Pippo Ranci. Gli indicatori di competitività dell’economia italiana nel quadro del processo di Lisbona.

linea_rossa_740x1

Corso di formazione alla politicaIn questo volume, curato da Pippo Ranci e Andrea Forti, si esamina una delle questioni più rilevanti  connesse all’esame della questione economica del nostro Paese, e che inevitabilmente entra nel dibattito politico. La questione, in sostanza, è quella dell’ affidabilità di quei complessi indicatori economici che vengono pubblicati periodicamente da parte di importanti organismi internazionali ovvero da istituti di ricerca privati oppure da prestigiose testate giornalistiche, e che diventano subito oggetto di discussione nel nostro Paese (anche a causa del suo endemico provincialismo) rispetto alla posizione in cui di volta in volta l’ Italia risulta piazzata.

Pippo Ranci. Gli indicatori di competitività dell'economia italiana nel quadro del processo di Lisbona.

1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani

2. leggi la trascrizione della relazione di Pippo Ranci

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

presentazione di Giovanni Bianchi (4’16”) – introduzione di Lorenzo Gaiani (13’45”) – relazione di Pippo Ranci (1h17’10”) – prima serie di domande (9’49”) – risposte di Pippo Ranci (16’33”) – seconda serie di domande (11’32”) – risposte di Pippo Ranci (12’20”) – terza serie di domande (6’00”) – risposte di Pippo Ranci e conclusione (16’00”)

4. scarica il PowerPoint

le slide che Pippo Ranci ha mostrato nel suo intervento

linea_rossa_740x1

Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Pippo Ranci

I giusti parametri
Note a margine di “Gli indicatori di competitività dell’economia italiana nel quadro del processo di lisbona”.

Il testo che prendiamo in esame oggi è uscito nel 2008 e si riferisce a dati accertati fino all’inizio di quell’anno, prima cioè che scoppiasse in tutta la sua violenza la grave crisi finanziaria ed economica  che è tuttora in corso e che non accenna a finire, dispiegando nel contesto italiano i suoi effetti più deleteri soprattutto in termini di scarsa crescita e di distruzione di posti di lavoro.

In questo volume, curato da Pippo Ranci e Andrea Forti, si esamina una delle questioni più rilevanti  connesse all’esame della questione economica del nostro Paese, e che inevitabilmente entra nel dibattito politico. La questione, in sostanza, è quella dell’ affidabilità di quei complessi indicatori economici che vengono pubblicati periodicamente da parte di importanti organismi internazionali ovvero da istituti di ricerca privati oppure da prestigiose testate giornalistiche, e che diventano subito oggetto di discussione nel nostro Paese (anche a causa del suo endemico provincialismo) rispetto alla posizione in cui di volta in volta l’ Italia risulta piazzata.

Nella prefazione al testo Ranci ricorda che questo tipo di raffronti sono inevitabili e tutto sommato anche giusti e necessari, nel senso che la qualità del sistema democratico e la competitività del sistema economico non possono che guadagnare da un serio confronto rispetto alla dimensione internazionale. Si tratta di uno stimolo a far meglio, a valutare le performances dei Paesi affini al nostro e di confrontarle con le nostre, comprendendo le cause ed i meccanismi che sono alla base delle nostre arretratezze, sapendole leggere correttamente.

Per questi motivi, prosegue Ranci, occorre utilizzare come punto di riferimento anche in termini istituzionali il cosiddetto “processo di Lisbona” . Si tratta di una serie di obiettivi strategici fissati dal Consiglio europeo nel corso di una sessione che si tenne nel marzo 2000 nella capitale portoghese, basati sull’obiettivo di fare dell’economia europea “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro ed una maggiore coesione sociale”.

Obiettivi ambiziosi, come si vede, e a dir la verità mai revocati, formulati del resto nell’imminenza della entrata in vigore della moneta unica europea, l’euro, che sarebbe avvenuta il 1 gennaio 2002 quando aveva una qualche legittimità l’aspettativa di un governo dell’economia europea che evolvesse in qualche misura in una forma di governo politico, prima che l’affondamento del progetto di Costituzione europea costringesse a ripiegare su traguardi più modesti, e la crisi economica mettesse in forse persino l’acquisizione stessa di uno spazio monetario unico europeo.

E tuttavia, la necessità della lettura di questi indici e dei confronti che essi instaurano è evidente, anche se non sempre è facile comprendere alcuni elementi che vi stanno alla base, e che il volume di cui ci stiamo occupando ci aiuta a decrittare. In effetti, un indicatore di competitività è composto da una serie di dati che vengono raccolti ed assemblati analiticamente basandosi su due elementi fondativi, che nel linguaggio tecnico vengono definiti hard data (deficit pubblico, tasso di risparmio, inflazione, tasso di cambio reale effettivo, spread fra tassi creditori e debitori, debito pubblico) e survey data ( opinioni degli imprenditori intervistati sulla probabilità di una recessione l’anno seguente  e sul miglioramento/peggioramento delle condizioni di accesso al credito per la propria impresa).

In linea generale, credo si possa dire che la distinzione fra hard survey sia quella fra dati di fatto ed opinioni: opinioni magari anche molto qualificate, ma pur sempre opinioni filtrate dalla sensibilità personale, dalle paure, dalle speranze e anche dalla visione ideologica di chi le esprime, e forse anche di chi le raccoglie.

Non è un caso del resto che nelle conclusioni gli autori mettano in guardia da questo tipo di rappresentazioni della realtà, evidenziando come gli indicatori più affidabili siano sostanzialmente quelli che raccolgono “non opinioni ma informazioni puntuali e fattuali rispetto alla regolazione e all’insieme delle normative che incidono sull’attività economica” , mentre altri privilegiano “le opinioni soggettive degli intervistati, spesso espresse in risposta a domande molto vaghe e generiche” che “si riflettono in modo decisivo sul valore assunto dagli indicatori”.

Non è un caso che nella prima categoria, a giudizio di Ranci e Forti, rientrino gli indicatori forniti da organismi internazionali, come l’OCSE ( indicatore PMR) o la Banca Mondiale (indicatore Doing Business), mentre nella seconda rientrano indicatori di carattere più privato come quello copromosso dalla Heritage Foundation e dal Wall Street Journal.

Non è un caso che questo particolare indicatore sia il frutto della collaborazione fra una delle grandi roccaforti  dell’ intellighenzia  “neo-con” ed il giornale cui la destra economia e politica globale guarda come alla propria fonte di ispirazione. Rimando alla lettura delle pagine analitiche che il volume dedica a questo particolare testo che colloca il nostro Paese assai in basso nella sua classifica dedicata ai Paesi dove vige una maggiore libertà economica, intesa sotto il profilo della deregulation totale in materia di servizi pubblici, di diminuzione delle tasse per i più ricchi, di eliminazione di ogni forma di regolamentazione del lavoro e molte altre simili cose.

