Pensare

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premessa

In generale, quando si dice “pensare”, uno pensa a qualcosa: un evento, una persona, un io. Il compito del filosofo è gettare sospetti sul linguaggio per vedere quanto è proprio, se davvero noi, quando parliamo, sappiamo quello che diciamo. Educare a pensare è una delle operazioni fondamentali per capire che cosa si dice, chi lo dice, per chi lo si dice; il dire è sempre un dire per qualcuno, perché il dire è comunicare, è linguaggio.

Questi sono i dilemmi preliminari per cominciare a descrivere, non tanto a definire, il problema. La fenomenologia infatti è descrittiva, non è definitoria. Cercherò di esplorare, di descrivere il pensiero, trovarlo in un qualche luogo.

L’accadere del pensiero

Il pensiero è qualcosa che accade. Come accade? Possiamo in certo senso equiparare il pensiero all’esperienza, all’apertura dell’esperienza; il pensiero è l’orizzonte entro cui si inaugura l’esperienza. Il pensiero accade, è esperienza, ha luogo. “Ha luogo” lo diciamo di qualcosa che accade, l’accadere prende posto nel mondo, quando una cosa non prende posto nel mondo è assurda. Non a caso i Greci per dire assurdo dicevano atopon, ciò che non ha luogo. Ciò che accade è effettivo, ha luogo, diventa fatto. Nel pensiero dobbiamo distinguere tra un “aver luogo” del pensiero e un “luogo” del pensiero. L’aver luogo del pensiero è il pensiero come attività, il luogo del pensiero è la modalità attraverso cui questo pensiero si realizza o la modalità in cui è rilevabile il suo stare.

Tre momenti

Primo momento: il pensiero in genere lo si intende in una prospettiva assolutamente positivistica, come una prestazione del cervello, cioè il pensiero è allocato in una macchina, in un hardware, che è il cervello. Nessuno dice che il cervello e il pensiero sono la stessa cosa, ma che il luogo del pensiero sia il cervello, questo è opinione comune, anche dei più spiritualisti.

Secondo momento: quando noi pensiamo, nell’atto del pensare, non vediamo il cervello, non vediamo neanche i processi attraverso cui si attiva quest’atto; l’atto del pensare coincide effettivamente con l’aprirsi dell’esperienza. Probabilmente gli uomini hanno sempre pensato anche quando non sapevano di pensare con il cervello, anzi hanno imparato molto tardi a sapere che pensavano con il cervello e ancora più tardi a identificare nel cervello la macchina del pensare. Il pensiero come atto ignora la sua macchina, conosce la sua performatività ma ignora la sua macchina. Il pensiero come attività non coincide con la sua macchina; la macchina che eventualmente lo produce è scoperta dal pensiero nel corso della sua attività, quindi nel pensiero il momento originario inaugurante e l’essere attivo. Da questo punto di vista possiamo anche ammettere che c’è un luogo del pensiero; ma l’esperienza primaria del pensiero è nel suo aver luogo, cioè come attività. Noi esperiamo il pensare pensando.

Terzo momento: il pensiero è sempre un pensiero di qualcosa. Il pensiero, quando pensa, pensa oggetti. Non esiste un pensiero che non sia un pensiero di qualcosa, il pensiero è sempre riempito di qualcosa; anzi, non solo pensa oggetti, ma li nomina. Il pensiero pensa oggetti perché li dice, se non li dice, neanche li pensa. La nominazione è la prima forma attraverso cui l’oggetto viene pensato. Il bambino, quando comincia a conoscere, associa l’esperienza del tatto ad un suono che può essere indicativo, orientativo; la percezione della cosa è legata alla sua dichiarazione, quindi il pensare è non solo pensare a qualcosa, ma la cosa esiste in quanto è segnalata, dichiarata in un linguaggio. Il pensare è non solo pensare qualcosa ma è pensare linguisticamente.

