghi del pensiero, teorie.

Ora si potrebbe sostenere che, per Bruno come poi per Spinoza, se Dio è il mondo, non perciò il mondo è Dio; ma qui mi interessa seguire un’altra pista: facciamo esperienza del decentramento, dell’infinità delle interpretazioni, della complessità: quali possono essere oggi i punti di riferimento delle nostre mappe, e quali tipi di mappe è utile costruire? E come relazionare mappature particolari con mappe più generali? Che indicazioni di lavoro può dare al proposito?

La coppia origine-provenienza punta all’essenziale: non solo la filosofia in generale (la filosofia è genealogia), ma qualsiasi idea che costituisce la nostra cultura è ricerca o tentativo di dizione dell’origine. Ma l’origine non è una cosa, non è un fondamento, quanto piuttosto uno sprofondamento, un abisso:

In tempi lontani mi è capitato di scrivere sul “motivo dell’origine in filosofia”. Dicevo: essa non coincide con una causa non principiata, né con un mondo dietro il mondo, ma inerisce alla dimensione umana del domandare, attiene alla meraviglia. La meraviglia è il sentimento che erompe improvviso innanzi all’eccezionale, all’inaudito. Ma non è solo questo, è molto di più; è la capacità di avere uno sguardo originale su ciò che è abituale. Cos’è allora originale? Nietzsche scrive: “Non è il vedere per primi qualcosa di nuovo, ma il vedere come nuovo l’antico, ciò che è già anticamente conosciuto e che è da tutti visto e trascurato, contraddistingue le menti originali” Casualità, curiosità, X. E dall’irrequietezza del domandare, dall’esigenza di svelare – questo, infatti, vuol dire a-létheia – che è maturato presso gli uomini dell’Occidente il motivo dell’origine….E l’afflizione della mancanza che inabissa nell’origine, che rende gli uomini beneficamente insoddisfatti, li incalza, volenti o nolenti li destina.

Chiedo: è forse questa ricerca dell’origine, questa irrequietezza del domandare, che costituisce il senso della civiltà Occidentale, e la stessa idea di Europa? Non c’è forse in questo “prendere le navi” un’essenziale differenza tra Oriente e Occidente? E questa apparentemente positiva irrequietezza del domandare non ha a che fare con la catastrofe e con la volontà di potenza?

La coppia seguente, misura-dismisura, ci porta ad avere a che fare direttamente con Dio:

Nel cristianesimo, Dio, l’infinito, è lo sfondo su cui si profilano il mondo e il suo senso. Oggi che il Dio cristiano è svanito, non si è affatto chiusa l’infinità dello sfondo, ma è su questo sfondo d’infinità che uomini e cose guadagnano i loro profili di possibilità: tanti quanto l’illimitatezza stessa dello sfondo. In questa deriva non c’è più nessun volto che ci viene incontro,nessun Dio che ci chiama e ci guida. Tocca a noi trovare la direzione.

Sul piano più pratico e quotidiano questo vuol dire fare in ogni momento i conti con il virtuale. E cos’è il virtuale, se non il profilarsi del reale sullo sfondo del possibile? Viviamo in un mondo in cui la transizione è divenuta normalità, ove non è più possibile semplicemente conformarsi e obbedire – sarebbe così comodo e tranquillizzante -; per la medesima ragione non è possibile trasgredire – quali i confini? E allora nostro compito disegnarli, di volta in volta, assumerci noi l’onere dell’incertezza e dell’improbabilità. Il virtuale è un parola “indice” per denotare quale logica bisogna impiegare per limitare la deriva del possibile e renderlo in qualche modo calcolabile … onde ridurre la nostra esposizione all’improbabile: detto altrimenti, per non essere travolti da emergenze impreviste. Nessun calcolo è infallibile, ma il calcolare attrezza. Il calcolare di cui qui si parla non ha una valenza semplicemente cognitiva o astrattamente intellettuale, ma riguarda anche la condotta dei soggetti, la loro caratura etica. Apparteniamo sempre meno a una società della trasgressione e della disobbedienza e ci troviamo a vivere sempre di più nel disadattamento…

Si tratta quindi di trovare una misura, sempre relativa, nella dismisura, e si tratta di un calcolo, sempre rischioso, che ha valenza etica, che intende rendere il mondo più abitabile. Ma come tutti i calcoli e le misure avrà delle regole; quali sono queste regole?

La coppia luce-ombra non presenta propriamente un’opposizione: non è luce-tenebra, perché l’ombra rinvia strutturalmente alla luce, non è il suo polo negativo, ma il prodotto della luce quando un corpo opaco le si oppone. L’ombra disegna bene la condizione umana:

E tuttavia l’uomo può incrementare l’illuminazione, ma non guardare la luce: per farlo la deve schermare, per dominarla la deve frantumare. La luce in sé acceca, fa vedere, ma non si fa guardare. Le cose – scriveva Brecht – per ringraziare il sole di illuminare fanno ombra. Noi, i nostri corpi, non possiamo fare altrimenti. Per essere docili alla luce, per non opporle resistenza dobbiamo accettare la nostra natura d’ombra poiché della luce non possiamo essere padroni, ma tutt’al più buoni ministri.

Ora tutti ricordiamo il mito platonico della caverna: il filosofo è proprio colui che si libera dalle ombre per giungere a guardare il sole. Non è forse questa la speranza immane della filosofia? Non è piuttosto il poeta a soggiornare nell’ombra e a farci lezione sull’ombra? Forse che nel postmoderno questa differenza sia diventata senza senso?

