David Bidussa. Siamo italiani.

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Il ritratto impietoso di Bidussa è di una retorica italiana fatta da una esasperata insistenza formale e superficiale sui gesti, sulle forme di vita, sull’esaltazione a vuoto di valori;  da una lamentosità a volte piagnucolosa a volte indispettita, costruita spesso su luoghi comuni assunti però come verità profonde ed immutabili. Retorica che in definitiva non può che descriversi attraverso altrettanti clichè che suonano pressappoco:   “italiani brava gente”, “italiani poveri ma belli”, ecc., e in questa direzione va detto che la demolizione di Bidussa del mito favolistico, auto-assolutorio e rassicurante del “bravo italiano” è, non da oggi, alquanto serrata.

David Bidussa. Siamo italiani.

1. leggi il testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo

2. leggi la trascrizione della relazione di David Bidussa

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introduzione di Andrea Rinaldo – breve intervento di Giovanni Bianchirelazione di David Bidussa

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Testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo a David Bidussa

SIAMO… ITALIANI? – L’ “agiografia” di un popolo attraverso una breve selezione antologica

Uno. Abbiamo già avuto modo di conoscere qualche pensiero di David Bidussa qui al circolo Dossetti di Milano, sui temi dell’ “italianità” intesa sia in senso antropologico,  che in quello più sociale e politico.    Infatti l’anno passato egli ha introdotto per noi il testo di Berselli[1],  il quale, seguendo le sue parole di allora componeva “…un vero e proprio <album di famiglia della società italiana>…”[2]Oppure andando poco più in là con la memoria, nel 2005, quando ci illustrò il lavoro di Ilvo Diamanti[3],  che tracciava un’Italia dei “cromatismi politici”, e cioè, utilizzando sempre le parole di Bidussa, che è definita a  partire da “… un concetto di territorio non come puro dato geografico, ma come ambiente antropologico, vedendo cioè, in qual modo le persone, storicamente, in uno spazio geograficamente definito si comportano, si associano, si relazionano…”[4].   Il libro che esaminiamo oggi, “Siamo italiani”[5],  si inserisce a pieno titolo nel solco di quella modalità di analisi disincantata della nostra società, che appare sempre in perenne oscillazione tra arcaicità e modernità, tra mito (o mitologia) di se stessa e cruda realtà, tra stereotipo e originalità;  oscillazione che stratificandosi va  però a comporre  l’identità del singolo e quella collettiva di un popolo. Sì perché come osserva Bidussa “…l’italiano è una figura costruita nel tempo…”[6], così come è peraltro sottolineato nel primo scritto di Giulio Bollati[7];  e quando si narra dell’ identità italiana, se ne parla  “…come costruzione di una retorica, noi parliamo di un doppio registro fatto di difesa delle cose proprie e di antipolitica, intesa come indisponibilità a riflettere in nome di un interesse generale…”[8]. Il ritratto impietoso che ne esce è appunto quello di una retorica italiana, fatta cioè da una esasperata insistenza formale e superficiale sui gesti, sulle forme di vita, sull’esaltazione a vuoto di valori;  da una lamentosità a volte piagnucolosa a volte indispettita, costruita spesso su luoghi comuni assunti però come verità profonde ed immutabili.   Retorica che in definitiva non può che descriversi attraverso altrettanti clichè che suonano pressappoco:   “italiani brava gente”, “italiani poveri ma belli”, ecc.,  e in questa direzione va detto che la demolizione di Bidussa del mito favolistico, auto-assolutorio e rassicurante del “bravo italiano” [9] è, non da oggi, alquanto serrata.

Due. Innanzitutto in “Siamo Italiani” è delineato un “canone italiano”, attraverso l’accostamento degli scritti di tre diversissimi autori, Prezzolini[10], Leopardi[11], Accetto[12], i quali muovendo da contesti storici differenti, ci offrono però un lessico insostituibile:  alcune singole tessere  che contribuiscono a comporre  il contraddittorio mosaico dell’identità italica. Mosaico contraddittorio ed ambivalente proprio come lo possono essere i significati di una stessa parola del nostro vocabolario: cosicché “canone” si può intendere sia come una norma fondamentale, sia per estensione come significato mutuato dall’ambito musicale, a ciò che attiene ad un “rincorrere a più voci il motivo principale”, e cioè con riferimento a quanto stiamo analizzando, ad un mero criterio imitativo.  Certo il comportamento dell’italiano conformato al principio del  “così si fa (ma non si dice)”, principio basilare dell’ “ars vivendi italica”, che si apprende appunto per imitazione, peraltro dopo un lungo noviziato perché esso non è contemplato in nessun testo di riferimento, è probabilmente il motivo che ha generato lo sforzo “normativo” di Prezzolini sfociato nel suo codice dei comportamenti.   Ma certamente questo fatto è ormai  diventato parte integrante della biografia degli italiani, prezioso patrimonio genetico del nostro d.n.a. Così come la necessità pratica nella vita reale della dissimulazione dei propri sentimenti, dei pensieri, persino delle virtù, evocata dall’Accetto, non però come bieco strumento d’inganno (quasi sempre invece essa viene proprio utilizzata per questo scopo!), ma come “azione preventiva protettiva” nei confronti dei potenti, degli invidiosi, degli inetti.  Od ancora la constatazione del Leopardi dell’assenza del concetto di società in Italia, della conseguente insignificanza dell’onore pubblico, dell’appiattimento sul presente come causa della poca speranza riposta verso il futuro. Una cosa lascia stupefatto il lettore di questi scritti e cioè la sostanziale invarianza storica di molti dei nostri difetti qui enumerati, nonostante il mutare dei tempi e delle circostanze.   Ed è forse anche per questi motivi che Bidussa afferma che su queste premesse non si poteva che impostare una “…società delle buone maniere come società delle <maniere false>, ovvero come costruzione ed elogio del conformismo…”[13].Pertanto in Italia l’identità del singolo non si costruisce nel rapporto dialettico e rischioso con la molteplicità delle diverse identità, ma più frequentemente nell’opportunistica dissoluzione in quella predominante. Non è questa solo una dimostrazione della debolezza delle convinzioni individuali, ma nella gran parte dei casi anche la (male digerita) necessità di un certo “quieto vivere”, perché i rapporti di forza sono sovente a sfavore di chi sarebbe indotto a resistere, e le conseguenze invece molto spiacevoli: è il “non scegliere” come strategia difensiva, e se è proprio necessario schierarsi meglio confluire nell’opzione maggioritaria.

Tre. Altre facce del poliedrico tipo italico di più recente fattura,  o meglio “dell’Italiano qualsiasi”,  così com’è definita da Bidussa questa sezione del suo libro, emergono dallo scritto di Curzio Malaparte[14], e sono relative alla sua radice anti-moderna e quindi anti-europea.   Oppure l’aura mediocritas dell’uomo Qualsiasi di Flaiano[15], il quale  si caratterizza per un’ampia propensione individualistica, da una vena di inguaribile scontentezza e cinismo,  ed ha potenzialmente in sé tutti gli ingredienti per fare il “salto di qualità” dall’anonimato dell‘ uomo qualunque, al qualunquismo vero e proprio assunto come stile di vita e programma politico.   Va detto però che su quest’ultimo aspetto “L’arcimatto”[16] di Gianni Brera ci invita invece ad una maggiore prudenza.   Non è immune da una buona dose di ambiguità anche la sfera privata dei comportamenti:    lo scritto di Montanelli[17] da questo punto di vista è emblematico di una certa visione dei valori della famiglia e di quelli connessi alla sfera sessuale, riassumibili nel motto “pubbliche virtù (e vizi privati)”, purché questi ultimi siano molto, ma molto discreti, e in definitiva quasi da elogiare più che da biasimare.  Così secondo la visione del noto giornalista sono certamente da guardare con maggiore indulgenza le scappatelle di qualche buon padre di famiglia, se rapportate invece con i ben più gravi vizi di certi ministri, deputati, commendatori, ecc., definiti per l’appunto anch’essi “squillo”.

