Luciano Gallino. Italia in frantumi. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici.

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Il libro è suddiviso in cinque sezioni ben precise e distinte, anche se ovviamente correlate fra di loro, che rimandano ad altrettante questioni di fondo per il nostro Paese: il lavoro, il declino industriale (con particolare attenzione, come è ovvio trattandosi del nostro maggior gruppo industriale, alle vicende della FIAT), i problemi della scuola e dell’università, i bilanci delle famiglie e l’economia globale. Ognuna di tali questioni, come ben si capisce, meriterebbe tomi e tomi di trattazione approfondita , ma l’ottica in cui Gallino li ha affrontati è insieme quella dello studioso e del memorialista, ossia di chi da un lato esamina con scienza e dottrina la questione singola nelle sue sfaccettature, dall’altra, come si è già accennato, vuole lasciare una testimonianza su di una realtà complessa che tuttavia non si risolve in un’impossibile neutralità ma prende apertamente posizione.

Luciano Gallino. Italia in frantumi. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici.

1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani

2. leggi la trascrizione della relazione di Luciano Gallino

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Giovanni Bianchi presenta il corsointroduzione di Lorenzo Gaianirelazione di Luciano Gallino

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Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Luciano Gallino

Costruire su macerie. A proposito di “Italia in frantumi” di Luciano Gallino

1.   “Di solito ho da far cose più serie: costruire su macerie, o mantenermi vivo”. Così Francesco Guccini in un verso (uno dei pochi citabili senza violare il comune senso del pudore) della sua notissima canzone “cattiva” “L’ avvelenata”.  Un sentimento del genere può prendere molte persone alla considerazione dei gravi problemi in cui il nostro Paese si trova, nel senso che si ha la sensazione crescente che rimanga ben poco a cui appigliarsi salvo vaghe sensazioni di ottimismo – a volte un po’ manierato- a fronte di uno spettacolo generale di dissipazione intellettuale, economica e morale che sono il simbolo non solo dello sciagurato quinquennio governativo delle destre che è ormai, e per fortuna, alle nostre spalle, ma anche di un  momento complessivo di uscita dall’ubriacatura ideologica del neoliberismo senza che vi sia il segnale di una chiara inversione di tendenza. Definire la nostra come l’ età dell’incertezza può apparire ingeneroso soprattutto per chi tenga a mente che in fondo quelle di chi oggi ha fra i trenta e quarant’anni in Italia è si e no la terza generazione di persone che abbiano elevate aspettative di vita e di standard sociale senza dipendere dai capricci della natura o dalle vessazioni di un potere politico e padronale inteso unicamente a riaffermare in tutti i modi – brutalità poliziesca non esclusa- il dovere dei subordinati di rimanere tali. E nello stesso tempo, però, non può non essere chiaro come, almeno dallo choc petrolifero degli anni Settanta in poi, alla sensazione crescente dell’evidenza dei limiti dello sviluppo e delle possibilità di crescita economica generalizzata che divenisse anche crescita del tenore di vita ha fatto riscontro una controffensiva altrettanto generalizzata della destra politica ed economica contro i sistemi di welfare, contro gli indici salariali e contro i diritti dei lavoratori.