enkefalos

Questi tre momenti del pensiero corrispondono a tre dimensioni esemplificabili con dei nomi. Il pensiero come cervello in greco è dettoenkefalos, che letteralmente vuol dire qualcosa che sta dentro la testa. Però i Greci, quando dicevano questa parola, non pensavano soltanto a un contenitore o un contenuto, perché l’enkefalos corrispondeva anche alla fronte, al volto, e, quindi, alla dimensione del vedere, del darsi a vedere, cioè anche alla dimensione dell’incontro con l’altro. C’è un passo bellissimo dell’Iliade in cui Achille parla di Patroclo e dice che era l’unico pari a lui, a lui uguale: ison emé kefalé, “che aveva la mia stessa faccia”. Già in questo l’elemento macchina diventa secondario rispetto all’elemento espressione. Il pensiero vede e si dà a vedere.

Il nous

Così dal primo momento si passa al secondo: il pensiero come orizzonte, divisione, nous , che noi traduciamo con mente. Il pensiero come attività: qui c’è la reale, piena esperienza del pensare. Se ci muoviamo a questo livello incominciamo a vedere qualcosa di singolare: il pensiero non è afferrabile come tale, allo stesso modo in cui l’occhio che vede non vede se stesso; se l’occhio vedesse se stesso non vedrebbe il mondo, e anche se vedesse se stesso come occhio, dovrebbe rompersi tra il vedere e l’oggetto visto.

La dimensione fondamentale del pensiero in quanto esperienza è che non può mai vedersi come una cosa. Il pensiero non può mai afferrarsi come un contenuto, la natura del pensiero è quella di lasciar vedere il mondo, di esperirsi sottraendosi. Noi sperimentiamo il pensiero perché il pensiero lascia vedere le cose; non abbiamo altro modo di afferrare il pensiero; il pensiero si dà a vedere attraverso la sua sottrazione e la sua assenza. Se cosi è, allora il pensiero è costitutivamente il luogo di una relazione e di un rinvio. Il pensiero non è mai una cosa, è un dispiegarsi di relazioni. Se la percezione fosse sempre una percezione singolare di una cosa noi non avremmo mai il mondo; l’esperienza del mondo è l’esperienza della relazione, e questa relazione è possibile perché c’è uno spazio aperto, non opaco, ove tutte le cose si relazionano. Questo è il pensiero.

il pensiero come linguaggio

Ecco perché il pensiero è sostanzialmente luogo della relazione tra oggetti e quindi fondamentalmente anche della relazione tra tutto ciò che nomina questi oggetti; il pensiero è così oggetto e linguaggio. Questo è l’evento del pensiero, l’esperienza del pensiero si ha nella esposizione di oggetti e in un insieme di rinvii che il linguaggio lega. A questo punto possiamo dire che il pensiero è rivelativo di per sé, l’esperienza del pensiero è una esperienza rivelativa, il pensiero rivela un mondo.

Usiamo la parola rappresenta, “il pensiero rappresenta”. Si è citato Cartesio: cogito ergo sum, “io sono perché penso”, ossia l’esperienza di me è data dal fatto che ne ho coscienza. Nell’aver coscienza che cosa emerge? Emerge la relazione tra un orizzonte che lascia essere le cose e le cose che sono ospitate in questo orizzonte. Pensate a un orizzonte in senso naturale, il mare: volete raggiungere l’orizzonte, ma l’orizzonte non lo raggiungete mai, perché l’orizzonte si dà nella sua sottrazione; se voi arrivate al punto che vedevate come orizzonte, sorge un altro orizzonte e così all’infinito. L’orizzonte non è mai afferrabile perché lascia essere le cose, e nello stesso tempo le tiene insieme. Non ci sarebbero se non ci fosse questo orizzonte unificante. Il pensiero è questa assenza relativa, è questo orizzonte che libera un mondo e, quindi, è esperienza di relazione, esperienza di linguaggio. Quando Cartesio dice cogito ergo sum dice che il pensiero esperimenta la sua esistenza in quanto rivela un mondo. Quello che Cartesio non dice, e che noi dobbiamo dire, è che nel momento in cui il pensiero rivela il mondo, il pensiero rivela la sua esistenza, ma non coincide con l’essere. Il pensiero rivela la sua esistenza e io sono questa esperienza, ma nel rivelare la sua esistenza il pensiero rivela anche la sua non coincidenza con l’essere. Io non sono quella sedia, io non sono neanche i miei ricordi, io non sono i suoni che vengono da fuori. Il pensiero nel momento in cui rivela sé come esistente ed esiste come rivelazione, rivela una costante eccedenza dell’essere rispetto se a stesso. Nel rivelare il mondo il pensiero cosa rivela? Rivela l’alterità del mondo. Il pensiero si rivela come il gioco delle relazioni e nello stesso tempo come indomabilità di un qualcosa di altro, che non posso mai ridurre a me. Se il pensiero riducesse questo universo di rinvii a sé, diventerebbe immediatamente opaco. Se io mi identificassi con questo bicchiere tutto diverrebbe un bicchiere, come dice Catullo,totum nasum .. E’ nella differenza, è nello scarto che si ha l’esperienza del pensiero.