La fallacia di questa impostazione è già rilevata dagli autori nel momento in cui contestano l’assunto dei creatori di questi indicatori per cui “la spesa pubblica e la regolazione sembrano essere considerate sempre e in sé negative (…). Come se una spesa pubblica di buona qualità orientata a migliorare il capitale umano, la ricerca e l’innovazione , non servisse a favorire la crescita economica e la stessa libertà dei cittadini  ‘di realizzare le loro aspirazioni’ “. Inoltre, “tra gli ostacoli alla libertà economica, ad esempio, risulta incluso il controllo pubblico sulle tariffe dell’acqua , dell’ elettricità, del gas, delle ferrovie e delle autostrade. Se attuati in modo opportuno, però, questi controlli servono a tutelare i consumatori su mercati di per sé non concorrenziali: perchè questo sarebbe un ostacolo alla libertà economica?” (pag.89).

Si può quindi dire che, in base ad un’analisi rigorosa e basata sui fatti, questo testo fra le altre cose ci aiuti a decostruire una serie di dogmi di questi ultimi anni che hanno falsificato – e non poco- il dibattito pubblico nel nostro Paese e che ora stanno crollando su se stessi. Faccio riferimento ad esempio ad una fonte insospettabile come il supplemento “Affari & finanza” di “Repubblica” che nella sua edizione di lunedì 6 dicembre ospita un articolo di Marco Panara sulla vicenda FIAT dove fra le altre cose si mette in relazione la vertenza dell’azienda – un tempo- torinese con il “riavvio della macchina dello sviluppo di un paese che da vent’anni ormai non cresce più”. Ma Panara va oltre: “Per 15 anni ci hanno detto che il problema era la flessibilità del lavoro, ovvero – nei fatti- la sua precarizzazione. Oggi, dopo aver flessibilizzato tanto, scopriamo che non è così. Per tornare all’esempio della Germania, uno dei fattori del recupero della produttività è stato il reintegro all’interno delle aziende di attività che erano state esternalizzate con il famoso ‘outsourcing’ Allontanate dai venti della crisi le cortine fumogene – conclude il giornalista- si torna ai fatti, e i fatti sono che la produttività dipende assai più dagli investimenti che le imprese fanno in tecnologia e organizzazione che dai lavoratori”.

La cronica arretratezza, figlia anche dell’indifferenza se non dell’ignoranza, delle nostre imprese e forse di tutto il sistema- Paese, in materia di investimenti in Ricerca&Sviluppo , che è stata una delle costanti delle denunce di un ospite abituale dei nostri incontri, Luciano Gallino, e di pochi altri, emerge per tabulas dagli indicatori qui analizzati, almeno i più seri, come uno dei veri vincoli alla competitività globale dell’Italia, insieme ad altre questioni oggettive come la semplificazione amministrativa, che è altro dalla campagna ideologica e propagandistica contro la Pubblica Amministrazione condotta dai nostri governanti negli ultimi anni.

D’altro canto, la stessa politica di indiscriminati tagli nelle politiche formative e culturali che è alla base dell’ultima legge di stabilità ( e che viene perseguita anche sotto le paludate spoglie della riforma universitaria) , è indicativa della mancanza di volontà da parte del Governo di voler procedere significativamente sul piano dello sviluppo strategico in termini di R&S , ed è pia aspirazione che siano i privati a supplire alle carenze del pubblico, in primo luogo perché non vi sono interessati, e secondariamente perché spesso non ne hanno i mezzi economici, che possono venire mobilitati solo da parte di una precisa volontà politica  al momento assente. Ciò spiega come mai le tabelle di Eurostat relative al posizionamento dei diversi Paesi nell’ambito dei parametri di Lisbona ci mettano al 37mo posto, che per un Paese che nelle dichiarazioni magniloquenti dei suoi responsabili politici si gloria di essere la sesta o la settima potenza economica europea è uno smacco cocente.

Se c’è una lezione generale che possiamo ricavare dalla -assai istruttiva- lettura di questo testo è che il ruolo della politica rimane insostituibile, perché nessuno sistema- Paese, come ci insegnano ad esempio le esperienze tedesca e francese, può prosperare  senza che vi sia stato un accompagnamento forte dei poteri pubblici, in termini di investimenti, di orientamenti di fondo, di ricerca di armonizzazione fra gli interessi del capitale e quelli del lavoro (e non tentativi insieme ideologici e rancorosi di divisione fra le forze sociali), in una parola senza una salda ed autorevole direzione politica.

E questa rimane ancora un’aspirazione troppo alta per il nostro Paese, confinata nell’iperuranio di un futuro chissà quando possibile.

 

Trascrizione della relazione di Pippo Ranci

Testo riveduto da Pippo Ranci della conversazione tenuta al corso di formazione alla politica del Circolo Dossetti di Milano l’11 dicembre 2010

Innanzitutto parlerò del contesto in cui è nata l’idea di fare questo libro, che ha un carattere un po’ specialistico e che dopo pochi mesi dalla pubblicazione era già  superato perché gli indicatori vengono continuamente aggiornati ed anche modificati.

L’idea di scriverlo nasce dalla convinzione che gli indicatori, in generale, sono essenziali: noi non prendiamo buona cura del nostro corpo se non abbiamo un termometro per misurare la febbre, se non facciamo le analisi per controllare la situazione di funzionalità degli organi. Il sistema economico non è molto diverso.

Gli indicatori contano

Il caso eclatante è quello della Grecia. La Grecia è andata incontro a grandi difficoltà di bilancio e ad una gravissima crisi economica in seguito all’aver manipolato gli indicatori della finanza pubblica per un certo numero di anni: lo stato spendeva molto di più di quanto non incassasse dalle imposte, ma questo squilibrio era sottovalutato nelle rilevazioni. Ovviamente nell’immediato questo non crea problemi: uno stato emette titoli di debito, dilaziona i pagamenti, può sopravvivere in tanti modi, ma quando si arriva al momento in cui i compratori dei titoli di debito pubblico si accorgono che il soggetto che emette questi titoli probabilmente non sarà mai in grado di rimborsarli, allora non li compera più. Non compera i titoli nuovi e i titoli esistenti di colpo perdono valore.

