Mauro Magatti. La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto.

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Corso di formazione alla politicaL’approccio del Prof. Mauro Magatti al tema della libertà è di taglio interdisciplinare, e prende luogo dall’analisi critica delle modalità di sviluppo del mercato globale attraverso la descrizione di processi storico-economici di mutamento sociale. Le conseguenze di queste dinamiche? L’imporsi di un modello di crescita basato sullo svincolarsi dell’economia dai vincoli sociali e istituzionali. La logica di razionalizzazione del mercato è l’architrave del capitalismo tecno-nichilista. “Tecno” perché fondato prevalentemente sulla tecnica, “nichilista” perché fondato sulla piena disponibilità di qualunque significato degli attori socio-economici, dove l’elemento fondamentale è la crescita delle possibilità. La libertà è percepita come scioglimento da qualunque legame di valore e di senso, e di fatto induce a comportamenti soggettivi stereotipati esaltando l’autonomia, la connettività strumentale, la visibilità, e la propensione al consumo come soddisfacimento.

Mauro Magatti. La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto.

1. leggi il testo dell’introduzione di Paolo Masciocchi

2. leggi la trascrizione della relazione di Mauro Magatti

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

1. premessa di Giovanni Bianchi 3’10” – 2. introduzione di Paolo Masciocchi 29’40” – 3. intervento di Giovanni Bianchi 1’02” – 4. relazione di Mauro Magatti 59’16” – 5. prima serie di domande 15’28” – 6. risposta di Mauro Magatti 15’29” – 7. seconda serie di domande 19’07” – 8. risposta di Mauro Magatti 16’30”

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Introduzione di Paolo Masciocchi a Mauro Magatti

Per esaminare il concetto di libertà utile alla comprensione della prospettiva di analisi sociologico-economica dell’Ospite, ai fini di introdurre le argomentazioni di Questi nel panorama europeo oggetto del Corso, è opportuno indicare alcune premesse significative, di carattere generale.

1. Avere ad oggetto di studio la libertà nel mondo delle scienze sociali significa considerare tale concetto nell’ambito dei comportamenti socialmente rilevanti degli individui, illustrando l’azione individuale nell’ambito delle interazioni sociali. Tra gli strumenti utili al sociologo a fronte di un tema di valore – la libertà – vi è il compimento di una ricognizione delle numerose variabili che compongono il tessuto dell’agire sociale per fornire un quadro di riferimento in cui formulare le proprie osservazioni.

2. Nell’ambito della sociologia, l’economia è una modalità dell’azione sociale, che fornisce elementi qualificanti il rapporto tra attori sociali nell’ambito della produzione, del consumo, dello scambio e di ogni altra attività significativa per l’utilizzo delle risorse materiali ed immateriali.

L’approccio del Prof. Mauro Magatti al tema della libertà è di taglio interdisciplinare, e prende luogo dall’analisi critica delle modalità di sviluppo del mercato globale attraverso la descrizione di processi storico-economici di mutamento sociale:

a. La costruzione delle società di mercato. A partire dall’utilizzo della moneta come unità di conto e mezzo di scambio si produce una prima forzatura verso l’incremento dell’efficienza produttiva, fornendo al mercato l’opportunità di svincolarsi dalle logiche della società in cui si sviluppa. Dalla moneta alla finanza contemporanea si assiste al percorso costante di svincolo dell’economia dal contesto sociale in cui si sviluppa, secondo un processo di progressiva astrazione dall’economia dal reale, verso una crescita esponenziale dei profitti.

b. La costruzione del sistema tecnico planetario. Le società moderne si sono sviluppate secondo il criterio prevalente della razionalità rispetto allo scopo – sopravanzando tradizione, valore e affetti – con la tecnica massima espressione di tale sviluppo. L’efficienza e il calcolo sono gli strumenti di valore massimo del sistema sociale. Nascono così ad esempio i fenomeni di urbanizzazione funzionalizzatrice nel territorio (Le Corbusier), oppure le politiche di ingegnerizzazione sociale dei servizi negli Stati (Welfare), con una spinta espansiva volta a creare un sistema tecnico planetario, volto ad un’universalizzazione dei comportamenti dove gli aspetti quantitativi prevalgono su quelli qualitativi.

c. La costruzione dello spazio estetico mediatizzato, inteso come proliferazione della comunicazione come fattore intrusivo del sistema sociale, verso una spettacolarizzazione della società e un sovraffollamento simbolico. La conseguenza più estrema è la perdita di gerarchie valoriali e lo smarrimento di un senso comune. L’agire economico ne è influenzato secondo una visione che riduce la temporalità dell’azione, secondo un’ottica di breve periodo e una progressiva crescita di importanza dei fattori soggettivi-emozionali.

Le conseguenze di queste dinamiche? L’imporsi di un modello di crescita basato sullo svincolarsi dell’economia dai vincoli sociali e istituzionali. Importanti fattori di tale crescita sono la mobilità (eliminazione progressiva dei vincoli geografici al mercato), la finanziarizzazione (fino alla prevalenza degli strumenti finanziari sull’economia reale), la tendenza a un orizzonte breve dell’agire economico, la modularità (produzione di beni di consumo fondate sulla quantità e sull’adattamento del prodotto a nicchie di mercato), la smaterializzazione dei beni offerti (nella logica della spettacolarizzazione emotivamente carica dei prodotti).

La logica di razionalizzazione del mercato come sopra descritta è l’architrave del capitalismo tecno-nichilista. “Tecno” perché fondato prevalentemente sulla tecnica, “nichilista” perché fondato sulla piena disponibilità di qualunque significato degli attori socio-economici, dove l’elemento fondamentale è la crescita delle possibilità.

Date queste premesse, la libertà è percepita come scioglimento da qualunque legame di valore e di senso, e di fatto induce a comportamenti soggettivi stereotipati esaltando l’autonomia, la connettività strumentale, la visibilità, e la propensione al consumo come soddisfacimento. L’economia diventa “psichica”.

Il modello del capitalismo tecno-nichilista ha subito la crisi attuale dei mercati, in particolare nella propensione alla crescita acefala, la crisi pertanto impone un necessario ritorno alla considerazione della validità non uivoca di questo modello di sviluppo.

