Salvatore Natoli. La salvezza senza fede.

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Nel volume che oggi presentiamo, La salvezza senza fede, edito da Feltrinelli nel 2007, Natoli confronta la sua proposta, la sua “etica del finito”, con le forme di etica religiosa che gli sembrano più interessanti, in particolare con l’etica cristiana, in tal modo mostrando certo le notevoli vicinanze ma soprattutto le abissali distanze tra etica del finito e etica cristiana. Allora si comprende subito la rilevanza di questo libro, e il suo necessario spessore filosofico, commisurato alla grandezza dell’argomento. Si tratta infatti di un testo particolarmente denso, forse di lettura meno immediata e accattivante di altri libri di Natoli. Il libro è diviso in tre parti, precedute da un’importante Introduzione.

Salvatore Natoli. La salvezza senza fede.

1. leggi il testo dell’introduzione di Roberto Diodato

2. leggi la trascrizione della relazione di Salvatore Natoli

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introduzione di Roberto Diodatorelazione di Salvatore Natoli – prima domanda – risposta di Salvatore Natoli – gruppo di domande – risposte di Salvatore Natoli e conclusione

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Testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Salvatore Natoli

Qualcuno certamente ricorderà che Salvatore Natoli persegue e pazientemente costruisce da anni e in diversi volumi, alcuni dei quali presentati anche qui al Circolo Dossetti (per esempio Progresso e catastrofe. Dinamiche della modernità e La felicità di questa vita) la proposta di un’etica del finito, un’etica della quale Natoli ha impostato i fondamenti nell’introduzione del libro I nuovi pagani, ma che da allora tenta di pensare organicamente, nella determinatezza dei suoi contenuti. Si tratta del progetto di un’etica che non sia appoggia alla fede in un Dio, né alla speranza di una vita eterna. Si tratta della felicità di questa vita, e basta; e la dimensione etica appare come aspetto radicale della vita, fin dalla nascita, poiché noi non siamo puro inizio: il venire al mondo (come a suo tempo Natoli ha spiegato nel libro La felicità di questa vita) equivale infatti a un “essere posti”, e dunque nascere è l’origine di una relazione e in generale è l’aprirsi della relazione uomo-mondo. La nascita racconta l’originarietà di un legame, un legame che pone innanzitutto la nostra fondamentale finitezza, poiché esprime immediatamente che noi non siamo autosufficienti a esistere, ma esistiamo solo in quanto siamo nella relazione e siamo mantenuti in essa. La relazione uomo-mondo  – ci insegna Natoli – non è mai una relazione astratta soggetto-oggetto: è, fin dall’inizio, essere con altri; dunque, possiamo dire, nella nostra origine troviamo la “comunità”. La comunità è anzi “originaria”, si dispiega come ambiente umano imprescindibile che segna la nostra appartenenza e con essa la nostra identità, la nostra individualità. Questo è il nostro “mondo”.

Ma ora, nel volume che oggi presentiamo, La salvezza senza fede, edito da Feltrinelli nel 2007, Natoli confronta la sua proposta, la sua “etica del finito”, con le forme di etica religiosa che gli sembrano più interessanti, in particolare con l’etica cristiana, in tal modo mostrando certo le notevoli vicinanze ma soprattutto le abissali distanze tra etica del finito e etica cristiana. Allora si comprende subito la rilevanza di questo libro, e il suo necessario spessore filosofico, commisurato alla grandezza dell’argomento. Si tratta infatti di un testo particolarmente denso, forse di lettura meno immediata e accattivante di altri libri di Natoli. Il libro è diviso in tre parti, precedute da un’importante Introduzione.

La prima parte si intitola Ethos tragico, è una riflessione sulla categoria del tragico, distinta dalla tragedia come genere letterario e colta da Natoli come “spirito” della grecità, o almeno di quell’aspetto della grecità che l’autore ritiene più significativo. Rispetto all’ethos tragico, che essenzialmente consiste nella consapevolezza destinale di una circolarità metamorfica e incessante tra vita e morte che trapassa qualsiasi individualità esibendone il valore proprio nel suo essere radicale contingenza (“I greci si sentono parte e momento della più grande e generale natura, crudele e insieme divina, si sentono momento di quell’eterno e irrefrenabile fluire, ove non vi è differenza tra bene e male allo stesso modo in cui il dolore si volge nella gioia e la gioia nel dolore. La vita è lacerazione: essa è il movimento della contraddizione. Chi volesse emanciparsi dalla contraddizione uscirebbe dalla vita”), Natoli mostra la differenza del cristianesimo come teoria o visione essenzialmente antitragica del mondo. Il tragico greco è stato anzi ucciso, secondo Natoli, dal cristianesimo, il quale è piuttosto caratterizzato dalla paradossia, consistente nell’abbandonarsi a Dio, nello scommettere su Dio nonostante il dolore: per il cristiano insomma “la storia è guidata da un disegno e, soprattutto, alimentata da una promessa che va oltre ogni disperazione: la redenzione del mondo dal dolore e dalla morte”. Al contrario per l’uomo greco: “fuori dal mondo non c’è destino né salvezza; egli è lontano da qualsiasi escatologia e da qualsiasi soteriologia a esse connesse”. Proprio per questo, argomenta Natoli, la sapienza tragica è insieme etico-politica, perché lo spazio della polis è quello residuale in cui costruire una misura stabile della giustizia e una serenità etica, in qualità di luogo che la decisione politica può almeno provvisoriamente garantire: come equilibrio dei conflitti,  come custodia del bene comune e della vita dei cittadini.