Quattro. Ed e’ in questo contesto che “… i temi dell’<Italiano qualsiasi> si legano a quelli propri dell’Italiano delle <parole della politica>…”[18]. I dati critici enumerati dal Rossi[19], sulla necessità di una stampa più libera, di un capitalismo veramente impostato sulla competizione; della necessità di un rapporto più trasparente tra affari e politica, tendono comunque a plasmare un italiano diverso. Così come il discorso di Sciascia[20]e di Berlinguer[21]. Lo scrittore siciliano infatti evidenziò con forza la pericolosità in sé e le (allora) impensabili contiguità del fenomeno mafioso. Mentre il noto segretario del PCI pose a tema la centralità della cosiddetta questione morale, non solo come contrapposizione al sistema impersonificato in quel periodo dalla DC, ma come un vero e proprio cambiamento della mentalità comune. Da questo punto di vista  i pensieri riportati di Aldo Moro[22] e di Bettino Craxi[23] appaiono, il primo, come un’appassionata difesa della funzione complessivamente benefica svolta storicamente dalla Democrazia Cristiana; il secondo sul carattere di estensione generalizzata del finanziamento illecito dei partiti, e sulle relative colpe in questo senso di tutta la classe politica. Su quest’ultimi discorsi la critica di Bidussa è particolarmente dura, nel senso che addebita a queste modalità di rappresentazione della realtà la responsabilità di “…regalare l’identità nazionale all’antipolitica, perché incapace di suscitare simpatia se non in quegli stessi che vogliono difendere…”[24]“…quell’antipolitica che dice di voler combattere e che probabilmente, invece, ha coltivato per garantire i margini di discrezionalità e manovra. Una condizione che contemporaneamente segna il contrappasso e la sconfitta della politica in un paese che ancora oggi stenta a trovarla…”[25].   A questo proposito sarebbe interessante conoscere la sua opinione sull’ormai costituito Partito Democratico, che diversi anni dopo i fatti sopramenzionati,  ha comunque ereditato copiosamente dalle due culture per lungo tempo antagoniste,  in un quadro però di mutata condizione nazionale ed internazionale, ed anche dopo che sono definitivamente caduti i veli dell’ideologie e fors’anche di tante comuni ipocrisie. Oppure è necessario invece rassegnarsi alla retorica degli italiani come tanti “Bertoldo”, vessati, spremuti, ingannati, da una classe politica che non sono più disposti a sopportare,  e che però in definitiva ripongono fiducia, prevalentemente nelle multiformi espressioni politiche populiste?

Cinque. Qualche risposta in questo senso la possiamo trovare nella sezione più ottimistica del libro intitolata  “Vie d’uscita”, che inizia con lo scritto di Einaudi[26],  sulla sostanziale inutilità/vanità del valore legale dei titoli di studio. “Gli Italiani son fatti così”[27], di Gaetano Salvemini  ha il pregio di fare un po’ di chiarezza sul fatto che laddove gli individui appunto “son fatti così”, non è vero che “…dove tutti sono responsabili, nessuno è responsabile…”[28], ma semmai “…ciascuno è responsabile per la parte che gli spetta, in proporzione della sua capacità a fare il bene o a fare il male, e in proporzione del male che ha realmente fatto e che non ha cercato di impedire…”[29]. Il “Conformismo italiano”[30] di Jemolo invece accentua l’assenza di attaccamento nei confronti delle nostre istituzioni, diversamente da quanto si può riscontrare in altre nazioni europee. Fatto quest’ultimo che determina la propensione dell’italiano verso il conformismo, inteso però come estraneità dalle istituzioni, data la poca speranza in esse riposta. Aldo Capitini nel suo “Chiesa e religione in Italia”[31]introduce la distinzione tra Chiesa e religione, le quali invece, sono state spesso un unicum.     La tesi dell’ideatore della marcia per la pace Perugia-Assisi è quella, utilizzando sempre le parole di Bidussa, di “…poter vivere l’esperienza della religione oltre e fuori dalla Chiesa…”[32],  e quindi “…rappresenta una sfida soprattutto per definire e delineare un nuovo italiano…”[33].   Infine Ruggero Romano[34] proietta il nostro Paese direttamente nel XXI secolo:   dove i robot la fanno da padrone, la formazione professionale diventa un elemento esiziale perchè la società è appunto di tipo post-industriale.    Dove soprattutto sono evidenti i ritardi e le incapacità di comprendere questi nuovi fenomeni da parte delle visioni politiche tradizionali, sia di destra che di sinistra.