La forma graduale di questo fenomeno è l’aumento dei rendimenti, cioè il titolo viene ancora collocato ma nessuno lo compera più al 2%; calcolando il rischio, lo si può collocare solo ad un tasso più elevato: il rendimento dei titoli di stato misura la valutazione del rischio. La situazione della Grecia è precipitata nel momento in cui le autorità europee, a cui il governo greco è tenuto, come tutti i governi degli stati membri, e in particolare i membri dell’Eurozona, a mandare i dati sullo stato della finanza pubblica, hanno constatato che i dati erano manipolati e che il deficit era molto più alto, oltre il doppio di quanto dichiarato. A quel punto si è generalizzata la sfiducia: nessuno comperava più i titoli dello stato greco. Si è messo in moto il meccanismo complesso (che non è oggetto della nostra discussione oggi) di salvataggio da parte degli altri stati membri e della banca centrale europea.

tassi d'interesse a 10 anni - differenziale Grecia-GermaniaOsserviamo il rendimento dei titoli greci dal 2004 a oggi. Vediamo nella Figura 1 che la differenza fra il rendimento delle obbligazioni del governo greco e quello dei migliori titoli sul mercato, che sono le obbligazioni del governo tedesco, i bund, era vicina a zero nel 2004, cioè da quando si è consolidata l’appartenenza della Grecia all’Eurosistema: si poteva investire nei bund tedeschi o nei titoli greci ed era lo stesso, il rendimento era uguale. Poi si è cominciato ad avere qualche sospetto nonostante fossero entrambi denominati in euro, e i rendimenti si sono divaricati. Oggi se voi comprate un’obbligazione greca vi pare di fare un affare perché rende l’8% in più di quella tedesca. Perchè non lo fanno tutti? Appunto, perché non si è sicuri di che cosa succede domani, nonostante il salvataggio che c’è stato.

Questa è la prova che, nell’economia come nell’organismo, se non misuri l’andamento della salute non prenderai provvedimenti in tempo e quando i sintomi saranno molto evidenti la malattia sarà andata molto avanti e difficile da curare. Quindi, il termometro è importante. Questo è il motivo per occuparcene.

La competitività di un sistema

Di quali indicatori stiamo parlando? L’altro termine del titolo di questa conversazione è competitività. Di solito, il termine indica lo stato di salute di un’impresa che opera sul mercato: la sua competitività è la sua capacità di stare su quel mercato, di collocare i suoi prodotti. A prima vista sembra che non ci sia bisogno di indicatori: si guarda il bilancio, se il bilancio è buono vuol dire che l’impresa ha venduto i prodotti a un prezzo che copre i costi.

Ma non è così semplice: un’impresa può fare un buon margine con un prodotto che sta invecchiando. Può non preoccuparsene, perché il margine quest’anno c’è; ma  l’anno venturo il margine si ridurrà e in seguito potrà scomparire. Quando entra il prodotto nuovo e spiazza quello vecchio può essere che in brevissimo tempo l’azienda vada a gambe all’aria. Un’azienda può, come molte volte è successo, produrre con profitto camicie e magliette e non sapere che al di là del confine ci sono dei competitori che ne producono di altrettanto buone ad un costo molto inferiore; poi viene il momento in cui quelli riescono a trovare l’ingresso nel mercato, si organizzano, mettono in piedi la rete di distribuzione e da un giorno all’altro l’azienda storica scompare. Quante volte è accaduto!

Anche l’azienda quindi ha bisogno degli indicatori e se li costruisce. Saranno indicatori relativi al settore in cui opera: il mio prodotto è un prodotto che sta diventando obsoleto, che la gente non compra più, gli altri cosa stanno facendo? che innovazioni ci sono?

In questa sede però non ci occupiamo della singola impresa, ma è il paese che ci interessa, il sistema. Il concetto è lo stesso: come nell’impresa è necessario costruirsi degli indicatori a scopo preventivo, allo stesso modo in un sistema bisogna attrezzarsi con degli indicatori che ci permettano di non essere sorpresi dagli eventi, di capire dove stiamo andando. Si misura la competitività del sistema per consentire l’esercizio della responsabilità generale.

La responsabilità collettiva ha due livelli: quello della finanza pubblica e quello della competitività del sistema economico intero. La misurazione e l’intervento correttivo sono più facili nel caso della prima, mentre un’economia è fatta di tanti prodotti, tanti soggetti produttivi e tanti centri decisionali, che occorre vedere in quadro d’insieme e orientare attraverso disposizioni rispettose della libertà dei cittadini.

In generale le previsioni e le diagnosi si fanno tanto più incerte quanto più allunghiamo lo sguardo sul futuro: sappiamo guardare poco al di là del nostro naso ma se vogliamo vedere su un periodo più lungo dobbiamo accontentarci di analisi meno precise.

Quando la moneta era nazionale

Torniamo alla questione greca, cioè alla sostenibilità della finanza pubblica. Questa sostenibilità è misurata, come dicevo semplificando, dal fatto che uno stato sembra al sicuro finché emette dei titoli e la gente li compra.

Nel caso di uno stato nazionale isolato, con una moneta nazionale, la sequenza è semplice: quando si profila il rischio di insolvenza, o fallimento, dello stato, la conseguenza è la svalutazione della moneta. Ci vorranno, nel caso, più dracme per comperare un marco. In previsione di una svalutazione, chi aveva obbligazioni greche in dracme le vende e compera obbligazioni tedesche in marchi; così facendo concorre al precipitare degli eventi e a rendere la svalutazione inevitabile. Le conseguenze sono due: da un lato le obbligazioni greche dovranno rendere un interesse più elevato per restare sul mercato, dall’altro i prodotti greci, con la dracma svalutata, si venderanno meglio. La svalutazione della moneta è la sanzione ma è anche il rimedio: esportando di più l’economia greca crescerà più velocemente e con la crescita migliorerà anche il gettito fiscale e il bilancio dello stato greco.

Si vede in  questa sommaria descrizione un aspetto essenziale: il legame tra lo stato e il paese. Lo stato è un soggetto economico, ha un suo bilancio, ha debiti e crediti, simile in questo ad un’impresa; e come qualsiasi soggetto economico può accumulare tanti debiti da trovarsi in una situazione di insolvenza. D’altra parte le entrate dello stato sono le tasse e le sue uscite sono le spese per i servizi alla comunità, quindi i soggetti che in ultima istanza rispondono della finanza pubblica sono i cittadini tutti, è l’insieme dei soggetti economici del paese. L’economia nazionale, a sua volta, ha una specie di bilancio, il conto del prodotto interno lordo (il PIL), ha debiti e crediti con l’estero. Lo stato e l’economia nazionale sono due soggetti diversi, ma legati strettamente. Il salvataggio economico di uno stato col bilancio dissestato lo compie l’economia del paese stesso, pagando più tasse e rinunciando a qualche servizio pubblico. D’altra parte lo stesso dissesto dello stato di solito nasce perché per un periodo lo stato ha speso per i suoi cittadini (o per una parte di essi) più di quanto è riuscito a prelevare ai suoi cittadini (o a un’altra parte di essi).