La seconda parte si intitola Dalla fine dei tempi al tempo senza fine, e indaga l’esperienza del tempo e quindi del divenire, nelle sue figure fondamentali, che sono innanzitutto figure della storicità. Il tempo storico, spiega Natoli, “consiste propriamente in un’esperienza qualitativa del tempo, a partire dall’effettualità del divenire”, e la figura è ciò che esprime il significato del tempo, in certo modo sintetizzandolo con lo spazio con cui il tempo fa luogo, diventa luogo dell’abitare umano. “Figura” è per Natoli la dimensione simbolica del tempo, che ne raccoglie le determinazioni in un’unità di senso, unità ideale o significato fondamentale e  tutte le figure di tempo portano con loro un’idea di salvezza. Le figure del tempo che Natoli rileva sono soprattutto tre: Il télos, che indica un tempo ciclico che è al tempo stesso compimento, fine, meta. La figura è solo apparentemente contraddittoria: dice che il tempo non può procedere all’infinito verso un fine, come se si disponesse lungo una retta potenzialmente infinita, ma acquista senso dal suo essere perfetto e quindi conchiuso, ciclico, eppure infinito e quindi eternamente ritornante su sé medesimo, ciclico appunto, perciò “La filosofia del télos esige unicamente che si attenda ciò che può tornare; e ciò che torna è la continuità della physis. La temporalità classica allarga il passato, contrae il futuro, valorizza soprattutto il presente … Per questo la filosofia classica è eminentemente contemplazione. Se infatti ciò che avverrà è, in un certo senso già avvenuto, solo conoscendo il già avvenuto si avrà la misura di quanto accadrà. Sapienza è conoscenza di questa catena”. Altra figura rilevante del tempo è lo skopos, che a differenza del télos coniuga il tempo al futuro ed è caratterizzato dalla decisione dalla intenzione soggettiva. Si tratta del tempo propriamente umano, il tempo dell’uomo che si dà una meta valutando le possibilità di raggiungerla. Il futuro della skopos è quindi relativo, e non assoluto, vincolato alle condizioni del presente che consentono la scelta. La temporalità propria dello skopos è allora il kairos, il tempo opportuno, implica la necessità di selezionare un fine per la propria vita e, in base alle possibilità di realizzarlo, di eleggerlo a scopo. La scienza che procede a questo legame, che è articolazione tra passato e futuro, visione del futuro nel suo radicamento presente, è la saggezza. La terza figura del tempo esaminata da Natoli è l’éschaton, il tempo divino, o meglio l’intreccio tra tempo del mondo, tempo dell’uomo e tempo divino, dove quelli sono visti alla luce di questo. E’ l’apertura di una temporalità in cui l’uomo vive il presente dal punto di vista della fine, di un futuro assoluto che da lui non dipende, un futuro che ha la forma di un progetto trascendente la volontà umana. E’ questo il tempo ebraico-cristiano: Natoli cita al proposito Kierkegaard per sostenere che questo tempo escatologico annulla il tempo “profano” poiché lo riduce ad apparenza: l’éschaton “infrange l’autonomia del kairos”. Si tratta insomma dell’onnipotenza divina: “Dio vuole il mondo e lo pensa ab origine secondo il suo disegno. Nulla di ciò che è esce dal disegno divino… A partire dall’unità di Dio e dall’assolutezza della sua volontà, télos e skopos vengono a coincidere nella figura dell’éschaton. In questa configurazione del tutto nuova e originale il télos perde il suo carattere di svolgimento ciclico e uniforme della natura, e lo skopos perde il suo carattere di proponimento, ossia di mezzi opportuni per mezzi altrettanto relativi”. Ma nella modernità e con il processo di secolarizzazione ecco farsi luce una ulteriore forma di temporalità: l’utopia, che “risulta dallo slittamento della nozione di skopos su quella di télos… nasce nel momento in cui l’uomo, o più propriamente l’umanità espressa dall’Europa mioderna, si pone come obiettivo la trasformazione del mondo secondo un’idea generale di razionalità … L’Utopia coincide essenzialmente con lo spirito borghese, ed è possibile all’interno di una laicizzazione del mondo e di un tempo misurabile solo attraverso la progettualità umana” Questa utopia capace di progettare mondi nei quali le scienze, le tecniche e i saperi umani potranno alleviare il dolore di vivere diventa mentalità progressiva, aperta al mito anche rischioso del progresso, della liberazione dall’imperfezione e dal difetto. Ma se la secolarizzazione utopica viene applicata all’éschaton allora produce la temporalità della rivoluzione: della speranza di una salvezza immanente e umana, che può assumere volti diversi, anche quello demonico di una promessa di rigenerazione che pretende di essere compiuta attraverso una proiezione dell’umano nell’onnipotenza propria solo del divino.

La terza parte del libro, breve e quasi una ripresa e approfondimento dei temi posti nell’Introduzione, dopo le parti centrali più analitiche, si intitola significativamente rispetto al titolo generale dell’opera L’esperienza del divino. A me pare che in effetti l’introduzione e questa terza e ultima parte dicano l’essenziale (sul quale non riesco a essere d’accordo con Natoli). Presento allora insieme l’introduzione e la terza parte.

L’introduzione si intitola programmaticamente Per un’etica del finito: si tratta di un’etica che non ha a che fare direttamente con gli obblighi e con le norme, ma con i costumi e le abitudini, quindi in generale con quell’abitare la terra che è proprio dell’uomo; perciò, scrive Natoli: “L’etica prima ancora di configurarsi nei termini del dovere si configura in quelli del senso: essa si determina come quell’orizzonte intrascendibile della comprensione, che solo rende possibili intenzioni e azioni. In breve, esiste un mondo solo a partire dall’apertura di senso che lo costituisce o in base a cui esso stesso si istituisce. Ora è proprio in forza di questa apertura che le azioni possono essere definite “buone” o “cattive”, a seconda che convergano o divergano da essa. Se è così il criterio dell’azione è definito dall’interpretazione”

Si noti che questa è una presa di posizione radicale, che sta alla base dell’etica del finito: esiste un orizzonte intrascendibile della comprensione, o se vogliamo una precomprensione che funziona come trascendentale, all’interno del quale ciò che chiamiamo mondo, l’insieme di tutti i significati e delle forme di valore che via via si determineranno, può apparire. (E’ chiaro però che altro è sostenere  che sia il modo stesso a istituirsi in base a un’apertura di senso altro è dire che esiste un mondo solo a partire da una inevitabilmente soggettiva apertura di senso: chiederei a Natoli quanto sia radicale il suo costruzionismo, perché tale misura di radicalità incide sulla libertà dell’interpretazione e quindi e sui criteri e sui giudizi di valore dell’agire umano); ovviamente per un credente, per esempio per un cristiano, l’apertura di mondo è soggettiva e radicalmente individuale, ma non soggettivistica, in quanto il soggetto riconosce per fede un senso che lo trascende). Per Natoli “Etica del finito significa dunque comprendersi a partire dalla propria finitudine. II neopaganesimo, cosI considerato, è costitutivamente non cristiano senza perciô dover essere necessariamente anticristiano”; ma perché l’etica del finito sarebbe costitutivamente non-cristiana?

Natoli distingue due tipi di etica del finito: “Ii cristianesimo, al pari del paganesimo, tematizza la finitudine dell’uomo, ma la definisce e la fonda in un modo radicalmente diverso da esso.  Il cristianesimo postula dunque un’etica del finito, ma, a differenza del paganesimo, l’uomo e in generale gli enti non sono caratterizzati da una “finitudine naturale”, bensl da una “finitudine creaturale”. Nel cristianesimo l’uomo è finito non tanto perche è mortale, ma perché è creato.”

