Giovanni Bianchi. Politica o antipolitica? Tra passione e qualunquismo.

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Corso di formazione alla politicaIl testo di Giovanni Bianchi ci appare come una lucida messa a fuoco della situazione della nostra democrazia, interessata in questi mesi da una fase forse destinata a lasciare profonde tracce di sé. Una esperienza di cambiamento più per “forza delle cose” che per forza dei partiti, ma cambiamento comunque. I capofila dei due avversi campi, preoccupati più di marcare una distanza che non di costruire ponti, riducono nel bene e nel male la politica all’operato dei partiti, tradendone il significato: la loro dialettica, però, ci parla piuttosto, di qualcosa che si potrebbe definire “partitismo e anti-partitismo”. Peraltro, lo slogan “basta con la politica dei partiti” non è stato inventato l’altro ieri…

Giovanni Bianchi. Politica o antipolitica? Tra passione e qualunquismo.

1. leggi il testo dell’introduzione di Luca Caputo

2. leggi la trascrizione della relazione di Giovanni Bianchi

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

1. premessa di Giovanni Bianchi 01’38” – 2. introduzione di Luca Caputo 23’24” – 3. relazione di Giovanni Bianchi 1h 14’27” – 4. prima serie di domande 13’46” – 5. risposte di Giovanni Bianchi 21’44” – 6. seconda serie di domande 14’08” – 7. risposte di Giovanni Bianchi 19’22”

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Testo dell’introduzione di Luca Caputo a Giovanni Bianchi

Relazione introduttiva Politica o antipolitica?

Dovendo riassumere in un solo vocabolo il senso intero del testo, potremmo soffermarci su questa congiunzione, la quale descrive bene la distanza tra due mondi il cui antagonismo è tornato prepotentemente d’attualità. Eppure questa disgiuntiva non può soddisfarci.

I capofila dei due avversi campi, preoccupati più di marcare una distanza che non di costruire ponti, riducono nel bene e nel male la politica all’operato dei partiti, tradendone il significato: la loro dialettica, però, ci parla piuttosto, di qualcosa che si potrebbe definire “partitismo e anti-partitismo”.

Peraltro, lo slogan “basta con la politica dei partiti” non è stato inventato l’altro ieri…

Il motivo è facilmente intuibile: tutti puntano a ritagliarsi, sempre e comunque, una dimensione, che li renda identificabili, garantisca loro la sopravvivenza come opzione politica, e vista in termini di marketing politico, che li accrediti come prodotti appetibili e dotati di una certa genuinità (quale che sia), quindi comprabili. Cioè, votabili.

Politica e antipolitica restano, invece, i due elementi di un unico insieme: unico è, infatti, il campo che si contendono. Tra di esse, un confine tutt’altro che chiuso, sempre attraversabile nei due sensi, talora in termini purtroppo negativi ma, questa è la buona notizia, sempre come possibilità positiva.

Politica e antipolitica, dunque. Disgiunte ma congiunte. Quindi in relazione.

Il testo di Giovanni Bianchi ci appare come una lucida messa a fuoco della situazione della nostra democrazia, interessata in questi mesi da una fase forse destinata a lasciare profonde tracce di sé. Una esperienza di cambiamento più per “forza delle cose” che per forza dei partiti, ma cambiamento comunque.

Il metodo è chiaro e appare l’unico produttivo: a partire da una profonda osservazione di quanto accaduto, sempre più precipitosamente, negli ultimi anni e nei mesi trascorsi dalle dimissioni di Berlusconi alle ultime elezioni, analizzati lucidamente i rapporti di causa-effetto tra le scelte dei partiti e dei leaders, l’autore si e ci immerge in una riflessione breve ma densa e puntuale che va a toccare i nervi scoperti, le “emergenze” della politica (intendendo con questo termine tutto il panorama). Questo lavoro risponde alla necessità, certo grave, di ridefinire alcune categorie, quasi a rinominare alcuni punti di riferimento senza i quali diventa impossibile tracciare una rotta.

La conclusione non può che essere costruttiva, o RI-costruttiva: analizzati con il conforto degli storici, dei letterati e dei politici d’un tempo i materiali a disposizione, l’autore seleziona il migliore di essi intorno a una ipotesi di ricostruzione. Bellissimo, ad opinione di chi parla, il capitolo “Questi Italiani”, quasi una immersione nel mare magnum della nostra storia, alla ricerca dei tratti inequivocabili che contraddistinguono il nostro popolo, la nostra civiltà nazionale

Lo scenario

Prendiamo le mosse dalle recenti elezioni, sgombrando il campo dagli equivoci e dalla propaganda: Silvio Berlusconi, icona dell’ ancien régime, le ha stra-perse; i sette milioni di voti lasciati sul campo sono il segno chiaro che il centrodestra così com’è stata fino ad oggi non è più una ipotesi credibile. Non è stato -a nostro avviso- un pezzo d’Italia ad abbandonare lo yacht dell’uomo icona di un ventennio: a voltargli le spalle sono stati tanti pezzi di Paese, in un pauroso smottamento che ha lasciato abbarbicati alle pendici della corte berlusconiana solo i pezzi più “integrati”, ma è venuta meno la credibilità di Berlusconi come capitano di una nave capace, fino a pochi mesi fa, di riunire sotto la sua bandiera molti e diversi passeggeri. L’impressione di chi scrive è, però, che sia bastato il ritorno al timone del vecchio comandante a dissuaderne moltissimi altri a fare lo stesso…

Una non vittoria, e per questo forse sconfitta ancor peggiore, per il PD, che perde circa la metà dei voti persi dal PdL. L’incapacità dell’unico vero partito nazionale a manovrare negli spazi ristretti che oggi sono a disposizione della politica, insieme a una serie infinita di errori sotto diversi punti di vista, hanno lasciato il partito di Bersani in un guado, a farsi sparare addosso da entrambe le rive.

Se Berlusconi ha perso il suo appeal nei confronti dell’elettorato, il PD non ha fatto eccezione, nemmeno nella persona pur presentabilissima di Bersani, alla regola per cui le gioiose macchine da guerra costruite nel campo progressista non riescono a sfondare nei consensi, non solo: sotto i colpi veloci, incontrollabili, oltraggiosi nella loro dissacrante retorica del nuovo, della piazza animata da nuovi movimenti e nuovi gran sacerdoti, il PD è stato veramente a un passo da una autentica Caporetto.

Tanto incomprensibile il suo operare, come partito e come proposta di governo, quanto chiarissimo il messaggio del vincitore delle elezioni. Che ha cavalcato il risentimento verso la “casta” (termine che dobbiamo abituarci a considerare come nuova categoria del politico) accomunato buoni e cattivi   in un legame di complicità e proposto la soluzione drastica ma efficace e comprensibile: tutti a casa! Certo la radicalità delle cose, per dirla con l’autore, avrebbe dovuto suggerire anzitempo che il messaggio era ben più riconoscibile rispetto alla operosa bonarietà dello smacchiatore.

Sorprende però che -a nostro avviso- nessuno dei leaders in gioco abbia saputo interpretare adeguatamente quella “sommessa vocazione” degli Italiani, pur di fronte alla gravità delle condizioni economiche e alla durezza dei sacrifici richiesti in un momento così drammatico, di rimboccarsi le maniche. E cogliere l’opportunità che un elettorato per certi aspetti così docile ha dato, di offrire una risposta politica, di “trovare un idem sentire all’altezza della situazione”.

Il motivo per cui nemmeno il “salvatore della Patria” Monti è riuscito a dare una risposta adeguata a un popolo che, andando nonostante tutto a votare, ha dimostrato di avere grandi aspettative nei confronti della politica (anche quando questa viene fatta dai c.d. “antipolitici” ) è da cercare, forse, nella mancanza di credibilità delle diverse proposte politiche, che rende inefficaci e inutili i tagli e i sacrifici.

Quale proposta politica può dirsi, e soprattutto essere percepita, come credibile, nel quadro attuale?

Non la politica che dovrebbe riformare sé stessa prima di riformare lo Stato, dando così modo all’ antipolitica di ripensarla, pretendendo di riformarli entrambi insieme, a pedate…

Ma anche senza nemici scalcianti, la politica sincopata, schiava dei tempi brevi della comunicazione e dei mercati finanziari, appare inadeguata.

Al punto che, con le dimissioni di Berlusconi, volute dai mercati prima che dalle istituzioni o dai cittadini, si è chiusa un’era. Non solo, nella efficace metafora di Andrea Riccardi in una sorta di passaggio dal Carnevale alla Quaresima, e, aggiungiamo noi, dal dover piacere a tutti i costi al “me ne frego del consenso” di Monti. Ma anche per i due soggetti politici che hanno, in forme diverse, caratterizzato l’ultimo ventennio: l’uno, primo rivale a destra di una destra storica di cui si sente perfino la mancanza. L’altro, dimostratosi non all’altezza della situazione.