2.   Costruire su macerie quindi, o magari raccogliere i frantumi come ci suggerisce Luciano Gallino in questo libretto che raccoglie quattro anni di commenti comparsi sulle pagine di “Repubblica”, costituendo ad un tempo una preziosa testimonianza in presa diretta dello svolgersi dell’attualità politica e sociale ed un’utile manuale per districarsi nella complessa realtà di una società avvitata su se stessa, di un sistema industriale in preda a ricorrenti crisi suicide e a una politica che va sistematicamente al traino degli interessi particolari invece di guidarli o comunque di ricondurli a sintesi. Non si creda però di trovarsi di fronte al tradizionale strumento retorico deprecatorio della “predica inutile”. Il fine è un altro, e Gallino lo dice con chiarezza fin dall’ introduzione: “Ancor  più dell’ingiustizia del mondo che le disuguaglianze globali e la frammentazione dei rapporti di lavoro congiuntamente rispecchiano, dovrebbe indignare, e sollecitare a una sua ravvicinata iscrizione nell’agenda politica nazionale e internazionale, il fatto che in realtà nessuno dei due eventi esiste per necessità, poiché le risorse di cui oggi collettivamente dispongono i paesi sviluppati sarebbero sufficienti per superare in tempi lunghi l’ uno e l’altro”. Un programma utopistico? No, un manifesto riformista, giacché il riformismo di questi tempi non è lo smantellamento di quanto le lotte del movimento dei lavoratori (quelli marxisti e quelli cattolici, nel nostro Paese) hanno faticosamente strappato a riluttanti controparti, ma anzi il consolidamento e l’allargamento a coloro che ne sono ancora fuori secondo criteri di equità e di giustizia. Ci troviamo di fronte, lo argomenta bene Gallino, ad un sistema economico che appare singolarmente cieco anche rispetto alle strette conseguenze delle sue azioni, come se operasse, per così dire, in automatico, slegato da qualsiasi volontà individuale che non sia quella pura e semplice dell’accumulo, della massimizzazione dei profitti spesso senza criterio e discernimento. E ci troviamo inoltre di fronte ad una afasia sistematica della politica, ad una programmatica astensione da ogni intervento in campo economico e sociale, che nella versione italiana oscilla fra un liberismo da operetta (come può esserlo quello gestito da un monopolista che alla libertà d’impresa, salvo che alla sua, non ha mai creduto) ed una serie di azioni pasticciate e scollegate fra di loro, che per dimostrare una trama comune debbono essere viste controluce come accade per taluni provvedimenti dell’ultima legge finanziaria. Nessuna di queste due cose è frutto del caso o del destino cinico e baro: si tratta di una strategia ben precisa, perché, ed è un po’ la costante di quanto Gallino ci va ripetendo ormai da anni, il “libero mercato” è in definitiva un prodotto della politica, un prodotto che ha certamente delle sue dinamiche interne, ma che altrettanto certamente può essere ampiamente condizionato dagli interventi regolatori dello Stato, i quali a loro volta –ed il cerchio si completa- sono espressione della volontà politica, laddove essa esista e sia coerentemente indirizzata al bene comune.

3.   Il libro è suddiviso in cinque sezioni ben precise e distinte, anche se ovviamente correlate fra di loro, che rimandano ad altrettante questioni di fondo per il nostro Paese: il lavoro, il declino industriale (con particolare attenzione, come è ovvio trattandosi del nostro maggior gruppo industriale, alle vicende della FIAT) , i problemi della scuola e dell’università, i bilanci delle famiglie e l’economia globale. Ognuna di tali questioni, come ben si capisce, meriterebbe tomi e tomi di trattazione approfondita , ma l’ottica in cui Gallino li ha affrontati è insieme quella dello studioso e del memorialista, ossia di chi da un lato esamina con scienza e dottrina la questione singola nelle sue sfaccettature, dall’altra, come si è già accennato, vuole lasciare una testimonianza su di una realtà complessa che tuttavia non si risolve in un’impossibile neutralità ma prende apertamente posizione. In questo senso è da leggere, a partire dall’ ironico “Diario postumo di un flessibile” pubblicato nel febbraio 2002, la dura e coerente requisitoria non tanto contro la flessibilità del lavoro in sé, quanto contro il delirio ideologico che sembrava aver preso il sopravvento nella prima metà di questo decennio che sostanzialmente indicava nel lavoro flessibile lo spazio della libertà e della realizzazione di sé, dimenticandone gli effetti collaterali nemmeno troppo nascosti. Improvvisamente il lavoro salariato tradizionale, “pesante” anche in ragione dei suoi vincoli sociali pensati a tutela della parte più debole nel rapporto contrattuale, ossia il prestatore d’opera, il lavoratore. Non è facile, detto oggi (cioè a distanza di cinque anni, non di un eternità) comprendere le ragioni della jihad a suo tempo indetta dalla Confindustria damatiana , pienamente appoggiata dal Governo delle destre, contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che stabilisce l’obbligo di reintegro al lavoro del dipendente ingiustamente licenziato nelle imprese con oltre 15 addetti) al di fuori di un chiaro stigma ideologico e della volontà proterva di umiliare e delegittimare il sindacato. D’altro canto, è in quel periodo cupo che si colloca il tentativo di istituire una qualche responsabilità politica comune fra gli assassini di Marco Biagi e l’allora Segretario generale della CGIL Sergio Cofferati. In tutto questo clamore passava quasi inosservata la voce di chi, come Gallino, ricordava pacatamente che “lavoratori ben retribuiti, aventi un lavoro stabile, tutelati da un appropriato quadro giuridico, con un orizzonte di garanzie assistenziali e previdenziali , contribuiscono alla creazione collettiva di ricchezza in misura assai più rilevante che non i lavoratori che di tali beni sono del tutto privi”. Non è un caso, del resto, sia stato realismo politico o reale resipiscenza, che uno dei primi atti della presidenza Montezemolo sia stato quello di liquidare questa battaglia ideologica e tutti gli annessi e connessi, inclusi “patti per il lavoro”  o “per l’ Italia” che non hanno prodotto un solo posto di lavoro in più e che all’ Italia hanno portato scarso o punto giovamento. In verità, ed era inevitabile, la cortina ideologica ad un certo punto si è squarciata, e la retorica della flessibilità ha lasciato il posto ad un più realistico allarme sulla precarietà e sull’insicurezza sociale. Si è anche rotto il meccanismo perverso di chi riteneva necessario liquidare il modello sociale e lavorativo europeo a favore di un’omologazione a quello statunitense, dimenticando, come scrive Gallino, che “in USA il salario medio dei lavori dipendenti, al di sotto del livello di quadro o capo intermedio, è infatti tuttora inferiore, in termini reali, a quello del 1973, dopo una forte discesa durata quasi vent’anni e un parziale recupero da metà degli anni ‘90”.  Più in generale, il problema reale sul tappeto, affrontato solo in modo episodico e spesso trattato con un certo imbarazzo rimane quello di correggere le disguaglianze, di “modificare il rapporto tra il volume dei profitti e il monte salari, visto che negli ultimi lustri esso è peggiorato a danno del secondo”.