Le vie d’uscita devono tenere in considerazione necessariamente una rimodulazione dei fenomeni di globalizzazione: il prof. Magatti individua in tal senso una “seconda globalizzazione”, in cui l’economia deve tornare a fare i conti con la politica e l’ambito immateriale proprio della complessità umana. La crisi in effetti oltre a produrre una rottura, può essere occasione di proporre un nuovo modello di crescita, che contempli alcuni elementi di riflessione:

1. Una considerazione della dimensione spirituale (sulla scorta della “profetica” analisi di Weber e Simmel), ossia di una considerazione più ampia dell’uomo oltre ai processi di soddisfazione e godimento tipici dell’ottica dell’economia tecno-nichilista. Ciò implica in primo luogo una considerazione della propria partecipazione ai fallimenti e alle negazioni.

2. L’elemento della vita, quale elemento di senso che superi una concezione materiale e “nuda”, votata al culto di una corporeità sensibile solo all’indiscrimenato godimento e senso di potenza, verso un ritorno alla pienezza del “desiderio”.

3. La realtà, coronamento della vita, può tornare ad essere cornice di senso utile a definire limiti e spazi della crescita dell’agire economoco-sociale.

Data la nuova cornice di senso proposta, la libertà può declinarsi a nuovo nella “generatività”, ossia nella “capacità di mettere al mondo e di curare e custodire ciò che viene fatto esistere”. La libertà di scopo può quindi riscoprire la naturale tensione dell’essere umano a una progettualità relazionale, in cui il desiderio individuale può associarsi senza forzature alla dimensione sociale, permettendo alla persona di ritrovare nell’alterità i propri scopi e la propria identità. Dall’espansione quantitativa dei mercati tipica proiezione del capitalismo tecno-nichilista è possibile passare a un’espansione qualitativa, dove  possano trovare spazio, nell’azienda come nella persona (elenco rielaborato qui in sintesi da quello proposto per l’impresa in un numero monografico dell’Harvard Business Review di Kanter citato dal prof. Magatti a p. 244 del volume “La grande contrazione”):

a. La centralità della finalità e dei valori, quali cuscinetti al cambiamento.

b. L’orientamento di medio-lungo periodo.

c. La capacità di stimolare le motivazioni intrinseche.

d. Attenzione alla dimensione sociale considerata come via per apprendere e innovare.

e. La valorizzazione delle risorse umane che promuovano l’auto-organizzazione.

Più in generale è fondamentale un ritorno ad una visione proattiva dell’attore socio-economico che contempli il superamento della crisi nella valorizzazione dei fattori immateriali, quali l’educazione, la conoscenza, il confronto con il mistero, l’interrogazione morale, l’apertura al bello. Centrali sono le alleanze (tra attori sociali e nella prospettiva sussidiaria tra istituzioni e privati), e una partecipazione ad un’economia di “contribuzione” (beni a contenuto relazionale, contestuale e cognitivo), in cui è rilevante, tra gli altri, un ritorno ad una partecipazione alle comunità di riferimento e ad una trasformazione utile dell’architettura istituzionale che renda fruibili queste dinamiche.

In ragione dei fondamenti su cui poggia la tesi del prof. Magatti, è interessante pensare questo modello in relazione alla dimensione europea, in relazione all’oggetto del corso di formazione politica, che considerando l’Europa come riferimento contestuale non può prescindere dalla valutazione delle dinamiche istituzionali e socio-politiche relative all’Unione Europea. In relazione alle strutture socio-economiche e istituzionali dell’Unione Europea infatti è possibile affermare che:

1. I pilastri su cui poggia l’UE sono stati sviluppati su direttive primariamente economiche, con elemento centrale la libertà di circolazione di merci, persone, servizi e capitali.

2. Le dinamiche di composizione delle sovranità hanno risentito di una forte espansione geografica del contesto di riferimento, ma non di una struttura istituzionale e politica più ricca.

3. La funzione della BCE e dell’attuale politica monetaria nel tempo della crisi è in grado di influenzare le politiche stesse degli Stati ed interviene profondamente nella composizione degli equilibri sociali di mercato.

In tal senso, e in presenza di uno “stato di eccezione” socio-economico in cui la formazione di contesti produttivi virtuosi è continuamente solcata dalle forze ancora in essere del capitalismo tecno-nichilista quali possono essere gli strumenti e i percorsi che delineino le modalità di crescita secondo un processo di generatività?

Trascrizione della relazione di Mauro Magatti

Ringrazio Paolo Masciocchi per questa introduzione. Come avete capito, spero, bisogna studiare, fondamentalmente, perché è complicato.

Telegraficamente. Ci è capitato, visto che siamo ancora vivi tutti quanti, di vivere una stagione che è ben identificabile da questo punto, con delle premesse naturalmente, 1989-2008, vent’anni. 1989: caduta del muro di Berlino, si creano le condizioni per questa potentissima fase di espansione planetaria che va sotto il nome di globalizzazione, finanziarizzazione dell’economia. Vent’anni (a cui l’Italia ha partecipato in maniera estremamente marginale) che si concludono con il 2008. 1989-2008, vent’anni caratterizzati da una potente espansione tecnico-economico-planetaria che è un fatto storico di una novità straordinaria.

Bisogna capire che si tratta di un sistema tecnico organizzato e univoco per cui l’artigiano di Carugate si trova in qualche modo vincolato allo stesso livello di performance tecnica del cinese che sta a Hong Kong, o dove volete voi, con un livello progressivo di integrazione tecnica, economica e planetaria. Si realizzano dei passi in avanti potenti in questa direzione. E, insieme, una potente espansione della soggettività, della libertà personale, individuale declinata, come è stato detto, prevalentemente nella direzione del “io esploro il mondo e faccio collezioni di esperienze”, cioè “consumo”.

Non si tratta di banale consumismo, che appartiene alla fase storica precedente, si tratta di avere una disposizione aperta a incontrare qualsiasi tipo di occasione che un mondo, che si percepiva in espansione da tutti i punto di vista, poteva offrire. Dico sempre che una delle letture profonde, e non banali, della parola consumo, un’etimologia possibile, credo molto fondata e profonda, è cum summa, cioè ha dentro non solo un immaginario, ma ha dentro, come dire, il senso profondo dell’atto sessuale, dell’orgasmo. Perché attraverso il cum summa, il consumo, noi tocchiamo qualcosa della realtà che ci sfugge.

È una questione molto profonda la questione del consumo, non è una banalità, non è affatto una banalità, declina la nostra disperata esigenza di toccare qualcosa, di sentire qualcosa, di ingurgitare qualcosa, di legarci a qualcosa. È come quando si va al ristorante, a un buon ristorante… Guardate, come gli antropologi ci insegnano, il fatto di ingurgitare il cibo, di sentirne il sapore, è un atto che ha una profondità esistenziale molto grande. Molto grande, perché si tocca e si è toccati, capite? Quando le persone nel grande magazzino della Rinascente fanno un giro, sono da qualche parte nel mondo, un mondo sperduto, ma sono da qualche parte nel mondo.

