Ambienti ed economie inospitali. FABIO MERLINI, l’estetica triste. Seduzione e ipocrisia dell’innovazione.

Sabato 22 febbraio 2020 Centro congressi casa Cardinale Schuster di Milano, via S. Antonio 5.


Il libro Estetica triste di Fabio Merlini è importante a mio avviso perché ci fa comprendere la portata economico-sociale e fondamentalmente politica del nostro sentire, della nostra aisthesis. Aisthesis, da cui il nome “estetica”, vuol dire infatti percezione sensitiva, cioè la nostra percezione in quanto costituita dall’immaginazione, dall’intuizione, dall’emozione, dal gusto ecc. cioè da quelle nostre capacità che ci rendono tipicamente umani: non siamo macchine calcolanti, non scegliamo, se non in rarissimi casi, in base a rigorosi ragionamenti, ma in base al nostro gusto, a ciò che ci piace o non ci piace, a ciò che riteniamo gradevole o sgradevole, bello o brutto, scegliamo gli oggetti del nostro desiderio, ciò che soddisfa la nostra immaginazione e l’immagine che vogliamo dare di noi stessi, ciò che ci fa apparire desiderabili agli occhi degli altri, che ci rende per gli altri degli oggetti di desiderio.

Fabio Merlini. L'estetica triste. Seduzione ed ipocrisia dell'innovazione.

Leggi l’introduzione di Roberto Diodato a Fabio Merlini

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Premessa di Luca Caputo 06′ 54″

Introduzione di Roberto Diodato 23′ 04″

Relazione di Fabio Merlini 63′ 35″

Breve puntualizzazione di Luca Caputo e domande del pubblico 17′ 02″

Risposte di Fabio Merlini 18′ 30″

Domande del pubblico 12′ 27″

Risposte di Fabio Merlini e chiusura della lezione 10′ 38″


Roberto Diodato, Fabio Merlini, Luca Caputo

Da sinistra: Roberto Diodato, Fabio Merlini, Luca Caputo

Fabio Merlini

Fabio Merlini


Introduzione di Roberto Diodato a Fabio Merlini

Il libro Estetica triste di Fabio Merlini è importante a mio avviso perché ci fa comprendere la portata economico-sociale e fondamentalmente politica del nostro sentire, della nostra aisthesis. Aisthesis, da cui il nome “estetica”, vuol dire infatti percezione sensitiva, cioè la nostra percezione in quanto costituita dall’immaginazione, dall’intuizione, dall’emozione, dal gusto ecc. cioè da quelle nostre capacità che ci rendono tipicamente umani: non siamo macchine calcolanti, non scegliamo, se non in rarissimi casi, in base a rigorosi ragionamenti, ma in base al nostro gusto, a ciò che ci piace o non ci piace, a ciò che riteniamo gradevole o sgradevole, bello o brutto, scegliamo gli oggetti del nostro desiderio, ciò che soddisfa la nostra immaginazione e l’immagine che vogliamo dare di noi stessi, ciò che ci fa apparire desiderabili agli occhi degli altri, che ci rende per gli altri degli oggetti di desiderio. Chi controlla il nostro sentire, cioè il nostro immaginare, il nostro desiderare, i nostri gusti, controlla le nostre scelte, in ogni ambito: le scelte di consumo, le scelte sociali, in fin dei conti le scelte in senso ampio politiche. E’ questo ambito complesso di costruzione del sentire estetico che Merlini esamina nel suo libro, che procede al di là della semplice opposizione tra struttura e sovrastruttura, mostrando bene come pensare che l’ambito della produzione e della distribuzione di beni e servizi come se fosse staccato e determinante rispetto all’ambito delle scelte di consumo influenzate e di fatto prodotte  dal sentire estetico sia davvero impossibile nell’epoca delle merci simboliche.

L’estetica oggi è “triste” scrive Merlini perché si allea con “l’idea che il profitto possa crescere senza fine e senza misura in ragione della sua assolutezza rispetto al mondo naturale e a quello sociale –, estetizza gli oggetti nascondendo, dietro l’effetto seduttivo della loro bella apparenza, processi produttivi e condizioni lavorative soventi insostenibili, per non dire oscene”. L’estetizzazione procede infatti anestetizzando, mettendo al servizio del profitto tecniche seduttive raffinate  che  costruiscono  un  sentire  estetico  già  programmato  che  chiede  soltanto  di   essere ricalcato e ripetuto, privandoci di qualsiasi autonomia , “forme seduttive … indifferenti ai valori e ai diritti nei quali la nostra cultura afferma di riconoscersi”.