Il pensiero è l’esperienza di una ferita originaria. In fondo anche il mito ricorda questo: il mondo nasce nel momento in cui la terra castra Urano, in modo che si separino e da questa separazione emerge il mondo; fino a quando questa castrazione non avveniva il mondo era tutto notte, tutto chiuso. E’ nella separazione che appare l’esperienza, e l’esperienza del pensiero è originariamente esperienza dell’alterità. Ha ragione Nietzsche quando corregge Cartesio: non cogito ergo sum ma “cogito ergo est”: penso perché c’è qualcosa da cui il pensiero proviene e c’è qualcosa verso cui il pensiero muove, c’è un eccedenza d’essere prima e dopo, c’è un’eccedenza d’essere nell’ordine della presenza, c’è un’eccedenza d’essere nell’ordine dell’assenza. Se il pensiero vuole raggiungersi che cosa scopre? Scopre il suo mistero proprio perché non può prendersi, si accorge di essere straniero rispetto a se stesso e, quindi, deve continuamente approfondirsi senza cogliersi mai, senza afferrarsi mai. Non solo c’è l’estraneità dell’altro, ma c’è l’estraneità del pensiero a se stesso, che non trova mai il suo fondo: più si cerca più si inabissa. Da un lato abbiamo l’esperienza dell’alterità, dall’altro il mistero dell’interiorità. Ecco, l’esperienza del pensiero è in questo gioco: è esperienza dell’alterità ed è esperienza della interiorità, due irraggiungibili.

Il pensiero come odos

Allora davvero il pensiero è odos, è cammino. Questo lo sapeva Eraclito: scendi nel profondo dell’anima ma non troverai mai il profondo; il pensiero è via, il pensiero è emigrante per costituzione, lui è via, è odos, per quanto scandagli il fondo dell’anima non lo troverai mai. In tal senso il pensiero è anche pericolo, come tutto ciò che è abissale. Ecco perché gli uomini non vogliono pensare alla loro profondità, perché temono quello che è straniero: scoprono il senza fondo della loro esistenza.

Questo è un grande vantaggio, l’uomo è fatto bene proprio per questo; ma di primo acchito l’uomo tende ad evitare lo spaesamento e tende ad adagiarsi sul consueto. Adagiarsi sul consueto può essere giusto, l’errore è prendere il consueto come l’assoluto e il definitivo. Se ciò accade, il pensiero diventa pigro. La maggior parte degli uomini vuole l’obbedienza, cerca ricette dappertutto, cercano sicurezze, guide, che poi diventano facilmente guru, sudditanze psicologiche.

Nell’educazione spesse volte avete gesti di ribellione o gesti di bisogno d’autorità, un bisogno di autorità che addomestichi il mistero, che addomestichi l’indeterminazione, un’autorità che plachi, una iperautorità, non una voce con cui si patteggia il cammino ma una guida che avvia.