Naturalmente, noi possiamo dire che è un’illusione, tante cose possiamo dire, ma non è una banalità. Allora, a questa espansione tecnico-planetaria è associata a questa espansione della soggettività dell’io, perché nel frattempo ci siamo liberati, ci siamo liberati dal punto di vista economico, abbiamo vinto la miseria in Occidente, ci siamo liberati dal punto di vista politico, ha vinto la democrazia, ci siamo liberati dal punto di vista culturale, del pluralismo culturale abbiamo fatto, diciamo così, la nostra legge.

La cosa che ci deve impressionare è che in queste condizioni è scoppiata una crisi gigantesca. Io sto cercando di spostare, per quel che penso io naturalmente, alcuni modi di guardare a questa fase storica. Infatti, il sottotitolo del libro è: “I fallimenti della libertà e il suo riscatto”. È la prima crisi della libertà di massa dell’Occidente, quella del 2008. Anche se non ci piace dircelo, e qui le persone presenti sono sicuramente molto critiche verso il modo in cui la libertà si è declinata in Occidente negli ultimi decenni, va bene, amen; il punto è che a partire dal Secondo dopoguerra, a partire dagli anni ’60-’70 sono state raggiunte quelle condizioni che i nostri antenati avevano pensato qualificassero la libertà, cioè, appunto, la liberazione dalla miseria materiale, una situazione di democrazia politica, una condizione di pluralismo culturale. Se i nostri antenati si potessero svegliare dalle loro tombe, quelli che hanno lottato per la libertà, la democrazia, i diritti, quelli che avevano in mente queste cose, avevano anche in mente che nel giorno in cui si sarebbe raggiunto un ragionevole benessere, che ci fosse stata la democrazia, che ci fosse stata la libertà di parola, ci sarebbe stata una sorta di paradiso in terra.

Ecco, noi abbiamo vissuto in quelle condizioni. Allora il problema è domandarsi perché raggiunte quelle condizioni è scoppiato ’sto casino. Perché questo vuol dire che stiamo parlando di una storia che ha avuto successo, la democrazia, il mercato, la libertà, ha avuto successo, e questa crisi che ci porta nel XXI secolo, perché con questa crisi entriamo nel XXI secolo dopo questi vent’anni che hanno fatto da cuscinetto (nel 1989 si chiude il XX secolo, nel 2008 comincia il XXI secolo).

Questa crisi fondamentalmente, profondamente, essenzialmente, è una crisi della libertà, del modo con cui in Occidente abbiamo concepito, pensato sul piano soggettivo e sul piano sistemico, il nostro aver raggiunto la libertà. Non stiamo parlando degli altri, stiamo parlando di noi. Non c’è qualche cattivo che ha fatto delle cose brutte, certo ci sono i cattivi che hanno fatto delle cose brutte, ma sono stati espressione di un certo modo di intendere quella condizione di raggiunta libertà. Perché se non partiamo da qui, secondo me, veramente non capiamo più niente. Non capiamo più niente, non capiamo neanche Berlusconi. Adesso dirò perché. Non capiamo neanche Berlusconi, così come non si capisce la finanza, perché è certo che sono delle estremizzazioni, delle patologie, certo, ma hanno quei punti, Berlusconi in Italia e la finanza sul piano internazionale, che sono, come dire, l’esito ultimo di dove una certa idea di libertà, che abbiamo coltivato, va a finire. Allora se non mettiamo in discussione quell’idea di libertà non andiamo da nessuna parte.

Allora, clamorosamente, scoppia la crisi, la crisi è un infarto, è propriamente un infarto, colpisce il cuore della finanza internazionale, Wall Street, il centro dell’economia mondiale, una cosa pazzesca, una roba incredibile, una roba che ritornando indietro fa venire la pelle d’oca, un infarto, potevamo rimanerci secchi, poteva saltar tutto per aria. Naturalmente, l’infarto sappiamo che normalmente ha delle spiegazioni rispetto alla struttura dell’organo cardiaco, alla struttura delle finanza com’è stata pensata negli ultimi vent’anni; e poi ha a che fare con gli stili di comportamento, con gli stili di vita.

Ecco, tra il 2008 e oggi abbiamo somministrato il farmaco salvavita e basta; cioè quello che abbiamo fatto tra il 2008 e oggi è aver somministrato il farmaco salvavita perché l’infarto non facesse crepare il paziente, cioè noi. E cos’è stato il farmaco salvavita? Il farmaco salvavita è stato produrre, stampare moneta. Prima la Banca Centrale americana, poi, con grande fatica… Questa cosa, pazzesca è successa anche in Europa. Di fronte all’infarto, Obama appena arrivato, nel passaggio tra Bush e lui, cosa fa? Dice: c’è la crisi, chi paga tutta questa massa di debiti? Capite, si blocca il sistema, una massa gigantesca di debiti che era stata fatta nel nome di una tecnica onnipotente… è come se voi aveste aperto l’arcano, aveste visto giù una massa di debiti, panico… allora il governo americano si riprende e dice: no, niente paura, ci sono qua io, il governo americano, lo stato americano, i cittadini americani, l’esercito americano, la storia americana, stampo moneta, 800 miliardi di dollari sparati in giro per il mondo.

Non so se ci rendiamo conto di che cosa stiamo parlando, non è che esistevano da qualche parte quei soldi lì, li hanno stampati, con la macchinetta. Guardate, è un fatto ontologico, un fatto di credere che esista la realtà o di non credere che esista la realtà, stiamo parlando di questo, di credere che esista invece che Dio, quella roba lì. 800 miliardi di dollari che sono serviti per fermare l’infarto, cioè per riaggiustare la fiducia, cioè per dire chi c’è dietro a questa massa di crediti che abbiamo fatto? Lo stato americano. Infatti, a sorpresa, perché non era previsto, questo intervento del governo americano cosa ha provocato in un sistema finanziario planetario che nel frattempo aveva visto che cosa aveva combinato nei 20 anni precedenti? Che la vicenda passa in Europa, ovviamente, e questa massa fluttuante di finanza viene in Europa e dice: paga lo stato americano, ma qui in Europa chi è che paga? Questa è stata la domanda. Chi è che paga in ultima istanza? Per cui c’è stato questo anno e mezzo pazzesco in cui i punti più fragili di una Europa nata senza un disegno politico sono stati i punti su cui questa massa finanziaria che gira per il mondo è andata a scommettere, come dire, in chiave speculativa, in realtà per guadagnare su un’eventuale disfatta dell’Euro. Per cui anche tutta la vicenda dellospread, di qua e di là, non è che improvvisamente ci siamo scoperti che noi eravamo il peggio del mondo, è che siamo stati l’epicentro di uno sconvolgimento internazionale in cui la domanda che è stata fatta all’Europa era: ma qui chi paga in ultima istanza? Per cui la contrattazione tra la BCE e la Germania, i paesi del Sud, i debiti e tutto quel casino che abbiamo visto in questo anno e mezzo fino a quando, spingendo un po’ di qui e un po’ di là, la scorsa estate Draghi ha fondamentalmente fatto questa dichiarazione per cui la BCE a certe condizioni sarebbe comunque intervenuta in ultima istanza. E guardate che in Europa abbiamo messo molta più liquidità che in America, ma perché semplicemente il problema non è quanta liquidità ci si mette dentro, il problema è un problema di fede, di fiducia.