La moneta nazionale funge da anello di trasmissione tra stato ed economia nazionale. Attraverso la variazione del cambio (svalutazione o rivalutazione) questo sistema aveva un suo meccanismo di riequilibrio.

Ma ora c’è l’euro

Con l’euro si ha un grande vantaggio: scompare il cosiddetto rischio-paese. Gli investitori non temono più la svalutazione della dracma perché la dracma non c’è più. Le obbligazioni emesse dai soggetti greci, stato e imprese, sono denominate in euro, si negoziano sul grande mercato dei titoli in euro allo stesso modo dei titoli di qualsiasi altra origine.

È stato proprio il passaggio dalla lira all’euro che ha consentito allo stato italiano, tra il 1997 ed il 2000, di abbattere vistosamente il suo onere per interessi sul debito e migliorare quindi lo stato della finanza pubblica.

Naturalmente non c’è solo il rischio-paese. Se un’impresa è evidentemente vicina al fallimento nessuno acquisterà le sue obbligazioni, in qualunque moneta siano denominate; e se la salute dell’impresa è solo malferma, le sue obbligazioni si collocheranno, ma ad un tasso più alto che incorpora il compenso (il premio, lo chiamano gli assicuratori) per il rischio. Questo non è rischio-paese, è rischio-emittente.

Anche lo stato è un emittente, e valgono per lo stato le stesse considerazioni. I titoli dello stato possono essere soggetti alla crescita dei rendimenti richiesta per compensare il rischio crescente anche se nello stesso paese ci sono imprese che emettono titoli ad un tasso più basso.

Tanti soggetti deboli in un’economia rendono debole l’intera economia. Se dunque l’economia greca, tanto per continuare a fare l’esempio dei nostri illustri e simpatici vicini, è poco competitiva, se importa molto ed esporta poco, allora il complesso di famiglie e imprese greche si indebiterà, venderà porzioni del proprio patrimonio per poter continuare a consumare; saranno soggetti esteri ad acquistare terreni e case in Grecia e a rilevare società greche. Se, come è accaduto in Grecia, lo stato è parte del dissesto spendendo molto e prelevando tasse insufficienti, anch’esso dovrà indebitarsi fortemente;, allora i risparmiatori eviteranno di acquistare le obbligazioni dello stato a meno che queste offrano rendimenti elevati e crescenti. Ma la spesa per interessi sul debito pubblico è spesa pubblica e la spirale si aggraverà. All’euro, tecnicamente, non succederà nulla: lo stato greco si troverà nella posizione di un’azienda qualsiasi: se non sarà in grado di ripagare il debito dovrà rivolgersi ai creditori e chiedere un concordato (si dice fare default).

Siamo proprio sicuri che all’euro non succede nulla? Come ho detto, tecnicamente non succede nulla. Tuttavia c’è un problema di reputazione: la crisi di uno stato membro danneggia la credibilità dell’intero sistema, e la possibilità che più di uno stato, anche di dimensioni maggiori di quello greco, possa trovarsi in crisi finanziaria è inquietante.

Proprio per prevenire il manifestarsi di situazioni inquietanti, gli stati membri dell’Unione europea, e ancor più il sottoinsieme di quelli che hanno adottato l’euro (l’Eurogruppo), hanno convenuto di fissare dei paletti alla finanza pubblica, in modo da prevenire il dissesto. Sono i limiti ben noti: il disavanzo pubblico di un anno non deve superare la soglia del 3% del Pil e il debito pubblico cumulato complessivamente non deve superare il 60% del PIL.

Queste soglie sono applicate con flessibilità. Si è consentito l’ingresso nell’area euro all’Italia che arrivò a rispettare (con i sacrifici della  manovra 1997) la condizione del 3% e che, pur avendo uno stock di debito pari al 110% delPil, lo stava facendo scendere. Altri paesi sono stati trattati allo stesso modo.

Le condizioni sono state molto ammorbidite negli ultimi tre anni, data la grande crisi economica mondiale che ha portato a una caduta del gettito fiscale e a un aumento della spesa sociale in tutti i paesi. Quasi tutti hanno superato il 3%. Il debito pubblico è salito per tutti, in qualche misura a causa dei salvataggi bancari che hanno operato gli stati in cui si sono verificati i maggiori fallimenti bancari (Stati Uniti, Gren Bretagna, Irlanda) ma per la maggior parte a causa della perdita di reddito nazionale che ha fatto cadere il gettito fiscale e crescere le misure di sostegno sociale.  L’Italia ha potuto evitare l’onere dei salvataggi, ma deve stare più attenta degli altri per via del livello del debito, che già prima della crisi era superiore al 100% del Pil.

Questa è la ragione per cui, al di là della polemica politica, sia Padoa Schioppa prima che Tremonti dopo, nella crisi hanno tenuto, o sono stati costretti a tenere, una linea di grande prudenza.

Il problema della finanza pubblica si risolverà in parte attraverso sacrifici di maggior peso fiscale e minore spesa pubblica, ma soprattutto attraverso una ripresa della crescita economica. Ecco che riemerge alla nostra attenzione il legame tra lo stato della finanza pubblica e lo stato dell’economia;  ed ecco quindi l’importanza di misurare il livello della competitività della nostra economia. Perché da oltre dieci anni cresce meno di quella degli altri paesi? Siamo condannati ad una crescita più lenta? Non potremo basare sulla crescita il necessario risanamento della finanza pubblica? Saremo risucchiati, per fronteggiare l’emergenza della finanza pubblica, in una spirale di maggiori imposte e minori investimenti pubblici che deprime ulteriormente la crescita e ci trascina nel gorgo dell’impoverimento nostro e del rischio di default della finanza pubblica?

Per inciso, questa necessità di crescere deve essere tenuta presente quando si invoca una specie di purificazione che ci sottragga alla “schiavitù del Pil” e si indica la bellezza della “decrescita”. Ci torno tra poco, ma qui voglio far notare che se vogliamo crescere meno dobbiamo trovare il modo di finanziare lo stato con più tasse su di un reddito minore, quindi applicare aliquote più elevate. Oltre al fatto che se la nostra economia cresce meno delle altre sarà meno attraente per gli investimenti produttivi, sarà meno innovativa e si troverà con maggiore disoccupazione. Diventerà più difficile contrastare un declino che facilmente sconfina dall’economia alla società. dove va un giovane imprenditore dinamico? o ricercatore brillante? Non certo in un paese che non cresce e non investe.

Misurare la competitività

Così veniamo al nostro tema.