Il luogo del pensiero è quest’apertura, questa ferita, luogo del rinvio illimitato e quindi esperienza del cammino: è linguaggio. Quando si va nel mondo, si attraversano luoghi, spazi, momenti; da questo punto di vista il camminare è sempre allocato o storico. Non esiste un linguaggio che non sia storia, altrimenti non ci sarebbe cammino. Esistono bisogni di saltare in questo infinito, volendolo vivere tutto intero come assoluto. Le esperienze mistiche sono questo, le esperienze orgiastiche anche: un modo per bruciare il tempo e far cessare il rinvio, cioè identificarsi con l’attimo; ma siccome l’uomo è storia, se si identifica con l’attimo, normalmente si dissolve nell’attimo. Non avendo l’uomo la possibilità di essere attualmente infinito, nell’attimo può solo morire. Anche gli amori muoiono nell’attimo: vivono se diventano storia, cioè lunga fedeltà, rapporto con l’altro; nella fusività sono condannati a morire. Solo gli attimi che cadono nella vita possono vivere nella forma del ricordo, ma se bruciano la vita, non vivono, né tanto meno sono rammemorabili.

Il pensiero è sempre storico, pur essendo infinito il cammino, è sempre finito il percorso: l’esperienza del pensiero è sempre esperienza della propria finitezza.

Io abitualmente parlo di “etica del finito”: assumersi di volta in volta il peso della propria finitezza, perché l’infinito o è attuale o è potenziale. “Attuale” è solo di Dio, ammesso che ci sia un Dio. Solo Dio è un pensiero attuale, perché solo Dio è infinito; noi siamo un infinito potenziale e quindi siamo “infinito = esperienza costante della nostra finitezza”.

L’ odos ci ha messo sulla via dell’esplorazione del luogo del pensiero. Poi ognuno ci deve camminare da sé e deve accompagnare gli altri, partendo dall’idea che c’è una somiglianza tra gli uomini. Molti uomini incontriamo per via e le vie degli uomini si incontrano.

Quali sono le dimenioni del pensiero? Una l’ho già indicata: il pensiero come luogo dell’andare, questa crescita-mancanza del linguaggio.

Poi esistono le dimensioni del pensiero, il modo, cioè, di protensione verso le cose o il diverso modo di relazionarsi alle cose stesse. Il linguaggio non solo è molte lingue ma è un insieme di segni, e il segno è un modo di protendersi e di appropriarsi delle cose, di instaurare la relazione.

Le dimensioni del pensiero: l’intuizione

La prima dimensione del pensiero, la meno definibile, è l’intuizione. L’intuizione è afferrare in lampo, vedere in colpo d’occhio, entrare nella pienezza dell’oggetto lì, in quel punto. Questo vuol dire intuire. Questo pensiero lo capiscono bene i matematici: la matematica, lungi dall’essere la scienza della dimostrazione, come comunemente si dice, è soprattutto la scienza dell’intuizione, si vede la relazione tra gli elementi. Non a caso i grandi matematici sono anche giovani, perché mentre per dimostrare c’è bisogno di tempo, e perciò di storia, per intuire no. L’intuizione corrisponde a questa capacità di concentrazione, di attenzione della mente, che coglie l’evento come una rivelazione, lo vede tutto d’un colpo. Molte volte quando intuiamo abbiamo questa visione, intuiamo il pensiero di una data persona; è come se entrassimo dentro a quella mente. L’intuizione ha questo carattere anche quando è sbagliata. Il contenuto dell’intuizione può essere anche un errore. Molte volte, però, è una rivelazione, una verità. Questa caratteristica di intus ire, di entrare dentro la cosa, che ha analogie con l’intelligere, possiamo dire che è pura, nella forma dell’esperienza, è pura.