È stato un infarto; abbiamo messo il farmaco salvavita e l’infarto si è fermato. Tutte le questioni che riguardano l’organo, che riguardano lo stile di vita sono tutte lì, ce le abbiamo tutte lì. Poi uno dice: va beh, tiriamo a campare, sono problemi troppo complicati, li affronteremo quando ci sarà il prossimo infarto. È un ragionamento che ha una sua razionalità, nel senso che siamo messi così: non lo so che cosa debbo fare, è troppo complicato. Abbiamo milioni di persone in giro come si fa, è una roba troppo complicata perché stiamo parlando di un infarto che riguarda non una singola persona, che è già una cosa complessa, ma che centinaia di milioni di persone. Non so se capite la natura dei problemi coi quali abbiamo a che fare. Abbastanza impressionanti.

Figli di questa libertà che cresce. Allora, prima di arrivare al positivo, ancora due cose.

È stato un infarto di un sistema che pretendeva, che in quei vent’anni ha pensato di poter crescere illimitatamente, cioè a prescindere dalla realtà, non sto esagerando, la realtà non c’è, c’è un sistema tecnico che si autogiustifica: questo è accaduto, è accaduto concretamente sotto i nostri occhi, per cui la finanza, che è un pezzo del sistema tecnico, non è un’altra cosa, ha introdotto una serie di sistemi per cui qualunque rischio, compreso il mutuo dato al portoricano disoccupato, chi lo pagherà? non è importante, perché quel mutuo lo rivendo a una società che mi assicura chi non pagherà il mutuo, questa società lo rivenderà a sua volta a un’altra società che… Insomma, attraverso un sistema tecnico si è pensato che qualunque rischio sarebbe stato assorbibile.

È la stessa questione dell’ambiente. Attraverso la tecnica io faccio la realtà, per cui quando si parla dei temi della bioetica, cioè quando si parla del tema della finanza, è la stessa questione, non sono due questioni diverse, è lo stesso tema: cosa ce ne facciamo della tecnica; se la tecnica si autolegittima va per conto suo, o gli esseri umani democratici (che è un bel casino) hanno qualcosa da dire a questa roba che va avanti per conto suo. Per cui, quando i signori di sinistra rompono le scatole che la chiesa si permette di fare delle domande a proposito dell’uso della tecnica sulla vita, dico: sono capitalisti allo stato puro, ecco diciamo così, perché è legittimo porre domande di senso rispetto al modo in cui la tecnica si da, è pienamente legittimo, non c’entra niente non essere liberali, non c’entra proprio niente. Naturalmente, non è che io possa imporre il mio punto di vista agli altri, ma porre domande è sacrosanto. Nella nostra cultura contemporanea l’idea è che ciò che si può fare tecnicamente è di per sé legittimo. Infatti, abbiamo visto, siamo arrivati alla crisi. La deregulation è figlia di questo pensiero, la deregulation è appunto una deregulation, lo dice la parola: regoliamo tutto perché la tecnica ci salverà. Stiamo parlando di una sorta di religione. Il primo punto è questo.

Secondo punto. Questi vent’anni di espansione ci hanno lasciato un mondo profondamente disuguale con i poveri che sono diventati sempre più poveri, il ceto medio che progressivamente si è indebolito e la ricchezza che si è concentrata. Guarda un po’! Bella sorpresa! Eravamo tutti così liberi, nessuno ha parlato più di capitalismo, l’unica cosa che succedeva è che c’è stato un grande secolo capitalistico in cui, come in altre epoche della storia, alcuni ci hanno guadagnato e molti ci hanno perso. Ma perché? Perché l’espansione ha slegato tutti i rapporti sociali, a partire dai rapporti affettivi, perché se l’espansione era l’aumento delle opportunità io mi dispongo soggettivamente a raccogliere più opportunità; stare vicino al mio amico Paolo Masciocchi mi limita e io devo andare a prendere chissà quale opportunità straordinaria… quindi, la relazione è stata concepita come una riduzione della libertà. Capite! Per questo i ragazzi non si sposano più, perché è assurdo sposarsi, impegnarsi a una fedeltà eterna. Cosa vuol dire? se la cultura dentro cui si vive è cogliere l’opportunità, io non solo non mi fido di lui ma non mi posso fidare di me, io non mi impegno in un cosa che mi riduce le possibilità future.

Guardate i film. Fino agli anni ’60 c’era la storia “e poi vissero felici e contenti”, negli anni ’70-’80 c’è stato “sì, fanno finta di essere felici e contenti” ma in realtà, sotto sotto è stata una fase cinica. A partire dagli anni ’80 e ’90 la storia è sempre quella. Uno ha una vita, neanche sfigata, normale, fa delle cose e a un certo punto track, ti capita l’esperienza più meravigliosa della vita che neanche ti immaginavi, che ti prende, come si dice in gergo giovanile, e ti fa assolutamente felice e dura 9 settimane e mezzo. Ma per forza che dura 9 settimane e mezzo, necessariamente deve durare 9 settimane e mezzo. Questo è un meccanismo di slegame, si è slegato tutto, ha prodotto sul piano sociale quella situazione che noi vediamo. Laddove ci sono le istituzioni che hanno retto un po’ di più, di meno, in un paese come l’Italia dove le istituzioni sono storicamente deboli la cosa è andata in un’altra maniera….