Entrambi fuori tempo massimo, incapaci di visione, per dirla con l’autore hanno preferito sopravvivere come ceto dirigente piuttosto che dirigere il Paese, che lasciano con una enorme forza lavoro a casa tra disoccupazione (specie giovani) e cassa integrazione, e che vede una fetta consistente del proprio PIL eroso, o gestito, da corruzione e malavita. Se però la destra italiana non si può dire abbia nemmeno provato, a farsi guida, chi ha nettamente fallito il compito è il campo riformista. Che oltre ad “aver perso la fiducia in se stesso”, per dirla con Prodi, forse più che altro ha subito la modernità piuttosto che interpretarla.

Lo scenario mondiale ha visto pressioni globalizzanti determinate a muovere merci e capitali sbriciolando gli antichi confini e con essi il sempre difficile compromesso tra Stato e Mercato. Il profitto contro il prodotto, direi io, con aziende in salute smantellate, vertiginoso e inspiegabile aumento della disoccupazione e conseguente ri-proletarizzazione della middle class.

Ci chiediamo allora, e lo chiediamo a Giovanni Bianchi, se potevano mai i riformismi, specie di quelli “di rincorsa”, essere all’ altezza del compito.

Come opportunamente fatto notare da più volte in questo Corso, da Gallino a Biasco, il riformismo italiano si è schiacciato sulle posizioni dettate da un pensiero unico economico, eterogeneo rispetto all’ europa continentale, ma impossibile da contrastare, fin dentro i luoghi della sua formazione e auto-imposizione, ossia le università.

Ciò che sempre appare chiaro in tempi di crisi, è la rinnovata necessità di istituzioni forti, che siano in grado di opporre i tempi e i metodi della politica buona, che non possono essere che lunghi e avere uno sguardo volto al domani, a quelli della politica cattiva e del capitalismo finanziario, che puntano entrambi all’oggi ma da posizioni ormai differenti. Perchè è evidente -e ne abbiamo avuto dimostrazione- che quando i padroni si stancano della lentezza e dell’inefficienza dei maggiordomi, li cambiano. E non è dato vedere altro rapporto, oggi, tra cattiva politica e finanz-capitalismo, che non quello di subordinazione, volontaria o involontaria che sia.

Nuove coordinate

Abbiamo parlato di crisi dei riformismi e del fatto che le socialdemocrazie forse non sono, oggi, all’ altezza del compito; è di questi giorni la notizia che le forze socialdemocratiche europee stanno dandosi una nuova organizzazione, superando l’ Internazionale Socialista per dare vita a un’ “Alleanza dei progressisti”. Cui anche i nostri aderiscono.

Non vogliamo dire nulla in questa sede, lasciando la sollecitazione all’autore, in merito. In merito per esempio al fatto che -a quanto pare- anche stavolta sono i tedeschi in prima linea sia come iniziativa che come finanziamento.

Soffermiamoci ancora un attimo sulla supposta inadeguatezza delle forze progressiste italiane nel contesto globale e nella lotta all’avversario, per le verità additato più come nemico, cosa peraltro entusiasticamente o incoraggiata dal rivale. La cui maschera è servita, forse, anche a noi. La maschera del Berlusconi irresponsabile, cialtrone, egoista, delinquente e mascalzone ha coperto, oltre alla maschera delle Primarie, le difficoltà di pensiero (quindi di programma e quindi di azione) del campo riformista.

Ancora una volta, però, siamo sembrati in mezzo al guado. Perchè altre esperienze ci dicono che sia pur sempre possibile giocare un ruolo da protagonisti senza tuttavia avventurarsi nei massimi sistemi, ma ci vogliono, anche in quel caso, le competenze: l’esempio elvetico, che vede la politica ridotta all’amministrazione, suggerisce però che forse trattasi di scelta connaturata ad un popolo che con la meccanica di precisione (amministrativa in questo caso) si trova molto a suo agio.

A chi voglia, invece, tracciare una rotta in mare aperto, servono delle coordinate precise, e tra esse non può mancare il punto d’approdo.

É così che, passando da Dante a Seneca, troviamo una Italia in mezzo a una gran tempesta il cui nocchiero, se c’è, nemmeno con venti favorevoli e mare buono riuscirebbe a portarla a destinazione, dal momento che nessuno pare conoscere l’approdo giusto per questa “media potenza in fase calante” che è l’Italia, tenuta a galla più che altro dalle abilità dei suoi carpentieri.

E non è detto che un nocchiero si possa trovare ancora nel campo della politica, in un mondo che la vede catalogata come “inutile” (ben altra cosa rispetto alla regina delle scienze ch’era per Aristotele) tanto da chi vuole i Parlamenti ridotti a camerieri del vero potere, tanto da chi, nel campo dell’ antipolitica, ne ha diffuso il mantra dell’inutilità. Così, noi “nomadi di un nomadismo interiore, perchè il globale ci è dentro e il locale esterno”, ci ritroviamo “impossibilitati a trovare un interlocutore politico in grado di conferirci un’identità unitaria e di aiutarci a interpretare il presente e a programmare un futuro purchessia.”

E’ forse necessario introdurre nuovi parametri, nuovi comportamenti, nuovi punti di vista, strumenti a disposizione di questa scienza. La relazione; il rapporto con l’altro; la ferita come contatto, momento costitutivo di un legame e di un punto di vista sulla realtà. La politica che non passa positivamente nel campo avverso è incapace di manovrare. Ma anche i significati, e una ripristinata aderenza delle parole alle cose. Senza questo fondamentale passaggio è quasi scontato il passaggio dall’inespressività dei termini all’impossibilità dei pensieri, e quindi delle azioni…

Porsi in relazione significa anche comprendere ciò che differenzia dall’altro. Adottare un punto di vista consente di riconoscersi e riconoscere l’altro, nella sua diversità e nella dignità del suo esserci. Analogamente, nessuna politica è capace di direzione se non rinuncia alle lusinghe dell’attimo, se indulge ai vocaboli tralasciandone i significati, se i suoi protagonisti si dimenticano persino, di essere “casta”.

E ci vengono alla mente numerosi esempi recenti: perchè senza arrivare ai festini di Arcore e a quelli delle ville di Roma, già nelle sedi più istituzionali la politica ha dimostrato di essere vera e propria classe di privilegiati senza nemmeno la consapevolezza di esserlo. Un vero e proprio mondo parallelo a quello reale, da cui di tanto in tanto filtrano giudizi sprezzanti: dai “bamboccioni” ai “fannulloni”, dagli “schizzinosi” all’ultimo “pochi sfigati” all’indirizzo dei parasubordinati da 500 euro al mese… Una casta indifferente e ignorante, che trova giusto contraltare nella patente diinutilità percepita fatta da un popolo sempre meno incline a distinguere i meno cattivi dai cattivi veri e propri.

Nessun eroe, nessuna guida, nessun primato della politica, e nemmeno la capacità che altri hanno dimostrato di saper comunque difendere i propri particolari interessi nazionali. Nessuna traccia di quella politica che seppe fare di sé stessa la protagonista assoluta del Paese nella Prima Repubblica celebrandosi nel welfare; per quanto spesso indulgesse a una sua visione distorta, comunque sapeva di avere uno strumento in mano e non rinunciava mai ad adoperarlo.

Volendo così contestualizzare, sulle tracce di Schmitt, la perdita del primato della politica, non possiamo che leggerlo “in combinato disposto” con la crisi degli Stati-nazione e la detronizzazione dell’Europa, che“cola a picco insieme alla sua creatura prediletta, lo Jus Publicum Europaeum”.

Ancora, ci chiediamo quali siano le reali possibilità, nello scenario dato, non solo di praticare efficaci politiche riformiste ma persino di governare una “media potenza in declino” qual è l’Italia.

Quale politica di Stato è capace di opporsi al proliferare dei soggetti impolitici che sono all’origine dell’indebolimento degli Stati? L’unica risposta, quasi spontanea, viene dal proliferare delle piccole patrie. E quale contributo può venire dal mondo cattolico? La visione catto-keynesiana può ancora dare risposte adeguate al mondo caratterizzato dallapoliarchia e dalla velocità?

Velocità e verticalità, nuovi palazzi, la performance prima della governance. Concordiamo con l’autore: non è per vanità che Berlusconi passa il tempo libero a rifarsi il look. Semplicemente, ha bisogno di essere riconosciuto. Non esageriamo: siccome tutto passa ed oggi tutto passa più velocemente, il mutare del suo aspetto fisico lo confonderebbe col resto della scena, mutevole nel mutare generale. Ed allora il restauro, fondamentale per la sopravvivenza visiva: fosse semplicemente disegnato, sarebbe lo stesso. Ricostruire una qualche politica non è possibile senza uscire dalle logiche della performance, del consumo, della velocità…

Materiali e ipotesi ricostruttive

Gli Italiani, “popolo in faticosa democratizzazione su una penisola troppo lunga”, “Nazione esaltata da Machiavelli ma accomodatasi sul Guicciardini”. “Cantiere sempre aperto dove gli ingredienti dell’antipolitica prendono gradatamente le forme della cittadinanza politica.” Dalle parole di Giovanni Bianchi alle celebri riflessioni di Leopardi e Prezzolini, il libro ci propone un mirabile affresco di ciò che siamo, nei vizi prima che nelle virtù.