4.   Se vogliamo, la questione delle disuguaglianze è il vero filo rosso di tutta la riflessione di Gallino, il quale parte ancora dalla concezione autenticamente riformista per cui lo scopo primario dell’azione politica e sociale è (o dovrebbe essere) quello di agevolare la diffusione del benessere fra tutte le persone, con particolari tutele dedicate ai lavoratori e a coloro che vivono situazioni di disagio e marginalità sociale. Anche la questione del declino del sistema produttivo italiano, a cui Gallino ha dedicato studi accurati, è in fondo connessa a tale problematica, giacché in un contesto di stagnazione e di decrescita dell’attività economica i primi a soffrirne sono evidentemente gli strati più bassi della popolazione, minacciati dalla disoccupazione, dalla precarietà e – appunto- dalla marginalità sociale. In questo senso, annotava alla fine del 2004, il primo passo per uscire dal declino è di ammetterne l’esistenza, il secondo “dovrebbe consistere nel farsi venire delle idee in tema di politica economica ed industriale. Il terzo passo starebbe nel predisporre i mezzi per attuarle”. E’ chiaro che qui, come nella questione del riordino del sistema formativo (speriamo che riecheggi ancora negli ambienti governativi l’antico monito di Romano Prodi per cui è impossibile “essere ricchi ed ignoranti per più di due generazioni”), della gestione dei bilanci familiari a partire dai tempi topici dei salari e delle pensioni (segnalo a tale proposito a pagina 126 l’ esilarante “dizionario minimo” sulla riforma delle pensioni che mette in fila e svela nella loro balordaggine le argomentazioni conformiste dei nemici del welfare), e della più generale vicenda dell’ economia globalizzata contengono in se stesse una domanda inespressa ma chiara ed inequivocabile rispetto alla politica, alla sua capacità di orientare, di scegliere, di governare, magari anche di gestire delle scelte precise circa i bisogni dei cittadini.

5.   La crescita delle disuguaglianze all’interno di quasi tutti i Paesi del mondo  è una delle caratteristiche più evidenti dell’attuale modello di sviluppo, che ha alla sua base soprattutto una sostanziale redistribuzione del reddito a danno del lavoro ed a favore del capitale, ed un crescente distacco tra diverse realtà territoriali. I perdenti dell’attuale processo di globalizzazione non sono una piccola minoranza. Ciò comporta una progressiva concentrazione del reddito e della ricchezza che ostacola la mobilità sociale e la promozione del merito e rende le società ed i sistemi economici non solo più ingiusti ma anche più inefficienti. Ne risulta un inadeguato bilanciamento del potere, una società “tendenzialmente oligarchica” come scrive Silvano Andriani, che stravolge il rapporto fra politica ed affari a tutto vantaggio dei secondi logorando e compromettendo in radice gli stessi meccanismi della democrazia. Di fatto, si comprende che non è vero che il mercato abbia mantenuto la sua promessa di allargare gli spazi di libertà e consentito a tutti di realizzare le proprie capacità. L’attuale modello di sviluppo non è solo il frutto delle tendenze generali del processo di globalizzazione, ma del fatto che la sua conformazione è determinata dalla vittoria di lungo termine dell’ideologia neo liberista. In questo senso non è possibile che la politica, soprattutto la politica che si dice riformista, trovi le sue issues  fondamentali nel deficit pubblico, nella flessibilità del mercato del lavoro e nella rimodulazione del sistema pensionistico. Si tratta di problemi reali, pur se enfatizzati, che a loro volta si intrecciano con altri non meno gravi, come lo spiazzamento dello Stato a causa di un abnorme indebitamento pubblico e da diffuse inefficienze ; l’ irrigidimento della scala sociale dal forte familismo e dalla diffusa prevalenza per difese corporative e l’uso di relazioni speciali invece del riconoscimento del merito … Tutto ciò costituisce una vera e propria agenda pre un riformismo che non si limiti a vuota enunciazione verbale, e se è vero che attualmente – e per fortuna- abbiamo un Governo che ci fa sentire parole diverse  a quelle correnti negli anni in cui Gallino scriveva i suoi articoli, è anche vero che le grandi questioni della lotta alla precarietà e alla disuguaglianza sono ancora davanti a noi.