Con la coppia responsabilità-alterità entriamo nel vivo del problema etico:

Alla responsabilità non si sfugge perché non è cosa che si possa assumere a discrezione, ma è la realtà a imporla. L’altro nel suo puro esistere mi rende sempre e in ogni caso responsabile. Lo posso amare, aiutare, combattere, odiare: sempre e in ogni caso prendo posizione nei suoi confronti e non posso non prenderla… Tanto vale allora che ognuno assuma consapevolmente le proprie responsabilità… Essere responsabile di un altro non vuol dire affatto agire per suo conto – e meno che mai sostituire l’altro nella sua libertà – ma al contrario prendere la libertà dell’altro a misura della propria azione e del proprio limite.

Chiedo semplicemente: perché? Perché devo sentirmi responsabile di chi travalica la mia libertà e non si sente responsabile di me? La responsabilità non è reciprocità? In che senso dovrei essere responsabile del mio nemico? Non è affatto evidente l’amicizia universale.

Ovviamente Natoli sa benissimo che l’amicizia non è universale e che l’armonia si accompagna alla discordia, la pace al conflitto, l’amore all’odio. La coppia  armonia-discordia esemplifica bene questa tipica situazione:

Vita e storia ci mostrano come i momenti di armonia – quasi d’incanto – si rompano, ma come alle rotture seguano nuove armonie. Le alterne vicende del tempo ci spingono a dire che il mondo è disarmonico e che le sue armonie sono solo momenti, ma già Eraclito avvertiva che “l’armonia invisibile è più forte di quella visibile” (DK, 54). Non è facile comprendere cosa volesse davvero dire, ma magari voleva indicare come l’occhio della mente può scoprire segrete armonie anche in ciò che nella vita è più atroce, come la luce del pensiero può pacificare il cuore e trasformare in gioia il dolore del mondo. E questo sarebbe magari possibile, se si fosse nelle condizioni di individuare un ordine superiore entro cui collocare le disarmonie del mondo e conferire a esse una loro economia, un senso, perfino una necessità. E non più solo l’armonia dell’alternanza e della successione, ma quella della coesistenza: non gioia e dolore, vita e morte, ma gioia nel dolore, vita nella morte. E non è neanche necessario che le cose vadano proprio così: sarebbe sufficiente che questo senso alle cose fossimo capaci di conferirlo noi: “ciò che diverge non di meno converge con se stesso; c’è un rapporto di tensione retrograda, come quello dell’arco con la lira” (Eraclito, DK, 51).

L’etica del finito proposta da Natoli è in effetti l’esercizio di questo “conferimento di armonia” alla stessa coesistenza delle opposizioni, un conferimento non prodotto da un dio, ma dall’uomo stesso (o forse dall’oltreuomo: dall’uomo che ha l’energia di un dio). Obietto: posso farlo per me e per la mia vita, ma non di fronte a altri, non di fronte al male di altri. Solo idealmente ciascuno può essere tutti.

L’ultimo capitolo prende in esame la relazione Dio-mondo e conclude con una affermazione che supera radicalmente la mia obiezione precedente, ma la supera nell’orizzonte non della filosofia ma della speranza:

Gli idoli nuovi e vecchi sono stati abbattuti una volta per tutti dall’incarnazione di Dio che per me nient’altro significa se non il divino nel mondo, noi stessi dei. E quand’anche gli idoli non fossero stati definitivamente abbattuti esiste un punto di vista che li rende battibili. Non so se, o quanto, questa mia convinzione possa dirsi cristiana. Ritengo, però, che non ne sia del tutto estranea se Giovanni, a suo modo, ne suggerisce già l’idea: “nessuno ha mai visto Dio; se ci amassimo gli uni con gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui in noi è perfetto”.

Trascrizione della relazione di Salvatore Natoli

La parola è seme

Dopo l’introduzione di Roberto, mi sento anzitutto profondamente compreso e, per chi scrive, questa non è cosa da poco: un lettore acuto che presenta il tuo libro! Mi sento, inoltre, ampiamente valorizzato, perché l’esposizione di Roberto testimonia la fecondità che la scrittura dovrebbe sempre avere: il libro che passa da una mano all’altra, da una bocca all’altra; una sorta di parabola del seminatore. Ecco, questo mi fa particolarmente piacere. L’esposizione è stata compiuta, precisa, e il dato merita di essere segnalato soprattutto perché il mio libro tende a sconfinare, ha molti tagli e, quindi, non era semplice dare un tracciato così nitido. Di ciò ringrazio ancora Roberto.

Le sue domande esprimono interrogativi potenti, un po’ difficili da fronteggiare. Io tenterò qualche risposta e poi, magari, cominciando a rispondere ad un quesito, metterò le premesse per la risposta all’altro perché, come avete avuto modo di notare dalla lettura di Roberto, questo libro ha una dimensione di coppie oppositive, nel senso che i termini possono essere meglio definiti nell’opposizione.

Opposizione e complementarietà

Tuttavia, con tutte le forzature dell’opposizione, si rischia l’impoverimento, perché sebbene l’opposizione sia necessaria per non confondere, la virtù del saper distinguere non basta a farci capire ciò che è il reale. L’opposizione è un’astrazione felice, che fa chiarezza, ma può essere – ripeto – un impoverimento della complessità della realtà. Ecco perché noi stessi, nel nostro modo abituale di pensare, tendiamo a rendere complementari le opposizioni, per evitare di estremizzare e di produrre  scissioni e schizofrenie, come a volte capita nella vita sia a livello mentale che politico.

Se si trascura la dimensione della complementarietà –  per dirla in termini di linguaggio, ma poi questo ha un riflesso politico – ci si  impoverisce nella definizione che, a sua volta, spesso diventa slogan, che può essere anch’esso utile per distinguere, ma quando diventa sostitutivo della realtà, ne rende impossibile la comprensione. Nella complementarietà – nel vedere come un termine abbia contatto con l’altro –  si coglie ciò che Platone chiamava la mediazione, la possibilità di combinare punti di vista diversi. Ecco: bianco e nero sono gli opposti se guardiamo la gamma dei singoli colori; ma se li vediamo come momenti del colore, essi si distribuiscono nella forma estrema di tutti i colori e di nessun colore.