Eppure, animati da incrollabile ottimismo, non possiamo fare a meno di notare che il popolo  “senza classe dirigente e senza vita interiore”, il popolo che celebra la furbizia in spregio dell’onestà e del’intelligenza, conformista, trasformista, cinico e perciò sommamente filosofo e visceralmente sarcastico, è il medesimo da cui Leopardi e Prezzolini provengono. Se e come sia possibile trasformare questi anticorpi in buone prassi e buoni progetti, è effettivamente materia che attiene al lavoro e alle buone intenzioni del politico.

L’affresco prosegue nelle rappresentazioni dell’ Italia e degli Italiani che, in tempi più recenti, sono venute da Pietro Scoppola, che prende le mosse da un’analisi del berlusconismo come fenomeno non alieno “è un’Italia … vera”, e ne ricostruisce le responsabilità storiche scendendo in profondità sul legame tra maturazione in senso moderno del popolo italiano e il suo rapporto con la “sua” religione.

Fino ad arrivare a Giulio Dorso, teorico del trasformismo, a Sturzo e a Salvemini. Dal trasformismo all’autonomismo, dalla frattura delle rendite di posizione fino all’assenza di una vera borghesia italiana, lo scenario è chiaramente reso e ci pare davvero molto vicino all’oggi.

Una esperienza, questa -ad opinione di chi parla- forse sottovalutata, nel suo essere e nel suo rapporto con il nord. Mi permetta l’autore un piccolo contributo alla disamina, le differenze tra settentrionali e meridionali lette da Sturzo: differenze culturali, ma necessariamente tradotte in economia, tra un nord votato a una cultura prettamente tecnica e del lavoro, e un sud le cui èlites erano votate agli studi e alla teoria. La differenza di passo tra queste due Italie ha forse concorso ad aggravare il divario, per incomprensione reciproca e per necessità (posizione geografica più favorevole al nord industriale), ma forse soprattutto per la mancanza di una sintesi (col suo risvolto pratico nella riduzione in Parlamento delle ragioni della non vitale borghesia meridionale alle ragioni dell’industria).

Un utile confronto tra le teorizzazioni federaliste, e l’osservazione che quelle di matrice settentrionale intervengono come soluzione postuma (ancora, il prevalere della tecnica rispetto alla teoria, da qui la Svizzera non è così lontana) più che come progettazione, non possono che condurci a concordare sul fatto che l’Italia è quel che il Mezzogiorno è, parafrasando Giustino Fortunato. Personalmente, credo di non sbagliare estendendo per analogia il discorso all’Unione Europea…

Ad oggi, la vera anomalia italiana è il suo sistema economico e sociale, che -sempre ad opinione di chi scrive- informa la politica e non il contrario. Anzi, vi sono poche probabilità che accada il contrario. Il cinismo, il disincanto, dice Natoli, la consapevolezza di dover fare da sé, portano gli Italiani a cercare soluzioni in proprio attraverso la rete dei propri interessi particolari e dei personalismi di Guicciardiniana memoria. La visione privatistica di uno Stato tendente all’ipertrofia e alla ri-privatizzazione attraverso i partiti, genera una tribalizzazione della società  civile e quindi delle istituzioni.

Così il sistema politico è reso inefficiente dalla stessa rete dei personalismi attraverso cui si riproduce. E in un certo senso, “è proprio il ceto politico che si incarica di alimentare l’antipolitica”.

Magari cercando di estromettere la cosiddetta “antipolitica” dal Parlamento impedendole di candidarsi… Nella rete di poteri tratteggiata da Gotor nella sua indagine storica sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e più in generale sul terrorismo, altro elemento cruciale nella nostra analisi, troviamo una angosciante verità: esse permettono alla barca di galleggiare ma ne impediscono la navigazione.

Riforme no, trasformazione (o trasformismo) sì, fino a che, per dirla con Giovanni Bianchi, dopo anni ci scopriamo diversi ma non sappiamo dire come sia accaduto. Eppure, questo cambiamento, che nel nostro Paese sempre accade quasi come fatto naturale ma mai si fa, oggi s’impone. Che il limite di saturazione sia stato raggiunto e superato pare, infatti, cosa evidente.

Come e da chi, rimangono interrogativi aperti. Specie oggi, che nuovi segni di trasformismo, sotto la bandiera delle cause di forza maggiore, sono visibili dentro la costituzione del “blocco moderato”.

Ottimisticamente togliamo lo sguardo dai personalismi per volgerlo, allora, al personalismo. Quello su cui poggia l’intera nostra, bella, Costituzione. Il personalismo Costituzionale come momento fondativo dell’Italia uscita in un sol colpo dalla monarchia e dal fascismo. Se il fascismo è il prevalere dello Stato sulla persona, allora l’antifascismo è il prevalere della persona rispetto allo Stato. E’ così che nasce lo Stato dell’inclusione sociale e del bene comune, lo Stato che riconosce alla persona umana una dignità inviolabile e che promuove. Siamo costretti a fermarci perchè  la bellezza della sua formulazione ci porterebbe a leggerla e “solfeggiarla” in tutta la sua prima parte.

Contro ogni liturgia della performance, della velocità, dei parametri macroeconomici, forse (è una ipotesi che lasciamo senz’altro all’autore approfondire) proprio un punto di vista fisso sulla persona, e una sua civile celebrazione, può essere utile nel complicato sforzo, che s’impone ad ogni politico (non ridotto né all’amministrazione né alla servitù) in questo difficilissimo momento storico, ossia di portare la nave Italia in porto sicuro e fiorente mentre procede alla ristrutturazione della nave stessa.

Il compito è arduo ma la Provvidenza, per quel che ne possiamo sapere, sempre in agguato. In attesa che qualche provvidenziale “errore” della storia ci venga in soccorso, occorre però tenere a mente alcuni elementi dai quali proprio non si può prescindere:  la competenza del nocchiero, la bontà e la chiarezza della rotta, e soprattutto, chiudendo con Martini e Weber, la volontà di tentare l’impossibile per ottenere il possibile. A pensarci bene, è la nobiltà della politica così intesa a nobilitare chiunque, e qualunque organizzazione democratica, si sacrifichino in questo lavoro.

Trascrizione della relazione di Giovanni Bianchi

Grazie per la recensione del libro, ma l’intenzione, ed è anche l’intenzione della conversazione di oggi, è quella di trovare, di approntare, di costruire qualche chiave inglese per smontare una realtà complessa di questi giorni disordinati, con la difficoltà generalizzata a pensare prima ancora che a programmare un futuro per questo paese. Stiamo qui, sulla mappa c’è scritto così, e credo che questo sforzo debba essere fatto e che ci sia in giro quasi una sospensione, e in qualche caso un’angoscia, dentro questa fase.

E lo sforzo è questo: di trovare qualche elemento che ci consenta anzitutto di capire laddove, per esempio, le indignazioni nei confronti dei tradimenti e così via, continuano ad agitare emozioni legittime ma spesso ci lasciano al punto di partenza, non ci conducono a trovare le cause di questo tipo di comportamento. Faccio un esempio molto banale. L’indignazione che ha attraversato tutto il popolo riformista (espressione quanto mai vaga del centro sinistra) per la bocciatura della candidatura di Romano Prodi è un’indignazione legittima ma non tiene conto però di alcune cose che la tradizione politica di questo paese ha sempre visto: comportamenti siffatti durante la prima repubblica videro impallinati Andreotti, Forlani, Fanfani, quindi grandi esponenti della Democrazia Cristiana, la quale saggiamente non parlava di tradimenti ma aveva evocato il termine “franchi tiratori”. I franchi tiratori sono una componente storica, direi, delle elezioni al Quirinale.

E quindi il problema non è tanto indignarsi in questo caso, ma capire le ragioni che stanno dietro a questo tipo di comportamento. Credo che, per esempio, pensare che la schizofrenia del segretario del Partito Democratico in questa congiuntura, il cambio di passo, il cambio di schema, il cambio di campo operato, abbia fatto perdere la bussola e abbia fatto emergere tutta una serie di posizioni che non erano improvvisate ma che venivano da lontano, oltre al fatto, come dire, di una valutazione di quello che è stato l’Ulivo, per esempio, già nelle sue contraddizioni: Ulivo di governo, Ulivo partito, era una dicotomia già presente allora.

Io ricordo una critica, come sempre molto acuta, molto esplicita di Bruno Manghi a Romano Prodi che diceva: “Sei il migliore a governare, non sei Mitterand”. E in effetti qui c’è una crisi consumata e non capita dall’Ulivo al quale non a caso succede una contraddizione, che è quella dell’Unione, costruita in tutt’altro modo e così via, con la presenza ancora disseminata di nostalgie di chi vorrebbe ritornare allo spirito unitario dell’Ulivo, allo spirito statu nascenti, con quello che aveva dentro da questo punto di vista di possibilità, di forma partito, e così via, che non si è poi mai realizzato, non si è lavorato da quel punto di vista alle forme del politico e non soltanto per lo stop brutale proposto a Gargonza da Massimo D’Alema.