Trascrizione della relazione di Luciano Gallino

Mi fa molto piacere esser nuovamente qui ancora una volta con voi, credo che sia la quarta volta; è una sorta di tradizione a cui tengo molto, sia perché mi sento tra amici, cosa che non capita molto spesso, ma anche perché credo che questa iniziativa dei Circoli Dossetti e di Bianchi sia molto importante perché in effetti nel nostro paese non si parla più di politica. Gli ultimi luoghi in cui ho sentito parlare di politica erano alcuni circoli torinesi e in molte sezioni di partito, sezioni del Partito Socialista, sezioni della DC, sezioni del PCI in cui abbastanza regolarmente ero invitato dall’uno o dall’altro a discutere di politica. Da  quindici anni questa processo, questo meccanismo si è interrotto ma da quanto sento  dire da amici in molte parti d’Italia non è avvenuto soltanto a Milano o a Torino ma un po’ dovunque nel nostro Paese. La politica è fattore di schieramento, fattore di discussioni su chi mettere in lista, ma come ricordava in precedenza Bianchi,  la decisione poi la prendono una dozzina di persone…Non parliamo dei media, la politica sembra veramente non essere più un tema che avvince, che coinvolge, che impegna cui comunque si sente chiamati perché fa parte di una vita civile. Quindi ben vengano queste iniziative, questo corso di formazione politica e grazie ancora ai Circoli Dossetti, a Bianchi, a Gaiani per avermi invitato qui ancora una volta a discutere con voi sui temi della politica,

Proverò ad accennare a due o tre di essi che sono toccati in varie parti del libro e di vari articoli che ho scritto ormai nell’arco di 5 anni, ma andando anche un po’ al di là di essi.

Sono due o tre domande che ho provato a fare scrivendo e che ripropongo qui oggi, in parte sono già state anticipate dalla bella relazione di Gaiani, cui sono veramente debitore per questa puntuale e approfondita ricostruzione dei miei lavori.

La prima domanda è appunto questa. Il clamoroso squilibrio che si osserva nel nostro paese tra ricchezza privata e povertà pubblica, se non anzi, in certi casi, miseria pubblica, potrebbe essere o no un tema corrente della politica? Si può portare in pubblico, se ne può parlare e scrivere? Ne possono dibattere i partiti?  Oppure non lo si può fare per una serie di ragioni, la prima delle quali, è abbastanza banale, potrebbe essere che se uno parla di questi temi non prende voti da nessuna parte. E’ comunque un’affermazione cogente.

Mi riferisco a situazioni, a casi specifici. Il nostro paese è un paese benestante, è un paese che ha un reddito, misurato in parità di potere di acquisto, di 29.500 dollari anno, il che ci mette vicinissimi a Germania, alla Francia, ci mette vicino alla Svezia; ci mette però assai lontani dalla ricchissima Svizzere, perché la Svizzera è più ricca di noi dell’80 % in termini di scambio,.ma di poco più del 10-12 % in termini di parità del potere di acquisto. La Svizzera ha un reddito pro capite di poco meno di 33 mila dollari, quindi non lontano dai nostri 29.500. Certo abbiamo il 20 % della popolazione, che sono 12 milioni di persone, in condizioni di povertà e alcuni altri milioni che sono prossimi al livello di povertà; si tratta ovviamente di povertà relativa: la metà del reddito pro capite per una famiglia di 2 persone. Ma a fronte di questo 20-25 % di persone che sono in condizioni di povertà relativa, abbiamo un 50-60 % di famiglie che se la passa abbastanza bene ed un 20 % di famiglie che se la passa straordinariamente bene, anche nei confronti con i paesi ricchi.