C’è, poi, un terzo movimento: se consideriamo la forma del colore, vediamo come un termine trascolori nell’altro, trapassi nell’altro quasi impalpabilmente. Se noi guardiamo l’arcobaleno, si vedono tutti i colori, ma non si vede un netto distinguersi di uno dall’altro; in ogni colore c’è il colore dell’altro. Disegnare un arcobaleno per linee e per strisce non è disegnare un arcobaleno.

Riverberi

L’altra cosa che è emersa è che alcune coppie, declinate in un certo modo, in una data dimensione, tornano in modo diverso in altre coppie (per esempio: “filosofia e meraviglia”, torna in “apparenza-realtà”; la coppia “Dio-mondo” torna in “misura-dismisura”). Ci sono, quindi, dei riverberi, come nella formula musicale del contrappunto, dove il tema viene modulato all’infinito con il canone dritto e il canone inverso. Non sono coppie separate: ogni coppia – magari ripresa sotto altro segno – entra nell’altra e, alla luce di questa azione di riverbero, ci si può accostare alla prima domanda, mettendo le premesse per una soluzione.

Filosofia – meraviglia

Il primo quesito è importante; brutale ma forte, come sono tutte le cose brutali: “Come si configura una speranza di verità se la sapienza è in attingibile? Come si differenzia questa posizione da quella scettica?”. L’inaccessibilità della sapienza ha a che fare con  il discorso che io faccio della meraviglia, che riguarda la nostra origine. Sperimentiamo di essere costituiti nell’eccedenza: il nostro trovarci al mondo non l’abbiamo deciso; la meraviglia del nascere ci fa apprezzare la novità del venire all’essere e ci interroghiamo su questa novità, su questa sua –  in fondo –  non giustificazione che non ci impedisce di farne oggetto di esame. Ci interroghiamo con l’occhio della filosofia dinnanzi allo sgomento del divenire, dove l’uomo non ha la possibilità di agire da protagonista e dove il massimo dell’attività sta appunto nella passività, ossia nella contemplazione dell’origine.

Origine – provenienza

Ecco perché io uso la parola “chaos” nel senso originario, semantico, etimologico del termine, che non significa “confusione”. Quando i Greci parlavano di chaos non intendevano la confusione, ma il “puro inizio”: il verbo cascò (o kaíno), da cui deriva chaos, vuol dire “spalancare”. Quando i Greci pensavano, quindi, al caos pensavano allo spalancarsi nell’atto stesso dello spalancarsi. Immaginiamo un grande cataclisma, un terremoto che genera voragini; si va in cima e si dice: “ma guarda che terremoto terribile che c’è stato, guarda com’è scosceso, che voragine immensa”. Ecco, quando lo sguardo vede il fondo della voragine dice che è immensa, perché è in grado di dominarla. Il greco, quando pensava il caos, si affacciava allo spalancarsi nel momento stesso dello spalancarsi. Dovete pensare una situazione che si può solo immaginare: lo spalancarsi nel momento iniziale, un aprirsi, un puro inizio che non è l’inizio di qualcosa, ma è quell’aprirsi in cui noi stessi siamo. La dimensione caotica è il nostro stesso nascere, come aprirsi inaugurante, che ci sta alle spalle; poi noi facciamo delle cose, ma il nostro nascere è un aprirsi caotico. Ecco perché si è istituiti originariamente nella domanda.

L’origine non è da intendere come la causa; nel discorso che io faccio sull’origine e l’inizio differenzio le varie modalità di intendere l’origine come arké, come provenienza, ecc. ecc. Questo spalancarsi all’interrogazione che chiama la risposta, rispetto a qualcosa che io non domino (per dirla con Qoèlet, che io cito sempre); non posso trovare un punto in cui l’inizio si congiunge con la fine; come faccio allora a trovare orientamento e dove penso di trovarlo? Ebbene, io non posso trovare orientamento se non nel cammino che – badate bene – va visto alla luce dell’origine, perché altrimenti viene assunto non come cammino, ma come realtà vera. Cioè il transitare viene confuso con l’essere e, così, si insiste sulle cose come se fossero definitive; le si tratta come tali, con la conseguenza che o non le si custodisce (perché si ritiene che siano definitive), oppure si assume un atteggiamento di disattenzione nei loro confronti; diventano indifferenti, circostanze. Vedere le cose nella dimensione della loro origine significa domandarsi della loro sensatezza. Perché esistono? Verso dove vanno?

Questo non ci condurrà mai ad identificare l’inizio assoluto e forse neanche la meta assoluta; però ci permetterà di prendere a cuore il movimento e di accompagnarlo; di camminare in un mondo che si apprende camminando. Nel camminare, nel procedere, si scopre.

La teoria dell’esonero

E qui è interessante la teoria dell’ “esonero”: una volta che si è scoperto e che si compie un percorso, si dà poi come ovvio; ti dimentichi di come l’hai scoperto e diventa verità. Strana caratteristica delle verità secondo questo principio, perché quando un qualcosa diventa verità come ovvietà finisce per diventare una verità morta. Allora l’esonero è importante, in quanto evita agli uomini di cominciare sempre da capo; ma pensare alla verità in termini di ovvietà è vivere in modo mortuario la verità. Lo stesso ovvio deve essere riguardato in funzione del cammino successivo.