Sei. In alcuni degli scritti citati si anela alla determinazione di un “nuovo italiano”, in grado di rapportarsi in modo diverso sia con i mali storici della nostra società, ed anche con le sfide imposte dalla modernità, che perciò non si rassegna alla commedia della riproposizione all’infinito dello stesso modello sociale. Quanto questo diverso atteggiamento sia passato nell’immaginario collettivo e nei comportamenti quotidiani è un’impresa ardua da definire, e pertanto può aprire il campo ad ampi spazi di scetticismo, che è il substrato dal quale scaturisce l’atteggiamento antipolitico. Sì perché il registro dell’ antipolitica, che è il tema di fondo sempre presente nel testo Siamo Italiani,  ha avviluppato pervasivamente il sentire comune di una buona parte degli italiani (di destra, ma anche di sinistra).  Antipolitica che nasce, come ci spiega lo stesso Bidussa,  “…dall’idea di un potere velenoso, avvolgente…” [35] immutabile, che considera le minoranze come delle “…figure di disturbo, qualcuno – più spesso indicato come qualcosa – di cui sarebbe bene liberarsi…”[36]ed anche da un concetto di società civile come depositaria di virtùStiamo infatti argomentando intorno all’attualissima contrapposizione (opportunisticamente manichea) tra una presunta società civile adamantina, indiscutibilmente di specchiate virtù,  e un mondo dei potenti, con speciale riferimento a quello dei politici, inguaribilmente avvolto dall’empietà e dal malaffare.   Tra l’altro se le cose stessero veramente così mancherebbe il “bacino d’utenza” dal quale attingere per creare la classe dei politici, a meno che non si creda che le virtù dei cittadini vengano immediatamente perse per il solo fatto di entrare a far parte del mondo “altro” della politica. I rigurgiti che recentemente hanno incontrato un vasto consenso popolare trasversale, bollati come antipolitica,  che sono comunque una forma del far politica,muovono anche a partire da questa dicotomia.   Va da sé affermare che quest’ultima costruzione appare alquanto artificiosa, che l’azione moralizzatrice rimane solo in superficie rispetto ai problemi di fondo, che sono invece da ricercare nella visione complessiva, nella qualità della proposta, per quale tipo di società, con che tipo di soluzioni, all’interno di quale schema di apparati, ecc.; e soprattutto muovendo da una dinamica che parte dall’interesse generale e non dalla difesa del proprio particolare.    Però tutti questi fatti confermano che, per usare una parola di moda, la“casta” dei politici non è un prodotto attuale, già in passato veniva stigmatizzata ed anche con parole roventi, perché è sempre stato conveniente individuare nelle pecche dei “Palazzi” un facile capro espiatorio.   Non c’è scampo a questo circolo vizioso? David Bidussa non è di questo avviso, a suo giudizio, i pensieri sia di Einaudi, che di Rossi e di Romano, alludono “…non ad un modello astratto, ma di un sistema concreto di relazioni, di un comportamento che è definito da rapporti di forza, da situazioni che hanno un prima e un dopo, che sono raccontabili non in virtù del fato, ma in base e in relazione a una storia, che ha continuità, conflitti, lacerazioni e scelte…”[37]. In questo senso i citati elementi ricorsivi dell’ italianità  non rappresentano un valido paradigma interpretativo, perché muovono dall’idea del potere come elemento statico, ed essi infatti sono spesso degliescamotages per sottrarvisi  in modo individualistico. Le riflessioni di Einaudi, Rossi, Romano, ma anche per certi versi quelle di Salvemini, Jemolo, Capitini,  rimandano invece ad una interpretazione più complessa della realtà, soprattutto più sensibile agli elementi di dinamicità e di mutazione che pure esistono, e che nel lungo periodo trasformano la società stessa, anche in opposizione alle spinte più conformiste.   Ancor più utile a questo scopo è lo scritto conclusivo di Carlo Levi[38].     Quest’ultimo è assunto con il compito di “antipredica”, perché essa è esposta da uno sconfitto, non da un “Luigino” metafora  dello sfruttatore, ma da un “Contadino”, cioè da uno sfruttato. Che però non si crogiola in questa condizione e non scarica le proprie responsabilità.    E inoltre, sono ancora le parole di Bidussa,  “…ha un’idea della società e della storia che si trova a rappresentare e/o governare, e dall’altra afferma che con la politica si può essere sconfitti, ma anche provarci. La risposta è che in ogni caso si è protagonisti…”[39]Una dichiarazione di fiducia   e di dignità della politica, e della sua funzione di progresso anche quando la storia ne determina i perdenti; dignità che sussiste evidentemente con la condizione di un approccio caratterizzato da una marcata onestà intellettuale.   Ed è questa anche una possibile via da percorrere per non soccombere alle derive dell’ “antipolitica”:    infatti su questo versante non giova una sterile critica moralista, ma è semmai di maggiore utilità “un di più di politica”, depurata però dalle scorie dell’ “Italianologia”, cioè dalla ripetizione all’infinito del canone idealtipico, che si fonda pertanto sulla responsabilità individuale, su scelte precise, e su comportamenti coerenti con tali scelte. Occorre pertanto attivare tutte quelle occasioni di partecipazione che rimettano al centro il cittadino; che lo spingano ad esercitare un controllo pro-attivo sulle scelte politiche ed amministrative, contrastando così da un lato, la tendenza  populista a “far saltare il banco”, e dall’altro la propensione all’auto-referenzialità degli organismi politico-rappresentativi.

Sette. L’argomentare criticamente sui caratteri dell’ italianità, partendo da una selezione seppur limitata degli scritti di alcuni autori molto eterogenei tra loro, per andare però oltre “l’Italianologia”,  è un’angolatura certamente suggestiva. Questo taglio specifico ha anche il pregio di aiutare il lettore nell’operazione non semplice di ricomporre un possibile puzzle dell’identità italiana attraverso i numerosi “links” trasversali che si possono immaginare a partire dal contenuto dei diversi scritti. Operazione quest’ultima estremamente necessaria per non ripetere in eterno i medesimi errori.   E’ confortante rilevare che in questo contesto, si muove oggi anche quella parte di italiani anonimi che, solo per fare qualche esempio, credono comunque nella ricerca scientifica (nonostante siano mal pagati); che spendono molto tempo della loro vita nelle attività di volontariato; che intendono la politica come servizio alla collettività;  ed in questo modo offrono la testimonianza concreta di un “nuovo italiano”, pur essendo oggetto raramente di letteratura premiale. C’è poi la sorprendente moltitudine di cittadini che partecipano copiosamente alle occasioni offerte  loro di democrazia diretta. Questi “altri” italiani, che solitamente non si cullano nella loro condizione minoritaria e che a nessuno verrebbe in mente di bollare come “anti-italiani”, evidenziano anch’essi la volontà di uscire dalla riproposizione perpetua della  “retorica all’italiana”, ed anche concreti segnali di mutazione che nel tempo sono in grado di modificare la situazione esistente. Retorica che si completa con la condizione, per usare le categorie del Levi, della contemporanea presenza nell’italiano archetipo del “Luigino” e del “Contadino”, con la prevalenza dell’uno sull’altro a seconda delle convenienze specifiche, ed anche con l’opportunistica rappresentazione del potere politico come origine di tutti i mali:  pilastri questi ultimi su cui si regge il sentire antipolitico. Resta da capire quanto spazio sia concesso all’iniziativa individuale, se questo fatto sia possibile come atteggiamento culturale singolare, oppure sia da incoraggiare all’interno di percorsi politici collettivi, o, magari più efficacemente, entrambe le cose insieme. In conclusione, nel leggere il testo a cura di Bidussa,  parafrasando una nota della sua ironica biografia ivi contenuta, i motivi di interesse sono certamente maggiori di quelli per cui ci si annoia; perché sono maggiori le ragioni per interrogarsi non in astratto sul carattere ambivalente dell’italianità (che spesso degrada nell’ “Italianologia”), di quelle invece per le quali si assume quest’ultima come un male necessario, come un vestito ormai logoro dal quale però è difficile disfarsi.

[1] Edmondo BERSELLIPost italiani – cronache di un paese provvisorio -, Oscar Mondadori, Milano, 2004
[2] David BIDUSSAScheda al testo di E. Berselli, vedi nota 1, c.f.p. Circoli Dossetti onlus, Milano, 17/02/07
[3] Ilvo DIAMANTIBianco, rosso, verde… e azzurro. Mappe a colori dell’Italia Politica, Il Mulino, Bologna, 2003
[4] David BIDUSSAScheda al testo di I. Diamanti, vedi nota 3, c.f.p. Circoli Dossetti onlus, Milano, 12/03/05
[5] David BIDUSSASiamo italiani, Chiarelettere, Milano, 2007
[6] Id., p. 7.
[7] Giulio BOLLATIL’italiano, in Id. v. nota 5, p. 25.
[8] David BIDUSSASiamo italiani, p. 6,  Chiarelettere, Milano, 2007
[9] David BIDUSSAIl mito del bravo italiano,  Il Saggiatore, Milano, 1994
[10] Giuseppe PREZZOLINICodice della vita italiana, in Id. v. nota 5, p. 31.
[11] Giacomo LEOPARDIDiscorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, in Id. v. nota 5, p. 42.
[12] Torquato ACCETTODella Dissimulazione onesta, in Id. v. nota 5, p. 51.
[13] David BIDUSSASiamo italiani, p. 9,  Chiarelettere, Milano, 2007
[14] Curzio MALAPARTEElogio del buon italiano, in Id. v. nota 5, p. 59.
[15] Ennio FLAIANOL’amico qualsiasi, in Id. v. nota 5, p. 67.
[16] Gianni BRERAL’arcimatto, in Id. v. nota 5, p. 78.
[17] Indro MONTANELLIRagazze e ministri squillo, in Id. v. nota 5, p. 72.
[18] David BIDUSSASiamo italiani, p. 11,  Chiarelettere, Milano, 2007
[19] Ernesto ROSSISettimo: non rubare, in Id. v. nota 5, p. 85.
[20] Leonardo SCIASCIADiscorso alla Camera dei deputati sul fenomeno mafioso, in Id. v. nota 5, p. 103.
[21] Enrico BERLINGUERI partiti sono diventati macchine di potere, in Id. v. nota 5, p. 106.
[22] Aldo MORODiscorso parlamentare sullo scandalo Lockheed, in Id. v. nota 5, p. 92.
[23] Bettino CRAXIDiscorso alla Camera dei deputati su Tangentopoli, in Id. v. nota 5, p. 97.
[24] David BIDUSSASiamo italiani, p. 12,  Chiarelettere, Milano, 2007
[25] Id., p. 13.
[26] Luigi EINAUDIVanità dei titoli di studio, in Id. v. nota 5, p. 117.
[27] Gaetano SALVEMINIGli italiani son fatti così, in Id. v. nota 5, p. 125.
[28] Id., p. 125.
[29] Id., p. 126.
[30] Arturo Carlo JEMOLOConformismo italiano, in Id. v. nota 5, p. 133.
[31] Aldo CAPITINIChiesa e religione in Italia, in Id. v. nota 5, p. 137.
[32] David BIDUSSASiamo italiani, p. 137,  Chiarelettere, Milano, 2007.
[33] Id., p. 137.
[34] Ruggero ROMANO, In termini di XXI secolo, in Id. v. nota 5, p. 144.
[35] David BIDUSSASiamo italiani, p. 18, Chiarelettere, Milano, 2007.
[36] Id., p. 18.
[37] Id., p. 15.
[38] Carlo LEVI, L’orologio, in Id. v. nota 5, p. 153.
[39] David BIDUSSASiamo italiani, p. 19, Chiarelettere, Milano, 2007.