Quello che ormai  in Italia si nota in modo clamoroso, più che non in Francia, che non in Germania, che non nello stesso Regno Unito che ha i problemi suoi a cominciare da un maggior numero di poveri, è il divario, lo squilibrio tra il benessere privato e la povertà pubblica. Si possono toccare fatti e cifre un po’ ovvi, a cominciare, dagli ospedali di cui si parla in questi giorni, oppure dal trasporto pubblico, dalle ferrovie, dalle autostrade o dalle scuole. Metà delle nostre scuole non sono a norma per ragioni strutturali, non perché non è stato rinnovato l’intonaco, ma perché ci sono crepe nei soffitti. Sappiamo che nelle scuole materne di molte città le famiglie devono portarsi i gessetti, devono portarsi i colori, devono portarsi la cera o la plastica per modellare ed altre cose del genere.

I trasporti urbani sono ormai un incubo in alcune città; ci si chiede come possano sopravvivere tre milioni di persone a Roma, che hanno in tutto 20 chilometri di metropolitana. La metropolitana di Parigi è di 450-500 km. L’insieme dei trasporti pubblici in forma di treni della metropolitana in Italia è di 90 km, ossia meno di un quinto della sola metropolitana di Parigi. In questa ci stanno i 26 km di Milano, gli 8 di Torino appena inaugurati, i 7 di Napoli. Napoli ha avuto a lungo il primato di essere la più breve metropolitana del mondo perché inizialmente era di un chilometro e mezzo e .adesso è arrivata a 7-8 km.

Si può continuare su terreni un po’ più aulici, un po’ meno terra a terra. Nella ricerca scientifica e nella produzione dei brevetti siamo gli ultimi dell’Europa a 15; avevamo la Grecia dietro, adesso con gli altri 12 paesi forse siamo un po’ cresciuti nella classifica, ma non per merito nostro. I nostri brevetti sono di contenuti tecnologici molto modesti e oltre tutto sono poche decine per milioni di abitanti, contro i 350 della Danimarca, della Svezia e della Norvegia, e i 180-200 della Germania o del Regno Unito. L’Università italiana, per molte ragioni, è diventata un gigantesco liceo di massa, dove naturalmente si salvano, come sempre, il 10% circa di coloro che vengono da famiglie che hanno la biblioteca in casa, che hanno un reddito più elevato, insomma un capitale sociale, come si dice. Ma l’università non è più, come è sembrata essere per un po’ di anni, la porta d’ingresso di intere generazioni di lavoratori dipendenti, degli strati più bassi della società, verso la cultura, l’autonomia, la realizzazione di sé, la partecipazione civile. Adesso serve per conseguire, più o meno rapidamente, un titolo in 3 o 4 anni perché senza di esso sul mercato del lavoro non ci si può più presentare. Ma l’università, come universo del sapere, come grande progetto di universalizzazione della cultura è di là da venire, se non per alcune migliaia o decine di migliaia di eletti.

Questo genere di miseria pubblica, di povertà pubblica comprende anche il fatto che in 100 anni la condizione civile del mezzogiorno non ha potuto migliorare di molto perché quello che si scriveva all’inizio del secolo sul predominio del crimine organizzato vale ancora oggi. É passato più di un secolo di assenza o scarsa e limitata presenza dello Stato nel Mezzogiorno senza che le straordinarie potenzialità di quella parte d’Italia abbiano potuto svilupparsi. Cose del genere non si riscontrano in nessun altro paese dell’Europa Occidentale

Ripeto la domanda prima di passare ad un altro punto: è possibile o no farne un tema di discussione politica? E’ possibile farne un tema di cui i partiti si occupano non soltanto nei corridoi di Montecitorio, ma se ne occupano in modo formale? E’ possibile che lo propongano al pubblico? E’ chiaro che soltanto un governo di centro-sinistra, che ha più o meno la composizione di quello attuale, può pensare di opporre alla politica un tema come il riequilibrio tra ricchezza privata e povertà pubblica, dove non significa certamente rinunciare o diminuire il nostro benessere. Tutto sommato ci teniamo, molti di noi se lo sono conquistato con dura fatica. E tuttavia il problema del riequilibrio permane a fronte, per esempio, delle disuguaglianze colossali che esistono nel nostro Paese, come in altri, soprattutto forse nel Regno Unito, ma anche in Francia.

 Ad esempio, nel luglio 2006, quindi neanche sei mesi fa, la retribuzione media lorda dei lavoratori dipendenti era di 25.000 euro l’anno, parlo di lordo. Nel primo semestre 2006, 10 top manager di 7 grandi società hanno ricevuto ciascuno, oltre allo stipendio (e parliamo di stipendi dell’ordine di 800 mila – 1 milione di euro all’anno) hanno ricevuto ciascuno 14,3 milioni di euro grazie ad opzioni sulle azioni esercitate in precedenza.. La cifra equivale a 572 volte la retribuzione media lorda di 25.000 mila euro. Occorre anche dire che se si bada ai risultati, probabilmente  uno che, sia pure con un po’ di manica larga, si meritava un bonus di questo tipo, probabilmente in Italia era uno  sole, forse Marchionne.