Terza conseguenza, la questione del senso, del significato. Questo processo di espansione produce, lascia un vuoto nella direzione della vita personale e della vita collettiva. Cosa stiamo facendo? Siamo sempre più pressati, come dire, da un sistema tecnico che ci chiede tanto, facciamo una collezione di esperienze ma alla fine dici: che cosa sto facendo? Infatti la depressione è diventata la malattia sociale di questi ultimi vent’anni. Ma capite anche perché, capite perché la depressione è la malattia sociale. Perché bisogna produrre un’energia pazzesca per star dentro a questa roba qua. Cioè, alzarsi al mattino, tirarsi in piedi e motivarsi, dici: va bene il godimento del consumo, però una, due, tre, dieci, non è che sempre poi si sta proprio così bene, perché tante volte ci si immagina delle robe ma la vita è un po’ diversa. Allora voi capite perché la depressione è veramente diventata la malattia sociale del nostro tempo, perché a un certo punto uno dice: basta non ce la faccio più, lasciatemi qua, andate dove voi volete, io sto qua.

Allora, quella crisi è una crisi economica, certo, è una crisi sociale, certo, ma è una crisi, in questo senso il buon Benedetto XVI ha perfettamente ragione, è una crisi spirituale che c’entra con la crisi spirituale della libertà di massa. Se non partiamo da lì, e non la risolviamo con il prossimo governo, beninteso, ma se non partiamo da lì, se non riusciamo a capire che di questo si sta parlando, anche le vicende più spicciole sono completamente sganciate dalla realtà.

Com’è che ne usciamo? Risposta: non ne ho la minima idea, evidentemente. Non lo so, perché se pensassi di saperlo, chiamate il 113, mi mettete la camicia di forza e mi portate direttamente al neurodeliri. La risposta è: non lo so! Dichiarato che non lo so, perché siamo dentro la storia, una storia seria, bellissima ma drammatica, non è che stiamo dentro a delle baggianate, sono cose impegnative. Quindi, dichiarato che non lo so, provo a dare un piccolo contributo, insieme a tanti altri che danno il loro contributo, perché la storia si fa così: uno porta il suo pezzettino di legno e si prova a costruire qualche cosa.

Allora, proviamo un attimo a riflettere sull’idea di libertà. Noi abbiamo concepito in questi vent’anni, soprattutto in questi vent’anni, il motore della destra: la libertà è la scelta di mercato; e c’era il motore della sinistra: ciascuno è legislatore di se stesso, decide il bene e il male per conto proprio. Questi sono stati due motori che hanno fatto finta di combattersi, in realtà andavano tutti dalla stessa parte e non è un caso che i sistemi politici si sono dispiegati in questa maniera: la destra che spingeva di qui sul lato dell’economia, la sinistra che spingeva sul lato dei diritti soggettivi e tutte e due facevano parte, a mio modo di vedere, del capitalismo tecnico-nichilista, andavano esattamente dalla stessa parte. Poi naturalmente, sia nella destra, sia nella sinistra, c’erano delle componenti diverse, non è che c’era solo questa.

Questa idea di libertà, questi due modelli hanno portato dietro un’idea di libertà assoluta, assoluta, ab soluta, vuol dire sciolta da tutto. La libertà assoluta, ce lo dice la sapienza biblica, perché di questo parla la Bibbia, la libertà assoluta va incontro all’esperienza del perdersi, cioè della perdizione; la perdizione biblica è una parola desueta che significa perdersi. È come se voi foste in mezzo al deserto e dite: siete completamente liberi. Vai! La libertà assoluta vuol dire questo. Vado, vai di qui, vai di là, non vai da nessuna parte. Il problema della libertà, che è una gran bella cosa, è questo: che la libertà in se stessa, come dire, ha il drammatico problema della perdizione, o per dirla con un’altra categoria, dell’auto-annichilimento. Cioè, non sussiste da sola la libertà, non so se capite il punto, perché se tu sei sempre libero di disfare tutto quello che hai fatto il giorno prima, alla fine non c’è più niente. Questo è un dilemma, come dire, profondo della libertà. Di cui naturalmente noi siamo figli e siamo ben orgogliosi di essere dentro a una storia di libertà, della modernità e della cristianità medioevale che è la genitrice della modernità. Ma la libertà ha questo piccolo problema, oltre al fatto che naturalmente non è che siamo proprio nel deserto, l’immagine che dovremmo utilizzare è che noi siamo dentro un mercato arabo, o dentro a un mercato di una festa patronale in cui dovremmo andare ciascuno per la propria strada, ma in realtà siamo dentro un flusso di gente che va, le bancarelle che ti chiamano, quello che dice: vieni qua… Francamente, la nostra libertà che ognuno fa quel che vuole, mi scuserete, è una presa per il culo. E questo io lo dico proprio da sociologo, perché non è che noi ci inventiamo la realtà quando ci svegliamo al mattino, cioè la realtà esiste, esiste la pubblicità, esistono i sistemi di potere, esistono i vincoli al nostro agire. E il fatto di pensare, come abbiamo pensato, che ciascuno è libero per conto suo è una follia, una follia: noi siamo liberi in rapporto a qualcun altro, a qualcos’altro e la nostra libertà ha senso rispetto a qualche punto di riferimento che liberamente possiamo darci, ma che ci deve essere personalmente e collettivamente dentro delle storie, delle culture, dei mondi.

Come raccontavo prima, l’altro giorno ero con la Chiara Saraceno che dice: “Ogni minoranza ha il diritto che il proprio diritto venga riconosciuto e la maggioranza non deve concedere il diritto alla minoranza perché questa cosa non è ammissibile”. Ma in che mondo vive la Chiara Saraceno ? Adesso mi dispiace che non è qui, ma è anche una mia lontana parente. Ma in che mondo vive ’sta Chiara Saraceno? Lo dico proprio da sociologo, ma sono proprio discorsi assurdi, per cui si è passati dall’idea del 900 in cui bisognava essere uguali dal punto di vista materiale (abbiamo capito che era un’assurdità, perché un conto è ridurre la disuguaglianza, che è una cosa a cui bisogna attenere, un conto è pensare alla società degli uguali) e siamo passati dopo che abbiamo fatto sfracelli nel ‘900 al secondo modello; visto che abbiamo capito che uguali dal punto di vista materiale non si diventa, allora diventiamo uguali dal punto di vista, diciamo così per intenderci, valoriale che è un’altra assurdità, che è il regime dell’equivalenza, cioè il niente.

Tanto per intenderci, c’è un gran pezzo della sinistra che si è infilata in questo trip, per cui abbandonata l’idea dell’uguaglianza materiale adesso siamo a questa idea assurda dell’uguaglianza dei valori. L’uguaglianza dei valori, quello che De Certeau chiamava il regime dell’equivalenza, è una cosa tanto assurda quanto il regime dell’uguaglianza materiale: un conto è dire che dobbiamo costruire una società più capace di ospitare la differenza, ma questa capacità di ospitalità sarà necessariamente limitata perché quel modello lì porta al dominio della tecnica e a una radicale individualizzazione e basta.