Quindi ci sono dietro tutta una serie di… E io ho anche una mia interpretazione personale: l’Ulivo ha mancato, è venuto a mancare all’Ulivo, nel suo svolgersi, l’immaginazione creatrice che era tipica di quello che considero il padre dell’Ulivo medesimo, Nino Andreatta che era l’unico di questi che, a mio giudizio, aveva capacità di scenario. Ricordo perfettamente una riunione alla quale eravamo presenti, non è un amarcord, ma per precisare anche a me stesso alcuni passaggi sui quali non si è riflettuto, una riunione alla quale eravamo presenti Nino Andreatta, Enrico Letta, Lapo Pistelli, Roberto Pinza e il sottoscritto, alla vigilia della partenza di Romano Prodi per la presidenza della Commissione Europea, e ricordo perfettamente la totale contrarietà di Nino Andreatta a questo trasferimento in Europa del leader dell’Ulivo. Allora mi rivolsi a lui, lo avevo accanto, eravamo amicissimi, ci confidavamo spessissimo: “Ma allora, Nino, perché va?”. Lui disse: “Dovrebbe restare qui a fare il partito e invece ha scelto la professione al posto della vocazione”. Andreatta aveva, in questo caso, una ovvia citazione weberiana, aveva di queste uscite anche un po’ lapidarie, anche un po’ scioccanti alle volte.

Dico questo per capire come non siano cose accadute all’improvviso e che il fare un po’ di genealogia di questi problemi, sia sulle modalità delle votazioni nell’occasione della Presidenza della repubblica, sia sui processi politici che stanno dietro, dovrebbe rendere avvertiti, altrimenti l’uso di categorie come quelle del tradimento esprimono indignazione ma incapacità di comprendere anche dove comprendere è forse meno bello, fa fare i conti con tutta una serie di difficoltà, di aporie, di problemi irrisolti, di tanta polvere messa sotto la retorica del tappeto, però così non si capiscono i processi e si resta di volta in volta indignati, ma anche nudi verso la meta.

Ecco, erano solo riflessioni sull’oggi che dicono, anche in questo tentativo di conversazione, che vale la pena di tradurre qualcuna delle chiavi che ho cercato di mettere a punto dentro questo testo a partire proprio dalla vicenda che stiamo vivendo. Indubbiamente, la vicenda della Presidenza della repubblica, sia per come si è svolta, sia per gli esiti, sia anche per come è stata preparata, è un luogo, dal quale guardare la crisi nella quale ci troviamo e nella quale la politica viaggia, naviga ancora assolutamente a vista.

Quindi i sentimenti vanno bene, le passioni sono utili, le indignazioni funzionano, indignarsi è forse giusto e perfino bello in qualche caso, però non al prezzo di non capire quali siano le difficoltà e i problemi che abbiamo di fronte. Ecco, credo che ci sia questo bisogno di pensare politica rispetto al quale la carenza è evidente e anche qui malamente surrogata, come dire, vanificata ulteriormente da un’invasione mediatica che in questo senso ha sequestrato e poi ha svuotato progressivamente la riflessione politica.

Dico due cose che vivo contemporaneamente: l’impossibilità, almeno da tre anni, dentro il Partito Democratico di riuscire a trovare un luogo sul territorio nel quale si possa, si riesca a discutere di politica. Questo non accade, non accade nell’attivo della mia Sesto San Giovanni, neppure nella direzione e non succede negli altri luoghi deputati. È solo cattiva volontà? No, certamente no. Sono successi dei processi di sostituzione, ad esempio questa invasione dell’apparato mediatico: ma perché uno dovrebbe stare ad ascoltare le cose che racconta il suo vicino di sedia non sempre, come dire, profondissime, non sempre acculturato, quando ha a disposizione fin dalla mattina sulle reti televisive tutta una serie di talk show dove degli esperti discutono a un certo livello. Evidentemente, questo gli dà l’impressione di acculturarsi, probabilmente anche una certa acculturazione lo produce, gli soddisfa alcuni bisogni, poi però tutto questo non riesce a tradursi in politica concreta e tanto meno in capacità di decisione anche sulle piccole cose.

Questo è il problema della vanificazione del partito dall’interno. Lo scomodissimo e in molti casi assolutamente antipatico Giampaolo Pansa in quel libro,-à Carta straccia, sui giornali italiani fa un’osservazione assolutamente corretta: adesso sono i giornali che danno la linea al partito, un tempo c’era l’house organ, l’Unità, e il militante comunista andava la domenica casa per casa dicendo: “L’Unità dice la verità”, ma io ho in mente tutta una serie di espressioni dialettali degli operai sestesi rispetto al loro quotidiano, ma era l’espressione del pensiero del partito o quanto meno del comitato centrale, della leadership. Adesso è Repubblica che dà la linea al Partito Democratico, adesso sono Libero e Il Giornale che spesso danno la linea allo stesso PdL, al partito del Cavaliere, salvo poi scontrarsi con la leadership reale e sorretta nel modo che sappiamo da Berlusconi, ma è veramente mutato da questo punto di vista. Chi lo ha messo nero su bianco, e Pansa lo ricorda, è quel Sechi già direttore del Messaggero e poi del Tempo, che non a caso abbiamo visto in talk show, fa parte della compagine ex civica di Mario Monti ed è passato alla politica.

Sempre più questa sostituzione avviene, e io credo dia l’impressione di un dibattito politico che poi non cala nelle cose politiche, soprattutto negli organismi della politica, al punto che una domanda concreta che ormai credo dobbiamo porci e che io comincio a pormi è: è possibile fare politica senza partiti? Credo che nella sua brutalità, nel suo schematismo, nella sua semplicità questo sia un problema che il paese ha di fronte: siamo in ritardo o è, ancora una volta, un anticipo italiano da questo punto di vista? Non so rispondere ma metto lì l’interrogativo.

Io ricordo sempre che quando guardiamo alla crisi della nostra politica non dobbiamo dimenticare una cosa comparativamente al resto d’Europa: questo è l’unico paese europeo, è l’unico paese al mondo che a far data dal 1989, la caduta del muro di Berlino, ha azzerato tutto il precedente sistema dei partiti di massa. E questo è un dato: non c’è più il PCI, non c’è più la DC, non c’è più il PSI, non c’è più neanche l’MSI; il partito più vecchio e stagionato non a caso è la Lega. E i partiti erano momenti del rapporto tra società civile e istituzioni, momenti della quotidianità: siamo stati noi italiani negli anni ’60 e ’70 a coniare, anche giustamente, l’espressione “il personale è politico”. Abbiamo avuto qui, tra i nostri relatori, negli anni scorsi, Guido Viale che ha scritto uno stupendo libretto, A casa, che mi ha regalato, una sorta samitzdat, di quei libri che non entrano nel circuito commerciale (e probabilmente è la cosa più bella che Viale abbia scritto), dove ripercorre la sua vicenda: come la politica fosse entrata nei gangli della quotidianità al punto che in una serie di pagine bellissime si pone il problema: “Ma io ho condotto mio figlio in giro con me in tutte le redazioni dei giornali di sinistra e di estrema sinistra; che padre sono stato? In che maniera ho educato?”. Per arrivare poi a una conclusione che mi sembra altrettanto stupenda dove dice: “Ho alla fine capito che è stato mio figlio a educare me”. Non so quanto la cosa funzioni, però dice di una modalità di vivere la politica che i partiti di massa, i movimenti dialettici ed eredi in quel modo hanno rappresentato in questo paese come fenomeno di massa.

Pensate cos’erano le feste dell’Unità… Adesso come Partito Democratico si son dovute sospendere. Perché? Perché con le feste dell’Unità il partito si finanziava e adesso invece abbiamo avuto, proprio qui a Milano, dei buchi enormi susseguenti al fallimento del format, della presenza della festa: è finita la figura del militante politico che sorreggeva. E questo, badate bene per quel che significa, in un paese dove Togliatti, non a torto (e in parte diversa anche De Gasperi asseriva questo giudizio, senz’altro più di De Gasperi Dossetti), diceva: “Questa è una Repubblica fondata sui partiti”. Espressione togliattiana che, cosciente della debolezza strutturale, storica dello stato, vedeva i partiti venuti dall’antifascismo surrogare uno stato debole.

Qui c’è stata una catastrofe, c’è stato il crollo che ha riguardato non soltanto le ideologie, della cui morte si discute fin dagli anni ’50 grazie ai testi di Barthes, ma è entrata dentro la quotidianità, in un paese che viveva di politica, dove non a caso si diceva “il personale è politico”, dove il rapporto tra quotidianità e ideologia e organizzazione di partito era quotidiano, era veramente vitale.