Trascrizione della relazione di David Bidussa

Io vorrei spiegarvi alcune cose, tre, in particolare, per rendere più facile muoversi all’ interno di questo libro, perché è verissimo quanto è stato detto finora, però non vorrei crogiolarmi in un’auto-esaltazione.

La prima riguarda la relazione tra i miei scritti e l’attualità: io ho sempre avuto chiara la distinzione tra il tempo in cui scrivevo e quello in cui le mie pubblicazioni sarebbero state lette ed ero convinto che, anche per questo libro, non si sarebbero verificate grandi coincidenze tra i fatti citati e gli avvenimenti della realtà quotidiana, politica e sociale dei lettori; purtroppo non è andata  così, la realtà è stata ancor più desolante di quello che io pensavo. Voglio quindi precisare, in due parole, alcuni punti: questo libro è stato composto nella primavera dell’anno scorso; lo dico perché, tutte le volte che mi sono trovato a discuterlo, tutti hanno pensato che fosse stato scritto dopo. Ad esempio, in relazione al fenomeno della cocaina e all’episodio del deputato dell’UDC che è stato sorpreso con la signorina squillo, devo precisare che il capitolo sul “ministro squillo” è stato scritto a maggio, quindi non c’era assolutamente nessun tipo di riferimento concreto. Però è importante precisarlo, perché qui non si tratta di leggere la palla di vetro, si tratta semplicemente di prendere in esame dei fatti e, senza moralismi, guardare che tipi di regolarità hanno nella storia italiana. Questa regolarità deve farci riflettere non sul carattere dell’identità collettiva italiana ma, semplicemente, sulle cause dei comportamenti e su quanto accade. Cioè, non mi scandalizzo né chiedo che ci si scandalizzi per questo, anche perché scandalizzarsi per dei fenomeni sociali ripetuti ha l’effetto, in qualche modo, di esorcizzare un fenomeno, anziché considerarlo, indagarne le cause, perché, se avviene, non è perché uno ha perso delle qualità morali, ma perché ritiene che si possa o che sia in qualche modo non scandaloso agire in un determinato modo.

Entro negli argomenti che ha posto Rinaldo, a cominciare dalla questione Moro-Craxi, perché non voglio sfuggire alle domande. Tutti noi abbiamo letto o sentito parlare di questo long-seller che è “La casta” di Gian Antonio Stella. Sono convinto che la maggior parte di coloro che l’hanno letto hanno provato indignazione non per l’esistenza e l’abuso di privilegi, ma per il fatto che 700 persone, in Italia, la cui cultura media sta, se va bene, allo stesso livello dell’italiano medio, hanno la possibilità di usufruire di vantaggi che la maggior parte degli italiani vorrebbero avere per sé. Cioè il primo dato, secondo me, su cui ragionare non è lo scandalo etico rispetto alla casta, no! E’, come dire, voglio anch’io gli stessi vantaggi, perché solamente lui? Mi sono spiegato? A me sembra che sia importante dirlo, perché questo permette di osservare i comportamenti rispetto alla politica, mentre noi ne facciamo sempre una questione di carattere etico, ma non è così, perché, messa alla prova dei fatti, la maggior parte parte di quelli che provengono dalla società civile, se prestati alla politica, accettano tranquillamente quel meccanismo di favori, non si scandalizzano affatto; io non ne voglio fare un fatto scandaloso, voglio capire, però, come e su quali basi quel fenomeno struttura i rapporti. Lo dico perché non credo ad un carattere astrattamente antropologico di questo Paese, ma credo alla sua storia, nel bene e nel male, perché ritengo che, nel complesso, la classe politica non sia peggiore dei suoi elettori. Lo dico perché tutti i discorsi fatti sugli Italiani sono quasi sempre sostanzialmente riconducibili ad un problema di qualità morale, mentre, secondo me, noi dobbiamo avere una percezione di carattere storico della formazione del rapporto tra elettori ed eletti, tra classe politica, classe dirigente e corpo elettorale. L’Italia è un Paese in cui il tasso di astensione è stato fra i più bassi, negli ultimi sessanta anni, e ciò vuol dire che la quantità percentuale, da cui viene scelta la classe politica che ci rappresenta, è tra le più alte in Europa. Quindi, in quell’atto c’è un tasso di responsabilità che condividiamo anche noi e non possiamo negarlo.

Allora, quando è nato questo libro, io ho discusso a lungo con l’Editore, anche su come impostarlo, perché questa Casa Editrice oggi, in Italia, è vista, in sostanza, come quella che dà voce alla società civile arrabbiata verso la politica . Se voi andate in libreria, la maggior parte dei libri che sono usciti per “Chiare lettere” appartengono, diciamo, ad un tipo di scrittura e a un tipo di lettore che hanno una storia politica in questo Paese, che sono passati per i girotondi e, se volete, per il fenomeno Beppe Grillo. E’ un amico, l’Editore, ho lavorato insieme a lui per 10 anni e per lui sto lavorando anche ad un altro libro che ora vi racconterò, perché ha un rapporto specifico con questo testo. Si chiama Lorenzo Fazio questa persona; lo dico perché ha anche una sua storia personale che è interessante capire, perché l’editoria non è fatta semplicemente di uffici stampa e di operatori anonimi, ma anche di persone con cui tu chiacchieri, ti confronti, se hai avuto la fortuna di incontrare degli editori che ti fanno delle domande e ti portano a modificare quello che tu stai scrivendo. Questo libro non è nato esattamente come voi l’avete in mano, è stato oggetto di discussioni, di confronti. Lorenzo è figlio di Mario Fazio, non l’ex governatore della Banca d’Italia, ma il fondatore di Italia Nostra; ha una formazione culturale in parte cattolica e in parte molto extra rispetto alla politica, è stato editor di Einaudi per circa 10 anni, prima ha lavorato per Bompiani e, dentro Einaudi, è quello che, fra gli anni Novanta fino al 2003, ha diretto la collana di interventi politici, quella che era “Gli Struzzi”. Poi è passato alla BUR, dove ha costruito la BUR attuale, che si chiama “Le pillole”. Io con lui ho pubblicato un volumetto che si chiama “Evergreen” e che in qualche modo ricalca questo modello. Quando lui è andato a fondare “Chiare lettere”, ha chiamato una serie di amici suoi, che sono in gran parte elencati nella pagina che riporta gli autori e gli amici di “Chiare lettere”. Sostanzialmente è un club di personaggi fra loro abbastanza eterogenei: dentro ci trovate Francesco Giavazzi, ma anche Marco Travaglio, ci trovate Furio Colombo , ci trovate me.