Quando io arrivo da Milano a Como e faccio una certa strada, ho fatto solo “quella” strada; ma se poi vado da Como a Varese e da Varese torno a Milano da un’altra strada, la prima strada che io ho fatto, Milano-Como, prende un’identità completamente diversa; cioè perde ovvietà, non è più l’unica, diventa una delle tante vie. Quindi, tanto ovvia quanto problematica, perché si comincia a capire che gli itinerari sono tanti. Ecco la mappatura, una dimensione. Ecco la storia, come un elemento di esperienza che tu investi per il futuro. Ho trovato una via: c’è una lezione non tramontata nell’averla trovata. Ma la cosa più importante è che, avendone trovata una, si è guadagnata l’abilità per trovarne altre e, quindi, per orientarsi; camminando. E, allora, noi per camminare bene non abbiamo bisogno di stabilire un punto iniziale puro, in modo deduttivo. E neanche di definire una meta finale pura. Ciò che dobbiamo fare è, sostanzialmente, lavorare lungo i percorsi che è, poi, il vero atteggiamento scientifico e che è il modo in cui, tra l’altro,  vado proponendo, da tempo, la lettura di un grande filosofo contemporaneo come Husserl, di cui tra breve dirò qualcosa.

Guardarsi attorno

Chi è lo scettico? Secondo una certa formulazione logicistica, lo scettico “è colui che dice che la verità non esiste”. L’obiezione che è stata sempre fatta è quella di dire: “se tu dici che la verità non esiste, pensi che questa affermazione sia una verità e, quindi, ti contraddici”. La dimensione dello scettico è caratterizzata, invece, dall’ “epochè” in questa forma: se allo scettico si chiedesse in che cosa consiste la verità in generale, il suo atteggiamento sarebbe quello del silenzio; una domanda rispetto alla quale non si ha risposta. Paradossalmente, sia pure con modalità diverse, è la posizione di Gesù dinnanzi a Pilato. Che cos’è la verità? Gesù non risponde. In quel caso gioca, per ragioni completamente diverse, il ruolo dello scettico, che assume la verità nella logica del movimento, del percorso. Pensiamo alla parola: che cosa vuol dire “scettico”?. Contrariamente alla definizione abituale, lo scettico non è chi nega l’esistenza della verità. In greco “scettico” deriva dal verbo sképtomai che vuol dire “mi guardo attorno”, mi oriento”… poi la trovo. Però se gli si dice: “ quella è la verità”, lo scettico rimane perplesso. Non arriva mai a dire che quella certa cosa è verità assoluta. Può dire, pragmaticmente: “funziona; porta frutto”. Allora, l’attenzione è alle cose e alla loro comparazione prossima, che è – in buona sostanza – un’anticipazione di quello che oggi chiamiamo il “virtuale” (perché la pratica del virtuale gli uomini l’hanno sempre realizzata; magari non in termini matematici, ma hanno sempre utilizzato l’approccio del tipo “a che cosa assomiglia?”).

Se io devo andare in un certo posto, la prima cosa che penso è  che per arrivarci ci sono molte vie. Mi trovo in un posto, in campagna; vedo un paesaggio; individuo un punto. Ecco la meta, la meta “eletta”, non definitiva, non la meta finale. Come ci arrivo a quel punto? Guardo attorno.  Allora vedo che da una parte c’è una pianura, morbida, però molto lontana; un percorso comodo ma lungo. Dall’altra parte  vedo una montagnola che è più aspra, però  fa arrivare in quel punto prima. Dove sta la verità? Comincio con una strada; poi vedo meglio. Ecco come si disegnano le mappe; attraverso confronti di prassi, rispetto ad una meta “eletta” – perché sei tu a sceglierla – oppure rispetto a una meta che ti chiama, per esempio: un posto in cui tu sei, in un certo senso, costretto ad andare. Se hai sete, sei costretto dalla sete a trovare una fonte; in questo caso la meta non è eletta, è impellente. Allora in questo modo si costruisce un reticolo di probabilità che, una volta acquisite, ci esonerano e ci permettono di fare altro; quindi, per un verso sono ovvie, e per l‘altro no perché quando avremo fatto l’altro vedremo in un modo completamente diverso il prima.

In fondo questa strategia è la fenomenologia dello spirito di Hegel; solo che in Hegel la dimensione dell’ “Aufhebung” (superamento) è costringente, quasi a dire che quel passaggio è quello lì e non può essere altro. Se noi, invece, accettiamo  una dimensione scettica, se leggiamo scetticamente la fenomenologia, allora abbiamo sempre di fronte un insieme di biforcazioni. Hegel aveva interesse a profilare una meta finale compiuta. Ma se non c’è questo interesse, abbiamo l’albero delle probabilità (che è la teoria delle catastrofi); una disponibilità aperta, non insensata, documentata e provata dal successo; rifiutata dall’insuccesso; quindi c’è  tutta una dimensione di controllo razionale. Questa è la dimensione – se si vuole – pragmatica; ma il pragmatismo diventa esso stesso uno standard dogmatico se non è visto dal punto di vista del deficit, cioè dell’istanza dell’origine. Perché, poi, a che punto noi dobbiamo fermare il pragma? Nessun pragmatismo ce lo dice, se non il senso della nostra esposizione. Soltanto se siamo esposti cerchiamo; ma qui c’è una dimensione di coinvolgimento: se si presenta il pragmatismo come una soluzione, esso diventa una banalità; se si toglie al pragmatismo l’istanza vitale dell’esposizione, si smette di cercare; si spengono la pulsione e il bisogno; si cancella la dimensione dell’improbabile.

Questo lo dico perché, in politica, molte volte si usa il pragmatismo in questo senso banale; mentre il pragma – l’azione – è stimolato dall’ improbabilità ed è esposto al rischio, altrimenti non è azione; il pragmatismo diventa conformismo e, molte volte, si confondono le due cose. Quando si oppone il pragmatismo alle ideologie, in fondo si stabilisce l’opposizione fra un conformismo e un dogmatismo.