Si può continuare. La ricchezza finanziaria è enormemente squilibrata a favore del 10-15 % della popolazione. Il 10 % della popolazione possiede una ricchezza finanziaria che è molte volte superiore a quella che possiede il 50 % più basso della popolazione. Rimane la domanda: è possibile scriverlo sull’agenda politica? è possibile inserirlo tra i temi della politica? Parlarne esplicitamente, sottolineando che non vogliamo certo impoverirci, vogliamo restare benestanti, però qualcosa si potrebbe fare per non essere gli ultimi in Europa. Anche se abbiamo un reddito molto vicino a quello della Germania, della Francia, della Svezia o della Danimarca, e non lontanissimo da quello della Svizzera, il nostro patrimonio pubblico è sostanzialmente miserevole.

Un secondo tema che volevo portare alla loro attenzione e che è già stato toccato da Gaiani nella sua introduzione, è che molti dei problemi della nostra società, ma anche molti dei problemi che affliggono il mondo, sono per certi aspetti fortuiti, non sono necessari; esistono i capitali, i mezzi, le capacità e le tecnologie per fare largamente fronte ai problemi del mondo.

Per essere in po’ concreti: le Nazioni Unite, si e no 7 anni fa, o giù di lì, hanno varato in grande pompa “gli scopi del millennio”, gli scopi dello sviluppo del millennio, che sono otto in tutto, articolati in 18 obbiettivi e fra questi obbiettivi ve ne sono molti che sono quantificati in modo preciso, ad esempio il ridurre della metà il numero dei bambini che muoiono prima di compiere i 5 anni. Oggi, prima di compiere i 5 anni muoiono ogni giorno circa 25.000 bambini, moltiplicato per 360 fa circa 9 milioni l’anno. Per ridurre questa cifra sono necessarie cifre tutto sommato modeste: alcune decine di miliardi di dollari l’anno.

Un  altro obbiettivo è quello di ridurre il numero degli affamati, per affamato s’intende qualcuno che invece di 2.500 calorie al giorno dispone di 1.000 calorie o poco più. Anche ridurre la mortalità  delle partorienti ed altre cose del genere.

Secondo gli stessi calcoli delle Nazioni Unite per raggiungere questi scopi sarebbero necessari (i calcoli variano molto, questi scopi si incrociano molto tra di loro, quindi la questione è complicata) 500 miliardi di dollari l’anno e stime più contenute sono dell’ordine di 250-300 miliardi di dollari l’anno. Cifre importanti ma sono cifre a livello mondiale. Il mondo in cui il capitale di risparmio, ossia il capitale detenuto da fondi pensioni, compagnie di assicurazioni e fondi di investimento si sta avvicinando ai 50.000 miliardi di dollari che è più del 10 % del PIL del mondo. Si è avuto nel 2004 il grande sorpasso: nel 2004 il PIL del mondo è stato di 41.000 miliardi di dollari e il patrimonio di quelli che si chiamano investitori istituzionali (fondi pensioni, compagnie di assicurazione e fondi di investimento) ammontava in quell’anno a 45.000 miliardi di dollari.

Poi è ancora aumentato, le borse sono cresciute e nel mondo v’è questo enorme capitale flottante, questo immenso risparmio flottante in cui c’è anche una quota di risparmio di ciascuno di noi. Chiunque abbia comprato una quota di un fondo di investimento ha comprato un pezzetto  di un fondo che rientra in quei 48.000 – 50.000 miliardi di dollari che girano per il mondo nella ricerca disperata di investimenti redditizi. E tra gli investimenti redditizi, ahimè, non c’è la riduzione dei poveri assoluti, quelli da un dollaro o 2 dollari al giorno, che a tutt’oggi sono il 45 % della popolazione mondiale secondo calcoli di un organo non sovversivo come la Banca Mondiale. Gli investimenti nelle dosi di medicine, talvolta molto banali, che servirebbero per evitare le morti dei bambini al di sotto dei 5 anni, anche quelli non fanno investimenti redditizi.

Il risultato è appunto questo: un mondo in cui poche centinaia di migliaia di persone lavorano freneticamente ogni giorno per far sì che i 48.000 miliardi di dollari depositati in modo legittimo e razionale da centinaia di milioni di risparmiatori e di futuri pensionati possano avere rendi menti dell’ordine del 15, 18, 20 % e  dall’altra il mondo dove ci sono 800 milioni di affamati, affamati totali che muoiono di fame, 9 milioni di bambini che muoiono ogni anno, un miliardo di persone che vivono in slums, con livello abitativo semplicemente terrificante (dati delle Nazioni Unite).