Fino a una decina di anni fa misuravamo la competitività del sistema economico osservando, per dirla semplificando molto, se il sistema riesce a esportare abbastanza merci e servizi per pagarsi le importazioni: la bilancia commerciale. Per una visione un po’ più corretta si guardava anche ai redditi conseguiti all’estero dalle imprese nazionali e dai cittadini, includendo quindi i profitti rimpatriati, i redditi da capitali investiti all’estero, le rimesse degli emigranti, e naturalmente le simmetriche voci passive di pagamenti verso l’estero, calcolando così la bilancia delle partite correnti.

Questa è stata per lunghissimo tempo l’indicatore principale. Finché è positiva le cose vanno bene. Quando è negativa per lungo tempo l’indebitamento del paese cresce, e nel regime di moneta nazionale si andava alla perdita di valore della lira, alla svalutazione. Come sappiamo, la sanzione era anche un rimedio, le merci italiane diventavano più vendibili e si riprendeva a esportare.

Adesso, con l’euro, se si esporta meno e si importa di più non ci saranno conseguenze sul valore della moneta ma va in crisi l’economia, le imprese chiudono e l’occupazione cala. Per non aspettare troppo, per prevedere e prevenire, cerchiamo indicatori adatti.

variazioni percentuali 1998-2008Per decenni la previsione della competitività è stata fatta confrontando i prezzi o i costi di produzione. Se lo stesso prodotto costa molto più caro in Italia che in un paese concorrente questo è un campanello d’allarme. Se i costi di produzione dei nostri prodotti aumentano di più di quelli degli altri dobbiamo preoccuparci. Possiamo cavarcela solo se stiamo qualificando i prodotti, spingendoli su livelli di qualità migliore, se stiamo abbandonando le lavorazioni povere e andando nelle lavorazioni più innovative.

Si guarda quindi in primo luogo al confronto dei costi, e soprattutto alla sua parte principale e meglio misurabile, il costo del lavoro per unità di prodotto. Dal 1998 al 2008 l’indicatore mostra un aumento molto maggiore in Italia che in Francia e in Germania (Figura 2); anzi in Germania è addirittura diminuito, non perché sia sceso il costo orario del lavoro ma perché è aumentato il prodotto di ciascuna ora lavorata, cioè la produttività del lavoro.

E perché in Italia il costo del lavoro per unità di prodotto aumenta in modo preoccupante? Perché la produttività non aumenta.

Questi sono gli indicatori tradizionali, che si sono sempre usati. Li pubblica l’ISTAT, li commenta la Banca d’Italia. Si può integrarli andando dentro a vedere la composizione del prodotto, per capire se stiamo specializzandoci nelle industrie in declino o in quelle più promettenti: quindi misuriamo quanta elettronica, quanta tessitura, quanti servizi ci sono. Poi interpretare le tendenze non è facile: per esempio fin dagli anni ’70 si è detto che l’Italia era su una pessima strada perché aveva molto tessile, poi però una parte di questo tessile è risultato vincente perché era di alta qualità. Devo dire però che c’era anche un’altra grande parte di settore tessile che era debole sul piano competitivo e negli anni è scomparsa; quindi l’indicatore, mediamente, non era così sbagliato.

Raffinare gli indicatori e cogliere i segnali premonitori è la sfida attorno alla quale molti si stanno ingegnando: non solo le istituzioni dedicate alla misurazione, come l’ISTAT, ma altri soggetti anch’essi istituzionali, come le organizzazioni internazionali a carattere pubblico, oppure operanti con finalità di ricerca, oppure con finalità di consulenza; variamente affidabili.

Alla luce di Lisbona

Il contesto in cui questi indicatori si sono sviluppati è un contesto di crescente preoccupazione per la competitività. Di qui l’aggancio a Lisbona.

Nulla in comune con il trattato di Lisbona del 2009, frettolosamente convocato dopo che i referendum francese e olandese avevano bocciato il progetto di costituzione europea dopo sei anni di faticoso cammino; il trattato ci ha messo una toppa ripescando alcuni articoli della bozza.

La “strategia di Lisbona” invece è il citatissimo esito di un vertice tenuto a Lisbona nel 2000, in cui venne detto all’incirca: siamo consapevoli del fatto che l’Europa gioca la sua sopravvivenza come area ricca, ma anche civile, del mondo sul terreno della competitività economica; ci diamo l’obiettivo di diventare in dieci anni l’economia più competitiva del mondo. Belle parole, programmi vaghi e generici; oggi la posizione competitiva dell’Europa è lontanissima dall’essere quella che si voleva che fosse; onestamente, bisogna dire che è stato un fallimento.

L’abbiamo richiamato perché con la strategia di Lisbona è cresciuta l’attenzione agli indicatori. Anzi, la costruzione di indicatori è diventato un business.

In sostanza, che cosa misurano questi indicatori? Principalmente due grandezze da affiancare alla vecchia competitività di costo, che pur sempre rimane perché saper produrre prodotti buoni a prezzo basso alla fine è ancora determinante: la facilità di fare impresa e la capacità di innovare.

Facilità di fare impresa

Facilità di fare impresa (ease of doing business) è il nome dell’indicatore della Banca Mondiale; a mio avviso, il migliore disponibile. Misura la capacità di un contesto nazionale o locale di favorire il fare nuove imprese e far crescere le imprese esistenti. È ovvio che questa facilità si traduce in un favore per chi tenta nuovi prodotti, sperimenta, innova e anche a trasferisce i risultati della ricerca scientifica all’attività economica.

Quanto può il sistema aiutare o ostacolare l’impresa? È ovvio che è più facile fare impresa se non ci sono tasse sull’impresa, è più difficile se appena fai profitto lo stato te ne prende metà. È uno degli aspetti e si lega alla questione di che cosa ti dà lo stato in cambio. Se lo stato ti dà buone infrastrutture, laureati e tecnici bravissimi, tu sei ben contento o meno scontento di pagare le tasse, e se sei una multinazionale vai a mettere il tuo reparto migliore, quello che innova di più, in quel paese lì; quello semplicemente di montaggio lo vai a mettere in un paese dove ci sono meno tasse e bassi salari.

La facilità di fare impresa è legata alla libertà economica: spesso il sistema pubblico impone oneri in linea di principio giustificati, ma sproporzionati.  Non c’è dubbio che qui si sconfina nell’ideologia.

Il problema è misurare, vedere come gli indicatori sono costruiti e che cosa in concreto misurano e come. Andrea Forti ed io abbiamo cercato di guardar dentro agli indicatori, anche perché eravamo un po’ irritati dal leggere sui giornali classifiche e commenti senza poter verificare in contenuto.