Io ho discusso per la prima volta con Lorenzo l’ impostazione generale del mio libro nel luglio di  due anni fa e Chiare Lettere era ancora in fase di formazione, ancora non era nata come casa editrice. Nella discussione definitiva, avvenuta nella prima settimana di maggio dell’anno scorso, il primo giorno della Fiera di Torino, io gli ho posto due questioni. Gli ho detto:” Guarda, tu stai fondando una casa editrice (in quelle settimane usciva il suo primo libro, “Italia fuori”di Oliviero Bea), che, in qualche modo, appartiene a una sfera della politica e in quei volumi tu hai, come dire, uno zoccolo di lettori duri e fedeli da circa dieci anni. Se tu pubblichi un libro di Marco Travaglio, sai perfettamente che ci sarà una data quantità di acquirenti, perché è la scelta di fede che tu hai su quel libro. Ma io non sono d’accordo con l’impostazione cultural-politica di Marco Travaglio; secondo me, a te non serve produrre in maniera seriale lo stesso tipo di libri, a te serve che, se Marco Travaglio vende cinquantamila copie, io ne possa vendere quattromila. Ma la questione non è la quantità, la questione è quanta pluralità tu rappresenterai”. E, per rappresentarla si trattava di avere un’immagine, un’interpretazione etica sulla questione. Occorreva dare alla produzione due sfondi: uno dei quali fosse storico-culturale, giocandola su un tempo lungo, su una sedimentazione di analisi, di categorie, di fonti, talora anche diverse, sull’arco costituzionale, sull’arco della scelta politica destra-sinistra.

Io questo libro l’ho scritto sicuramente nella fase preparatoria del Partito Democratico, perché credo nel P.D, anche se non mi entusiasma. Non è un giudizio politico su come sta andando ora il P.D., perché, secondo me, non può andare molto diversamente, ma perché credo che l’operazione fatta con il P.D. abbia un senso: è la prima volta, infatti, che in questo Paese si fonda un partito  perché si è convinti e ciò vuol dire avere un rapporto disincantato con la politica. Quando si dice che tu fondi un partito che non vuole essere ideologico, che deve avere alcuni valori di riferimento  ed essere anche molto pragmatico, allora tu non devi avere un rapporto, come dire, fideistico con quella forza politica, devi sapere che se lo critichi non stai facendo nessun caduto.. Fa parte del gioco Quindi non si tratta, come dire, di ricontrattazione della propria appartenenza, fa parte della propria appartenenza. Altrimenti riprodurremmo lo stesso meccanismo dei sistemi dei partiti che abbiamo utilizzato per 20 anni, con lo stesso meccanismo di appartenenza, tabù, espulsione. E’ questo meccanismo che noi dobbiamo superare. Per superarlo, però, noi dobbiamo sapere come, storicamente, siamo arrivati alla militanza politica, cosa abbiamo trasfuso nella militanza politica, cosa abbiamo richiesto alla politica, o, meglio, cosa dobbiamo dare alla politica.

Questo libro è stato concepito come se si mettessero insieme tante schede di lavoro. Io potevo anche dire che cos’è l’italianità e fare un lemma come nelle enciclopedie Einaudi e in 50 pagine descrivere il concetto di italianità. A me invece serviva, e credo che sia utile, dire: guardate come si leggono dei testi attraverso i quali si interpreta il nostro vissuto.

Il testo di Donati, scritto nel 1971, mi serviva per dire: guardate, se si vuole ragionare sull’Italia, non lo si può fare semplicemente ridicolizzando o divertendosi, ed è la critica che io oggi rivolgo ad Edmondo Berselli, né facendo finta di essere grandi elogiatori della tradizione, ed è la critica che faccio a Marcello Veneziani, al quale basta semplicemente fare il ragazzino impertinente e aver descritto in maniera un po’ aristocratica la realtà, per dire semplicemente da che parte sta la verità. Perché anche lui fa parte dello stesso gioco, non è sul monte Athos, non si è ritirato a vita privata per guardare il mondo a distanza, anche lui fa parte del mercato politico. Io non ho fatto parte della Commissione RAI, come Marcello Veneziani, che, allora, non può dire di star fuori dal mercato politico. Cioè bisogna essere in grado di creare anche se stessi entro quel mercato politico, se no è troppo facile.

Perché mi interessava Prezzolini? Perché il testo di Prezzolini per gli italiani medi, per noi tutti, non è un testo, è un proverbio. Se voi andate per le strade e dite che gli Italiani si dividono in due categorie, tutti penseranno che è come dire chi la fa, l’aspetti. Cioè è un testo senza tempo. E invece ha un tempo, l’ha scritto un signore con un nome e un cognome e c’è una filosofia politica in quello che ha scritto, il modo in cui costruiamo noi stessi. Il testo, nello specifico, si chiama “Codice della vita italiana”, un librettino che è stato edito per la prima volta nel 1921, però se voi andate a dire che gli Italiani si dividono in furbi e fessi, chiunque risponderà che è esattamente come dire chi la fa, l’aspetti.

Il testo di Leopardi, letto per la prima volta nel 1906 ma scritto nel 1824, l’ho inserito perché Leopardi è stato spesso assunto come la fonte morale dell’altra Italia.

Il testo di Torquato Accetto esce anonimo nel 1640, ma quello che è importante è che ha dormito nella letteratura italiana per tre secoli ed ha una storia editoriale: Torquato Accetto venne pubblicato per la prima volta, anzi ripubblicato, perché una volta circolava, come testo anonimo, a Napoli alla fine degli anni Trenta del 1600, venne ripubblicato da Benedetto Croce in un’edizione a tiratura limitata in onore di Giuseppe Laterza, nel 1928; venne poi incluso nella collana degli scrittori d’Italia curata da Croce e da Santino Caramella, nel 1930, nel volume che si chiama “Trattatistica del Seicento”. E’ un testo interpretato da Croce come analisi di come si impara a vivere, a cavarsela, in qualche modo, in un regime politico dittatoriale. Chi lo legge come esempio della doppiezza degli italiani, deve tener presente che è stato visto anche, all’opposto, come dimostrazione di come si possa resistere dentro un sistema autoritario. Allora il problema è appunto, di nuovo, come tu leggi dei testi e non semplicemente come li guardi al primo livello. Venne ripubblicato nel 1943 a cura di Carlo Muscetta, durante i 45 giorni di Badoglio. Dorme per altri 50 anni e viene ripubblicato nel 1994 da Cartelloland, in piena transizione politica tra prima e seconda repubblica. E, successivamente, viene ripubblicato da Einaudi nel 1999. Quello che voglio dire è che il testo è cosa importante non solo per quello che ha scritto l’Accetto, ma anche per chi l’ha letto nel corso del Novecento italiano: che relazione ha avuto, ogni volta, per il lettore, con l’idea di politica, di partecipazione politica, di rapporto con il potere, di presa di coscienza del rapporto con il potere. Se io invece leggo astrattamente, non capirò niente di come si costruisce un carattere nazionale. Che non è un carattere formato dall’alto, è anche come io mi do carattere dentro una determinata situazione politica, spesso di crisi, come io rispondo alla crisi.