Anche un sacco di letteratura, di letteratura non sociologica, pensate alle cose di Calvino, pensate al suo La giornata di uno scrutatore, pensate ai libri di Giovanni Pirelli, quello sul Vanguard, sulla cellula dentro la fabbrica, e così via. Pensate a Ottiero Ottieri: noi abbiamo tutta una letteratura che dice come vi fosse una quotidianità, un modo personale di vivere la politica che attraversava i partiti, ne era condizionato ma anche li condizionava. Non c’è più nulla di tutto questo e allora uno deve chiedersi come si fa politica in questa condizione.

Lasciamo tutto surrogare dai media, i quali anche possono fare discussioni in carta patinata, quando non gridate; abbiamo visto la politica imitare nei toni i talk show di Biscardi sul calcio in molti casi, e però ci sono anche… a me è capitato quando ho guardato (guardo sempre malvolentieri la TV) qualche volta la mattina il talk show sulla politica de La7, con personaggi, ma alla fine cosa ne esce per la politica organizzata e quotidiana che pur dobbiamo fare in questo paese? Nulla, è una sostituzione. Ecco come si fa politica a partire da questa condizione.

Io vengo da un’esperienza, quei nove mesi che ho fatto alla segreteria del Partito Democratico, avevo chiesto praticamente una cosa: “Non vi tocco le rendite di posizione, i vostri piccoli…, lasciatemi costruire il partito”. Non è stato possibile perché gli accordi tra i maggiorenti volevano il partito come variabile dipendente del proprio comodo e che per prima cosa non fossero toccati questi accordi e questa era l’imposizione e il partito era impossibile farlo. Quindi, ci sono delle cose che stanno dentro alla quotidianità della politica che vivo, che ho vissuto, sulle quali sto cominciando di nuovo a riflettere anche nella prospettiva delle prossime scadenze, e lo dico anche per rapporto a quello che facciamo col Dossetti. Noi cosa facciamo? Facciamo un’azione che è di promozione politica, di acculturazione, di crescita della coscienza, quello che Dossetti diceva: “Ho fatto per tutta la vita”.

Nella relazione al clero di Pordenone Dossetti quando ripercorre tutta la propria esistenza dice: “Io non sono mai stato al governo, non ho mai fatto neppure il sottosegretario, che cosa ho fatto? Ho promosso coscienza politica”. Proprio è la sua espressione, è la sintesi della sua vita al punto che io penso che sia legittimo distinguere drasticamente tra un primo Dossetti politico, e un secondo Dossetti monaco; c’è una vocazione che continua in questa riflessione sulla storia nel momento del suo farsi e nel momento di suscitare energie, per cui è il Dossetti che va a Rossena a dire: “Non ci sono le condizioni per le riforme che vogliamo fare perché non è all’altezza in questo paese l’opinione pubblica dell’attesa”. Questa è la ragione del suo ritiro.

Però con un’altra osservazione. Guardate io ho trovato, per esempio, andando a Napoli coi primi popolari quando ero presidente del Partito Popolare, gente che mi diceva: “Venne Dossetti appena fatto vice segretario della Democrazia Cristiana a dire che bisogna fare il partito”. Dossetti crede nel partito, De Gasperi molto meno. De Gasperi pensa alle istituzioni, pensa che sia sufficiente come cultura quella della dottrina sociale della chiesa. Dossetti non è affatto d’accordo, una delle regioni dello scontro tra i due, vede un partito come educatore un po’ sul modello concorrenziale con il Partito Comunista, un partito educatore del civile, un partito che promuove il civile da questo punto di vista. E mi dicevano i popolari di Napoli che Dossetti disse subito: “Bisogna fare il partito e per fare il partito bisogna fare una corrente, la mia!”.

Perché? Perché credeva in questo tipo di strumento, se volete anche con un certo settarismo, per la promozione del partito. Però Dossetti dice un’altra cosa che mi inquieta moltissimo ed è questa: questa crescita non avviene nelle scuole di formazione politica, o almeno avviene anche lì, ma deve avvenire dentro il farsi concreto della politica e dove avviene quindi nel rapporto tra il civile? Nel partito. Noi non abbiamo più strumenti di crescita, avremmo detto un tempo tra le masse popolari, dalla base, dal basso, se non si entra nella cultura politica. Il talk show te la da più o meno confezionata e non sappiamo che fare delle nostre forme del politico. Con un differenza, lo ripeto, rispetto alla situazione degli altri paesi europei. La Germania ha ancora la CDU, il CSU e l’SPD, si è spostato La Fontaine, è andato nella League e morta là. La Francia ha visto il fenomeno del gollismo che è un fenomeno mediatico all’interno del gollismo attraverso Sarkozy e così via, poi riassorbito. Noi abbiamo azzerato tutto il precedente sistema dei partiti di massa e stiamo a fare i conti con quelli che Berselli, dicendo del Partito Democratico, e credo però potendo estendere il giudizio a tutto l’arco, abbiamo dei partiti presunti.

Berlusconi è un partito carismatico, aziendale, e così via, che organizza un certo populismo, che conosce bene come sonono fatti questi italiani, il giudizio di Scoppola mi aveva colpito: non è mica un’Italia falsa è l’Italia che c’è; poi si può discutere sulla verità o falsità di questa Italia, ma lui organizza quella roba lì. Questo era il giudizio di Scoppola sul berlusconismo, con tutte le procedure che lo obbligano a seguire questo. Guardate, vi faccio una confidenza. Ci fu un Natale in cui Tony Blair andò a visitare le truppe in Iraq, le truppe inglesi in Iraq; Berlusconi sparì per 10-15 giorni, era premier, non sapevamo deve fosse; si seppe in seguito che era stato in Svizzera a farsi il lifting. Attenzione, la riflessione che fece, non è che questo sia un vanesio, questo è schiavo e sa benissimo quali sono le procedure che lui stesso usa nel rapporto con la gente, ha bisogno di apparire in quel modo lì.

Ricordo una collega, poi passata al centrodestra e grande collaboratrice della Moratti al ministero della Pubblica istruzione, che era stata eletta con me nel Partito Popolare nel 1994, e venne sconvolta, eravamo appena entrati alla Camera, e dice: “Ho incontrato Berlusconi, ma sai che è tutto pieno di cerone”. Le dissi: “Guarda, devi metterti in testa una cosa, Berlusconi non viene in questo Parlamento per parlare a noi o agli altri colleghi, ma per parlare al paese attraverso le telecamere e si tiene sempre pronto. Quel maquillage è una modalità di comunicazione dentro quel tipo di apparato”.

Sono cose sulle quali rifletto in questa fase vedendo l’incapacità finora realizzata di creare partiti. E l’interrogativo è: siamo indietro? È stata una catastrofe reale con conseguenze durature questa desertificazione dei partiti della prima repubblica, oppure può essere addirittura un nuovo anticipo italiano? Non so rispondere, però credo che l’interrogativo vada posto.

E mi pongo un altro elemento. Scusate se sono partito così perché preferisco fare un po’ di politica, che non politologia, da questo punto di vista. Ero giovedì a Firenze, una bellissima, devo dire, discussione tra vecchietti, un grande costituzionalista che non conoscevo e mi ha veramente colpito, Allegretti, e una donna, non ricordo più manco il nome, storica, fondatissima, sposata addirittura da Dossetti, l’argomento era Dossetti e così via. Chi mi aveva invitato era un gruppo del Partito Democratico che dirige quel quartiere dove eravamo, ecc. ecc. e che aveva fatto tutto un percorso, alcuni aclisti, e così via; adesso fanno un’attività culturale e mi parlavano del loro sindaco, Renzi, dicendo: “I fiorentini incominciano a seccarsi perché lui non c’è più a Firenze, è in giro a fare…”; penso sia anche legittimo da questo punto di vista, visto il ruolo che ricopre, la prospettiva che può rappresentare che Renzi, al di là della simpatia o no, faccia questo. Però la riflessione che proponevo anche a loro, è questa: se c’è una cosa chiara in Renzi è che Renzi è il personaggio più adatto a cogliere un voto che va al di là del perimetro del Partito Democratico. Ricorda un classico, perché poi la politica, come mi ha insegnato Miglio, ha delle sue costanti, ha delle sue regolarità; ecco lo diciamo con il linguaggio di Miglio e Karl Smith.

La DC: ho in mente l’intervista di Ettore Calvo fatta a De Gasperi, notate la data, il 17 aprile 1948, quindi alla vigilia delle elezioni in cui la Democrazia Cristiana ottiene la maggioranza assoluta. Ettore Calvo lo interroga, e in quella intervista, prima pagina del Messaggero, ho con me le fotocopie, De Gasperi dice: “Siamo un partito cristiano-sociale, di laburismo cristiano (dice esattamente queste parole), un partito di centro che cammina a sinistra”, cammina è il verbo esatto, non che guarda alla sinistra, che cammina a sinistra. Scusate, un partito come il Partito Democratico, che è di sinistra o di centro-sinistra dove deve guardare per prendere i suoi voti, o meglio dove deve guardare per aggiungere quella quota di voto significativa, quella utilità marginale che gli fa vincere le elezioni se non in quella direzione nella quale guarda Renzi, al di là delle simpatie o delle antipatie che ci sono.