Eidetica ed epochè nel pensiero di Husserl

Sulla base dell’atteggiamento che ho cercato di descrivere (guardarsi attorno; controllo critico; “scèpsi”) si può costruire un profilo di verità (e, così, ci accostiamo alla coppia “apparenza-realtà”) , che ha una sua consistenza. Ecco: se per verità intendiamo “la consistenza”, tocca l’oggetto, trasforma qualcosa, allora noi abbiamo una logica di coerenza. E’ il modo con cui io da tempo propongo la lettura di Husserl, cioè dal punto di vista dell’ “epochè”; (metodo che impone la sospensione del giudizio su ogni convinzione precostituita). Molte volte si è puntato sull’Husserl dell’ “eidetica”, cioè il soggetto che costituisce le essenze ; che produce immobilità (non svilupperà a lungo questo tipo di ragionamento). Ma noi dobbiamo vedere l’eidetica husserliana come una costruttivistica a partire dalla epochè. Se tu prendi sul serio l’epochè dici: io per sapere che cosa è  la verità (premesso che io non so che cosa sia la verità) ipotizzo il mondo; però siccome in questo mondo ci devo stare, devo trovare gli elementi per configurarlo e quelle sono le “eidetiche”, che nascono come fissazioni di confini dentro un contesto di operatività. Intanto operatività soggettiva e, poi, l’altra cosa importante è l’opera dell’opera. Ecco allora l’importanza delle parole del passato. Quando io impiego una parola, lo faccio in un contesto; ma quella parola ha tutto il peso dei suoi significati e quindi io la impiego tanto meglio – e tanto meglio la reinvento – se io riconosco le sue costanti variazioni. Così costruisco mappe, regole motivate sul successo; sull’insuccesso; nell’ordine della coerenza con il reale, ma motivate, nella loro genesi, dall’imponderabile. Questo è il lavoro.

Cercare – perdere

E non a caso io concludo il primo capitolo del libro citando Qoèlet  e quel passaggio interessantissimo della teoria dei momenti (ricordate certamente tutti: “c’è un tempo per nascere, c’è un tempo per morire, ecc..”) dove – a un certo punto – si usa questa formula:  “c’è un tempo per cercare e un tempo per perdere” (Eccle. 3, v.6). Ci aspetteremmo l’opposizione fra cercare e trovare, mentre Qoèlet non dice che c’è un tempo per cercare e un tempo per trovare, ma che c’è un tempo per cercare ed un tempo per perdere. Il lato positivo è cercare e si è in perdita se non si è capaci di cercare. Allora, la ricerca è quella costruzione di spazi di senso che, abolendo la presunzione dell’origine e l’assolutezza della meta, diciamo, regola il cammino.

Da questo punto di vista, io sono molto giudaico, perché: che cosa è la toràh nella forma della “halakàh” se non la via? E che cosa è la toràh, se non un insieme di norme? Ma sono definitive? I Farisei sono stati i primi a cercare una reinterpretazione della halakàh, perché la strada non può essere sempre la stessa. Ma qual è l’istanza di fondo? E’ che le mappe sono soggette a cambiamento, ma non possiamo pretendere di andare senza mappa; cioè non pretendiamo di condurci senza legge. C’è un imperativo etico che esige una legislazione della ragione, dal punto di vista della logica e della condotta. In sostanza, un accordo sulla misura del conveniente, che permette a tutti coloro che rientrano nell’accordo di realizzarsi rispettivamente al massimo, nel contesto in cui sono, senza, quindi, considerare definitivo né il contesto né la soluzione  (tutt’al più “pertinente”). Al di fuori di questo scenario – che ha sullo sfondo il venire e lo sparire – tutto ciò che è “pertinente” lo trasformiamo immediatamente in “necessario”; tutto ciò che è il frutto di un processo diventa ovvio, e si ha così una visione ingenua  della verità e una morte della verità stessa. Dobbiamo concludere che la verità vive nel suo rischio e muore nella sua evidenza; che nella sua evidenza trapassa nel falso, diventa feticcio; nel suo rischio invece è sempre una sfida: si cambia e definisce il suo codice.

Realtà – apparenza

Vengo, così, al discorso su “realtà e apparenza”, e spiego perché io utilizzo le due espressioni “effetti di verità” e “livelli di realtà”. Già Platone nel Teeteto diceva che le apparenze sono inevitabilmente reali. Perché se io vedo una persona e dico: “è Giovanni” (anche Cartesio riprende questo tema), io vedo davvero Giovanni;può rivelarsi un’allucinazione se io, avvicinandomi, dico:  “scusami, ti avevo preso per un altro”; questo lo posso dire perché mi sono avvicinato. Ma nel momento in cui io, da distante, vedo Giovanni, non posso dire che quella percezione non sia realtà. Allora in base a che cosa noi possiamo definire la differenza tra apparenza e realtà? Non sulla base della irrealtà delle apparenze, perché tutto ciò che accade è reale; ogni apparenza è realissima e quindi non è sulla base dell’ontologia che io posso dire che l’apparenza è falsa. Il “non è vero” non è in termini assoluti di essere, ma è in relazione al livello di realtà cui si riferisce. Allora, il lavoro dell’intelligenza è quello di cercare, ogni volta, di vedere qual è lo scarto tra l’enunciato e il livello di realtà rispetto al quale riponiamo la nostra attesa. E’ un lavoro sottile, che richiede vigilanza.

Per esempio da sempre, sin dal mondo antico, uno dei luoghi fondamentali della politica è la persuasione, cioè la capacità di convincere. Come si fa a giudicare il valore di verità della persuasione? Rispetto al suo risultato? Berlusconi è  convincente?