E’ possibile farne un tema della politica? Naturalmente la risposta prima che viene alla mente è: ma è un problema delle Nazioni Unite, di governance globale, ecc. Fino ad un certo punto, perché, ad esempio, l’Italia è l’ultimo dei 22-23 paesi del club di Parigi, il club dei paesi che destinano una parte del loro PIL ai paesi in via di sviluppo, soprattutto ai più poveri. Ebbene l’Italia occupa l’ultimo posto assieme agli USA. Questi Paesi si erano impegnati, ormai parecchi anni fa a destinare lo 0,7 % ai paesi in via di sviluppo e soprattutto ad una cinquantina dei più poveri che hanno redditi dell’ordine di 2 dollari al giorno. L’Italia da parecchio tempo destina qualcosa come lo 0,15, cioè un quarto del minimo che ci si è impegnati a dare. Non è un tema politico? Possiamo anche decidere che non è un tema politico, però quando in televisione, come disse un ex presidente della Banca Mondiale, guardiamo serenamente l’altra metà del mondo che muore di fame rendiamoci conto che in quella metà del mondo che muore di fame manca anche uno 0,55 del PIL che appartiene a tutti noi.

E poi ci sono questioni emergenti come i fondi pensione. I fondi pensione sono dei nani in Italia ma diventeranno sicuramente dei giganti perché i fondi pensioni crescono. I fondi pensione sono oggi tra le grandi potenze mondiali in campo economico. Il primo fondo pensione a fondo giapponese c’è un patrimonio di mille miliardi di dollari, poi seguono uno o due olandesi e uno americano che hanno un patrimonio dell’ordine tra i 500 e gli 800 miliardi di dollari. Il patrimonio dei fondi pensioni è grosso modo un terzo di quello che ho ricordato, quindi 15 mila miliardi di dollari. I fondi pensione debbono badare a che le future pensioni mantengano il loro valore, debbono fare il possibile per aumentarne il valore e quindi sono perennemente in cerca di investimenti.

Dove investono, come investono, che cosa fanno? Nei i fondi pensione vanno a finire i risparmi di molti di noi. É possibile che per i fondi pensione non si parli di investimenti socialmente responsabili? Ormai il mondo parla di investimento socialmente responsabile. Nel Regno Unito hanno un certo peso e sono quasi tutte fondazioni o associazioni religiose, sia la chiesa anglicana che quella cattolica, nel Regno Unito guidano degli investimenti socialmente responsabili importanti.

Comunque ci sono molti fili che collegano il nostro agire, la nostra azione come cittadini, come entità politiche e lo stato del mondo in cui i risparmi, (e collegati ai risparmi vi sono i capitali di investimento, le tecnologie e le capacità organizzative) potrebbero in 10 anni cancellare i principali mali del mondo, che sono terribili. Le Nazioni Unite, ancora recentemente, hanno valutato che più della metà dei paesi coinvolti nel millennium  goals, negli scopi del millennio, non più della metà degli obiettivi considerati soprattutto in campi come la fame e la mortalità infantile. Muoiono ogni giorno 25.000 bambini, raggiungeranno 1.000 all’ora sotto i 5 anni che costerebbero per essere salvati intorno a 1-2 dollari al giorno perché questa è l’entità dei medicamenti e degli interventi preventivi che sarebbero necessari!

L’ultimo tema cui ho dedicato i miei articoli che ho raccolto nella quinta parte si intitola la “Povertà della globalizzazione”. Un po’ ha a che fare con i temi che ho appena ricordato, un po’ ha a che fare con questa idea di globalizzazione povera, la povertà della globalizzazione con la questione della sostenibilità. Col che poi il cerchio si chiude perché i modelli di vita che si reggono sul forte squilibrio tra ricchezza privata e povertà pubblica sono anche modelli di vita insostenibili su scala globale. Ma il problema, che dovrebbe essere un problema della politica, soprattutto della politica che guardi all’Europa, che si faccia sentire in Europa, questo: se noi possiamo continuare in un modello di vita che a livello globale è insostenibile, dicendo ad alcuni miliardi di persone, “per favore evitate di indulgere in eccessivi consumi perché altrimenti rendete a noi e anche a voi, ma a noi per primi insostenibile la vita sul pianeta”. E l’insostenibilità sta marciando a lunghi e rapidi passi, per certi aspetti è un prodotto interamente europeo, americano anche se passa attraverso i giganti emergenti come l’India e la Cina.