Il testo di Malaparte è del 1925, esce dentro un libro che si chiama“Italia barbara”: E’ sull’idea, come dire, dell’antieuropeismo italiano, sul fatto che l’Italia, se vuole resistere, deve essere anti-europea; è un testo che poteva benissimo essere scritto durante gli anni in cui l’Italia entra nell’Euro, cioè 80 anni dopo, ed è un testo che esce per la Piero Gobetti Editore, non viene stampato da una casa editrice fascista o nazionalista, tutt’altro.

Il testo di Flaiano è di quelli che appartengono al “Diario notturno”, scritto nel ’59. La cosa che mi interessava era capire come un signore, che in qualche modo viveva al margine del sistema culturale italiano ma che aveva una grande capacità di scrittura e di sceneggiatura per la radiofonia e per il cinema di massa post-realista italiano, che ha formato il pubblico delle domeniche pomeriggio dell’Italia degli anni Cinquanta, abbia raccontato come l’italiano medio passava la sua domenica: il barbiere, la passeggiata in centro tra le vetrine ed il film che andava a vedere alle cinque del pomeriggio. Bene, Flaiano faceva parte di quel pezzo d’Italia e produceva e pensava per quel pezzo di Italia; poi poteva piacervi o non piacervi, però, se noi dobbiamo fare i conti con lo scrittore, dobbiamo considerare non quello che pensava singolarmente, ma il nuovo modello culturale che produceva e che fa parte della nostra storia. Non è qualcosa d’altro, sta dentro le parole, i modi, gli atteggiamenti che noi abbiamo introiettato nella nostra vita.

Il testo di Montanelli esce come lettera, ma in realtà è un articolo sul “Borghese” del 1954  e quello che ha colpito di più è il possibile richiamo all’episodio dello scandalo dei primi di agosto del deputato dell’UDC, sulla questione delle ragazze squillo. In realtà è la descrizione della provincia italiana, di situazioni simili a quelle raccontate in film come “Signore e Signori” o nella filmografia di Tognazzi, di Gassman, che è poi la commedia italiana degli anni ’60 e primi anni ’70, sostanzialmente la descrizione di questo Paese. Ci puoi ridere o no, ma quello che è importante è capire che non era l’invenzione di qualcuno che intuitivamente aveva scoperto l’elemento profondo della vita italiana. Esiste anche, come dire, la teorizzazione di una realtà con cui devi fare i conti.

Sul pezzo di Brera tornerò alla fine, volevo semplicemente dirvi che riguarda un modo molto intelligente di affrontare la questione del qualunquismo italiano che ci riguarda anche oggi. Ci voglio ritornare alla fine perché è esattamente il contenuto del libro su cui sto lavorando.

Il testo di Rossi è del 1951 e l’ho richiamato perché in questo Paese, secondo me, uno degli errori consiste nel colpevolizzare la classe politica da un lato e, dall’altro, santificare un pezzo di classe sociale. E il pezzo di Ernesto Rossi dice sostanzialmente che non c’è nessun soggetto o attore sociale o economico di questo Paese che si possa permettere di presentarsi come soggetto senza colpa. Siccome la critica è rivolta agli industriali, non è per anti-industrialismo che Ernesto Rossi ha scritto, ma per il fatto che gli industriali, come gli operai, hanno avuto delle responsabilità politiche e morali, per cui nessuno può permettersi di fare la predica a qualcun altro. Perciò io oggi a Montezemolo risponderei: benissimo tu puoi avere tutte le ipotesi politiche virtuose, però vieni da una storia con cui devi fare i conti anche tu. Non c’è nessuno che si salvi ed esattamente per questo, nessuno io voglio condannare a priori.

E lo stesso vale, per certi aspetti, per Sciascia, Berlinguer, Einaudi..

Il pezzo di Moro è quello del ’67, la difesa in Parlamento di coloro che venivano accusati per lo scandalo Lockeed, il primo grosso scandalo in Italia, dopo quello delle autostrade, cioè dopo che era finito lo scandalo sulla questione dell’ANAS che ha caratterizzato una parte della storia italiana fra gli anni ’50 e ’60, gli anni del boom economico. Dopo ci sono stati altri tipi di scandali che coinvolgevano non più il modello di sviluppo ma il rapporto fra classe politica, o singoli politici, e politica degli affari. Lo scandalo Lockeed ha segnato il primo momento in cui pubblicamente abbiamo discusso di questi problemi in questo Paese. E lì, secondo me, e così penso di rispondere in parte alla domanda, credo che sia Moro, sia, 16 anni dopo, Bettino Craxi, nel momento in cui hanno fatto il loro intervento politico a difesa delle proprie odissee, in realtà stavano facendo i conti con la storia della propria politica E dovevano farlo, da una parte per salvare un pezzo della storia politica e, allo stesso tempo, rendendosi conto che quella storia politica presentava degli enormi problemi per essere difesa. Ho ripreso questi due stralci di discorsi non perché mi sembrano essere ciò che la politica non deve fare: penso che faccia parte della retorica del politico anche quel tipo di discorso, il problema è che cosa deduci dopo averlo fatto, cioè cosa ti metti a fare dopo. Dovresti essere il Caronte della situazione, dovresti fare i conti, anche pesantemente in quel momento, con la classe politica che ti sei portato dietro e, allo stesso tempo, permettere alla politica di salvarsi; e salvarsi non significa semplicemente andarsi a prendere delle persone sostitutive che sono, come dire, il calco negativo della classe politica precedente. Insomma bisogna salvare delle competenze, salvare delle capacità anche nella classe politica che, in qualche modo, è venuta meno a un patto di fiducia, e riuscire a ricostruire un pezzo della credibilità della politica, che non è solamente ed esclusivamente riducibile alle facce, perché in quel caso sì che nascerebbe l’anti-politica, che scaturisce dall’ idea che il politico sia sostituibile da chiunque. Ora io non credo che chiunque possa essere un ingegnere aeronautico. Cioè ci deve essere una sensibilità professionale e la politica richiede esattamente una sensibilità professionale. Si può discutere della qualità professionale espressa, ma non è sostituibile. Perché pensare che la classe politica sia sostituibile, significa credere che la politica sia un optional e ciò presume che la politica sia l’adesione ad un progetto ideologico, sia l’analisi costante della coerenza ideologica tra ciò che si pensa e ciò che si fa. Mentre è la capacità di tradurre in cose possibili ciò che si pensa, non di tradurre o di mettere in pratica un modello astratto di cui si è convinti.

Ed è esattamente per questo motivo che, secondo me, noi ancora attraversiamo una fase di transizione, tra l’altro molto pericolosa, perché abbiamo un’idea della politica ancora come ipotesi salvifica, che è il presupposto da cui si ricrea inevitabilmente la figura di un salvatore esterno a cui tu affidi le tue sorti. Mentre tu ti devi affidare in termini di controllabilità, tu devi sapere che quello ha una competenza e lo valuti sulla base della competenza, non sull’elemento dell’affidabilità messianica di portarti in salvo. Perché questo, secondo me, è l’altro meccanismo che sta dietro al tema del rapporto fra Italiani e politica, tra noi e politica.