Quando io pongo un problema di non verità, mi riferisco al contenuto delle parole che Berlusconi pronuncia; cioè non considero il suo discorso in ordine all’efficacia, ma in ordine all’oggetto a cui si riferisce. Allora, però, ho bisogno di un altro vocabolario. Come posso confutare quella persuasione? Non stando sul terreno della persuasione, ma individuando un altro livello di realtà e dicendo: “bravo come venditore,  ma le cose di cui parli non sono quelle da vendere; andrebbero vendute altre cose”. Allora devo introdurre un’altra apparenza, perché quelle cose “altre” sono certamente reali rispetto al contenuto del suo discorso, ma non sono la realtà. Perché se uno dicesse:  “la soluzione del problema economico è la cosa in base alla quale noi abbiamo risolto il problema della politica”, già sarebbe una formulazione di contenuto non retorica. Allora, bisognerebbe discutere se è vero che risolvere i problemi economici significa risolvere i problemi della politica, andando ad un altro livello della realtà: può stare l’azione politica soltanto nell’ordine dell’economia o c’è dell’altro? La dimensione della verifica (o della confutazione) sta sempre nello scarto tra l’enunciato e il suo riferimento e, quindi, nella scanalatura tra effetti di verità e livelli di realtà. Si definisce la regola, il criterio di legittimità, di ciò che tu dici.

Questo è un lavoro che, nella pratica, diventa sempre più un processo di smascheramento dei simulacri che abbiamo dinnanzi, senza peraltro poter attingere la pienezza della verità, il suo volto assoluto. E’ un altro modo per dire che la verità sta nel suo “processo”, non nella sua assoluta identità. Io sono molto debitore di Heghel; però, nella mia visione, c’è questa frantumazione, questo sfondo infinito, libero; non ho l’istanza del “dove andiamo a parare” che, invece, è il sottointeso costante di Hegel (emerge alla fine della sua costruzione, ma è quello che Hegel vuole sin dall’inizio); io penso che il nostro mondo (ecco che, qui, vengo all’infinito) sia il mondo dell’eterno continuo transitare.

Dio – mondo

Qui c’è la dimensione di Dio che si collega alla figura della “misura”: può essere pensato come l’assolutezza del senso, il Creatore, il Signore  verso cui tutto è destinato. Quello che i Greci dicevano di Zeus (l’inizio, il mezzo e il fine). In tutta la logica antica – la differenza essere/divenire – Dio è quell’Ente che sottrae il divenire alla sua contraddizione e, soprattutto, è quell’Ente, che nel divenire, pone un’Entità che non diviene (che chiamiamo anima o – in termini cristiani – anima e corpo) cioè qualcosa che è sottratto alla dissoluzione.

Allora Dio è, proprio, la dimensione del senso; l’inizio e la fine; il principio e l’orientamento. Però – se voi ci pensate bene – di questo Dio (da Giobbe in avanti, ma anche prima, si può ritenere che sia l’inizio e la fine) quali siano i disegni non  lo sappiamo. Ce li rivela nel cammino o, per lo meno, ci dà segni per intenderli. Quindi è un Dio “strano”: è l’inizio e la fine, ma soprattutto è l’esperienza del mistero. E va oltre il nome: “essere” non basta più. Allora Dio, in quanto mistero, frantuma l’identità dell’essere perché non sappiamo mai rispondere alla domanda: “chi è Dio?”. La risposta del catechismo era: “l’Essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra”. Anselmo – che da questo punto di vista è esemplare – è colui che quando tenta la dimostrazione dell’esistenza di Dio (celeberrima) ha una tale idea della sua perfezione che dice: “Dio è l’essere più perfetto, è l’essere di cui non se ne può pensare uno maggiore” (l’apex mentis). Ma nella riga dopo dice: “E’ anche maggiore di ogni pensiero”. Quindi pensarlo nella forma dell’essere, vuol dire non pensare niente.

La dimensione di Dio ha squarciato la protezione delle categorie. Paradossalmente, Dio ha relativizzato la logica perché non c’è parola “essere” che possa colmare l’infinito. Allora “l’essere” non lo si dice più, ma lo si deve dire sempre relativamente a qualche cosa e non in generale. La logica, la costruzione delle mappe di percorsi, dice: “sembra essere”, non dice mai “l’ essere”. Ma è, poi, necessario dire “l’essere” per poter trovare una buona conduzione del mondo? Io ritengo di no. Allora: il peso delle parole, l’esonero che ci viene dalla storia, sono elementi che non dobbiamo trattare come un’ovvietà e che non dobbiamo dimenticare come qualcosa di trapassato, se vogliamo uscire dall’uso della parola corrente. Ciò che dobbiamo fare è ripensare al passato, allo spessore della parola; è l’unico ancoraggio che ci resta. Noi possiamo immaginare un futuro quanto più rivediamo l’ancoraggio, il vocabolario, il patrimonio; perché se noi restiamo nella parola corrente essa è troppo povera; non dobbiamo usare la parola in modo sottodeterminato, ambiguo, equivoco.

Misura – dismisura

Ecco perché nel libro mostro, in un certo senso, i contesti entro cui una parola ha preso a formularsi e poi a variare, a cambiare. Prendiamo, ad esempio, “misura”. Nel mondo antico qual’era la “misura”? Qual era lo sfondo del mondo antico? Era la ricorrenza della phùsis (della natura): la quercia – la ghianda; il vino – l’aceto; c’era questa ciclicità infinita, e gli uomini inseriti in questo ciclo, nella loro dimensione biologica naturale. Nella natura c’era un qualcosa di cui il potere dell’uomo non aveva la disponibilità. Quindi l’obbedienza era una “congruenza con l’uomo”, nel senso che disobbedire non voleva dire emanciparsi, ma impazzire; cioè uscir fuori da una continuità; e, quindi, l’obbedienza era proteggente. In quella dimensione, la misura era la “conformità”, conformarsi al mondo. Ma dopo che lo stesso Dio ha frantumato il cosmo e dopo che la tecnica ha permesso di intervenire sui ritmi della natura (fino alla notizia giornalistica di ieri – non so se l’avete letta – che ormai si può generare un’umanità solo al femminile!) qual è la misura? Certamente non può essere più l’obbedienza. Stando all’esempio, domandiamoci: unilateralizzare il mondo lo arricchisce o lo impoverisce? Che si possa fare un mondo al femminile, dal punto di vista della scienza, non è sufficiente per affermare che lo si debba fare, perché il risultato potrebbe essere una unilateralizzazione del mondo; un suo impoverimento, non un suo arricchimento. Si impoverirebbe anche “l’altra parte”, che diventerebbe tautologica rispetto a se stessa.