Ora Questo è certamente esatto: la finitudine umana per il cristiano è creaturale; il punto è che Natoli trae da ciò alcune conseguenze, sulle quali non concordo, e che mi sembrano meritevoli di discussione. Mostro le conseguenze allora proprio per lasciare la parola a Natoli e per aprire il dibattito. Scrive Natoli: per il cristianesimo “l’uomo, e in generale il mondo, esistono non tanto perché sono capaci di consistere da sé in sé, ma perché sono tenuti in essere da Dio. Senza Dio tutto sarebbe nulla, o più esattamente,  nulla sarebbe. La finitudine creaturale istituisce e fonda la creatura in “altro da sé”, tanto è vero che se Dio abbandonasse quel che ha creato ogni co-sa diverrebbe preda del nulla. La creazione avviene, appunto, ex nihilo: dal nulla. II non espresso di questa formula, la sua verità recondita, e che tutto ciò che esiste al di fuori di Dio è in sé e per sé nulla.” Da questo assunto che appartiene alla riflessione metafisica Natoli trae una potente conseguenza culturale: “Se ciò è vero, e proprio nella postulazione di un essere preservato da sempre e per sempre dal nulla che il nichilismo trova la sua radice e il suo principio. L’enfasi del nulla è conseguenza di un’indebita assolutizzazione del positivo, e come tale ne rappresenta il rovescio e insieme la nemesi. L’idea che vi sia un essere che respinge da sé originariamente e definitivamente il nulla rende inconcepibile la relatività delle cose. Ora, poiché le cose non sono comprese a partire dalla loro naturale relatività, poiché non sono lasciate riposare in essa, dilaga il nulla”.

Insomma il cristianesimo, che è storicamente una religione che afferma, contro il pensiero greco, l’idea di creazione, sarebbe l’origine e il senso ultimo del nichilismo. Ciò ha ovviamente conseguenze notevoli in ambito etico, perché rende le cose in loro stesse prive di valore, e quando, col moderno processo di secolarizzazione “viene progressivamente meno la certezza di Dio…. nel progressivo dileguare di questa certezza il mondo prende sempre di piü i colori del nulla. Cresce il deserto, la denigrazione della terra si incrementa in uno con la disperazione della propria salvezza.”

Che le creature siano “nulla” spiega secondo Natoli il motivo per cui “uno dei contrassegni fondamentali della vita cristiana sia l’humilitas: l’umiltà. Humilitas da humus, che significa terra, polvere. Ricordarsi sempre che si è fatti di terra, che si è fatti per la corruzione, che si è fatti di niente”

A tutto ciò si contrappone l’etica greca del finito, alternativa al nichilismo cristiano, che è “un’etica della finitudine, ma in essa il finito, nel momento stesso in cui è assunto come finito, è anche concepito come sufficiente a se stesso. La misura della finitudine è solo Ia morte. Tutto ciò che nasce è destinato a perire, ma il fatto che tutto perisca non vuol dire che non sia degno di vivere. Ogni cosa ha il suo tempo, e perciò bisogna vivere “a tempo”, non bisogna lasciarsi sfuggire la gioia che l’occasione offre.” Questa etica secondo Natoli rende possibile il sentimento della pietà, pietà per le cose che passano, pietà per la loro contingenza e cura del loro prezioso apparire.

Questi temi, in particolare l’analisi del cristianesimo come esperienza della trascendente potenza del divino e del suo evento, Natoli li approfondisce nella terza parte, che meriterebbe un esame dettagliato che ora non posso fare. Ma il senso resta questo: il cristianesimo è fondamentalmente nichilista e non permette di valorizzare le cose (gli esseri umani e tutta questa bella famiglia di erbe e di animali) per il loro proprio valore, perché questo valore ontologicamente non esiste, al contrario dell’etica pagana del finito, che questo valore massimamente apprezza e custodisce, salvaguardandolo attraverso pratiche di vita buona e felice.

Personalmente non trovo persuasivo il nesso posto da Natoli tra cristianesimo e nichilismo: a me pare che nell’idea di creazione si esprima un senso potente dell’alterità: Dio crea l’altro da sé con solo se stesso. Questo è il senso della parola infinito, altrimenti incomprensibile come positività. L’alterità, la creatura, è consegnata al suo essere altro, e dunque a una libertà che Dio stesso non può togliere, ma al tempo stesso è compresa in una relazione col creatore, una peculiare partecipazione che rende degna, anche la creatura infima e trascurabile, ma proprio in se stessa e nella sua alterità, di infinito rispetto e di pietà per il suo sofferente divenire. Natoli non approfondisce, almeno in questo libro, sia a struttura trinitaria del Dio cristiano, non interpretando in questa luce la teoria dell’imago Dei, sia la questione dell’incarnazione. Entrambe giustificano sia un senso propriamente cristiano del tragico (come ha insegnato per esempio von Balthasar), sia che il cristianesimo si basa su un incontro con un Dio vivente, che si dà nel finito, e che accoglie le sue creature in una relazione paterna e filiale. E se il Padre si rivela attraverso il Figlio, allora la potenza del divino è quella esemplificata dal Figlio, e acquista un senso differente, che entra a costituire il significato più proprio dell’umiltà.

Trascrizione della relazione di Salvatore Natoli

Io ringrazio Roberto per questa esposizione analitica, attenta, compiuta che ha colto, a mio parere, con estrema chiarezza i passaggi decisivi fondanti del libro. Comincerò a rispondere alle obiezioni, o per lo meno alle questioni che ha posto, e poi nei dettagli si potrà evidentemente approfondire il tutto parlando fra di noi.

Ci sono due punti importanti di questo suo commento. Uno relativo alla interpretazione, al costruzionismo, la differenza fra soggettività e soggettivismo, e questo mi permette di chiarire e di riprendere la nozione di figura. Il secondo, la tematica ontoteologica.
Dunque, “ethos” è abitare. Fondamentalmente, è Aristotele che lo dice. Esiste tutta una semantica che collega l’ethos all’abitare; anche la radice stessa indo-europea di ethos, in altre occasioni ne ho parlato, è una radice da cui vengono fuori termini familiari e sopra tutto familiari incrociati come “cognato”, “genero”: è la radice indoeuropea “svè”, da dove vengono fondamentalmente termini familiari incrociati e poi un termine singolare che è “ilios”.