Che cosa significa in concreto insostenibilità? Significa, ad esempio che la Cina ha prodotto l’anno scorso 38 milioni di tonnellate di acciaio. Non molti più di noi, noi ne produciamo 26 milioni di tonnellate. Questo corrisponde al consumo pro capite di una trentina di chili di acciaio. Se gli indiani si mettessero in testa, (e il congiuntivo è già fuori posto perché se lo sono già messo in testa)  di raggiungere il consumo pro capite dei giapponesi, dovrebbero salire ad 880 kg di acciaio pro capite. Il fatto è che gli indiani non sono 123 milioni come i giapponesi, sono 1.100 milioni, Questo dice che per raggiungere il Giappone come consumo di acciaio pro capite, da trasformare in elettrodomestici, automobili, ferrovie e così via, la produzione dell’India dovrebbe arrivare  a 9.700 milioni di tonnellate l’anno: devono arrivare da 30 chili a testa a quasi 900 chili e per di più quasi dieci volte tanto, il risultato è che dovrebbero produrre 9.700 milioni di tonnellate l’anno. Piccolo dettaglio: la produzione mondiale di acciaio l’altro anno è stata di 1.000 milioni di tonnellate, cioè un miliardo di tonnellate. I produttori di acciaio hanno detto abbiamo superato il miliardo di tonnellate di acciaio nel mondo.

Soltanto la Cina dovrebbe aumentare  la propria produzione sino a portarla a 10 volte la produzione del mondo. Naturalmente non c’è soltanto l’India, c’è la Cina che sta facendo più o meno lo stesso e parte più o meno dal livello degli indiani. Quindi vuol dire che i due dovrebbero produrre tra un po’ di anni (10, 15 , 20, 50 anni) tra  20 e 30 milioni di tonnellate di acciaio, ossia 20 o 30 volte di più di quanto tutto il mondo produce oggi.

Come se ne esce non è chiaro, come non è chiaro come si esca dal problema dell’inquinamento. La Cina è ormai il secondo inquinatore del mondo, seconda soltanto agli USA, in specie per quanto riguarda l’atmosfera, cioè il biossido di carbonio. Si stima che le emissioni inquinanti della Cina tra il 2012 e il 2015, cioè tra 5 ed 8 anni, si saranno moltiplicate per quattro, ossia saranno 3 volte e mezzo l’inquinamento attuale degli USA che probabilmente non aumenterà di molto perché comunque l’industrializzazione degli USA è ferma o semmai regressiva. Come si sostiene un modello di industrializzazione in cui l’inquinamento dell’atmosfera raggiunge questi livelli?

Anche qui la domanda: è possibile fare di questo un tema politico? Il problema della Cina, il problema delle Nazioni Unite, si può mandare un messaggio al Parlamento europeo o alla Commissione europea. Però bisogna poi entrare nei dettagli. La Cina, compreso l’inquinamento della Cina, i suoi consumi insensati, è in grandissima parte un prodotto dell’occidente. La Cina è ormai il secondo esportatore del mondo, ma circa il 50 % delle esportazioni sono il prodotto di imprese occidentali prodotti in Cina e poi importati in Europa e negli USA perché i salari sono di 60, 70, 80 dollari al mese. Praticamente molti oggetti in circolazione, a cominciare dai computer (ormai l’85 % dei computer portatili) vengono prodotti ad alti livelli di qualità in Cina, ma sono poi i portatili HP, IBM, Sony e molti altri. In sostanza dicono le statistiche del commercio internazionale che metà delle esportazioni cinesi non sono esportazioni cinesi, in realtà sono esportazioni occidentali.

Le fabbriche in cui si produce, lavorando come minimo 60 ore, ma anche 70-75 ore alla settimana, spesso 7 giorni alla settimana, a salari che vanno dai 70 dollari ai 100-110 dollari al mese sono per il 70-80 % fabbriche occidentali, o anche giapponesi in certi casi, ma in gran parte americane e occidentali, spesso gestite da top manager italiani, francesi, tedeschi che poi vanno in comitiva a Bruxelles a chiedere dazi sulle importazioni cinesi, i cui prezzi sono scandalosamente bassi. Questo vuol dire di nuovo linee di politica industriale, vuol dire problemi di localizzazione, vuol dire politica a livello europeo perché l’Europa sta diventando la prima economia del pianeta. Siamo 450 milioni, con i nuovi arrivi e siamo ancora un po’ al di sotto dei 12-13 mila miliardi  di dollari degli USA, ma ci stiamo avvicinando. La prima economia del pianeta se vuole anche essere la prima entità politica del pianeta, probabilmente deve porsi temi di quest’ordine. Si tratta di vedere se l’Italia come soggetto importante dell’Unione Europea ha la capacità, la forza, la voglia di proporre, di mettere in agenda anche questi temi.

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