Un aspetto di criticità è la considerazione delle regole. Lo stato regola e le regole pongono limiti ed ostacoli alla libertà economica. Ma ci sono le regole che danno sicurezza all’impresa. La legislazione sui contratti mira a garantire che i contratti siano rispettati. Tu puoi anche essere infastidito dal fatto che l’impresa deve essere registrata presso il registro delle imprese, però per il tuo contraente è importante sapere che può informarsi su chi tu sei. Ci sono mille oneri per la quotazione di un’impresa in borsa, ma la borsa è apprezzata per la sua trasparenza, proprio perché per essere quotati bisogna portare i documenti e bilanci certificati, e per quanto nulla al mondo sia perfetto, certamente si sa di più delle imprese quotate che di quelle non quotate.

Le regole di sicurezza, sanitarie, ambientali hanno una ragione, non sono necessariamente limitazioni della libertà economica, anche se possono essere vissute come tali, oppure possono diventarlo quando sono fatte male, quando sono eccessive, quando degenerano in una proliferazione di controlli burocratici, di moduli da riempire, di sportelli a cui andare e di rendiconti da fornire.

Lo stesso vale per la tutela della concorrenza, grande terreno di scontro. Qualcuno sostiene che l’antitrust è un onere e va eliminato, e non solo i rappresentanti di imprese aggressive ma anche certi miei colleghi economisti assolutamente disinteressati, anche se forse sedotti da una suggestione intellettuale. Dicono che proprio quando finalmente l’impresa è riuscita a combinare un accordo utile con un’altra impresa per sviluppare un prodotto nuovo, ecco che ti arriva l’antitrust che l’accusa di fare un cartello; e quando è riuscita a comperare il suo concorrente in modo da razionalizzare la produzione e diminuire i costi, ecco che arriva l’antitrust che l’accusa di costituire una posizione dominante. Sarebbe meglio per l’efficienza del sistema economico eliminare l’antitrust e aumentare la libertà economica.

Sarà, ma sappiamo anche che quando c’è un’impresa dominante un nuovo imprenditore ha la strada chiusa, anche se ha un’idea o un prodotto nuovo. Non riuscirà a venderlo se la rete distributiva di quel prodotto è tutta nelle mani dell’impresa dominante, che dirà ai rivenditori di non trattare i prodotti diversi dal suo. In questi casi l’antitrust imporrà degli oneri ma certo apre spazi di libertà e contribuisce al miglioramento del sistema.

Confronti

Bisogna prendere bene le misure. Questi indicatori possono essere ambivalenti. La deregulation può essere l’eliminazione di monopoli insensati che a lungo gli stati hanno imposto: come la difesa delle compagnie aeree nazionali, anche inefficienti e mal gestite, che impediva a una nuova compagnia aerea di atterrare in un aeroporto e aprire un servizio migliore a costo più basso. La deregulation apre degli spazi di libertà vera, purché si rispettino le norme di sicurezza.

Ma guardiamo invece alla rete elettrica. Il proprietario potrebbe riservarla al passaggio dell’elettricità prodotta nelle sue centrali. Se è lasciato libero di imporre questa riserva, tu che sei un imprenditore efficiente e hai costruito una bella centrale elettrica modernissima, efficiente ed ecologica non puoi vendere l’elettricità perché la rete è di un altro. La regolazione che impone di dare accesso alla rete è un fattore di libertà.

Allora è la deregolazione o la regolazione che crea la libertà? Dipende. Solo analizzando i casi si possono costruire dei buoni indicatori.

Una volta l’indicatore della Banca Mondiale ha fatto titolo sui giornali; è stato quando l’Italia è scivolata in graduatoria al di sotto del Botswana. Si chiedeva se era più facile fare una nuova impresa in Botswana che in Italia, ed è risultato più facile in Botswana. Era vero: meno controlli, meno autorizzazioni. Nessuno scandalo: il Botswana non è un paese di straccioni, è un paese che sta cercando di svilupparsi e naturalmente ha dei controlli più essenziali, meno sviluppati, più primitivi, e  impone meno tasse perché offre meno servizi e deve cercare di attrarre da tutto il mondo imprese che portino lavoro. Che problema c’è? Dobbiamo disperarci per questo? Secondo me va benissimo che il Botswana si sviluppi e faccia ogni sforzo per svilupparsi. È un indicatore di pericolo per l’Italia essere scivolata dietro al Botswana? Forse sì, ma non è tanto grave come essere scivolata dietro alla Francia perché tra l’Italia e la Francia c’è un’affinità di contesto, di diritti civili, di tutela del consumatore, di cose che nel Botswana non ci sono. Quindi il confronto è più omogeneo e un risultato sfavorevole preoccupa di più.  Il confronto con un paese simile dice di più che il confronto con un paese diverso e lontano.

Fatti e opinioni

Gli indicatori sono costruiti di fatti e di opinioni, e non bisogna confondere gli uni con le altre. Ci sono anche diverse rilevazioni dei fatti: ci sono fatti che si rilevano direttamente, come i volumi scambiati in una borsa o il numero di veicoli che passano sulle autostrade o il numero di kilowattora che transitano sulla rete elettrica; e ci sono i fatti rilevati attraverso questionari, come la disoccupazione, che l’Istat rileva su di un campione di 30.000 famiglie a cui manda un signore che chiede: lei negli ultimi 15 giorni ha lavorato, oppure ha cercato lavoro, o è stato a casa tranquillo perché non ha intenzione di cercare un lavoro? E solo se è nella seconda categoria è disoccupato. Quindi quando diciamo che c’è un 8,5% di tasso di disoccupazione, parliamo di un fatto e non di un’opinione, anche se il fatto è rilevato attraverso un questionario, con un campionamento fatto in modo da ridurre l’errore probabile al di sotto di una certa soglia.

Anche i nuovi indicatori che entrano negli indici come quello della Banca Mondiale a volte misurano opinioni, a volte misurano fatti. Ad esempio il numero di pratiche che un imprenditore ha dovuto fare per aprire la sua nuova fabbrica, rilevato per questionario, è un fatto.

Le opinioni hanno diversi gradi di affidabilità. Una valutazione fatta da un osservatore imparziale sarà obiettiva di quella di un soggetto interessato.

Capacità di innovazione

ranci-fig-3Un indicatore che è discusso nel libro è l’Innovation Score Board (Figura 3), che misura la capacità di innovazione. È il frutto di un sistema di rilevazione complesso, creato dalla Commissione Europea, che divide i 27 paesi membri in quattro fasce: ileader dell’innovazione, i seguaci (follower), poi i seguaci con fatica (follower moderati) e poi quelli che stanno dietro e inseguono.