“Svè”, in latino sumus che può essere considerato in due modi: sumus in quanto “appartenente a” quella rete familiare o a una comunità, sumus nel senso che qualcuno è nella comunità, e, nell’altro aspetto come “proprio”, come “appartenente a se stesso”. Quindi diciamo che l’etica è appunto questo relazionarsi nella forma di “appartenere a” e di un appartenersi. In questo “appartenere a” e appartenersi c’è una tensione perpetua, perché in quanto io voglio appartenermi, io sono io stesso, tendo a staccarmi dall’ ”appartenenza a”.

Nella modernità poi questo perviene ad una radicalità: all’emancipazione del soggetto, si arriva da una parte all’individualismo contemporaneo, all’essere sufficienti a sè, staccato dai legami, portando a delle aberrazioni perché l’individuo da solo non è sufficiente per il fatto stesso che non si dà la vita, appartiene ad una comunità. Dall’altro lato, le comunità, e questo lo vediamo oggi nei fondamentalismi, tendono a trattenere i soggetti, a non farli crescere nella loro singolarità, a ridurli, a contenerli in schemi autoritari. Ma in questo modo le stesse comunità nella storia si impoveriscono, come Saturno che mangia i suoi figli. Se la comunità non libera le
soggettività che in essa si generano alla lunga si impoverisce.

Tanto è vero che Levi-Strauss ha dimostrato nelle struttura della parentela che i sistemi cranici crescono se si incrociano. I fenomeni endogamici sono fenomeni impoverenti. Quindi le comunità devono produrre scambio, articolazione, ed è chiaro che in questa dimensione dell’etica, l’elemento che produce dissoluzione è la pretesa della singolarità di staccarsi dall’appartenenza, di sussistere per se stessa. E la pretesa della comunità di non permettere la crescita di un soggetto li impedisce. Le tensioni procurano libertà perché in questa tensione fra l’”appartenere a” e l’appartenersi c’è innovazione, quindi le comunità cambiano e cambiano perché i soggetti delle comunità che di volta in volta appaiono, cioè i singoli, le trasformano.

Quindi c’è anche una dimensione diacronica. In genere le comunità si trasformano in senso spaziale perché alcuni gruppi incontrano altri gruppi umani e si problematizzano, e una delle problematizzazioni più tremende è la guerra perché non si capiscono. Quindi, si tratta di un’articolazione degli spazi, quando l’operazione riesce si fondono e abbiamo l’ampliamento delle culture, e in modo diacronico perché nel ricambio delle generazioni si producono delle trasformazioni evolutive. E questo è lo schema di Levi-Strauss.

E qui c’entra la figura. Che cosa vuol dire “appartenere a”? Vuol dire una cosa molto semplice e inevitabile. Un bambino nasce ed è nutrito dal seno materno, consideriamo per esempio la convenzione più naturale. Le modalità di questo nutrimento già cambiano per il modo, la durata e il tempo; si sta al seno materno in modi diversi, e nelle società tecnologiche si è arrivati al punto in cui il seno materno era stato addirittura eliminato e sostituito attraverso delle protesi.

Quello che voglio dire è che già nella nascita c’è una ritualizzazione del comportamento: gli orari, i tempi di assunzione del latte, ecc. Questo appartiene alle forme di vita di una comunità, le mamme hanno appreso dalle mamme. Poi il bambino cresce, comincia a mangiare, a muoversi e gli si insegna come deve fare. Ecco, le etiche sono fondamentalmente queste: sono pratiche di vita per amministrare la vita. E quindi, fondamentalmente sono strategie di vita: io ti insegno un certo comportamento, un certa regola, perché attraverso questa regola tu ti possa realizzare, tu ti possa sviluppare e non nuocere.

Poi è chiaro, per venire all’esempio finale, che quando l’individualità si costruisce, comincia ad adottare un suo stile e quindi tende a divergere, però non si potrebbe vivere mai senza regole, perché senza regole ci sarebbe il disordine e la dissoluzione. Le regole si possono trasformare, quindi ci sono riti che organizzano le vite; poi in qualsiasi civiltà i riti sono connessi ai miti, cioè a dire che in ogni civiltà un rito è inteso come eterno, come immemorabile. Nelle nostre culture questo accade meno perché siamo nella civiltà della mobilità, ma anche in queste nostre culture ci sono le cosiddette fazioni familiari. Nel rito c’è qualcosa di immemorabile, c’è un racconto che lo sostiene, tutti racconti di fondazione.

Ecco perché non possiamo mai separare riti da miti. E i racconti di fondazione che cosa sono? I racconti di fondazione sono racconti sull’origine e la generazione del mondo, e quindi qualsiasi comunità vive dentro una rappresentazione del mondo, e la rappresentazione del mondo in cui una comunità vive dentro, in cui gli uomini vivono, è il mondo della comunità di appartenenza. Ecco la nozione di figura. La figura cosa è? La figura è quella comprensione del mondo in cui origine, fine, mezzo, destino diventano il riferimento di senso della vita. Quando si era in una società cristiana si insegnava al bambino che in effetti c’era questa vita, poi c’era il paradiso, c’era la risurrezione, cioè tutto il vocabolario cristiano e questo vocabolario cristiano era un vocabolario di credenze non astratte ma incideva nella vita stessa.

Prendiamo per esempio l’idea di peccato, di colpa, e dell’inferno. Queste dimensioni erano dimensioni che in una società secolarizzata non ci dicono più nulla ma in alcune culture questo era molto pesante e creava addirittura anche dei blocchi. Oppure il perdono: se c’è colpa, c’è anche il perdono, oltre al rituale consolatorio della confessione che era anche poi una ispezione della condotta. Quindi, rito, mito e senso stanno insieme. E quando io parlo di origine del mondo e fine del mondo introduco la nozione di tempo: noi viviamo in un mondo, da dove viene questo mondo? Chi ha fatto questo mondo? In genere tutte le civiltà hanno dovuto dare allo “stare al mondo” una configurazione in cui l’uomo nella sua breve vita sapesse qual è il posto tra un inizio e una fine. Ovvero, questo mondo ha senso
perché ha origine e destino. Tutte le grandi mitologie e le forme di vita religiosa sono stati gli orizzonti di senso che hanno permesso agli uomini di orientare la propria vita.

Questo accade anche oggi, in un altro modo perché quando gli uomini non riescono dare senso alla propria vita impazziscono, non riescono a darsi un senso e dare un significato alla propria vita. Io parlando del tempo introduco tre distinzioni relative all’esperienza che noi abbiamo del tempo. Noi abbiamo un’esperienza variegata del tempo, basta leggere la Recherce di Prust per vedere come l’esperienza temporale è piena di nuance, ma ci sono almeno tre dimensioni dell’esperienza del tempo.