Caratteristica dell’intuizione è anche la vanificazione: ci pare di cogliere una cosa ma non la teniamo; le intuizioni fuggono, bisogna fissarle. Allora è necessario un elemento simbolico, un segno che fissi l’intuizione. Ecco che ancora una volta torna la dimensione del linguaggio: l’intuizione può essere trattenuta solo se custodita in un simbolo, in un nome. Dare nome alle cose vuol dire trattenerle.

L’immaginazione

L’intuizione deve essere trattenuta in una cifra, in un simbolo, e lì mantenuta. Lo spazio che conserva l’intuizione e la fa crescere è l’immaginazione. L’immaginazione è l’universo in cui le rappresentazioni sono trattenute, coltivate, alimentate. Non a caso la fantasia ha il significato della rappresentazione, nel doppio senso di rappresentare il mondo e di rappresentare se stessa, quindi rappresentazione di rappresentazione. L’immaginario cresce su se stesso: per un lato ferma l’intuizione e per l’altro suscita costantemente visione. L’immaginario, costantemente, evoca pensieri, evoca mondi. Normalmente, anche nella teoria della conoscenza, i mondi prima di essere definiti sono immaginati. Tutte le grandi cosmologie nascono da mitologie. l mito in fondo è un modo per reggere all’improbabile del mondo, per dargli una configurazione.

C’è un nesso molto forte nel pensiero tra la dimensione intuitiva e quella immaginativa. Il mondo rappresentato, in certo senso, è un mondo sognato, ma non nella vanità dei sogni, ma nel senso della capacità che l’immaginario ha sempre di riprodurre se stesso: da un lato l’immaginazione tipicizza la realtà, dall’altro crea ulteriori possibilità di fantasticarla.

Nello schematismo trascendentale di Kant (grande luogo filosofico da cui nasce la filosofia del ‘900), la generazione del mondo è data da questo spazio immaginativo, che poi si libera nell’idealismo tedesco. In un grande filosofo, Fiche, il mondo non è altro che l’accelerazione dell’immaginario nella scissione.

L’argomentazione

L’altra dimensione dell’esperienza del pensare oltre all’immaginare è l’argomentare, cioè il dire. La caratteristica dell’immaginazione è l’analogia, il rinvio, l’associazione. La libertà dell’associare non deve togliere la necessità del legame. In questa necessità del legame ci sono legami più o meno impegnativi. La dimostrazione costruisce legami impegnativi: stabilire tra l’insieme dei segni dei nessi costanti, delle invarianze o, se vuole affrontare delle varianze, le vuole affrontare calcolandone costantemente la variazione.

Tre sono i modelli fondamentali dell’argomentazione. Innanzitutto l’induzione: trovare nessi necessari nella struttura dei simboli nel linguaggio, in modo che da a si arrivi necessariamente a b e da b a c, senza che la catena si rompa. Si tratta di assegnare all’improbabile una regolarità. Questa dinamica del pensiero instaura la logica della verità. La verità la si può intendere in tanti modi ma almeno in due: la verità che coincide con l’esperienza del pensare come tale, cioè la verità come esperienza della rivelazione, che è la parola stessa aleteia: la verità, in quanto rivela, svela. Il pensiero, in quanto rivelativo, è l’orizzonte originario della verità. Secondo questo punto di vista la verità non è qualcosa a cui si perviene, ma qualcosa a cui si appartiene, come la felicità. La felicità e la vita sono la stessa cosa, e così il pensiero e la rivelazione. L’esperienza prima del pensare è rivelazione: noi siamo nella verità, abitiamo la verità, possiamo trovarla perché la abitiamo.

Una seconda dimensione della verità è quella dell’ ortsos, del discorso retto (retto vuol dire come discorso sicuro, non suscettibile di deviazioni, in qualche modo afferrabile). Questa verità è una verità per convenzione ma è l’unico modo attraverso cui noi possiamo produrre una sperimentazione. Per poter stabilire se un nostro pensiero è vero dobbiamo elaborare le condizioni della sua confutabilità, se non elaboriamo le condizioni della sua confutabilità non possiamo mai accertare che è vero.