Bene. Allora, a tema c’è la nostra libertà, il pensiero della nostra libertà e questa crisi, che è tanto odiosa, e tanto pericolosa, e tanto dura perché naturalmente alcuni stanno pagando la crisi, mica le banche, mica i banchieri, ovviamente alcuni gruppi, alcuni ceti, alcuni mondi, alcuni territori, alcune regioni stanno pagando la crisi, come sempre succede. Allora questa crisi che è tanto odiosa, tanto dura e tanto ingiusta, ovviamente, e che ci dovrebbe spingere a un impegno concreto e immediato (noi liberi, e vediamo invece quanto la nostra libertà in realtà sia debolissima), questa crisi è, da un certo punto di vista, una benedizione perché è piena di lezioni, se la vogliamo ascoltare. E il problema, come in tutte le grandi crisi, se siamo capaci, personalmente, collettivamente, come mondi politici, come sistemi politici, di imparare la lezione che questa crisi ci sta dando, come quando l’adolescente va a sbattere contro il muro e impara la lezione, per vedere se la storia, visto che i discorsi come è noto servono a poco, ci insegna qualche cosa.

Che cosa ci insegna? Ci insegna alcune cose, tantissime cose ci insegna. Primo, che questo pensiero che abbiamo coltivato di un sistema tecnico-economico che si sgancia completamente dai radicamenti politici sociali porta al disastro. L’avevamo già visto nel ’29, per stare a esempi facili. Dopo il ’29, guardate che i paralleli storici, diciamo così, non sono impropri, a parte che il ’29 è stato figlio della Prima guerra mondiale e la Prima guerra mondiale è figlia, come dicono gli storici, della prima crisi del 1908. (1908, 1914, 1929, 1945 per cui stiamo parlando di cose pesanti, di cose di una certa rilevanza). Come allora abbiamo davanti la necessità di ricostruire una relazione tra i sistemi politico-istituzionali e i sistemi tecnico-economici, cioè di reintrodurre il tema del limite. Di questo stiamo parlando.

Perché dire che abbiamo bisogno di nuovi sistemi politico-istituzionali regolativi vuol dire introdurre il limite. Vuol dire che quella cosa lì che puoi fare come finanziere non la fai! Si potrebbe andare a 500 all’ora, andiamo a 250. Perché? Perché non ce ne frega niente di andare a 1000 all’ora e quando vai a 1000 all’ora sbatti la testa contro il muro. Ma voi capite la profondità della questione, che tocca la nostra libertà personale e che l’idea che noi conteniamo questa spinta della volontà di potenza che vogliamo essere sempre di più e che ci diamo una regola per cui non ci accontentiamo, ma comprendiamo che la nostra espansione è distruttiva, è distruttiva se lasciata a se stessa.

Quindi questo è un grandissimo tema, tema certamente politico che concretamente, per quanto ci riguarda, per passare da questi empirici pensieri alla realtà, significa Europa. O facciamo l’Europa, o questa regione del mondo è destinata a sparire. L’alternativa, per quanto riguarda il continente, è la germanizzazione, la subordinata, perché l’unico pezzo che sta in piedi è la Germania, noi diventeremo una provincia della Germania: la subordinata è questa. Cioè non è che diventiamo un’altra roba perché la Germania, che nel frattempo si era unificata, ha acquisito una certa forza, ha una stazza che forse sta anche nel quadro internazionale per conto proprio. Quindi, per quanto ci riguarda, come De Gasperi insegnava quando diceva che per l’Italia l’Europa è un interesse primario per la difesa dei propri interessi, intendeva proprio questo. Per noi italiani l’unica possibilità di fare un passo in avanti oltre questa fase di unità dello stato nazionale isolato, è la partecipazione alla costruzione dell’Europa, di costruire intorno alla Germania, di creare il consenso insieme agli altri paesi e contrattare insieme alla Germania la nascita di un’Europa politica, unita che stia al mondo per dire qualche cosa. Al mondo.

Questo è un grandissimo tema da XXI secolo. Non si tratta di andare indietro, si tratta di andare avanti, non si tratta di tornare al 1° Settembre 2008: primo, non è possibile; secondo, non è desiderabile. Per quanto mi riguarda, il problema è che bisogna andare avanti. E la prima cosa da guardare è che bisogna assolutamente, forzati dalla crisi, come nella storia spesso succede, fare dei passi in avanti decisi, perché se non li facciamo adesso non li facciamo più, nella direzione dell’Europa. Abbiamo fatto ’sto cavolo di Euro, l’Euro ha mille problemi, la crisi del sud Europa c’entra con l’Euro, lo vede anche un cieco, non sono con Berlusconi, tanto per intenderci, anche se Berlusconi ha delle gravissime responsabilità, bisogna ricontrattare tutto quanto in Europa nella prospettiva di una costruzione politica che vada al di là dell’Euro.

Speriamo, c’è un nuovo governo francese, speriamo di avere un nuovo governo italiano, ci sarà un nuovo governo tedesco, l’anno prossimo ci sono le elezioni europee… Signori, qui si fa un pezzo di storia, quando bisogna farla? Mica tra 50 anni! Ci sono delle urgenze, delle urgenze concrete, delle fasi storiche che sono lì; se qualcuno le sfrutterà bene, se no amen, la storia va avanti e non ci aspetta. Quindi, questo è un primo tema. Naturalmente, per quanto ci riguarda se riusciamo a mettere a posto un po’ l’Italia in maniera tale che l’Italia messa un po’ a posto dal punto di vista politico, dal punto di vista economico, dal punto di vista sociale, questo è un bene, perché un’Italia un po’ più solida è un po’ più credibile e può essere un attore importante nella costruzione dell’Europa. Quindi le due cose si tengono: rimettere a posto l’Italia non ha senso solo in se stesso oggi, ha senso solo perchè un’Italia più forte può essere un soggetto importante nella costruzione dell’Europa.

Questo indica già, per quanto mi riguarda, chiaramente alcune posizioni, diciamo così, anche in questa campagna elettorale. Detto però che la questione che c’è dietro l’Euro è una questione vera, che deve essere ricontrattata la partita, perché così tutto il sud Europa muore, semplicemente muore. È come se voi prendete, per fare un esempio, il ragazzino che viene dalla media completamente scassata e lo mettete al liceo classico a fare latino e greco: prende tutti 3. Va bene, ma che scoperta! Scusate, adesso la professoressa dice: deve studiare…Va bene, studierà anche, ma bisogna creare uno scivolo, se deve studiare e piglia tutti 3 lo si boccia ed è finita la questione. Capite l’esempio? Cioè, come dire, tra la severità tedesca e la dabbenaggine del sud Europa bisogna trovare un punto di convergenza ragionevole perché se no è chiaro che non si va da nessuna parte e l’Europa salta per aria.