Una è quella che io chiamo il sentimento del tempo: il sentimento del tempo non ha caratteristiche cronologiche ma appartiene alle protensioni emotive dell’uomo. Io aspetto una persona che non vedo da tempo e non vedo l’ora di rivederla; per quanto il tempo sia breve mi sembra lunghissimo. Sto con una persona che mi è antipatica e non vedo l’ora che se ne vada, anche in questo caso il tempo breve mi sembra lunghissimo. Sto con una persona che amo, passano le ore e sembra che sia un istante. Quindi l’esperienza del tempo diventa vissuto, il tempo lo senti più o meno lungo a secondo che per te agevoli il rapporto: la misura del tempo è lo stato dell’anima.

Però, sin dagli esordi le comunità hanno avuto bisogno di una misura del tempo intersoggettiva: se devono darsi un appuntamento gli uomini devono avere il luogo ed il tempo. La prima forma oggettiva di tempo, che il tempo misura, sono stati i cieli; perché il moto dei cieli era l’unico moto uniforme per tutti: stabilire l’ora voleva dire orientarsi nella posizione del sole e questo valeva per tutti quelli che vivevano sotto il sole. A partire da lì si è sviluppata una dimensione del tempo che è quella che poi sembra la più dominante, il tempo come ritmo, scansione, misura e quindi dal sole ai nano-secondi, a seconda di quello che si vuole misurare: la distanza, il tempo che si impiega, quindi il tempo anonimo della misura. E tra l’altro è un tempo reversibile il tempo anonimo della misura perchè noi, quando facciamo storia, contiamo gli anni in avanti o li contiamo indietro: 3.000 avanti Cristo, 2.000 dopo Cristo.

Il tempo come misura, numerico, è uguale perché gli anni sono uguali al passato, sono uguali al futuro, i secondi sono uguali al passato. La misura è quindi reversibile: noi raccontiamo la storia con la stessa misura in cui raccontiamo il presente e immaginiamo il futuro. Quindi il tempo della misura è un tempo senza qualità. Ma se noi misuriamo il tempo di una vita, a 20 anni, a 30 anni, a 40 anni, di intuito senza pensarci troppo, sappiamo che “20 anni” voglion dire viso fresco, corpo agile; “80 anni” di intuito vuol dire capelli bianchi, dolori articolari, difficoltà a camminare anche se si è vecchi arzilli. Capite bene che quando noi qui diciamo “20 anni”, “40 anni” non esprimiamo una misura, ma un processo irreversibile. Ecco, allora la misura applicata al vivente indica processi di irreversibilità. Qui il tempo prende un carattere qualitativo.

Ma c’è una dimensione più profonda del tempo che è quella della figura. La figura ha l’universalità della misura ma ha anche il sentimento e la qualità della percezione. Un esempio semplice che ci porta nel cuore del libro: a Palermo, dentro al Palazzo di Giustizia ci sono un orologio e una scritta: “perent sed imputantur” ed è riferita alle ore che passano, queste ore passano ma sono contate.

Contate relativamente a che cosa? Relativamente, per stare al cristianesimo, alla propria salvezza. Nello scorrimento del tempo non c’è un momento del tempo che non valga per la propria salvezza e per la propria dannazione. Evento privato, assolutamente privato, ma assolutamente comune perché soltanto nell’orizzonte del cristianesimo ogni momento è tempo di salvezza o tempo di dannazione perché se non ci fosse l’idea di salvezza e di dannazione questo tempo non sarebbe “imputatur”.

Verrà nel Giudizio quel momento in cui Dio, Cristo ti chiederà conto di un momento della tua vita. Allora capite bene che qui abbiamo l’elemento figurale, senso e destino della storia. Morte e giudizio, e l’elemento assolutamente singolare: io che mi danno, io che mi salvo.

Vivere il tempo in questo modo vuol dire viverlo dentro una figura. Quale è la figura? E’ la religione. I Greci, come è stato detto, non vivevano il tempo dentro la figura della salvezza o della dannazione. Ma nel cristianesimo c’è di più: questo tempo finirà. Tutti voi recitate il Credo, e soprattutto i grandi musicisti che hanno musicato le messe, “passus et sepultus est”, note gravi, e poi le orchestre esplodono “et resurrexit tertia die”. Lui. A voi il gran finale “et expecto resurrectionem mortuorum”, e aspetto la resurrezione dei morti. Ecco, secondo i secoli cristiani il tempo della storia è un tempo che finirà. perchè tutti entreremo nel senza tempo dell’eternità o
nell’altro tempo che sarà discontinuo a questo perché non più segnato dal dolore e dalla morte.

Questa è la figura del tempo, il sentimento del tempo in cui nei secoli i cristiani hanno vissuto e hanno accompagnato i loro morti nella certezza, anche dolorosa, che non erano morti per sempre. E che ci sarebbe stato un tempo in cui tutti, nella comunio sanctorum si sarebbero trovati insieme. Questo che cosa voleva dire? Sentimento privatissimo, un Dio morto dentro una figura che non era privata, ma era l’orizzonte di persuasione e di comprensione dell’intero della propria vita,

Questa è la figura del tempo: le nostre vite inscritte in un grande affresco che è il senso del mondo. I Greci non avevano questo senso, e qui vengo al punto, perché per i Greci il tempo del mondo non era un tempo che si sarebbe chiuso. Il mondo invecchia, diceva Agostino, ecco l’eskaton, e si entra in un altro tempo che è il tempo della beatitudine. Per i Greci il tempo era ciclico, non c’era una fine del tempo, ma un tempo senza fine in cui tutto torna allo stesso modo.

Tutto! Stiamo a vedere cosa vuol dire tutto. E qui Aristotele: tornano le primavere, fioriscono gli alberi, si producono le stesse gemme, nascono gli stessi frutti dell’anno prima , di due anni prima e di sempre: il tempo non porta novità, nel tempo le cose tornano come da sempre. E così l’uomo : le generazioni tornano, da uomo nasce uomo, eternamente. Tornano le stesse forme. Che cosa non torna? Non torna la singolarità presa per se stessa. Si generano figli, da uomo nasce uomo, ma io nella mia singolarità non torno. Quindi la caratteristica del ciclo è: torna l’uguale ma non torna il singolare e il singolare allora vale per il tempo della sua propria vita. O si realizza lì o non si realizza più. Non c’è un altro tempo per l’uomo in cui possa trovare una realizzazione, non c’è compenso, non c’è vita eterna.