Perciò mi interessava che questo testo, o questa raccolta di testi, finisse con lo scritto di Carlo Levi che ho chiamato l’antipredica, perché è un modo per dire: guardate che se noi vogliamo ragionare, dobbiamo prima di tutto essere coscienti che questo Paese ha una storia, nella quale ci sono state le scelte delle persone che hanno vinto o che hanno perso, ci sono state le loro emozioni,  le loro proiezioni, le loro letture sociali. Per cui tu non uscirai mai da questa condizione in maniera matura rispetto alla politica, se non percorrerai complessivamente e completamente questo percorso.

E il testo di Carlo Levi è tratto dall’”Orologio”, quindi da un testo letterario che contiene anche una riflessione di alto valore politico, quella di una generazione di individui, di una classe politica che alla fine torna a casa. Però importante è come ragiona sulla sua sconfitta E non perché il  possibile rinnovamento di questo Paese passa per la generazione degli azionisti, cioè per un modello di esaltazione a priori su cui molta parte dell’anti-politica o della critica alla politica della prima repubblica degli anni ’90 e nel primo decennio del XXI secolo è stata costruita. Non perché il Partito d’Azione di per sé era fatto di virtuosi che io devo semplicemente recuperare e mettere lì , per recuperare anche quell’identità perduta o quella possibilità di auto-riforma. No, perché dentro a quell’auto-riforma stanno anche persone che tu non recupereresti mai. Quello che devi ricuperare è invece uno stile di riflessione sulla sconfitta, che dentro ad un’esperienza politica qualcuno ha ben pensato di fare.

Negli ultimi venti anni, Vittorio Foa, uno dei padri politici e culturali di un’area politica di questo Paese, è diventato particolarmente importante quando ha scritto la prefazione al libro più scandaloso che un esponente del movimento sindacale di questo Paese avrebbe potuto pensare, molto più scandaloso degli scritti di Pietro Ichino, secondo me. Venti pagine secche di un libro uscito nel 1988: il libro si chiamava “Sciopero contro l’utente” e l’autrice si chiama Tatiana Pipan. Bene, in quelle venti pagine Vittorio Foa di fatto scardina l’ideologia della mobilitazione sindacale così come si era costruita ad iniziare dal secondo dopoguerra. La scardina perché comprende che lo sciopero in sé non è più una categoria proponibile nello scontro politico, perché rischia di diventare, da una parte, un fenomeno corporativo e, dall’altra, di non comunicare a nessuno l’utilità del modello contrattuale verso cui tu stai andando. E, quindi, quello che tu dei rivisitare è l’idea della relazione industriale in questo Paese. Sono 20 pagine sulle quali, secondo me, sarebbe importante meditare, perché dicono moltissimo dell’impasse culturale dei soggetti e degli attori sociali sul mercato all’inizio della crisi sociale della prima repubblica. Nutre di più che i saggi compresi dentro i suoi scritti sulla CGIL e, per certi aspetti, quelli compresi in anni di prova che sono gli scritti politici e sociali del periodo della Costituente.

Vi dico un’ultima cosa che riguarda lo scritto di Brera, perché credo che sia importante. Poi, magari, se ci saranno delle domande, preciserò meglio alcune cose che mi sono sfuggite o che non ho affrontato in modo sufficientemente chiaro.

Quando Beppe Grillo, in settembre, ha inventato il giorno del vaffa-day, tutti in Italia hanno riflettuto sul tema della crisi, dell’anti-politica ed io, dentro a questo libro, ho inserito Brera, non perché pensassi a Beppe Grillo, ma perché riflettevo su di un tema ricorrente nella storia italiana, cioè su come noi ci rapportiamo alla politica, spesso in termini di che cosa chiediamo alla politica,  cosa non ci soddisfa. Secondo me, in quell’occasione sono circolate parole tipiche del qualunquismo e la domanda che io mi sono fatto è stata molto semplice: è il qualunquismo un fenomeno strutturalmente italiano? Ha una storia il qualunquismo in questo Paese? Cioè, è qualcosa di più di quello che noi pensiamo che sia, un carattere oppure il rifiuto della politica? Allora queste due domande, secondo me, includono che noi si consideri il rapporto fra società civile e politica, non solamente nella storia di questo Paese ma nelle forme in cui la società civile si comporta rispetto alla politica.

Prima questione: il qualunquismo o, come dire, il puntare il dito sugli scandali della politica, è un fenomeno solo di questo Paese? A me non pare. Riprendo soltanto due contesti diversi dal nostro ma significativi dal punto di vista delle forme della critica alla politica. Il primo è l’Inghilterra e il secondo è la Francia. Che cosa succede in tutt’e due questi contesti da vari anni e dal punto di vista delle dinamiche politiche? In Inghilterra c’è un fenomeno che dura almeno da tre secoli, da quando Jonathan Swift ha introdotto i pamphlet per la critica della politica. E cioè l’anti-politica o il qualunquismo nella politica non costituiscono un partito in Inghilterra, però hanno dato luogo al quotidiano più venduto e presente nell’opinione pubblica inglese: il Sun, che, ad esempio, vende due milioni di copie, tre volte la vendita del Corriere della Sera in Italia. E tuttavia non è il giornale di un partito. Io ci penserei seriamente, per dire che è vero che l’anti-politica è il risultato di una politica sbagliata o di una politica malata, ma fa parte del gioco della politica; dipende, però, con quali linguaggi, con quali modi, con quali strumenti si mette in piedi. Lo stesso, per certi aspetti, accade in Francia, anche se con altre caratteristiche. Voi prendete un fenomeno come Le Canard Encheiné, che è il settimanale satirico più diffuso in Francia, perché vende mezzo milione di copie, e avrete un altro fenomeno di anti-politica o di qualunquismo rispetto alla politica. Ma di nuovo non avete un partito, cioè non avete la pretesa di rappresentare politicamente e socialmente un fenomeno, ma perché? Perché ci si aspetta molto dalla politica. Mentre il qualunquismo in Italia nasce come partito politico per chi non si aspetta niente dalla politica o si affida ad un appuntamento salvifico, non dà un valore probante, pratico alla politica. Ed è per questo che in Italia nasce un partito di protesta, perché tu hai un rapporto fideistico e contemporaneamente identificativo con quello che chiede la politica . Non è un rapporto pragmatico. La cosa meno nota al pubblico italiano, all’elettorato italiano sono i programmi dei partiti politici, che sono esattamente quelli coi quali tu dovresti valutare nel tempo l’affidabilità del tuo voto.

 Il punto essenziale, se andremo ad elezioni anticipate, come penso, tra 15 giorni o tra 3 mesi, il punto sostanziale, Berlusconi l’ha già detto, è quello di rilanciare il pacchetto dei lavori del grande cantiere Italia. Però, se considerate la realizzazione dell’investimento, a cominciare dal sistema stradale e autostradale, non l’ha fatta mica Berlusconi in cinque anni, perché, se ci sarà la BREBEMI sarà perché qualcuno, un anno fa, gli ha dato una sovvenzione e non era il governo Berlusconi. E se voi andate da qualcuno come Maurizio Lupi, ve lo dirà in camera caritatis. Ve lo dirà, non lo dirà al pubblico, perché lui deve dire le panzane al pubblico. Questo non è per salvare un governo che ha avuto degli enormi problemi a gestire se stesso, prima ancora di fare delle riforme in questo Paese, però per dire che, se io volessi analizzare la realtà, i dati questo dicono. Allora, il qualunquismo è un dato costruito su un elemento psicologico, non è un elemento di quello che tu fai, ma di quello che tu sei, o di quello che tu credi di essere.

