Cercare Maestri

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Una necessità della sequela

Cercare maestri è una necessità della sequela perché i maestri orientano e liberano. I maestri sono icone da tenere in evidenza sul muro di fronte, cui indirizzare lo sguardo (e la preghiera) nei momenti di incertezza e di difficoltà che ci attendono come persone e come associazione: tappe impreviste o messe nel conto lungo il percorso delle nostre vite feriali. Questo testo, curato con scelta felice da Pierangelo Torricelli, può davvero essere paragonato a una galleria di quadri in esposizione dove i personaggi evocati hanno il compito di suggerirci un punto di vista per le diverse situazioni che ci vengono incontro nel presente disordine. Undici personaggi coi quali percorrere un tratto di strada per provare a vivere un cristianesimo più lucido e radicale.

A volte studiare un personaggio vuol dire collocarlo, fare i conti con lui, depositarlo in qualche scaffale della storia e procedere oltre, avendolo per così dire assimilato e digerito. Con gli undici maestri evocati da Torricelli questo sarebbe un atteggiamento sbagliato. Essi non sono digeribili, come non è digeribile nessun cristiano che abbia tentato di esserlo “con tutte le sue forze”. Possono esserci questi tentativi, possono anche risultare utili, ma non servono a quella meditazione militante che è il compito di una cultura cristiana. Non a caso per ognuno di essi viene posta al centro la dimensione di fede della sua esperienza. E anche quando si tratta di personaggi fortemente impegnati nello spazio pubblico della politica, questa dimensione non viene separata dall’essere cristiano: proprio perché le intuizioni più profonde della loro azione sono consentite dalla radicale apertura della loro esperienza di fede, che era una esperienza di “compagnia” con gli uomini, testimonianza che il cristiano non è estraneo alle vicende della storia, ma solidale con quanti le attraversano spinti da una sete di verità e di giustizia.

Non c’è quindi un prima e un dopo in questi maestri; non c’è lo studioso o il politico prima e poi il religioso, la monaca, il monaco: c’è, semplicemente, il cristiano. Evidentemente l’incontro con Gesù di Nazareth cambia le testimonianze  così come cambia le esperienze delle nostre vite, ma non la direzione e l’ostinazione della marcia. Una cosa è partecipare alla formazione della Costituzione, essere tra i leader più influenti di un partito politico, sindaco di una grande città, prender parte a iniziative, associazioni, convegni, gestire una riconosciuta  leadeship d’opinione, altra cosa è partecipare al Concilio Ecumenico Vaticano II, entrare in convento, essere pellegrino in terra Santa o vittima dell’Olocausto, ma sempre orientati da una stessa medesima fedeltà.

Sovente ci imbattiamo in particolari poco noti, che danno con scarsi cenni tutta la profondità di una formazione originale, in un ambiente familiare originale, in una Chiesa locale originale, in una grande associazione di lavoratori cristiani come le Acli. Sì, bisogna pur dirlo: questi personaggi hanno avuto anche tanta fortuna dal Signore. Senza l’incontro con il Cristo di Nazareth, senza certi rapporti così inesplicabili non si spiegano queste straordinarie vicende umane e spirituali. Non a caso tutto converge lì, tutto inizia e si chiude lì, in quella centralità della Parola e dell’eucaristia che sono l’alfa e l’omega di ogni vita cristiana.

Il volume ci offre dunque una documentazione preziosa e non merita di essere riposto in uno scaffale, ma di esserci compagno di viaggio proprio perché ci invita a leggere le donne e gli uomini al posto dei libri. È soprattutto un invito a non ripararsi dall’esperienza profetica, dove è centrale la Parola ascoltata ogni giorno, letta, riletta, meditata, ruminata. Anche quando la stagione storica sembra soccombere sotto i colpi di una nuova barbarie. In questo senso si tratta di undici personaggi ancora da scoprire. Un impegno per le Acli ma anche per tutta la Chiesa italiana.