Questa è la differenza fondamentale fra l’esperienza cristiana e quella greca. O ti realizzi qua o hai perso la tua vita. Capite bene che apriamo un capitolo molto importante della devozione, della teoria della devozione; qui non c’entra il cristianesimo, c’entra la vita cristiana dei piccoli. Nietzsche qui è cattivo, è tremendo quando dice che il cristianesimo è la religione dei deboli. Non è vero che sia la religione dei deboli, però lo è anche stata, perché un perdente, che ha patito un’ingiustizia sa che sarà compensato, che non resterà una vittima perdente per sempre, che ci sarà un giustizia che gli restituirà ciò che gli è stato tolto. E qualche volta anche noi, anche un illuminista, vorrebbe che ci fosse Dio per sanare i torti. Infatti nella tradizione giudaica l’immortalità dell’anima non è dimostrata attraverso una prova logica, quasi che l’anima fosse una sostanza incorruttibile (questo è un modello greco), ma nel giudaismo l’immortalità dell’anima nasce dal fatto che se la giustizia di Dio non è soddisfatta qui, deve essere pur soddisfatta altrimenti la “Thorah” è insensata. E’ per legge di giustizia che nel giudaismo l’anima è pensata come immortale.

Anche in Kant. Kant, da questo punto di vista, dice che ci deve essere un rapporto tra felicità e virtù perché altrimenti è irrazionale il mondo. E capite bene che il cristianesimo ha consolato, ma la grecità è stata spietata nel senso che nella storia ci sono i perdenti e questo è un elemento tragico: nella storia ci sono vittime non redente. Per questo dobbiamo creare una comunità politica che permetta agli uomini di potere trovare qui la loro felicità. E gli uomini devono stare nella polis perché la polis è il luogo della possibile realizzazione umana. Ecco perché la politica nel mondo antico è strettamente legata all’idea di bene. Oggi è una tecnica. Anzi la differenza fra il mondo antico e il mondo moderno è che nel mondo moderno la politica è nata per contenere il male, cioè evitare che gli uomini si distruggano reciprocamente. Nel mondo greco la politica era costitutivamente destinata a produrre il bene.

E’ chiaro che non è così in tutta la grecità perché in Platone abbiamo l’immortalità dell’anima. Però anche Platone stesso in fondo finisce la sua vita scrivendo le leggi, scrivendo “La Repubblica”, l’uomo che esce dalla caverna e vede il sole, torna nella caverna a liberare. Il compito è fondamentalmente di creare una repubblica dove si realizzi la felicità. Il modello platonico è la “repubblica”, le leggi e in fondo quello che gli interessava era questo mondo, anche se credeva che c’era un mondo dietro il mondo. Ma certamente per i tragici la vita era da realizzarsi qui con pienezza.

Allora nella ciclicità c’è qualcosa che non ritorna: la mia singolarità. La mia singolarità è in un tempo ed è in questo tempo che deve ottenere la sua pienezza, non in un altro tempo. Ecco quindi la dimensione del presente. C’è un verso di Pindaro che io cito sempre che è “le cose mortali ai mortali”, non vogliate essere come gli dei. Cose mortali ai mortali, e allora la vita diventa preziosa e tutto questo è un modello che torna nel neopaganesimo, che attraversa tutta la storia dell’occidente. Torna nel Cinquecento, torna in Lorenzo il Magnifico (“quanta è bella giovinezza, chi vuol essere lieto sia di doman non v’è certezza”). Solo che nel Cinquecento c’è l’ombra del nichilismo, la vita che passa, se passa c’è una malinconia. Nella dimensione del greco, no! Perché non è rilevante che passi, è rilevante il modo in cui la si vive e ci si realizzi in essa. Non la dimensione malinconica per ciò che trascorre, ma la dimensione tragica che dinnanzi al dolore dice all’uomo di essere più forte del dolore in quanto vita. Tu soffri perché sei vivente, se non fossi vivente non soffriresti.

E punta sul tuo lato vivente per battere il dolore e non diventare patetico. E la differenza tra gli uomini, per i greci, è data dalla loro capacità di soffrire. Teognide dice “reggi cuore ai mali più irresistibili, si fa tempo nell’anima dei vivi”. Questo è l’eroe greco. Altrimenti sarebbe il play-boy moderno, patinato. Nella statuaria greca voi vedete che c’è il discobolo perfetto, ma se voi guardate i guerrieri di Skopas vedete la forza, il volto stravolto dalla sofferenza, si vedono delle tauromachie, vedete questi corpi travolti dal dolore del mondo, che cercano di essere forti. E questo torna nei Prigioni di Michelangelo, di questi uomini che escono dalla pietra. Erano incompiute le opere di Michelangelo oppure non le compiva perché voleva lasciare il segno tragico in quella rappresentazione? Questo non è il neoclassicismo di Canova, un neoclassicismo sentimentale mortuario, corpi levitati e deboli. In Michelangelo corpi abbozzati e potenti. E come Aristotele dice nella materia già c’è la forma. Questa è crescita, e crescita vuol dire terra, il cristianesimo vuol dire cielo. Qui la cosa importante è in questo la dimensione diversa del cristianesimo.

Poi ci sono molti elementi di convergenza perché è chiaro, come ha già mostrato Roberto, che in ambedue i casi c’è la dimensione del finito. Anche nel cristianesimo c’è la morte, c’è l’immortalità ma si passa nel sentiero della morte, però la si vive diversamente. E, per il greco l’uomo è sempre vita e morte insieme. Come dice Leopardi “E’ a rischio di morte il nascimento”. Già nella nascita noi combattiamo per preservare la vita. E la vita è sempre tensione, la vita è battaglia, è combattimento; questa è la figura dell’eroe.

Anche nel cristianesimo c’è il combattimento, ma il combattimento nutrito fondamentalmente da una speranza. E qui il discorso sarebbe antropologico, sollevando alcune questioni: regge meglio al dolore il credente o il non credente? Soffre di più chi crede o chi non crede? Lasciamo stare se la situazione è risolvibile o se effettivamente si possa fare una differenza di tasso di dolore, questa è una cosa molto delicata, ma sorge la domanda perchè è chiaro che laddove è possibile una compensazione, la sofferenza è vissuta in modo diverso da dove la compensazione non c’è.