L’immaginazione è ricca della produzione di sensi, di molteplicità effervescente, genera sensatezza ma non ferma mai i significati. Noi nel nostro camminare dobbiamo avere anche delle regole, dei ritmi nel movimento. E’ vero che siamo in un andare, ma l’andare lo dobbiamo graduare, di questo sì che siamo padroni. Nell’organizzazione della finitezza c’è anche l’organizzazione delle condizioni di verità, e, quindi, la formalizzazione dei discorsi, i codici di senso. Nel gioco dell’indeterminazione è necessario ad un certo momento trovare dei punti che stabilizzino il discorso, perché altrimenti si perderebbe il senso. Le relazioni tra gli uomini sono relazioni tra aspettative; quando mi rivolgo a un altro e gli dico qualcosa, mi aspetto che lui da questo mio dire tragga un comportamento, secondo la formula dantesca, io credea che ei credesse che io credessi, e così, di aspettativa in aspettativa, ci sarebbe una divergenza fino all’insignificanza se non si stabilissero delle regole formali di aspettativa che possono valere per me e per lui, convenzionali ma necessarie. Questo è nella logica, è nella stipulazione dei patti sociali. La legge è questo patteggiamento della verità, perché in qualche modo dobbiamo reggere all’incolmabile abisso che abitiamo, e allora di volta in volta dobbiamo trovare delle cerniere, dei passaggi, delle liane.

Il silenzio

Questa è la logica: la logica, come ben sapeva Nietzsche, è una modificazione dell’istinto, non è la ragione contro l’istinto, ma è l’uomo che ha bisogno di calcolare il mondo per reggere al suo mistero. Nulla di più istintuale della ragione. Educare vuol dire suscitare, liberare nei ragazzi questo istinto di razionalità, perché è dell’istinto capire. Questo istinto non può essere liberato se non c’è lo sforzo e la pazienza del methodos; il logos esige il methodos, ma il methodos, non deve essere mai una cosa “preparatoria a”; ci sarebbe altrimenti il metodo del metodo del metodo del metodo del metodo.. e questo sarebbe metodologismo per cui non si raggiunge mai la cosa. Noi abbiamo abbandonato la responsabilità della cosa rifugiandoci in un generico metodologismo che non la raggiunge mai. La curiosità invita a percorrere il mondo, ma la curiosità diventa dabbenaggine, perdita di tempo e accidia se non si realizza in una conquista di risultato. Si può apprendere bene tutto a partire dal fatto che si sappia fare bene una cosa sola, altrimenti la curiosità diventa peregrinazione superficiale.

Per dare un methodos, a questo odos, ritmo, l’ultima cosa che mi pare importante rilevare è relativa non tanto alle dimensioni del pensiero ma, chiamiamole così, alle condizioni della mente, alle condizioni dell’anima. Tutto quello che ho detto credo che abbia sufficientemente mostrato come il pensiero è comunicazione, e come sia indescrivibile un pensare che non sia comunicare, ma la comunicazione comunica soltanto se c’è un contromovimento che in certo senso la blocca e la critica. La parola risuona solo nel silenzio, la parola originaria della creazione, “e Dio disse”. Se non c’è il silenzio, la parola non risuona, c’è la confusione. E’ importante, perché vi sia comunicazione, che questa comunicazione risuoni in un silenzio che non è l’assenza di parola ma è l’ascolto della sua attesa. La parola comunica se è attesa, se non annulla l’ascolto, riportandolo nella performance stessa della comunicazione. Si parlava dei media, della televisione: la televisione annulla l’ascolto perché è implacabile, non fa ascoltare il silenzio e quindi non può sorgere la domanda: “è vero?”. In tal modo si sviluppa la mimesi performativa per cui quella parola è sempre un ordine e non è mai una verità, un sapere ascoltare, un sapersi ascoltare. Allora la comunicazione ha bisogno dell’interrogazione, deve risuonare nel silenzio, perché solo nel silenzio la parola può essere accolta come una semente e meditata, altrimenti si vanifica in brusio in rumore.

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