Le obiezioni della Chiesa contro la clonazione sono tutte di tipo naturalistico che sono banali, perché rispondono come se ci fosse un cosmo come quello antico. Allora, in base a che cosa possiamo dire che la clonazione si deve o non si deve fare? Il fatto è che, nella clonazione, si ha sostanzialmente una riproduzione della identità, che distrugge il mondo. Perché dobbiamo mantenere le foreste? Per la loro pluralità. Perché un bosco deve essere misto? Perché se è solo di pini o di abeti è un bosco povero. Se si conviene che la ricchezza del mondo è nella sua multilateralità, allora identifichiamo la misura: nella escalation, conservare la multilateralità ed evitare dinamiche unilaterali che, poi, diventano contro finalistiche. In un mondo tutto di donne, probabilmente,  ci sarebbe poi chi fa la parte degli uomini e chi fa la parte delle donne e anche lì si riprodurrebbe la multilateralità. Quindi, la misura, qui diventa un prisma largo giocato sulla comparabilità, sulla compatibilità, sulla ricchezza. L’idea aristotelica di bene, come “diffusivo”, resta. Però non è più possibile usare, come criterio di misura, l’obiezione antica del “non lo puoi fare, perché la natura è così”. Ma perché è così? Quindi la proliferazione, da questo punto di vista, deve essere assecondata come lo spazio, sempre più grande, della diversità, fino alla preservazione estrema della individualità (qui c’è un fondamento aristotelico), perché la pienezza dell’essere non è in Dio, ma è nel singolo Ente che – come dice, appunto,  Aristotele – è ineffabile; se è perduto è perduto, se è custodito è custodito. Trattare ogni singolarità come Dio: questo è il punto. Avere sottratto la divinità alle cose, aver disincantato il mondo è stato terribile, perché Dio è diventato uno spazio di recupero e, allora, da questo punto di vista, con Giordano Bruno, io vedo l’incarnazione di Dio sul serio: tutto è Dio!

Ma trattare tutto in questo modo, certo esige quell’ “oltre”,  quel “superuomo” nell’accezione di Nietzsche, o meglio di una parte del suo pensiero: del Nietzsche del sì (non quello della volontà di potenza), che è il Nietzsche della santità del tutto. “Volere il ritorno” che cosa vuole dire in Nietzsche? Che io amo talmente questo mondo che, nonostante il suo dolore, vorrei che tornasse eternamente. Ciò non vuol dire che il mondo non debba essere cambiato, ma che ogni progetto di miglioramento del mondo non può dimenticare che io sono inerente al momento; quindi lo stesso progetto di modificare il mondo diventa un sì perché io lo decido qui. Prevedo un altro profilo di mondo e mi rendo conto, per esempio, che non tutto il male può essere eliminato con un progetto. Il male che gli uomini si fanno tra loro non può essere eliminato con un progetto; forse neanche con quello tecnologico. E ammesso pure che ci sarà un’umanità che non patirà più il dolore, che conti faccio io con il “mio” dolore, adesso, se non amo questo mondo così com’è, con le relazioni che ha, che è apprezzabile per quello che è?

Armonia – discordia

Ecco: vedere nei punti estremi della discordia la possibilità dell’armonia. Il punto di vista superiore esige quello che è suggerito da Leopardi: liberarsi dall’amore incondizionato di sé, cioè da quella propensione che conduce a ridurre la ricchezza del mondo al proprio essere. Questo è il modo più terribile per impoverire il mondo anche rispetto a sé stessi: se io riduco il mondo a me, non posso incontrarlo nella sua novità; non posso accettarne il dono. Se io lo riduco a me, il mondo diventa lo spazio della mia rapina; se io, invece, vado incontro al mondo, ne posso accogliere il dono e la bellezza e posso apprezzare la relazione con l’altro. Ecco l’obbligo morale.

E’ chiaro che senza questa dimensione di apertura e di relazione, io divento irresponsabile e non rispondo più. Ma io direi che divento irresponsabile nella forma più radicale: non sono più irresponsabile solo nei confronti dell’altro, ma divento irresponsabile anche nei confronti di me stesso. Non voglio essere socratico, ma in parte devo esserlo: il male come follia. Nel male c’è una componente di follia, intesa non in senso psichiatrico, ma nel senso in cui ne parla il Siracide quando dice che a forza di pensare a te stesso impazzisci. D’altronde la follia ha questa dinamica: tu ti ammali, alla fine tu ti ammali, non domini più il tuo male, perché sei talmente abituato a farlo che ti concedi, ti concedi… ti concedi costantemente a te stesso, e ti abitui. Allora, quello che all’inizio si presentava come un errore della volontà – come tale correggibile – a lungo praticare produce follia e tu diventi inguaribile. Penso che Socrate sbagliasse quando diceva che all’ “inizio” del male sta la follia, per colpa ed errore. La colpa invece è un progressivo concedersi a se stessi, ed è questo che oscura sempre di più il mondo.