Qual è l’elemento positivo, l’elemento di affinità? Nel greco è la pietà, cioè custodire ed amare le cose nel loro tempo e nel cristianesimo è la bontà creaturale, cioè le cose create sono buone e quindi bisogna custodirle nella loro bellezza, farle fiorire nella loro bellezza. Quindi nel mondo greco la valorizzazione della vita perché è unica, modello eroico, nel mondo cristiano l’apprezzamento della bellezza perché qui il creato è buono e quindi bisogna fare in modo di mantenerlo il più possibile nella sua bontà. E quindi trovare quelle leggi naturali che permettono di custodire la sua bontà. Quindi da un lato l’atteggiamento di pietà, nell’altrol’atteggiamento di secondare la bontà.

Già dalla creazione l’uomo fu “posto nel paradiso perché lo custodisse”. E poi Francesco d’Assisi, il Cantico delle Creature, la bontà creaturale (Sorella morte). Quindi il mondo indipendentemente dal fatto che ci sarà una sua definitiva salvezza, già ora è buono perché le cose create sono buone. Non è che sono buone perché saranno riscattate, saranno riscattate perché sono buone perchè già nel progetto della creazione c’è la redenzione. C’è molta realtà, però c’è un diverso modo di viverla perché nel cristianesimo il tempo è una “preparatio” della vita ventura, nel greco invece il tempo è la realizzazione della propria vita . L’elemento della pietà e della bontà creaturale rendono vicine le due esperienze però il vissuto è radicalmente diverso, appunto nel cristianesimo non è tragico. Non tragico ma paradossale; il giudaismo il paradossale era al suo inizio, nel sacrificio di Isacco quando Dio ordina “Vai uccidi il figlio della promessa” e poi lo restituisce. Perché? Sembra che non ci sia ragione nel comando, ne nella redenzione: c’è una volontà che guida il mondo in base ad un superiore disegno a cui bisogna affidarsi e non capire. Ma anche Gesù non capisce. “Padre mio perché mi hai abbandonato?

E quindi il luogo della croce non è un luogo tragico come alcuni filosofi hanno detto ma un luogo paradossale perché l’uomo tragico non avrebbe così facilmente accettato una crocifissione e neanche Cristo l’accetta, però si abbandona. Ci sono quelli che interpretano il cristianesimo tragicamente, ma in modo non convincente, ma io spesse volte dico: prendiamo quel grido sulla croce, l’urlo: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” C’è una domanda, non c’è un’imprecazione, nella disperazione resta la confidenza nel Padre.

Ci sono degli atei che per rendere credibile il cristianesimo agli atei insistono sull’urlo e trasformano il Cristo sulla croce nell’urlo di Munch e teatralizzano la crocefissione. E abbiamo la filosofia contemporanea tutta centrata sulla teatralizzazione della creocefissione. Il cristianesimo è diventato Grunewald e non capiscono più il Cristo bizantino pantocrator non gli piace. Perché non gli piace il cristo bizantino pantocrator? Perché non capiscono il senso di quella icona, perché in effetti hanno smesso di essere cristiani. E nella storia dell’occidente, nel processo della secolarizzazione noi abbiamo avuto una progressiva teatralizzazione della croce che è diventata un’immagine del dolore umano. In alcuni c’è la dimensione della salvezza, però fondamentalmente abbiamo una teatralizzazione mondana, e quindi ecco il processo di secolarizzazione.

Il processo di secolarizzazione che cosa cambia? Cambia una diversa percezione del tempo. L’uomo greco sceglieva uno scopo (skopos): nel tempo della vita quali sono le cose che devo fare per realizzarmi al meglio? Qui c’è l’ambito della scelta, della responsabilità morale e politica; vivere al meglio, quindi scelte che permettano di realizzare la mia vita. Però l’ordine della natura da me non può essere trasformato, ecco la contemplazione. Il greco contempla non perché sia pigro ma perché sa che nella regolarità della natura non può mettere bocca. Soltanto se conforme alla natura si realizza il bene. I grandi cicli naturali non è possibile modificarli, quindi lo scopo si raccoglie dentro il theos: immaginate una circonferenza, immaginate un punto interno alla circonferenza che si innalza sino a raggiungere il perimetro della circonferenza, raggiunto il perimetro della circonferenza si piega con la circonferenza stessa. Non va oltre Cerchio, punto interno, si innalza, arriva al perimetro, scende lungo la circonferenza, il theos non può essere spezzato.

Nella modernità, lo scopo umano attraverso la tecnica e la politica rompe il theos e quindi rompendo il theos l’uomo si fa padrone lui dell’escatos, non Dio. Non è difficile capire questo perché ciò che una volta era intrascendibile, le condizioni estreme della vita, la nascita e la morte, oggi sono gestibili. Si può nascere quando si vuole, si può non nascere, si può prolungare la vita, non a volontà, però abbastanza, in ogni caso al di là di quanto la natura possa; e adesso con la genomica come andrà a finire non lo sappiamo, quale uomo può essere prodotto. Quindi la dimensione demiurgica non implica più la salvezza eterna, non più la conformità al ciclo, ma la dimensione assolutamente nuova, la potenza dell’uomo nel mondo al posto di Dio per cui l’uomo moderno non è più ne cristiano ne tragico.

Allora che cosa è? Qui si apre un discorso importante: o è delirio di onnipotenza, oppure deve essere un uomo capace di vivere al meglio la propria contingenza, cioè a dire non pretendere con la scienza di spezzare il theos, ma servirsi della scienza per realizzare al meglio la propria vita, non dimenticando la propria costitutiva mortalità. Ecco l’etica del finito. L’etica del finito è il governo della propria contingenza. Un tempo bastava essere conformi alla natura, oggi invece devo trovare io le soluzioni, io come singolo, io comunità su ciò che è meglio e che è meglio fare, valutare i rischi limitando la mia presunzione di onnipotenza.

Ultimo punto, il nichilismo. Quando io parlo della ontoteologia, parlo della creazione, parlo del modo in cui dentro la tradizione cristiana iniziale, dentro il cristianesimo, si costruisce un’argomentazione di modello greco. Cioè quando il cristianesimo soprattutto voleva parlare ai pagani, ai gentili e dire “guardate che noi non siamo una setta di invasati, non siamo la religione dei misteri, dei superstiziosi. Noi cristiani non siamo come gli adoratori di Osiride, noi pensiamo”, dal momento in cui il cristianesimo vuole presentarsi nel mondo greco-romano come una religione non magica, ha bisogno di trovare un linguaggio argomentativo per cui anche il pagano sia persuaso. E non esisteva altro linguaggio argomentativo che non fosse quello della filosofia greca, ecco perché il cristianesimo si ellenizza.

