Amigo Francisco

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Giovanni Bianchi

Bisogna convenire con la rivista “Time” che Papa Francesco è davvero l’uomo dell’anno, anche se forse il gesto epocale da cui è nato il suo pontificato – la rinuncia al Soglio da parte di Benedetto XVI – pone il suo predecessore in una dimensione storica a parte.

Ma poiché lo scorrere della vita degli uomini non rimane aggrappato ad un solo gesto, per quanto straordinario esso sia, va rilevato che poche persone hanno saputo in un tempo relativamente breve – nove mesi, il ciclo della gestazione di un essere umano – fare quello che ha fatto Jorge Mario Bergoglio, che essendo semplicemente se stesso ha conquistato le menti ed i cuori del mondo intero.

E lo ha fatto non perché egli è venuto a patti con il mondo, così come sostengono rumorosamente i tradizionalisti più esasperati (ed in fondo onesti nella loro ottusità) ovvero è venuto meno alla dignità del Papato, come dicono sottovoce alcuni (meno onesti) funzionari di Curia vestiti di viola o di rosso. No, Francesco è quel genere di persona che arriva quando il tempo è propizio, è il leader in senso proprio, l’uomo che si palesa quando il “kairòs” lo richiede.

Ebbene il nuovo corso di papa Francesco apre inevitabilmente una strada nuova, meno interessata al contenzioso secolare tra illuminismo e cristianesimo che ha segnato tutta la cultura europea ed occidentale. In questo senso il rapporto con lo svolgimento e gli esiti di quel grande evento storico che fu il Concilio Ecumenico Vaticano II diventa ancora una volta ineludibile.

Nella grande assise ecumenica vinsero i pensatori cristiani e le ideologie che erano avversati dalla curia romana. Emblematica la consegna fatta da papa Paolo VI alla fine del concilio del messaggio a tutti gli intellettuali del mondo nelle mani del filosofo francese Jacques Maritain, fin lì messo all’indice. Ma già l’immediato dopo concilio e i gruppi di lavoro esterni all’assise avevano spostato l’asse verso le chiese lontane dal Vecchio Continente. Non si trattava di misurare i livelli e le compatibilità dell’ortodossia, quanto di mettere alla prova nella vita concreta la rinnovata fecondità del messaggio cristiano. Si addicevano di più al Vangelo le posizioni che testimoniavano correttamente, piuttosto che quelle che misuravano i confini delle compatibilità culturali. Detto in termini dannatamente tecnici: non tanto l’ortodossia, quanto piuttosto l’ortoprassi. Non chi dice  Signore Signore, ma chi mette in pratica la parola evangelica.

Su queste posizioni si attestavano in particolare le chiese del nuovo mondo, allenate alla ricerca di nuovi sentieri di testimonianza, e non tanto per le posizioni che vanno in mazzo sotto l’etichetta di “teologia della liberazione”. Non tanto le grandi conferenze di Medellin e Puebla, ma le testimonianze molteplici e anonime sul campo.

Le avvisaglie della svolta si erano già avute durante i lavori conciliari dove avevano campeggiato in particolare due interventi di grande respiro programmatico. Il primo era stato svolto dal cardinale Frings, ormai cieco, e che aveva fatto tesoro dei suggerimenti di un giovane teologo bavarese di nome Joseph Ratzinger. Il secondo fu quello svolto dal cardinale di Bologna Lercaro, scrittogli nottetempo dall’esperto che si era portato al seguito, don Giuseppe Dossetti. E l’intervento di Lercaro è passato alla storia per la sua insistenza sulla Chiesa dei poveri e la Chiesa povera. Il programma ripreso con semplicità e vigore dal Papa argentino e che subito dopo la chiusura del concilio era stato fatto proprio da un gran numero di vescovi raccolti intorno a un documento suggestivamente definito “il patto delle catacombe”.

Una Chiesa che accompagna gli uomini di fronte alle nuove difficoltà con mezzi poveri e con quella che venne definita “l’opzione preferenziale per i poveri”.

L’aggiornamento conciliare voluto da papa Giovanni XXIII implica tutto ciò e legittima l’amarezza dell’ultima intervista rilasciata prima della morte dal cardinale Carlo Maria Martini, e per questo considerata il suo testamento spirituale: “La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi”. Per concludere: “La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?”

Si dice che il cardinale Martini sia stato il grande elettore di Bergoglio nel precedente conclave. Il confronto a posteriori tra le posizioni dei due vescovi gesuiti pare dare pienamente ragione di questa supposizione. Si badi bene, una linea che implica l’assunzione di una prospettiva diversa anche all’interno della Chiesa, quella presente nella grande costituzione conciliare “Lumen Gentium”, che mette al primo posto non la Gerarchia ma il popolo di Dio.

Torniamo in piazza San Pietro alle otto della sera di mercoledì 13 marzo. Dal balcone della basilica papa Francesco dice con tutta naturalezza: “E adesso vorrei dare la benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la benedizione per il suo vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”. È un italiano sintatticamente contaminato dallo spagnolo, ma esplicito e cristallino dal punto di vista teologico: è il popolo di Dio in primo piano, e quindi il papa, anzi, il vescovo di Roma, esercita il governo della carità proprio in nome di questo popolo. Diceva tanti secoli fa Sant’Agostino, un vescovo africano coltissimo e padre della Chiesa: Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo.

La Chiesa dei poveri è anche un problema interno alla Chiesa e alla sua struttura e quindi al punto di vista concreto dal quale guarda il mondo.

E infine, la domanda su che cosa ci aspettiamo da questo Papa non ci mette in imbarazzo. Semplice rispondere. Che continui come ha cominciato.

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