Di fronte al dolore: offerte di senso

Ci sono due cose importanti alle quali non ho risposto. Io posso dire sì rispetto al mio dolore, ma non posso farlo con il dolore degli altri. Questo è giusto; farlo sarebbe prevaricante. Però quello che io sostengo, quando parlo “dell’etica del finito”, è che se io non posso essere prescrittivo nei confronti degli altri,posso però essere  “esemplare”. Questo sì. E direi che lo stesso cristianesimo,preso nella sua profondità –  in una logica non costantiniana, visto cioé non come crociata – è esemplare, più che prescrittivo. Ci sono molti punti nel Vangelo dove troviamo aspetti prescrittivi; non voglio ora addentrarmi nell’esegesi, ma quando Gesù pone l’ “aut aut” fra salvezza e dannazione, mi sembra innegabile una componente prescrittiva. Quando però Gesù dice: “siate miti e umili di cuore come sono io”, non mette gli uomini dinnanzi all’opzione salvezza o dannazione. Dice: “fate come faccio io; io sono la verità e la vita”. L’imitatio Christi non è, nella sua essenza, prescrittiva. Allora è chiaro che, nel mio ragionamento, bisogna eliminare l’assolutismo cristologico, nel senso che queste proposte “possono” essere fatte e anche quella del sì può essere una proposta.

Nel mondo ci sono dimensioni unilaterali positive; sono quelle che non si presentano come imperative, ma come offerte di senso. Allora: ripensare e riformulare le parole per sé stessi, ma anche proporle agli altri, è un modo per muovere, stimolare gli altri; portarli nello spazio dell’interrogazione. Soltanto se offro una proposta, riesco a portare l’altro nello spazio dell’interrogazione; se gli dò un’equivalenza, lui non si interroga. Così la filosofia si presenta anche come “pensiero dello spiazzamento”, e vengo alla domanda che mi è stata rivolta: “ma questa ricerca, questa montagna di verità non può trasformarsi in volontà di potenza?”. Certamente sì se il pathos della ricerca diventa presunzione dell’assoluto. Ma se la filosofia resta filosofia –  cioè “amica della sapienza” –  è, per definizione, un cammino.

Mettere in luce; fare teoria

E’ chiaro, inoltre, che la filosofia ha a che fare con la luce, ma non nel senso di guardare la luce, perché questo può verificarsi (e forse neanche) solo nella beatitudine, ammesso che essa possa realizzarsi.

Compito della filosofia non è quello di fissare il sole, ma di guardare le cose alla luce del sole; di “mettere in luce”, non di guardare la luce, che acceca. E che cos’è “mettere in luce” se non riproporre tutto al vaglio costante dell’interrogazione perché ne emerga la sua verità? Ecco, la filosofia non vede la luce; espone le cose alla luce,  e lo fa perché è consapevole che la luce non la può guardare; turberebbe il suo occhio e turberebbe anche le cose.  Ecco perché la filosofia è “philos-sophia”. Solo in un’altra dimensione la filosofia è anche “sophia”. Perché è chiaro che nel mettere le cose in luce le predispone in un ordine, cioè fa teoria. Una parola che manca questa, ma che si potrebbe aggiungere  al lessico che stiamo investigando “Teoria” ha la radice dal verbo greco che vuol dire “guardare”; la stessa radice di “teatro”. La teoria è mettere in esposizione le cose nel loro ordine; è terapeutica perché non solo mette le cose secondo un ordine, ma cerca di guardare tutti gli elementi dentro l’ordine e quindi, da questo punto di vista, è sovra-personale, non impersonale. Quindi se io faccio filosofia metto me stesso nella luce della filosofia e guardo la mia individualità nella totalità del mondo. Ecco perché la teoria è una delle modalità migliori per distaccarsi da sé: facendo teoria, si considera sé stessi in un ordine; è un modo per prendere le distanze.

Il virtuale

In questa operazione, gli ordini del mondo che la filosofia può profilare sono moltissimi; ma allora, ecco, di nuovo il dilemma: qual è quello vero? qual è quello non vero? Effetti di realtà… livelli di verità. Allora, è nello scarto fra teorie che accade la plausibilità dei mondi. Questo è “il virtuale” che è, appunto, immaginare un mondo diverso da quello in cui si vive, ma non talmente diverso da non poterlo immaginare. Ciò vuol dire che ci deve essere molto di questo mondo per potere immaginarne la virtualità; perché la virtualità pura è impossibile. E’ la differenza che si fa tra possibilità e il possibile in senso leibniziano. La possibilità in generale, secondo Leibnitz, era l’incontraddittorietà: tutto è possibile purché non sia contraddittorio. La possibilità reale, invece, era sempre identificabile come possibilità “prossima”. Quindi per immaginare come sarà questo mondo, devo intravedere in esso quegli elementi di variazione già presenti che, una volta sviluppati, ne rimodellerebbero la realtà.

Il virtuale – come virtus – è “una possibilità inerente a…”. Da questo punto di vista la filosofia, in quanto è “piacere della teoria”, tende alla scomposizione di mondi e quindi, direi, che la filosofia dà uno spazio alla virtualità molto più ampio di quanto non lo facciano le tecniche del virtuale, le quali, peraltro, favoriscono la filosofia perché ci permettono di immaginare cose, che senza quelle tecniche, non potremmo immaginare. Detto in soldoni: difficile sarebbe immaginare – ad esempio – lo spazio dell’infinito, per fare il calcolo infinitesimale. E, allora, le dimensioni di calcolo danno, nella pura teoria, quel materiale di immaginazione per cui il virtuale può essere costruito. Ma il virtuale stesso è un’immaginazione – o una metafora – delle virtualità algoritmiche che di volta in volta si vanno a definire. Questo è mettere “le cose alla luce” e io ritengo – visto che mi trovo in un ambiente cristiano –  che la luce ci fa vedere, ma non è possibile guardarla; forse – dicevo – neanche nella beatitudine, perché io non penso che (ammesso che ci sia una beatitudine, nel senso cristiano del termine) quando vedranno “faccia a faccia”, gli uomini potranno vedere Dio; lo vedranno nel volto di Gesù Cristo, cioè in una sua dimensione finita. E, allora, … l’infinito? C’è Dio? Non c’è Dio?… Certamente c’è il movimento infinito!

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