Il Credo è sostanzialmente il cristianesimo scritto nella lingua dei greci. La Trinità è il cristianesimo scritto nella lingua dei greci. Alberto ha detto delle cose molto belle sulla Trinità, io ho parlato con Bruno Forte e con altri, se voi leggete i Vangeli e lo stesso Paolo, la Trinità non c’è, non viene fuori. La Trinità è la prima grande macchina filosofico-logica che sia stata costruita dentro al cristianesimo. La Trinità è una macchina greca. Però, andiamo al punto: nella creazione indubbiamente c’è un qualcosa che non sussiste in base a se stesso. Nella creazione, parlo della versione giudaica, non nell’ontoteologia, il grande tema è sempre stato: perché Dio ha creato il mondo? Perché era solo, perché era un Dio scontento?

Qui i problemi gnostici. Le fantasticherie della religione su questo punto sono inesauribili perché ognuno spiega il perché. Allora Dio si è ritirato perchè il mondo fosse. La ragione cabalista, e perché si è ritirato? E perché doveva esserci l’uomo? Perché Dio era incompiuto. Allora tante bellissime tradizioni teologiche e Dio che nella creazione compie se stesso, ecc ecc. Sono queste per me grandi metafore dell’esistenza, tutte attraenti perché mostrano aspetti dei bisogni umani fino a quella dell’”immago dei”.

Nel mio libro “Io e il divino” ho scritto sull’ “immago dei” che sento l’uomo a immagine di Dio. L’immagine di Dio nella mia lettura non perché noi abbiamo un volto di Dio a cui l’uomo somigli, perché Dio è invisibile, ma ammesso che sia l’immagine di Dio solo Dio la vede, perché se l’uomo non vede Dio come fa a sapere l’immagine. La lettura che io do è che l’uomo è immagine di Dio perché è immagine di ciò che non vede e quindi è immagine di Dio per tutto ciò che gli manca, non per quel che è, ma per quel che gli manca. E’ immagine di un Dio che non c’è e che lui vorrebbe essere. E’ un calco negativo.

E allora vengo al punto: il modo in cui io leggo Gesù. Che cosa vuole essere l’uomo? Vuole essere l’ente che si realizza, che si riscatta dal suo dolore, dalla sua sofferenza, che esce dalla sua vita. E come ne esce? In un modo solo ne esce: facendosi salvatore dell’altro. Ognuno di noi diventa Gesù Cristo. Se per salvarsi pretende di salvarsi da solo non ce la fa, ma se dà la salvezza all’altro e nel reciproco venirsi incontro diveniamo divini perché ci liberiamo dal nostro egoismo, patiamo una crocefissione, la crocefissione del Dio onnipotente e diventiamo apportatori gli uni agli altri di salvezza donandoci.

E quindi per me Cristo non è un Dio che si incarna, ma è un uomo che mostra agli uomini la via da percorrere per diventare dei. L’autosalvazione attraverso la dedizione. Mentre per me hanno le caratteristiche del romanzesco i romanzi creaturali, Dio che si dona, Dio che da, ma qui ci sono delle pagine bellissime su Dio che ha creato Adamo che poi si è ribellato e allora lo punisce, ma poi lo salva…

Tra l’altro non sono banalità, sono delle antinomie perché mostrano la dimensione scissa dell’uomo, la salvezza dannazione, tutte le tematiche del male ma ci sono delle non gratuite fantasmagorie. Però direi che è un prologo in cielo che poi trova, secondo me, nell’incarnazione un’esecuzione in terra. L’esecuzione vera dove queste favole diventano potenza realizzativa, ecco veramente il perdono cristiano che è paradossale, che è paradossale nel mondo egoista. E che attraverso la crocefissione di se si possa condurre alla
salvezza, ecco questo è un cristianesimo che secondo me porta ad un livello più alto dei greci, un sentimento di pietà, perché va al di là del rispetto, radicalizza la vita, secondo me. Perché che gli uomini debbano aiutarsi, debbano essere custodi gli uni degli altri erano elementi presenti anche nel mondo antico, ma il cristianesimo radicalizza. In questo è in linea con altre dimensioni della storia del mondo perché anche un certa idea di buddismo ha come origine la pietà.

Però qui si aprono altri problemi che appartengono alla cristianità, tutto il tema della rinuncia, per esempio, che è buddista, è rinuncia al governo di sè. Ecco qui comincia tutto un terreno di contaminazioni che io ho rappresentato nella formula la felicità non è cristiana ma per ciò stesso non è anticristiana. Ma non solo non è anticristiana, non è anti in generale, nel senso che la dimensione del finito in quanto etica del finito è costitutivamente aperta all’alterità, altrimenti non avremmo l’etica del finito, perché quando il finito si pensa sufficiente a se stesso, si pensa all’infinito e quindi è schizoide. La vera etica del finito è l’apertura costante nello spazio mondo, incontro possibile con le altre esperienze.

E allora in questo emergono nette le differenze ma emerge anche la possibilità di una emendazione, di una scoperta della comune umanità; e allora da questo punto di vista possiamo pensare l’incarnazione come quella via che ci permette una più alta scoperta della comune umanità. In questo senso allora l’”eritis sicut dii” non diventa più una dimensione di onnipotenza ma diventa la via attraverso cui gli uomini vedono la loro esistenza sotto il segno della redenzione. E anche da questo punto di vista con Walter Benjamin io recupero la nozione di redenzione.

La redenzione non è un tempo redento in cui finirà il dolore e la morte, non è la fine della storia, ma è la lettura che Benjamin ed io diamo della idea messianica. Il messia è sempre promesso. Dice Benjamin: “è la porta da cui ad ogni momento nel tempo può irrompere il Messia”, e allora il Messia non è il venturo, il Messia è quella porta del tempo in cui ad ogni momento può irrompere la salvezza. Questo vuol dire che in ogni momento del tempo, innanzi al dolore, io devo pensare che quel dolore è redimibile e operare in questo senso.

Vedere il mondo sotto il segno della redenzione vuol dire non aspettare la redenzione alla fine, ma ad ogni momento vederlo sotto il segno della possibilità del suo riscatto. E quindi, evidentemente, da questo punto di vista, la pratica dell’incarnazione è il modo migliore di vivere in modo messianico il mondo, incarnare in ogni momento la possibilità che il mondo migliori senza aspettare la fine dei tempi. Non a caso Benjamin chiama questo “la fedeltà all’ora”. E’ il modo per riprendere il “kairos” degli antichi: la fedeltà al presente e il sì alla terra.

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