L’altro elemento, che rende simile il panorama francese a quello italiano, è un partito che nasce sull’anti-politica, perché parte dal principio della ricontrattazione del welfare state generale; noi sbagliamo a considerare in questo caso la Lega come un fenomeno di politica etica, perché la Lega, come il Fronte Nazionale in Francia, è la riscrittura del welfare state a partire dalla dichiarazione di appartenenza territoriale, non più del sistema per cui il lavoro generalista deve fornire servizi: cioè la riscrittura del patto, chiamiamolo così, costituzionale di un Paese, non della Carta Costituzionale, del Patto Costituzionale. In quel caso, non è semplicemente una storia della destra, è una storia, secondo me, di quella che è la crisi del modello sociale in cui sono stati tenuti per quarant’ anni nel secondo dopoguerra i contesti socio-politici nazionali.

Allora Brera è importante perché dice due cose. Dice che il qualunquismo non è il rifiuto in sé della politica, il qualunquismo è un fenomeno per cui tu non ti senti rappresentato da quel tipo di politica e ti vai a cercare qualcosa d’altro, per cui la distinzione va fatta non sul piano dello slogan, ma su come tu ti costruisci il sistema di rappresentanza. Questo, a mio modo di vedere, è molto importante, perché dice due cose: che il qualunquismo nella storia italiana ha una storia lunga, che ora proverò a delinearvi , e dice anche, secondo me, quale tipo di problemi ci troveremo davanti.

Allora chi ha ragionato del qualunquismo in Italia ha detto che esso ha, come primo fenomeno storico, il partito di Giannini nel ’45-’46, quello che si chiamava L’Uomo Qualunque. Io credo che invece quello sia solamente uno dei fenomeni del qualunquismo italiano. Il qualunquismo italiano ha altre matrici molto più lontane negli anni, con una matrice fondativa, con un codice, con un canone molto più profondi nella storia italiana. Il qualunquismo, a mio modo di vedere, o quello che noi abbiamo chiamato qualunquismo, nasce come anti-parlamentarismo, prima di tutto, e l’anti-parlamentarismo nasce, a sua volta, come anti-giolittismo, come corrente politica del nazionalismo italiano alla fine dell’’800 e dei primi anni del ‘900. Cioè nasce nel momento in cui delle forze politiche o delle forze di opinione ritengono che il complesso della classe politica e dei luoghi di rappresentanza della politica, e cioè il Parlamento, escluda a priori la possibilità di discussione su temi che non rientrano in quel gioco. Per cui l’anti-parlamentarismo non è il rifiuto del Parlamento come tale, ma il rifiuto del fatto che in Parlamento si facciano degli accordi politici tra forze tra loro diverse, per poter legiferare.

La prima fase del qualunquismo nella storia italiana nasce lì. E questo fenomeno darà luogo, dopo, al qualunquismo, perché il primo effetto è la discussione sulla forma partitica, intesa come non necessità del partito, in quanto luogo della discussione politica. Non è una riflessione che fanno in Italia coloro che hanno una visione autoritaria della politica, perché i primi due a teorizzare, a riflettere su questo tema della politica e su questa, come dire, non necessità della forma della rappresentanza politica, sono due lumi tutelari del liberalismo italiano e della democrazia politica italiana, che rispondono ai nomi di Benedetto Croce, il quale nel 1912 scrive un articolo sull’Unità di Salvemini, intitolato “Del partito come giudizio e pregiudizio,” sulla necessità o non-necessità dei partiti politici e il direttore dell’Unità, Gaetano Salvemini, che nel 1912 e poi per 7 anni pone il problema di fondare la Lega Democratica, esattamente come dissoluzione della forma partito politico e la cui ipotesi politica crolla nel 1920, perché in gran parte costituita da soggetti sociali e politici che, a quel punto, scelgono in gran parte l’adesione al PNF, nel 1921, ma che ha nella sua base gran parte del lessico politico che noi troveremo in Italia non solo con Alberto Giannini nel 1946, ma anche nel lessico che caratterizza Paolo Flores D’Arcais nel 1994 e che ancora lo caratterizza oggi.

Dopo di che voi avete il fenomeno dell’invasione del palazzo dentro la società italiana e non più semplicemente la decisione, che è, come dire, la politicizzazione e la nazionalizzazione delle masse della società italiana attraverso il fenomeno del fascismo come regime politico, che dà vita e regola i modi di vivere dell’italiano anche nella sua casa, nel suo tempo libero. E allora il qualunquismo deriva esattamente dalla stessa matrice politica, che non vuole più lo Stato che gli vada a dire in casa sua come comportarsi. Il qualunquismo non è semplicemente l’esito, senza un duce, del fascismo, ha dei genitori di varie matrici nella storia culturale italiana, che poi ritroverete nelle forme di rappresentanza dei partiti d’opinione negli anni ’60 e ’70 e in altre forme del sistema di protesta civile, li troverete nel tema della maggioranza silenziosa che avrà un enorme catalizzatore e in parte anche negli ideali di associazionismo della società civile, come anti-politica negli anni ’70-’80. Per poi pensare, nel momento della crisi politica della prima repubblica, tra il ’92 e il ’94, ad un modello di riforma di questo Paese, secondo cui la società civile, di per sé, era ritenuta migliore della classe politica con delle figure che si pensavano come sostituti della stessa, come attori, come individui prestati alla politica, ma che non sarebbero mai tornati indietro a fare il loro mestiere di partenza. Non voglio fare dei nomi e cognomi, li potrei fare. Questo è un grande problema del meccanismo politico italiano, il quale dipende, per esempio, da due caratteri fondamentali. Perché in Francia non succede?’ Perché in Francia formare degli amministratori pubblici fa parte di un percorso di formazione, cosa che in questo Paese non c’è, per cui i nostri operatori pubblici sono veramente spesso dei soggetti della società civile prestati alla politica. Il problema è che, una volta che tu hai non un mestiere ma una competenza specifica sull’argomento su cui stai lavorando o intervenendo, quella competenza serve entro una stagione politica, non può diventare un ciclo infinito della politica.

Secondo me, coloro che dicono di essere prestati alla politica, sia a destra che a sinistra, negano un fatto fondamentale, almeno a mio modo di vedere, e cioè che la politica è un fatto di passione, non semplicemente di convinzione, non è semplicemente tecnica, è, come dire, capacità di comunicazione, è lavorare con delle persone e il risultato dell’azione politica è il risultato non solamente del compromesso, che tu fai con i tuoi avversari politici o con i tuoi alleati politici. È anche la capacità di creare un’opinione su quello che tu stai facendo, è anche, appunto, creare istanze pubbliche e quindi partito politico ed è esattamente la sfida che, a mio avviso, abbiamo di fronte e che è la risposta, in questo caso, al qualunquismo di questo Paese. La politica è una questione di dignità e richiede preparazione e competenze. Esattamente perché si sa fare qualcosa e questo qualcosa è anche competenza professionale, è anche capacità di mettere insieme persone e cose. Bisogna essere capaci di produrre nello specifico non solo un fatto tecnico, ma entusiasmo: questa è anche la politica. Ed è una cosa che in gran parte il ceto politico italiano non è in grado di dire o ha paura di dirlo, perché dietro c’ è il problema della non presentabilità della politica.

Ora non so se ho detto tutto quello che volevo dire, ma almeno ci ho provato, Mi fermo qui, grazie.

 

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