L’Italia è nella terza categoria, e non è una bella posizione. Forse pensavamo di stare nella seconda, se non nella prima, ci vantiamo qualche volta di essere i più bravi, ma siamo in terza fascia non da quest’anno, ma da molti anni.

Questo è un campanello d’allarme vero. L’indicatore è costruito sulla base di una fila di indicatori elementari raggruppati in 3 grandi famiglie; è una macchina rodata negli anni, creata dalla Commissione Europea e non improvvisata da un cercatore di reputazione a basso costo[1].

Credo che in Italia dovremmo lavorare un po’ su queste cose: lavorare, analizzare, confrontare, capire dove stiamo.

Quanto è difficile fare impresa in Italia

Ora vediamo l’altro indicatore: la facilità di fare impresa secondo la Banca Mondiale.

Ho preso un gruppetto di paesi con cui ha senso confrontare l’Italia e ho elaborato un punteggio traendolo dalla classifica (Figura 4).[2] Non c’è il Botswana, che non è confrontabile. Ma il ritardo nei confronti di quelli confrontabili è un campanello d’allarme.

Guardando dentro l’indice trovo queste principali famiglie di indicatori:

  1. Facilità di avviare l’impresa, cioè numero di pratiche, di permessi, autorizzazioni;
  2. Numero di permessi per costruire (specifico per l’edilizia);
  3. Regime di trasferimento della proprietà immobiliare: come si fa a vendere una casa o una fabbrica;
  4. Accesso al credito, soprattutto che garanzie devi dare e anche quante pratiche devi fare;
  5. Protezione degli investitori dagli abusi: il problema della governance delle imprese, cioè quanto l’azionista è informato di cosa fanno gli azionisti di controllo e quanto gli azionisti di controllo possono sfruttare gli azionisti non di controllo;
  6. Oneri fiscali e contributivi;
  7. Facilità del commercio estero: dazi, contingenti, ostacoli di varia natura;
  8. Velocità ed efficacia della tutela giudiziaria nelle controversie commerciali (non la giustizia in genere, ma la giustizia che serve al commercio e alle imprese).

Ho rappresentato in figure alcuni di questi indicatori specifici.

pippo-ranci-grafici

La Figura 5 mostra che in Italia non è così difficile avviare un’impresa: più difficile che negli USA e in Francia ma più facile che in Germania, Regno Unito, Giappone, Spagna.

Invece abbiamo la più pesante pressione fiscale e contributiva sulle imprese (Figura 6): l’indicatore ci dà 55 punti, cioè siamo al 128esimo posto su 183 paesi. Gli amministratori delegati delle multinazionali guardano anche a questo quando decidono dove localizzare una delle loro società locali, e infatti pochi vengono in Italia.

Analogamente pessima è la posizione dell’Italia in materia di permessi per l’edilizia (Figura 7). Con un sistema di controlli così pesante dovremmo essere un paese di eccellenza nel rigore urbanistico e nella tutela del paesaggio, ma sappiamo che non è così: evidentemente gli ostacoli alla costruzione non derivano da una puntigliosa difesa dell’interesse pubblico.

Tra gli indicatori aggiuntivi troviamo la normativa del lavoro, che misura la rigidità del mercato del lavoro; era tra gli indicatori principali qualche anno fa ed ora la Banca Mondiale sembra averlo messo al margine, non so se per difficoltà di rilevazione o perché lo ha considerato meno importante.

Tendenze e possibili azioni

Quali indicazioni possiamo trarre da questi indicatori?

Certamente il nostro paese ha qualche problema sia per l’innovazione, sia per la facilitazione dell’impresa.

Nel tempo la posizione non migliora, anzi. Seguire negli anni lo stesso indicatore non è facile perché gli autori aggiustano continuamente la rilevazione e introducono nuovi paesi, quindi a rigore la posizione in classifica non è confrontabile: ma posso dirvi che da un esame approssimativo non ricaviamo incoraggiamento.

Quando abbiamo scritto il libro abbiamo fatto un piccolo esercizio che sta in una mezza pagina. Abbiamo preso alcune famiglie di operazioni (apertura dell’impresa, autorizzazioni a costruire, registrazione di proprietà, pagamento delle tasse, commercio con l’estero, tutela giudiziaria dei contratti) e per queste abbiamo immaginato che lo stato italiano riesca a dimezzare gli oneri amministrativi e il numero di adempimenti, senza aggravi di spesa pubblica o significative cadute di entrata. Non dovrebbe essere impossibile. Saremmo saliti allora dal 65esimo posto in cui ci trovavamo nella classifica di questi indicatori, al 25esimo.

Quindi la graduatoria è molto sensibile ad azioni amministrative che non sono impossibili. Si tratta di modifiche che toccano al tempo stesso i sintomi del malessere e le loro ragioni oggettive: se si riesce a cambiare, migliora la classifica e migliora anche l’operatività effettiva dei soggetti economici, ciò che può creare lavoro e sviluppo.

Capitale sociale e sviluppo umano

Mentre lavorando alle misure della competitività, l’oggetto della nostra attenzione ci si allarga sotto gli occhi. Ci rendiamo conto che nell’impresa non posso misurare la competitività del singolo prodotto, ma devo anche vedere se l’impresa ha in cantiere altri prodotti, se ha dei buoni dipendenti che sono in grado nel tempo di avere idee nuove e migliorare il modo di produrre. Così nel sistema economico. Non c’è solo la capacità di esportare i prodotti che facciamo, c’è la capacità di innovare, e questa non si misura solo con il numero di brevetti, né solo con le spese per ricerca e sviluppo, ma anche osservando l’intero sistema scolastico, a cominciare dalla scuola d’infanzia. Conta il contesto nel quale le imprese operano, che comprende le infrastrutture e i servizi pubblici.

Le migliori imprese innovative vanno a mettersi vicino alle migliori università, perché lì sanno che vedranno subito le innovazioni; per questo fanno accordi con le università, danno borse di studio e si prendono i migliori laureati.

Di passo in passo, partendo dal misurare la competitività economica ti trovi a misurare i livelli di istruzione, la sanità, le abitazioni, la qualità dei servizi, fino a misurare la coesione della società perché in un paese dove ci sia elevata conflittualità, frequenza di scioperi e di manifestazioni, instabilità politica, non si lavora bene; ci troviamo quindi a tentare di misurare la qualità del paese. Il tuo compito si allarga a dismisura e non sai dove fermarti.

Anche la capacità di accogliere gli immigrati fa parte della qualità del paese. È un fattore di competitività? Immediato no, ma mediato sì!