Questo è un primo tema che più profondamente ha a che fare… dobbiamo rifare quello che Keynes fece cent’anni fa, cioè rilegare l’economia con la società, questo fece Keynes dopo il ’29, questo dobbiamo fare nei prossimi anni. Dobbiamo rilegare l’economia con la società, l’economia con assetti politico-istituzionali sociali che costringano quella macchina potente che è l’economia a servire le persone, le collettività, le comunità e non andare per la tangente come è andata in questi 20 anni. La storia del capitalismo è fatta di fasi espansive e poi del tentativo di ristabilire una relazione tra la macchina capitalistica e il mondo in cui le persone vivono.

Quindi questo è un primo tema, un primo tema fondamentale: rilegare, riscrivere alleanze. Lo dico con un’immagine. È come se si fosse creato un grande mare della tecnica planetaria in questi trent’anni. Sopravviveranno quei luoghi, quelle comunità, quelle organizzazioni, quei territori che sapranno, stringendo nuove alleanze, fare emergere la terra umana nel mare della tecnica planetaria. Questo bisogna fare. La terra degli uomini nasce se stringeremo alleanze, il che vuol dire renderci conto che per conto proprio.. ci vuole il contributo di tutti, ma ognuno per conto suo si va tutti a morire, come si fa quando la guerra è in trincea: cosa vuoi andar lì con la baionetta, sì, c’è il carro armato, ma dico ma sei scemo! Ma stai tranquillo, mettiamoci qui. Cerchiamo di fare qualcosa insieme. Sopravviveranno quei territori, quelle comunità, quelle organizzazioni che sapranno stringere alleanze per stare in rapporto al grande mare della tecnica che si è formato alla fine del XX secolo.

Anche qui faccio un accenno alla politica. Stiamo parlando di Lega all’incontrario: si tratta di fare lega, ma non per richiudersi, perché il movimento è giusto, solo che viene praticato all’incontrario, si tratta di fare lega, ma di fare lega per avere qualcosa da offrire agli altri, per essere interessanti per tutto ciò che gira per il pianeta, per produrre valore che è il secondo passaggio.

Quindi, bisogna rilegare in relazione e non in opposizione, secondo passaggio, poi vado verso la conclusione, bisogna passare da un’idea che è stata centrata, come ho detto prima, sul consumo; abbiamo avuto la stagione di un’economia basata sul lavoro, che erano i nostri padri, erano lavoratori; poi a partire dal dopo guerra il capitalismo ha fatto un passo in avanti e siamo diventati consumatori; eravamo operai, eravamo impiegati, ma un po’ per volta il baricentro si è spostato sul fatto che l’economia viveva del consumo. Quando siamo passati dall’età del lavoro all’età del consumo non è che abbiamo smesso di lavorare, abbiamo continuato a lavorare, semplicemente il centro dell’economia si spostato dal lavoro al consumo.

Bene, adesso dobbiamo fare un altro passaggio: continueremo a lavorare, continueremo a consumare, ma dobbiamo far nascere un’economia centrata sulla produzione di valore. Cosa vuol dire un’economia centrata sulla produzione di valore? La parola valore è straordinaria perché valore, valore economico, far soldi, per cui questa bottiglietta ha un valore perché il signore Nestlè va a prendere l’acqua in montagna, la imbottiglia, la distribuisce, vende una bottiglietta a 1 Euro e convince tanti consumatori a mettere lì il loro Euro e c’è uno scambio: io dico questa bottiglia vale un Euro, ti do questo mio Euro, faccio una scelta e questo è il modo attraverso cui l’economia stabilisce i valori. L’economia c’entra con i valori. Questo è il valore economico.

Dopo abbiamo imparato a dire che ci sono i valori. La pace, la fratellanza, la giustizia, i valori. Quasi sempre e sempre di più drammaticamente retoriche. Devo dire che, come figlio degli anni ’60, già da ragazzino sviluppai, come penso tutti quelli della mia generazione ma ancora di più quelli che sono venuti dopo, una certa antipatia verso quelli che parlano di valori, perché normalmente quelli che parlano di valori usano la retorica del valore e poi dopo dietro, diciamo così… che è il primo nichilismo. Signori, il nichilismo si afferma nella storia perché se tu usi una parola valore e poi pratichi il contrario distruggi quel valore; l’origine del nichilismo è questa, è usare una parola e non farla seguire dai fatti, distruggi quella parola, è chiaro?, quella parola è vuota.

Ecco, cosa significa passare a una economia che produce valori? Non si possono rimettere insieme, in 5 minuti, i valori e il valore perché non ce la facciamo, per tante ragioni storiche le abbiamo separate e non è che le mettiamo insieme facendo… non ce la facciamo. Però, questa crisi ci dice, in Italia e in Europa questa cosa è evidente, che se noi continuiamo a pensare a un’economia del consumo, questa economia va a fondo chiaramente, perché il consumo in un certo senso distrugge valore, distrugge i valori e distrugge anche il valore economico. Il nostro debito pubblico è figlio di questa cultura, in un paese che non ha investito sul suo futuro il debito pubblico è stato il galleggiante prima e poi, come dire, la zavorra che ti tira giù. Produrre valore significa che una comunità, un’impresa, un territorio si intende su alcune priorità, fissa delle priorità e investe con riferimento a quelle priorità.

Esempio: la scuola è un costo o un investimento? C’è una bella differenza. Se è un costo lo tagli, se è un investimento ci metti le risorse ed è ovvio che se devi mettere le risorse lì devi rinunciare a qualche cos’altro e non fai aumentare il debito pubblico, tanto per intenderci. Ma se ci intendiamo che per investire sulle persone, sui nostri figli, sui nostri giovani è una priorità di valore, ci mettiamo le risorse anche economiche, strumentali e la nostra economia cresce. Naturalmente, questo vuol dire mettere in discussione il corpo insegnanti, le sue regole e tante cose. Il welfare è un costo o un valore? Anche su questo dobbiamo metterci d’accordo, se è un costo o un valore, discuterne in che senso è un valore. Pensate: adesso abbiamo le elezioni regionali, quindi io vi consiglio di votare Johnny Dotti. Johnny, lo dico per inciso perché parlo di sanità, è un carissimo amico, viene dal mondo della cooperazione e molti lo conosceranno ed è candidato nella lista Ambrosoli e credo che se Ambrosoli dovesse riuscire a ereditare Formigoni, Johnny potrebbe avere un ruolo importante anche perché con lui abbiamo fatto tante cose insieme. Il punto che dico è sulla sanità, perché lui si occupa di questi temi, pensate alla sanità, un problema gigantesco…Perché è un problema gigantesco? Perché tutti noi, che anche qui ci sono molte persone che hanno una certa età, la vita si allunga e questo è un bene, e la domanda di sanità funziona che più sanità c’è, più domanda c’è.