Rinnovare la memoria

E’ dunque nostro interesse rinnovarne la memoria e comunicarla: un dovere che viene prima del dovere di rendere omaggio. E non già perché ci sentiamo vittime di una improvvisa smania utilitaristica, ma perché in una congiuntura liquida e transitoria come quella che attraversiamo queste vite  rappresentano un punto di riferimento e un cartello indicatore. Ci aiuta la memoria come esercizio di pensiero e di passione. Un pensiero e una passione che la memoria provvede ad ordinare. E ci aiutano perché uno dei luoghi dai quali progettare un futuro possibile è proprio la memoria: chi non sa da dove viene non sa neppure dove va.

Viviamo giorni disordinati. La teologia al femminile si è cimentata con grande coraggio con questo carattere dell’epoca e ha lanciato – fuori dalle scuole e dalla tradizione – una parola d’ordine: “sopportare il disordine”. Sopportare gli inciampi del presente, le nebbie del futuro, i Cigni Neri: gli eventi cioè rari, di grandissimo impatto e prevedibili solo a posteriori, che ci trattengono dal pianificare il futuro in base alla nostra conoscenza, perché le nostre vite appaiono modificate dall’ignoto. È la teoria di Nassim Nicholas Taleb, che ha la perfidia di farci osservare che la storia sembra più chiara e organizzata nei libri di storia che nella realtà empirica. Un’evidenza lapalissiana. Lo sapevamo già e senza informarci tanto. Lo sapevamo, ma che un grande consulente finanziario e un teorico degli sviluppi della globalizzazione ce lo spiegasse in un libro di 379 pagine ha un effetto potenzialmente deprimente.

È vero che le idee vanno e vengono e le storie restano, ma sentirci ripetere che il mondo è dominato da ciò che è improbabile non mette allegria. E se è anche vero che un limite umano deriva dall’eccessiva attenzione che riserviamo a ciò che sappiamo, è altrettanto vero che il bisogno che proviamo in questi giorni incerti di una qualche chiave inglese che ci aiuti a smontare i pezzi di una realtà sempre più complessa e indecifrabile ci appare semplicemente sano e legittimo. Un atteggiamento di buon senso; tutto il contrario però della logica del Cigno Nero che ci ricorda invece che ciò che non si sa è molto più importante di ciò che si sa, fino ad affermare che il successo di un’impresa umana è inversamente proporzionale alla sua prevedibilità.

Insomma, penso anch’io che si stia sconvolgendo il mondo, scardinandone i punti di riferimento. È la globalizzazione, bellezza! E ha ragione Marc Augé quando osserva che il globale è dentro di noi, mentre il locale è esterno a noi. Vuol dire che la confusione e la difficoltà sono soprattutto interiori. Per questo ho capito che bisogna imparare ad attraversare il disordine. Questa è la posta in gioco.

Le cose corrono

Con drammatica insistenza Mario Tronti, il maggior filosofo dell’operaismo italiano, va ripetendo che uno spirito disordina questo mondo. In effetti così paiono andare le cose, anche se il dubbio mi assale circa la vera origine del disordine: non si tratta piuttosto del ritrarsi di uno spirito antico che lascia le cose (e le finanze) nell’ombra del presente rivelandone l’aridità, l’assenza di senso e di meta? Come i progenitori, mal digerita la mela dell’Eden, ci scopriamo nudi, insensati, ridicoli. Consegnate ai rispettivi musei le grandi narrazioni. L’entropia del Novecento…

Tronti si fa anche prestare da Gogol  una grande metafora: “Diceva Gogol: la vita, in questo caso la storia mi ha sempre mostrato il volto del mastro di posta, che scuote la testa e ti dice: non ci sono più cavalli”.  Dunque, nessuno si illuda: non si può affrontare a piedi questo futuro. Tutto Però è accaduto così in fretta…

Le cose intanto corrono davanti a noi, rotolano e sfarinanoL’epoca si sfalda. Siamo costretti a rimettere tutti i pensieri a capitolo, dentro un ethos zoppicante. E il solito mantra senza risposta: che fare? Se perdi la meta (condivisa) perdi il filo. Dici cose che si accostano in sequenza, ma senza un ordine. Come chi sonda il sottosuolo per scoprire il petrolio. Puoi approfondire, ma sei impedito nel trovare connessioni stringenti e convincenti. Il labirinto al posto della logica, o, forse fa lo stesso, la logica del labirinto. E non è questione di metodo. Ti arrovelli, passi da una disciplina all’altra, sperando di imbatterti nell’evento rivelatore e nella “occasione”.