Merlini esamina le condizione spazio-temporali di questo processo di anestetizzazione del sentire estetico, attraverso l’analisi raffinata di concetti interessanti, come per esempio quello di immediatezza come “istantaneità dell’accadimento indifferente al tempo … l’accedere privo di interposizioni, senza intervalli, sprezzante  di qualsiasi esitazione … il regno della presa diretta” segno di dell’efficienza tipica di una società accelerata, dove ogni scelta è giocata nel presente e privata di qualsiasi distanza riflessiva: società privata della durata, presa nel vortice della dissipazione temporale, in cui il tempo viene spazializzato. Il processo estetico di anestetizzazione, scrive Merlini riprendendo Marx e Benjamin, è condizione di possibilità della “trasfigurazione fantasmagorica” delle merci, della “astuzia mediante cui un bene-divenuto-merce attraverso un sapiente incantamento, nasconde alla vista le distopie del sistema produttivo da cui dipende, cioè le sue iniquità distributive e le sue aree di indecenza lavorativa, il suo inferno”. L’incantamento corrisponde alla costruzione della dimensione auratica. Come già scriveva Adorno più di mezzo secolo fa “Se si assume l’aura di Benjamin – la presenza del non presente – come fattore determinante dell’opera d’arte tradizionale, l’industria culturale viene definita dal fatto che essa non contrappone al principio dell’aura un principio diverso, ma conserva l’aura, putrefatta…”. Ma oggi, data l’estensione del prodotto dell’industria culturale a qualsiasi merce in quanto simbolica, l’aura putrefatta, è la sola aura possibile, e allora è senza connotazioni, e l’odore della putrefazione non è ormai percepibile: aura e basta, propria di un’opera unica e ripetibile, autorevole e di massa. Per cui oggi la forma auratica per eccellenza è l’immagine del gossip: percezione plurima di una vicinanza, per quanto possa essere lontana. Modello di sopravvivenza aumentata: non la morte dell’aura, ma l’aura della morte.

(E si noti tra parentesi che anche l’arte, intesa da Adorno come estrema risorsa, resistenza di fronte all’esperienza estetizzata che disloca e superficializza la bellezza nei processi mediatici e mercantili, quell’arte che ha dimesso qualsiasi serenità e si sottrae al giogo dell’industria culturale evitando di rappresentare l’orizzonte simbolico che riassorbe la forma nei meccanismi dell’economia funzionale,  e anzi oppone precisamente la forma artistica quale tensione etico-anestetica e apertura all’alterità, alla pervasività dei processi di estetizzazione, oggi non ha legittimità sociale al di fuori dei meccanismi di mercato).

Lo stesso concetto di “bene” va a questo livello riconsiderato “il valore del bene nell’accezione marxiana (la cosa in quanto cosa) si allea qui con un processo di incantamento estetico, per cui “fantasmagorico” indica piuttosto il modo, la forma, lo stile dell’apparizione; vale a dire la scena attraverso cui l’oggetto viene appunto valorizzato. La marxiana “stregoneria” risiede qui soprattutto in questo incantamento estetico che rapisce il passante, … Il presentarsi della merce fa tutt’uno con il suo rappresentarsi, con la scena che la illumina”. Le forme di incantamento sono in realtà forme di incanto, come quando si dice di un orologio che si incanta, cioè di incagliamento dell’aisthesis, di catacresizzazione del portato metaforico dell’esperienza estetica: “L’estetizzazione seduce e distrae al tempo stesso. Seduce perché presenta la merce quale irresistibile  oggetto del desiderio. Distrae perché favorisce un abbandono, un rapimento che Benjamin legge come ‘estraneazione da sé e dagli altri’ “ e quindi come processo di alienazione.

Entriamo così nello spazio tempo della moda “tecnica di accelerazione del tempo, e quindi di consumazione della vita, applicata a oggetti, ambienti e stili”, che consente di “sottrarre i soggetti all’esperienza simbolica del divenire temporale, così da poter aderire a un presente tanto istantaneo quanto effimero”; dell’esperienza ludica, dello spettacolo del mondo, “liturgia di una festa ininterrotta che eccita la vita a un (ab)uso di beni indifferente a qualsiasi utilità … Qui l’utilitarismo incontra l’inutilità … una inutilità di cui l’oggetto gadget rappresenta appunto l’emblema”.

Si tratta rispetto a ciò di produrre un tentativo di demistificazione, che agisca innanzitutto su alcune parole chiave, quali per esempio la parola “innovazione”: “ciò che andrebbe riconosciuto, scrive Merlini, è la celata arretratezza di quei beni innovativi la cui affermazione e diffusione sul mercato presuppongono, fra le altre cose, condizioni di produzione e conseguenze di consumo desuete (stavo per dire: barbare), cioè incompatibili non solo con le idee di giustizia sociale e sostenibilità ambientale mediante cui, in teoria, identifichiamo e riconosciamo effetti virtuosi di civiltà, ma anche con il potenziale conoscitivo e patrimoniale di cui dispongono, sovente senza riuscire a liberarlo, le società avanzate … Lo scandalo dell’innovazione sono le periferie delle catene del subappalto disertate da qualsiasi diritto, con le loro condizioni di lavoro neoschiavistiche”.