Torno al discorso di prima della tecnica, e c’entra la religione, perché è chiaro che noi siamo in una cultura per cui la tecnica, che passa anche attraverso la sanità, ti dice che lei ti salverà, che gli ospedali tendono a diventare dei grandi apparati tecnici in cui tu entri e ti mettono a posto tutto. Ma qui siamo in un ambiente anche di matrice cattolica, la malattia, lo star male, l’invecchiare sono rimosse dalla nostra cultura, la domanda che abbiamo sviluppato è: io ho il diritto a vivere fino a 120 anni in perfetta forma e non rompetemi le scatole. Allora, guardate, questa roba sarà ingestibile dal punto di vista economico in una prospettiva di solidarietà come il welfare si porta dietro. Già adesso in Lombardia abbiamo un problema drammatico: il carico, usiamo la parola tra virgolette, il carico dei nostri anziani non autosufficienti, se lo prendete solo dal punto di vista economico è una cosa insostenibile. Allora cosa facciamo? È chiaro che, non possiamo adesso affrontare il punto, ma è chiaro che dobbiamo metterci d’accordo in termini di valore: la parte collettiva di questo elemento che chiamiamo sanità cosa deve riguardare? Perché se la domanda di sanità è un diritto individuale, indistintamente detto, finirà che i ricchi si compreranno una sanità infinita e i poveri si prenderanno le briciole, finirà così. Sicuramente, finirà così, perché se tu hai i soldi e se tu puoi acquistarti una tecnica sanitaria che fa campare 10 anni, te ne freghi del tuo vicino di casa, te ne freghi, perché in mezzo c’è una cosa importante che si chiama vita.

Cosa sto dicendo? Sto dicendo che naturalmente anche un pezzo di economia passerà di lì: in America il 20% del PIL è sanità e in Italia siamo intorno al 12%, e questa quota è destinata ad aumentare. Non so se mi sto spiegando, se capite il punto, cioè con implicazioni antropologiche gigantesche perché nel prossimo secolo, il XXI, la tecnica si applicherà sempre più decisamente al nostro corpo. La tecnica si applicherà sempre più decisamente al nostro corpo e questo apre questioni enormi per cui io, figurarsi, sono il primo a dire che bisogna difendere il welfare, ma difendere il welfare vuol dire porsi domande rispetto ai problemi che abbiamo e, come dice Malraux, lo scrittore francese, “custodire la tradizione non è adorare le ceneri, ma trasmettere il fuoco”. Per cui, chi vuole preservare il welfare, cioè un sistema di protezione universale che ci renda comuni e che dia valore alla singola persona umana (in questo senso il welfare esiste solo in Europa perché l’Europa è cristiana e non per un’altra ragione), deve porsi delle domande e non semplicemente dire che bisogna conservare quello che esisteva, perché ciò che esisteva sarà, come in parte già lo è, travolto.

Allora, torniamo al punto: produrre valore. Produrre valore riguarda anche l’artigiano. Cioè se l’artigiano oggi non produce valore, cioè non investe nella ricerca, non si lega con quelli più bravi, non fa crescere i suoi dipendenti e non produce qualche cosa che ha significato, senso, bellezza, non va da nessuna parte. Ci sarebbero tante altre cose da dire.

Riassumo tutto questo e chiudo veramente con questa parola che mi è molto cara, che è diventata molto cara e che è già stata richiamata e che è: passare da una libertà dissipativa, consumativa, a una libertà generativa. Perché uso la parola generatività, adesso vi risparmio, faccio solo riferimento a questa cosa: che in una società come la nostra in cui anche il ciclo della generatività biologica si riduce, una volta le persone erano bambine, crescevano, mettevano al mondo figli, morivano… invece adesso le condizioni di vita sono tali per cui anche il momento della generatività biologica, per cui abbiamo procreato meno figli, è quasi una parentesi della vita, c’è una fase di vita prima e c’è una lunga fase di vita dopo. E si pone un problema, come dire, il tema della generatività ha a che fare con il mettere al mondo. Perché dico questa cosa? Perché ho detto prima che il consumo tocca delle corde profonde e allora se noi non mettiamo in campo qualcosa di veramente profondo non ce la facciamo. Non si tratta di opporsi al consumo, si tratta di sviluppare, capire che la nostra libertà non si può ridurre a quell’atto lì e che in quanto liberi noi possiamo fare tutto quello che vogliamo, ma alla fine la nostra libertà è chiamata a giocarsi per qualche cosa, per qualche valore che si mette al mondo, che sia un’impresa se sei un artigiano facendo le cose in una certa maniera, che sia un’associazione di volontariato, che sia il circolo Dossetti, che sia far crescere i tuoi allievi se sei un professore, far tirar su i tuoi figli se sei un genitore, la generatività vuol dire che noi abbiamo bisogno di persone, cittadini che partecipano alla produzione del bene, che il nostro essere cittadini non riguarda solo il momento del voto, che noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alla produzione del bene, ciascuno per un suo frammento. E che le democrazie non possono vivere, attraverseranno decenni di sventura se noi cittadini delle democrazie avanzate non ci assumiamo più pienamente questa responsabilità dell’essere generatori di valore plurale e che offriamo, diciamo così, alla comunità realizzando una parte di noi stessi. Per questo parlo di generatività, perché la generatività ha a che fare con quell’esperienza antropologica fondamentale del mettere al mondo. Noi abbiamo bisogno di mettere al mondo, e non mettiamo più al mondo solo figli, mettiamo al mondo, o possiamo mettere al mondo tante altre cose. Alcune cose, qualcosa che merita la nostra vita, cioè che ha valore e questo è anche il vero antidoto al nichilismo. Perché il nichilismo non si batte solo non facendo prediche sui valori che producono nichilismo, ma il nichilismo si batte solo nell’esperienza drammatica che noi facciamo come moderni di scoprire che o nella vita non c’è niente, pensiero che molti coltivano, oppure che c’è qualcosa che vale e che noi contribuiamo a incarnare.

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