Analizzi il tuo partito politico pensando che forse non è più un problema di partiti.  La tua chiesa con il dubbio o la speranza  che forse siamo tutti già oltre le posizioni di partenza, tesi a cogliere i segni di un tessuto comunitario capace  di confrontarsi con modalità inedite,  anche in Italia,  nel Paese dove hanno sede il Vaticano e Roma città eterna, mettendo a frutto il grande patrimonio della Tradizione e insieme l’intuizione laica  di Norberto Bobbio che già qualche decennio fa rifletteva su  un Paese di “diversamente credenti”.  Ti confronti con la tua cultura di provenienza con la stessa ansia e circospezione con la quale Leonardo sezionava nottetempo i suoi cadaveri…

C’è un’altra chance? Certamente sì: quella intanto di creare esperienze, di andare per tentativi concreti, con la convinzione – fondata – che sovente un problema teorico può essere condotto a soluzione dopo una decisione pratica. Ma anche in questo caso si va avanti tantonando… E non è il caso di snocciolare il rosario di giaculatorie davvero suggestive, non poche poetiche, che ci siamo inventati, come cantando di notte per farci coraggio.

Non è soltanto un problema di stile. Ci vuole il coraggio di porci domande per le quali sappiamo di non avere risposte. Afflitti da un “mal di futuro” peggiore dell’acedia maledetta dai santi Padri. Non solo Resistere. Resistere. Resistere. Ma anche Reagire. Reagire. Reagire.

Perché queste figure

Perché queste figure, perché questi esempi è perché insieme? Perché le Acli hanno deciso di assumerli come punti di riferimento. Perché troviamo in essi le tracce di una teologia dell’impegno dove – in tutti – è evidente un rapporto stretto tra la pagina e la vita, tra il pensiero, l’azione, la mistica… In tutti è presente una diade che è anche una coppia sponsale: testimonianza e competenza. È soprattutto in   Giuseppe Dossetti e in Giuseppe Lazzati che il rapporto si fa evidente. Entrambi pensano infatti che sia necessario un lungo, paziente e capillare lavoro di preparazione culturale, non solo di vertice, ma alla base, per preparare non soltanto proposte politiche ma personalità di credenti adulti.  Non regge infatti l’ingenua convinzione diffusa che sia sufficiente essere buoni cristiani per divenire bravi ed efficaci professionisti o politici. La conoscenza tecnica si colloca accanto alla dirittura morale e alla costante ricerca di Dio. Per questo il mondo diventa luogo teologico di evangelizzazione. Per questo la città dell’uomo e quella di Dio si tengono.

A questo punto il testo segnala una lacuna e probabilmente un’omissione: manca la figura di Achille Grandi, iniziatore delle leghe sindacali bianche e fondatore delle ACLI. Bisognerà rimediare in futuro, perché Grandi resta in attesa del riconoscimento della sua statura storica non soltanto di grande sindacalista e di leader operaio, ma addirittura di padre della patria per il ruolo ricoperto all’interno della Costituente nell’immediato dopoguerra.

Se la Cisl vede giustamente in Grandi uno dei suoi ispiratori, sebbene egli sia morto due anni prima della rottura dell’unità sindacale e circa quattro anni prima della nascita ufficiale della Cisl, le Acli onorano in lui il loro primo presidente, l’uomo che fece da cerniera fra la concezione tradizionale del sindacalismo delle “leghe bianche” e la dura realtà dell’Europa e dell’Italia segnate dal totalitarismo e dalle guerre, che è anche la fase in cui emerge più chiaramente il profilo di un’Italia in via di rapida industrializzazione e modernizzazione. In questo senso è opportuno rimarcare come l’esperienza aclista di Achille Grandi – che in sé fu brevissima in quanto egli tenne la presidenza delle nascenti Associazioni dall’agosto del 1944 al gennaio 1945 – rappresenti comunque a tutt’oggi un patrimonio di ispirazione valoriale proprio in ragione della molteplicità dell’azione di Grandi che la storia deve ancora ben delineare.