Insomma quella estetizzazione della vita politica che in Benjamin era legittimazione dei rapporti di proprietà attraverso la produzione di valori cultuali e convergeva verso la guerra come fondamentale fenomeno estetico-economico assume oggi anche altri tratti, intendendo ovviamente per vita “politica” la vita della polis, la vita pubblica. Emergono così nel libro di Merlini, a livello critico, i tratti dell’immaginario mediale e del relativo regime del desiderio proprio dell’epoca del marketing emozionale attraverso alcuni ormai classici concetti del contemporaneo: società dello spettacolo; società dei simulacri — dove “simulacro” dice la privazione del rapporto con qualsivoglia realtà, anche con quella realtà che maschera l’assenza di realtà[1] —; esteticità diffusa (dalla moda al design, dalla pubblicità al videoclip, dal packagingalla progettazione ambientale ecc.) in cui il sentire personale è soltanto ripetizione del già sentito[2], di un ambito impersonale di gusti, sentimenti, emozioni e propensioni che non consentono alcuna distanza critica, bensì immediatamente — ma grazie a complessi processi di mediazione che si configurano in mediacrazia —, e vengono esteriormente sentiti, al di là di qualsiasi processo di interiorizzazione, persino al di là di qualsiasi “falsa coscienza”.

Ora poiché, come scriveva Debord, “Lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente”[3], torna prepotente, come valido descrittore del campo, la metafora benjaminiana del sex appeal dell’inorganico[4]. E se consideriamo ancora corretta l’affermazione che “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini … [e] non può essere compreso come l’abuso di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva delle immagini. Esso è piuttosto una Weltanschauungdivenuta effettiva, materialmente tradotta … Non un supplemento del mondo reale, il suo sovrapposto ornamento. Esso è il cuore dell’irrealismo della società reale … il modello presente della vita socialmente dominante”[5], comprendiamo l’estrema difficoltà di pensare l’odierna produzione artistica secondo l’orientamento dei classici del Novecento, come operazione di novità reale e insieme di resistenza che non sia soltanto residuale e inincidente le pratiche sociali di costituzione del senso.

Del resto è talvolta difficile, al di là dei processi di legittimazione istituzionale (tra cui quelli di mercato), distinguere per esempio alcune attuali produzioni artistiche da alcuni raffinati prodotti industriali e si tratta di una difficoltà che ha motivi non facilmente elencabili, anche perché – oltre che in questioni teoretiche – è radicata nella complessità culturale contemporanea e quindi nei complicati processi di rimescolamento, incorporazione, sintesi tra prodotti di cosiddetta cultura “alta” e “bassa”. Riappare allora in modo nuovo e banalizzato, in coerenza con un’epoca banale, la questione della morte dell’arte. Come scriveva Marcuse “La “fine dell’arte” è concepibile solo se gli uomini non sono più capaci di distinguere tra vero e falso, buono e cattivo, bello e brutto, presente e futuro. Questo sarebbe lo stato di barbarie perfetta all’apice della civiltà e tale stato è in realtà una possibilità storica”[6].

Ma l’ultimo capitolo del libro di Fabio Merlini si intitola Sul senso, ed è qui che lo lasciamo per avere qualche indicazione (se si tratti di senso vietato, di senso unico o cos’altro).

Roberto Diodato


[1] Cfr. J. Baudrillard, Simulacri e impostura, Cappelli, Parma 1980, pp. 51-52.

[2] Cfr. il primo capitolo di M. Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino 1990.

[3] G. Debord, La società dello spettacolo, Massari, Bolsena 2002, p. 43.

[4] E’ il modo in cui Benjamin determina la connessione tra moda e feticismo; cfr. Parigi, capitale del xix secolo. I passages di Parigi, Torino, Einaudi 1986, p. 124.

[5] G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 44.

[6] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, in La dimensione estetica e altri scritti, a cura di P. Perticari, Guerini, Milano 2002, p. 257.


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  1. Premessa di Luca Caputo 06′ 54″
  2. Introduzione di Roberto Diodato 23′ 04″
  3. Relazione di Fabio Merlini 63′ 35″
  4. Breve puntualizzazione di Luca Caputo e domande del pubblico 17′ 02″
  5. Risposte di Fabio Merlini 18′ 30″
  6. Domande del pubblico 12′ 27″
  7. Risposte di Fabio Merlini e chiusura della lezione 10′ 38″

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