Con un problema però che si ricollega molto bene alle cose che, secondo me, son venuto dicendo con un po’ di impeto in questo inizio di conversazione. Che Renzi ha capito benissimo che per fare quella funzione non deve fare il segretario di partito. Se ne tiene lontano, il che probabilmente dà la possibilità di acquisire quel tipo di elettorato che ti fa vincente, ma lascia ancora tutto scoperto il problema di chi fa il partito, quale la leadership e quindi quale profilo intorno al quale ci si raccoglie. Chè il leader, che non è il più bravo, se no il leader del Partito Democratico sarebbe Salvatore Natoli, il leader è un’altra cosa, il leader è uno che sta lì, che è il punto di riferimento che consente l’identificazione. Non era un grande intellettuale Di Vittorio, ma è stato indubbiamente il più grande leader sindacale di questo paese.

Chi fa la leadership, e quindi chi fa il partito in una fase come questa? Al punto che siamo ad aver capito tutti insieme, io lo esplicito, che Renzi lo ha chiaro e si muove così, e che dobbiamo trovare altri che faccia il partito e quindi dia un’indicazione sulla parzialità del partito, adesso insisto su questo elemento. Guardate che questo, per esempio è tipico della politica americana: che ce ne frega a noi del segretario del Partito Democratico americano, nessuno si ricorda chi sia Dean , non mi ricordo neppure chi sia il segretario del Partito Repubblicano. Che ce ne importa. Il candidato scelto attraverso le primarie è quello invece che parla meglio anche a quella quota che fa la differenza e costituisce l’utilità marginale nella corsa alla vittoria elettorale: e in questo senso si spiega anche, al di là del fatto che fosse meticcio, fosse veduto molto nero, Barak Obama rispetto a Hillary Clinton. Non so se voi li avete letti, io sì: il programma di Hillary era molto più bello, molto più progressista di quello di Barak Obama, ma proprio quel tipo di programma di Barak era più adatto a cogliere il voto, non di quelli che seguivano il Tea Party, ma di una quota, in un sistema bipolare, di una quota di elettorato che è quella che fa la differenza.

Noi probabilmente potremmo risolvere questo problema della leadership per le elezioni, e non so se a questo punto funzionerà ancora in maniera vincente, ma resta ancora tutto aperto il problema della leadership, della cultura, intorno alla quale costruire il partito. E sto parlando del Partito Democratico non perché vi appartengo, ma perché è l’unico partito. Gli altri sono già tutti altra cosa, compreso Niki Vendola che, con un’astuzia diciamo tradizionale, è riuscito a portare con la coalizione, alleandosi, in Parlamento una quota di parlamentari che altrimenti non avrebbe ottenuto e che poi con un argomento, tutto sommato, politicamente plausibile, non dobbiamo vulnerare il nostro rapporto coi cittadini, anzi coi nostri elettori, dopo il governo di strane intese, ecco chiamiamolo così, voluto da Giorgio Napolitano, si è portato pure a casa anche la presidente della Camera. La sua quota sta là e si è ripreso la sua autonomia. È un’indicazione di grande abilità politica però non fai un partito così.

Quindi l’unico luogo intorno al quale si discute se sia logico ancora fare un partito in questo paese e in che senso. Io davvero mi chiedo se, dopo quella catastrofe dell’azzeramento dei partiti di massa, siamo in ritardo o addirittura un’altra volta in anticipo che ci obbliga a pensare nuove forme del politico, qualcosa di analogo al partito e così via. Ma questo problema c’è. E questo problema, badate bene, sta alla base della presunzione di partito, uso il termine di Eddy Berselli che venne tra noi e che quando ci salutammo al break mi aveva chiesto: “Chiamami un’altra volta”, gli era proprio piaciuto l’incontro… Lui dice: un partito presunto. E se si discute di un partito, della possibilità di fare un partito, anche per un osservatore marziano, questo riguarda il Partito Democratico.

E qui mi permetto di proporre due osservazioni. Io credo, e persino mi sono trovato d’accordo con Raniero La Valle questa volta in un suo editoriale sulla Rocca, è un pezzo che non mi trovo più d’accordo con lui, e mi son trovato d’accordo anche con l’ultimo, secondo me è da seguire Gianfranco Brunelli, editorialista e notista politico del Regno, ulivista, che non a caso, mi confidava lui, ha litigato da ultimo anche con Romano Prodi, e così via. Una considerazione che condenso in questi termini: si può fare un partito senza una cultura politica di riferimento? La Valle dice: “Come potevano meticciare due culture entrambe in fuga da se stesse?”. Brunelli dice: “In fondo, il Partito Democratico non ha cercato nulla di tutto questo, ha semplicemente condotto in termini di continuismo mascherato le diverse metamorfosi di un PCI che non è stato in grado di uscire da se stesso”. E l’apporto dei cattolici democratici, della sinistra democristiana, dei popolari e di quelli che venivano dalla Margherita, ho fatto tutti i passaggi, è stato un apporto semplicemente, brutalizza Brunelli, io in genere lo faccio con molta più delicatezza, posti contro presenza.

In effetti, togliamo il livore brunelliano, togliamo il giudizio morale o moralistico, in effetti le cose sono andate così; si è pensato che per salvaguardare una cultura minoritaria là dentro fosse opportuna una logica condominiale, ci riserviamo alcune posizioni. Non ha funzionato, non ha funzionato perché il riservare alcune posizioni ha finito per ingessare i rapporti nel partito e per svuotare le medesime correnti dall’interno. Questo è dimostrato che non funziona, devi trovare un’altra strada. Quale? Il problema è aperto , credo che sarà un problema aperto anche nel prossimo congresso, per il quale però, dedichiamo quello che ho detto poco fa, secondo me già si evince una cosa, la dicotomia tra la leadership adatta a vincere le elezioni, a parlare a tutti gli italiani o alla parte più vasta, e la segreteria del partito.

Americana come soluzione? Può essere. Cosa sta dietro: secondo elemento sul quale già nel libro ho cercato di riflettere in termini sturziani, perché credo che Sturzo sia ineliminabile per tutto. Il partito è parte, Sturzo rompe col cattolicesimo tradizionale, e non solo tradizionale, facendone un partito. La frase che usiamo in termini di propedeutica alla laicità, il partito è parte e quindi è combattimento, è battaglia, è divisione, la religione è altra cosa, deriva da qui. E Sturzo fa un partito e, vedi caso, non lo fa per i cattolici, ma si rivolge ai liberi e forti e fanno parte del partito coloro che fanno riferimento al programma. Non c’è nessun certificato di battesimo, che è una battuta pur simpatica che diceva La Pira: “Io sono democristiano, non ho la tessera, ho il certificato di battesimo”: però poco laica come affermazione e retro rispetto a Sturzo.

Sturzo fa questo, ma c’è l’altro elemento che ci riguarda e sul quale ho visto che alcune riflessioni in questi giorni intorno al tema che sto affrontando (quale partito? quale Partito Democratico?), perché ripeto è l’unico partito che riprova questo tipo di strada, è il discorso, centralissimo nella politica sturziana, del limite. La politica parte da un limite e ha riconoscimento del suo limite. Io faccio un partito, so di interpretare una parte, poi cerco di ottenere il massimo di consenso e però è da qui che si parte. Guardate, questo è un problema che riguarda sia molto dall’interno la vicenda del Partito Democratico, come quella anche del Movimento 5 Stelle.

Dove sta il problema? Che cosa fa problema da questo punto di vista? Partiti, non solo catch-all parties come si diceva ancora per la prima repubblica, che cercano di allargare al massimo il proprio consenso, ma partiti totalmente saperti a tutta la società civile. In fondo anche l’idea di partito tendenzialmente maggioritario, l’idea veltroniana, è un’idea che schiaccia il partito sulla società civile, è più che un catch-all parties, è proprio il tentare di interpretare tutto; io credo che questo vada assolutamente messo in discussione: Il partito sceglie un proprio punto di vista e da lì si rivolge alle diverse…., e da lì media: Non è che incamera.

Questo è un problema anche di Grillo: Grillo in termini di protesta ha preso la protesta dovunque venisse e questo però gli ha impedito, al di là dell’intelligenza politica, di muoversi, perché se ti sposti in un senso perdi la parte che è arrivata al Movimento 5 Stelle lasciando Berlusconi, se ti muovi nell’altro perdi la parte… Non è solo questo, secondo me, poi che funziona dentro la paralisi, il congelamento in frigorifero dei voti di Grillo, anche se la cosa poi viene presentata in termini di sublimazione: noi siamo altro e il Parlamento deve diventare tutto grillino, laddove la politica ha sempre insegnato che quando hai due avversari, chiunque tu sia, ti colleghi con uno per battere l’altro e poi te la fai col tuo compagno di strada o amico di coalizione che ti ha consentito di battere il primo avversario e contendente. Non vedo altra soluzione interna alla lotta politica, le palingenesi…è come se dappertutto ci fosse l’albero storto della natura umana salvo che nei grillini e questo possa raccogliere attorno a loro l’unanimità tendenzialmente del paese.