Conseguentemente, per quel che concerne le Acli, i loro valori fondativi sono non a caso definiti dal primo articolo dello statuto che afferma: “Le Acli fondano sul messaggio evangelico e sull’insegnamento della Chiesa la loro azione per la promozione della classe lavoratrice e organizzano i lavoratori cristiani che intendono contribuire alla costruzione di una nuova società in cui sia assicurato secondo giustizia lo sviluppo integrale dell’uomo“.

È il caso di mettere in rilievo che in tutti gli undici maestri emerge una grande attenzione pedagogica, convinti che all’impegno spiritualmente motivato non si arriva senza preparazione e senza studio. Per questo nell’azione del poeta padre David Maria Turoldo come in quella della monaca e filosofa Edith Stein, in Simone Weil e ovviamente dei papi Giovanni XXIII e Paolo VI è evidente la funzione magisteriale e formativa: una funzione che esige studio e disturba ogni volta i poteri costituiti.

Altro tema trasversale ai maestri è la pace: tema ecumenico quant’altri mai, nel quale giganteggiano il sindaco “santo” di Firenze Giorgio La Pira – primo presidente delle Acli provinciali fiorentine –  che guardando e invitando a guardare la storia dal “crinale apocalittico” afferma: “Io domando che il diritto delle città all’esistenza sia formalmente riconosciuto dagli Stati che hanno il potere di violarlo; io domando, anche a nome delle generazioni future, che i beni di cui sono destinatari non siano distrutti“.

Restano anche da ricordare i processi subiti da don Lorenzo Milani e padre Ernesto Balducci per le loro critiche ai cappellani militari. E resta un punto di svolta storico anche per la coscienza laica il monito di don Milani: “L’obbedienza non è più una virtù”, e quello di don primo Mazzolari: “Tu  non uccidere”.

E’ bene richiamare ancora una volta l’attenzione sulle due grandi donne presentate qui di seguito: Edith Stein e Simone Weil: due vertici vertiginosi non soltanto del carisma femminile, ma caratterizzate da una intelligenza in rapporto costante con una mistica in grado di incarnarsi nell’impegno fino al martirio.

L’utilità di questo testo

Questo libro è dunque utile perché risponde al dovere della continuità della memoria che deve essere tramandata alle nuove generazioni. La memoria infatti se non viene organizzata si disperde. E il primo problema per il lettore è proprio fare i conti con la grandezza delle figure che qui gli vengono suggerite. Da qui la polemica costante –  non soltanto da parte di padre David Maria Turoldo – con i potenti e anche con le gerarchie ecclesiastiche, ove il caso lo chieda.

Questo infatti è il vero nodo del profetismo: non il lamento, non la deprecazione, non la divinazione, ma il bisogno di chiamare la storia in giudizio. Perché se è vero che a partire dalla rivoluzione industriale la natura del potere ha subito sostanziali trasformazioni, esso tende ad essere sempre più laico e tecnico e sempre meno carismatico e simbolico. La sua propensione anzi ad essere totalitario  cresce. Viviamo dunque in un’epoca di grande organizzazione e di grande concentrazione del potere; i padroni del mondo risiedono in pochi luoghi deputati, mentre la loro presenza nella vita di ognuno è costante e decisiva. Per questo riproporre le ragioni della testimonianza e della sequela nella vita feriale e in quella pubblica è diventato il dovere dell’ora. Per questo fare i conti con i maestri non è un optional.

In questa prospettiva le pagine che seguono sono i compiti a casa che gli Undici Maestri ci hanno lasciato. Ancora da svolgere.

Milano 2013, Giovanni Bianchi

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