Scivoliamo sul terreno delle misure riferite alla società nel suo complesso. Chi ha fatto più lavoro è l’agenzia delle Nazioni Unite che promuove lo sviluppo (UNDP, United Nations Development Program), che pubblica da ormai più di 10 anni un indice, l’indice di sviluppo economico (Human Development Index). L’indice è costruito, giusto per darvi l’idea, su tre famiglie di indicatori che riguardano il reddito (reddito medio pro capite), la salute (speranza di vita alla nascita, che implicitamente misura la qualità del sistema sanitario e della prevenzione) e l’alfabetizzazione (anni di scolarizzazione degli adulti e anni di scolarizzazione attesa per i bambini); indicatori corretti per tener conto non solo dei valori medi ma anche della loro distribuzione.

Gli economisti si sono accorti che lo sviluppo dell’economia è strettamente associato a un insieme di fattori riguardanti la società e usano sempre più il termine capitale sociale. si entra in un altro campo di difficili definizioni e misurazioni.

Osserviamo, ad esempio, l’indicatore dei livelli di apprendimento, che è oggetto dell’indagine PISA (Programme for International Student Assessment) dell’OCSE. È un’indagine ormai collaudata e ha una buona reputazione. Prendono ragazzi di 15 anni delle scuole di vari paesi e li sottopongono agli stessi test di lettura, di calcolo e di conoscenza scientifica. Almeno a livello nazionale il campione è abbastanza grande da essere rappresentativo.

l'apprendimento dei quindicenniNella Figura 8 vedete le tre famiglie di indicatori: la capacità di lettura, la capacità di matematica e la conoscenza scientifica. Anche qui ho calcolato la differenza tra l’indicatore del paese e la media OCSE. Come vedete ne usciamo malissimo. Solo Italia e Spagna sono in posizione peggiore della media OCSE per tutti e tre gli indicatori. La posizione italiana è leggermente migliore quest’anno rispetto all’anno scorso.

Ci sono divari marcati a livello regionale, e non solo in Italia. Anche gli Stati Uniti hanno divari interni fortissimi: scuole di avanguardia mondiale e stati in cui il sistema scolastico è pessimo.

E così via, con le indagini su singoli aspetti della vita e dell’organizzazione sociale. Solo per memoria, c’è stata una volta, 10 anni fa, in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto un confronto dei sistemi sanitari ed è venuto fuori che l’Italia aveva il secondo sistema sanitario al mondo dopo la Francia che aveva il primo. Però poi l’OMS ha rinunciato a proseguire il lavoro dichiarando che era troppo difficile; non so quanto sia affidabile quell’unica rilevazione. Si tratta di operazioni complicate, che richiedono un grosso lavoro.

Le misure dello sviluppo e del benessere

Infine, vorrei citare il lavoro che si sta facendo negli istituti di statistica per misurare meglio il deprecato prodotto interno lordo (PIL).

Il PIL deve misurare il prodotto, non altre cose; ma può misurarlo meglio. Ad esempio, come si detraggono dal prodotto lordo dell’impresa gli ammortamenti degli impianti per tener conto del logoramento del capitale investito, così si dovrebbe misurare il prodotto netto di un paese calcolando il consumo di ambiente naturale.

Gli istituti di statistica stanno cercando di affinare i calcoli, naturalmente con metodi condivisi altrimenti i risultati non sono confrontabili.

Qualcuno va oltre e dice che bisognerebbe introdurre, come elemento negativo del PIL, le operazioni che denotano fenomeni  dannosi. Per esempio, oggi il soccorso stradale entra nel PIL perché è un’attività compiuta da personale pagato e con l’impiego di mezzi costosi, quindi è la produzione di un servizio; così più incidenti stradali ci sono e più aumenta il PIL. Viene voglia di correggere questa distorsione e togliere dal PIL tutti gli incidenti sulle strade, sui luoghi di lavoro, nelle case: ma come quantificare in negativo tutto ciò? E poi c’è un problema concettuale: stiamo misurando il prodotto o stiamo misurando il benessere? Non c’è dubbio che gli incidenti riducono il benessere, ma questo non toglie che  il soccorso stradale sia un servizio, quindi parte dell’attività produttiva del paese.

C’è quindi, oltre al compito di migliorare la misurazione del PIL, il desiderio di misurare altre cose che non stanno e non possono stare nel PIL. A cominciare dalla distribuzione del reddito e proseguendo con fenomeni sempre più lontani dalla normale contabilità delle cose economiche.

Adesso va di moda parlare della misura della felicità. Non sono un filosofo e mi trovo in difficoltà. Vedo anche qui l’inquietudine, l’esigenza di avere dei termometri, di misurare fenomeni anche non monetari. È un cammino lungo e difficile, appena iniziato.


[1] Domanda dal pubblico: Sorprende l’Irlanda al secondo posto. Risposta: l’Irlanda ha fatto una buona politica di istruzione applicata a una mano d’opera tradizionalmente povera e a basso costo, combinazione che ha attratto molte imprese di vari settori; ha aggiunto tasse basse. Offre un contesto sicuro e ospitale, dove un dirigente può andare a vivere e trovare buone scuole in inglese per i suoi figli. Così ha attratto anche molte banche  e fondi di investimento. Quando, per ragioni non irlandesi ma globali, c’è stata la grande crisi finanziaria, queste banche e società finanziarie sono andate a gambe all’aria creando un problema di improvvisa perdita di posti di lavoro in Irlanda; a quel punto il governo irlandese ha fatto il grande errore di andare in soccorso di queste banche e finanziarie e ha garantito i loro debiti, come e più di quello che hanno fatto i governi del Regno Unito e degli Stati Uniti, senza averne la dimensione. Il governo americano può salvare una o dieci grandi banche, lasciando crescere un poco il debito pubblico; ma il governo irlandese non poteva salvare grandi banche, ha fatto una promessa che non poteva mantenere. È stato un grosso errore garantire istituzioni finanziarie troppo grandi per le dimensioni del paese. Ma l’Irlanda resta un’economia competitiva e innovativa, molto diversa dalla Grecia.

[2]  Ho calcolato il punteggio rovesciando l’indicatore di classifica pubblicato dalla Banca Mondiale, cioè ho preso l’ultimo paese che è il 183esimo e gli ho dato zero punti, ho preso il primo e gli ho dato 183 punti, e analogamente agli altri ho assegnato tanti punti quanti misurano la loro distanza dal vertice. Gli Stati Uniti sono il numero 5 a livello mondiale, così ho assegnato loro 178 punti. l’Italia sta all’80esimo posto e quindi ha un punteggio pari a 103.

Permalink link a questo articolo: https://www.circolidossetti.it/pippo-ranci-gli-indicatori-competitivita-delleconomia-italiana-nel-quadro-del-processo-lisbona/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.