Però, guardate, questo mette in crisi una certa modalità del partito. E qui io aggiungerei anche un’altra cosa, poi mi fermo su questo e dico due cose più… perché mi sono servito delle riflessioni che ho fatto nel libro, ma ho preferito partire, vista anche la condizione per come ci muoviamo in questa fase, da questa osservazione, ovviamente opinabile, intorno alla quale però sto riflettendo anche con altri per vedere come muoversi. Perché poi la politica non è soltanto fare i corsi di formazione, bisogna tenere distinte le due cose, però c’è da fare un partito, c’è un congresso. Come ti muovi? Cosa fai? Se no resta sempre un discorso soltanto propedeutico e così via. La politica non è una politica alla maniera di Dossetti, anche se metti al primo posto la crescita della coscienza politica.

L’altro discorso che abbiamo, da questo punto di vista e che si ricollega tutto sommato, secondo me, al discorso del partito vocazionalmente maggioritario, discorso fatto a Orvieto e che propiziò da subito la caduta del secondo governo di Romano Prodi, se ricorderete, poi le cose si tengono anche da questo punto di vista, ebbene è il discorso sul partito riformista.

Io devo dire che ho sempre più difficoltà a dare consistenza, a capire cosa stia dietro a queste etichette, a questa vocazione, quale riformismo? Tra Fassina e il giustlavorista milanese sempre sulle cronache che affinità ci sono? Non dico che bisogna per forza contrapporle: ricorderete che facemmo un bell’incontro con Tito Boeri e Luciano Gallino, ci sono anche dialettiche, ecc. ecc., però mi sembra, soprattutto senza farla tanto lunga e vedendo qual è stato l’esito, da una parte di Tony Blair, la terza via, non ne parla più nessuno. Forse l’ultimo luogo in cui la ricerca del riformismo è ancora drammaticamente e perfino accoratamente aperto, ho letto alcuni suoi ultimi interventi, è la Germania con Ulrich Beck. Probabilmente qualcosa li…

Ma questa vocazione del riformismo e noi abbiamo fatto un partito riformista, sì, che significa? Con poi la contraddizione interna che i riformismi che si sarebbero dovuto incontrare si premuravano subito di dire: “Io non voglio morire socialdemocratico, io non voglio morite democristiano”. Allora, tenti un incontro con quel riformismo o con la sua estenuazione, il suo ostacolo, zombi di quel riformismo? E anche questo è un problema che alla fine… io sono, come dire, disponibile a fare un discorso sul riformismo, ma su quali contenuti? quali sono gli elementi? Perché riformista si è dichiarato dall’inizio alla fine anche Mario Monti, ad esempio, ed è sicuro che non mi metterei all’interno di quella componente.

E quindi io credo che bisogna ritornare a questo concetto di limite: il partito ha un punto di vista parziale e si rivolge a tutta la società. Questa idea di assumere tutte le tensioni, le tendenze, ecc. ecc., io credo che sia crollata e probabilmente con questo mi chiedo se non sia entrata in crisi anche l’idea, che poi è veltroniana che questo partito alla fine è rimasto un partito di allure veltroniane, dove il veltronismo mi sembra una grande capacità di alludere agli scenari e al moderno, dove è difficile poi trovare la radice vera.

Mi fermo qui, e dico un paio di altre cose che fanno più riferimento alle riflessioni che stanno dentro il testo. La prima ovviamente è quella che mi ha portato anche al tema, al titolo: Politica e antipolitica. L’idea che propongo, sulla quale ho cercato di riflettere, è questa: come sempre il campo di Dio e il campo di Satana sono il medesimo, il campo della politica è lo stesso campo dell’antipolitica; qui si gioca la partita. I populismi, tutte queste forme che chiamiamo antipolitica, più facili ad esempio quelle degli occupanti: non occupare il Partito Democratico, lì non c’entra per niente l’antipolitica, anzi è una lotta politica da cortile, ecco, per alcuni versi, perfino paracorrentizia o dentro la visione del cambio generazionale, non centra niente con l’antipolitica. Ma gli occupy in giro, una serie di movimenti, di tensioni, ecc. sono state definite antipolitica.

La prima osservazione che io faccio è questa: siccome il campo è il medesimo, il confine tra politica e antipolitica è un confine poroso ed è percorribile nei due sensi, nel senso che l’antipolitica può diventare politica e questa può diventare antipolitica. Mi importava anzi tutto cercare di capire… oh, chi come al solito ha capito in anticipo era quel destro maledetto di Karl Smith, tanto è vero che vedendo le insorgenze dell’antipolitica lui aveva creato un’espressione da noi storpiata, usata malamente in senso estensivo del linguaggio: la politica è quella che noi chiamiamo politica, tutto il resto lui lo definisce inpolitico: questa è la definizione che già Karl Smith dà. Noi poi abbiamo usato inpolitico nel dibattito ecc. ecc. in maniera estensiva e così via. Per Karl Smith del politico, al maschile, almeno nella nostra traduzione, fa parte anche l’antipolitica, il politico comprende tutto, poi dentro il politico hai la politica e quella che noi chiamiamo antipolitica.

Non è il gusto delle distinzioni, però per evitare confusioni, capire di che cosa… Il che vuol dire una cosa, quindi: che l’antipolitica non è destinata per natura e per radice a restare sempre tale, è in attesa molto spesso di qualcuno che la interpreti politicamente; se tu non la interpreti verrà interpretata contro di te: siamo al solito Egel che uso come una giaculatoria: sempre la politica nasce da quel che politico non è, il suo compito è dargli forma politica. Anche qui siamo nel campo.

Ecco, qui abbiamo una grande espressione del politico oggi con quegli elementi che chiamiamo di antipolitica. Per guardare un po’ dentro all’antipolitica ho fatto tre ripartizioni. L’antipolitica è quella che trovate in quei movimenti che si richiamano fuori, i populismi, i populismi talvolta anche violenti o comunque che muovono al di fuori esplicitamente della politica tradizionale e anche riformata. Nella seconda forma però di antipolitica sulla quale, io credo, bisogna richiamare l’attenzione perché ci riguarda anche da vicino in questo paese, è l’antipolitica che si annida nei luoghi deputati del politico: i partiti che hanno comminato scomuniche di antipolitica molto spesso lo fanno da luoghi interni di antipolitica. Qui mi servo dell’autorità di Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, ultimo capitolo, dove Hannah Arendt, descrivendo negli anni ’60 da Preston, dice che spesso l’antipolitica si annida nella politica laddove i percorsi di carriera, di professionalità diventano prevalenti e quanti esaustivi. A quel punto, e cito, a memoria ma quasi letteralmente, non serve più il curriculum, la professionalizzazione politica, ecc., basta l’astuzia del buon piazzista. Quindi, spesso la politica sta anche laddove vengono confezionate le scomuniche nei confronti della antipolitica. La stessa cosa la ritrovate, per quel che riguarda i sistemi dell’est. Per esempio Milan Gilash, La categoria della nuova classe, il grande revisionista jugoslavo nei confronti di…, la nuova classe che si crea è questa roba qui. C’è un’intervista anche molto bella di Gorbaciov, il quale riflettendo su il perché la perestroika ha fallito, diceva questo: perché nel Partito Comunista c’erano posizioni molto dignitose e così via, però l’apparato era quasi tutto fatto da carrieristi antipolitici. Quind,i se c’era un sistema tutto politicizzato, ideologicizzato, partito unico, e così via, era quello, anche lì l’antipolitica può allineare.

Mi sono poi sforzato, anche riflettendo in particolare sulla condizione italiana, e sulla mia esperienza sull’associazionismo e il volontariato, non dimenticate che uno start del volontariato italiano è una riunione degli anni ’80 a Firenze in cui Acli e Arci con monsignor Nervo ci troviamo, diamo il via, poi ci sarà un’esplosione grazie a Dio incontrollata e incontrollabile, però qui c’è la possibilità che anche dentro il volontariato si annidi l’antipolitica. Quando? Quando in particolare nel rapporto con le istituzioni, con un assessore, con il potere economico, chi guida, chi gestisce, chi fa del volontariato in termini di dirigenza, e così via, è tentato, io questa tentazione da presidente delle Acli l’ho provata, e dico di una cosa che è anche frutto di esperienza e che ho visto poi anche generalizzata, pur di avere più fondi, quindi più potenza, più capacità di intervento per la propria organizzazione, abbassa il profilo riformatorio, ossia riduce la ragione sociale per la quale l’associazione volontaria è cresciuta. Questa è una forma di antipolitica. Lo dicevo scherzosamente ai miei, spesso un volontario incontra troppo presto un assessore il quale non ha in mente di migliorare o allargare il servizio, ma di ridurre i costi. E allora il volontario serve di più in questa funzione parastatale di ambulanza, serve di più, è conveniente rispetto a posizioni invece più qualificate dal punto di vista professionale, o se non più qualificate, anche più burocratizzate, se volete, però il discorso non cambia.

Quindi quello che mi importava dire da questo punto di vista è proprio questo: le forme dell’antipolitica sono molteplici e però l’intreccio con la politica esiste, è possibile, e soprattutto il confine tra politica e antipolitica non è un confine segnato una volta per tutte, è un confine poroso attraversabile nei due sensi. La palla ritorna alla politica.

E in fondo io sostengo anche in questo senso, rispetto alle ultime elezioni, che tutto sommato, sì, abbiamo perso sei-sette punti in percentuale rispetto alle elezioni precedenti, ma che abbia votato il 75% degli italiani, e che una parte abbia votato con rabbia e in termini di protesta, è comunque una domanda che l’italiano fa ancora alla politica. Tra tante cose che possono preoccupare questa è una buona notizia, la notizia diventa meno buona se si guarda alle capacità della politica di rispondere e alla voglia di rispondere, dove tutte le incrostazioni, il porcellum, tutto questo, tu lo hai ricordato, quella che è una mia convinzione: noi ci troviamo di fronte nel nostro paese a questo fenomeno della casta che oramai è una categoria del politico italiano. Era una battaglia giornalistica di Rizzi e Stella, la casta rappresenta esattamente il processo di un ceto politico che pur di perpetuarsi ha rinunciato a essere classe dirigente.

La gente lo ha capito, è contro, per questo è anche contro ai costi delle politica anche se alcune volte i costi della politica non sono in grado di dare nessun respiro all’economia del paese, o molto poco, però sono essenziali per una cosa, sono essenziali a che la classe politica recuperi quel minimo di dignità che le consenta di governare. Questo è il vero discorso intorno alla casta. Anche se metti tutti i parlamentari a pane e acqua non è che risolvi il problema del debito pubblico del paese o hai i fondi per implementare l’occupazione giovanile, ma senza di questo questa classe politica non è più in grado di governare. E infatti i provvedimenti che vengono hanno giustamente questo senso: si è capito, al di là della propaganda e delle furbizie di tutto questo, però è la direzione nella quale muovere. Io credo che intorno a questo bisogna assolutamente riflettere.

Due cose conclusive. Primo, nelle discussioni intorno al destino del partito e dei partiti in questo paese, che poi riguardano una cosa essenziale: dove trovi la classe dirigente? Questo è un paese privo di classe dirigente, abbiamo saccheggiato, sia per il Quirinale come per Palazzo Chigi, la Banca d’Italia. La Banca d’Italia ha un governatore, se vogliamo metterla sempre sul piano del moralistico, della casta, che guadagna 4 volte Bernanke, ossia il governatore della FED; ha più dipendenti della Banca d’Inghilterra, ha qualcosa come 2000 consulenti non con stipendi di fame. E però con tutto questo è stato l’ultimo luogo, l’ultima miniera di classe dirigente a livello apicale per questo paese, potere di una banca, perché produce, laddove un’industria produce molto meno. Un tempo la gente che veniva dall’IRI, dall’ENI erano gestibili: governo, sottogoverno, erano classe dirigente, non ci sono più. E la Banca d’Italia, con queste cose, con qualche aspetto castale che non ho taciuto, è stata l’ultima mela. Abbiamo il problema del dopo.

Ecco un problema che riguarda il partito. O, per carità, secondo me una soluzione nel buon senso, che è poi la prassi, la pratica ti obbligano, noi abbiamo cercato di ridurre in presenza di queste formazioni, in assenza dei partiti, abbiamo fatto una cosa che probabilmente è l’unica e che ha avuto una sua saggezza: ridotto le distanze tra la politica e l’amministrazione. Quanto meno l’amministratore un suo tirocinio lo fa, uno che ha fatto l’assessore, lo prendi, dai. Non a caso abbiamo avuto il movimento dei sindaci e la figura di sindaco, da Renzi a Chiamparino ecc. ecc., regge da questo punto di vista. Ossia è una via alla francese, secondo me. In Francia nessun leader è tale se non ha fatto prima il sindaco della sua città; anche noi abbiamo… la stessa leadership di Renzi ha dietro l’ANCI, l’associazione dei sindaci e quel Del Rio, sindaco di Reggio Emilia, che non a caso ha fatto il ministro: non nasceva solo così o per la capacità di colloquiare dentro i media, c’era dietro questo, dal punto di vista dell’organizzazione politica, l’ANCI, i sindaci e qui è una via che abbiamo percorso.

C’è un’altra via che mi convince molto meno, ma qui so di fare contento Salvatore Natoli e la sento molto spesso ripetere dal nostro comune amico Massimo Cacciari. Manca il carisma, insomma, l’evocazione del fatto che i partiti non funzionano e così via, la personalità carismatica. Può essere, a me fa qualche problema. Tutta la testardaggine a lavorare intorno ai partiti è per evitare quelle soluzioni che discendono da un carisma e quindi dalla… s,ì puoi trovare il decisore nello stato d’eccezione, tutte queste belle cose qui che conosciamo tutti, però… se no a questo punto il rimpianto è perché non abbiamo un Berlusconi di sinistra? Anche se Berlusconi poi, quanto a leadership, secondo me, è abbastanza discutibile. Ha indubbiamente questa grande capacità mediatica, è un grande pifferaio, che poi però alla fine anche gli italiani che lo votano, che lo votano nonostante o grazie al bunga bunga, a tutte queste cose, sanno che è come se Pulcinella venisse a raccontarci che l’oro dei Nibelunghi l’ha nascosto lui nelle acque del Reno. Dal punto di vista poi dell’affidabilità politica c’è una carenza evidente E un personaggio così complesso, a me sembra adesso quando lo vedo con la giacca, sempre in doppio petto, con la camicia nera aperta sul petto e il cappello, è la figura, sono le fotografie di Mussolini liberato al Gran Sasso da Otto Scorzeny. Lui cerca, però è una rissa, è una rissa che è durata 20 anni, anche per mancanza di suoi.

Però io non credo in questa evocazione anche a sinistra, al centro-sinistra, in chiave di democrazia che a quel punto non sarebbe più partecipata, nell’evocazione della personalità carismatica, ecco. Non mi sento di spendere energie proprio per le cose che facciamo, per come ci siamo mossi e come andiamo, da questo punto di vista.

Un’ultima cosa sulla quale vorrei richiamare l’attenzione, e finisco qua, è questa. Mi chiedo, anche rispetto ai sistemi elettorali e a tutto quanto è avvenuto, se non dobbiamo rivedere la priorità cha abbiamo assegnato, dal ’96 in poi, al concetto di governabilità. Certo che ci vuole la governabilità, però ho in mente anche che un po’ di genealogia non disturba in questi casi: la governabilità è un concetto immesso nella politica mondiale a metà degli anni ’70, esattamente nel 1975 con la riunione di Kyoto della Trilateral Commission, il discorso sulla governabilità viene fatto da Huntington, quello dello scontro di civiltà, in Italia il discorso sulla governabilità è generalizzato e messo nella pubblicistica da un libro con la prefazione di Gianni Agnelli. E allora si coniò, anche noi abbiamo la memoria cortissima, un termine dentro il discorso della governabilità che riguardava l’Italia, e si parlò di anomalia italiana. Il discorso sulla governabilità da dove partiva? Esiste nel mondo un eccesso di democrazia.

Ora, perché ho allocato questo? Non perché è un concetto che nasce a destra e non lo uso, sbagliato, secondo me, se funziona, anche se lo hanno inventato a destra… i concetti che usiamo sono sempre innocenti. Io credo però a una riflessione, perché poi hai pensato tutto, i sistemi elettorali, ecc., io credo che intorno a questo anche una riflessione vada fatta. Ma per fare queste cose, e ho finito, diventa imprescindibile il discorso sulle forme del politico, sul partito, chi lo fa?, come lo si fa? In questa fase cosa vuol dire fare un partito, partiti plurali come si disse, tutte queste cose qua; in effetti c’è ancora questo tipo di evanescenza e credo che, soprattutto quando si evoca il congresso, poi si cerca sempre a dilatarlo, a trovare emergenze, a fare cose perché non si sa come farlo.

E io credo che un discorso quindi che riporti alle culture politiche, a uno sforzo in questo senso… non abbiamo più nulla che assomigli, che so, al codice cosiddetto di Camaldoli, e a cose di questo genere… Probabilmente, il dedicare per questa politica un po’ più di tempo alla riflessione e alla ricerca, è cosa che attiene molto direttamente ai suoi esiti e anche ai suoi esiti in termini prammatici. Questo è almeno l’interrogativo che mi sembra da queste riflessioni che ho cercato di fare emerga ed è un interrogativo intorno al quale, non a caso, ci stiamo arrovellando e non è ancora ovviamente risolto, ma probabilmente non c’è altra strada per una democrazia che voglia essere governata che affaticarsi anche intorno a questi problemi.

Ho finito.

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