Fabrizio Barca. La traversata. Una nuova idea di partito e di governo.

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Corso di formazione alla politicaUna riflessione sulla rappresentanza a partire dal libro di Fabrizio Barca: La traversata, una nuova idea di partito e di governo; perché oggi ci troviamo di fronte ad una sostanziale e profonda crisi del sistema dei partiti, che sono la modalità classica della rappresentanza.

Questo sta avvenendo in particolare in Italia, perché dopo tangentopoli c’è stata la sostanziale cancellazione di tutti i partiti, ma queste difficoltà di rappresentanza si trovano oggi anche nel mondo. Partiti che non sempre sono all’altezza, o lo sono sempre meno, di rappresentare gli interessi e i bisogni emergenti dentro la società.

I documenti che si trovano nel libro di Barca indicano una nuova modalità di organizzare un partito nella società radicalmente cambiata, con caratteristiche che la rendono chiaramente differente dal passato.

Fabrizio Barca: la traversata. Una nuova idea di partito e di governo.

1. il testo dell’introduzione di Salvatore Natoli non è disponibile

2. leggi la trascrizione della relazione di Fabrizio Barca

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

presentazione dell’incontro: intervista di Lorenza Ghidini a Salvatore Natoli per Radio Popolare 5’18”

1. premessa di Giovanni Bianchi 6′ 49″ – 2. introduzione di Salvatore Natoli 41′ 52″3. relazione di Fabrizio Barca 1h 34′ 12″4. intervento G. Bianchi e prime tre domande 9′ 04″5. risposte Fabrizio Barca 11′ 04″6. domande 6′ 41″7. risposte Fabrizio Barca 11′ 15″8. domande 13′ 12″9. – risposte Fabrizio Barca e chiusura 16′ 15″

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Trascrizione della relazione di Fabrizio Barca

Vi ringrazio molto. Abbiamo insieme, diciamo, tempo per sciogliere almeno in parte, o tentare di affrontare alcune delle questioni che sono state poste. Diciamo, vedendo il vostro programma, lasciatemi fare un passo indietro, è abbastanza interessante che in uno spettro in cui voi, partendo dal contesto esterno, toccate le politiche, l’economia e la società, poi a metà di questo itinerario vi interrogate. Dopo avere discusso di forza riformatrice o forza cistituente della società civile (sono due qualificazioni molto diverse, sarei curioso di sapere come è stata la discussione con Cotturri) tornerò sulla questione delicata della cittadinanza civile perché c’è la domanda: ma il medium è il partito? È evidente che società e Stato devono trovare qualcosa che li leghi. È evidente che ci deve essere un medium, un mezzo, uno strumento per tradurre i bisogni della società, le belle idee, i bisogni e le idee, le innovazioni della società in politiche, è evidente che ci deve essere. Una delle domande è: ma è il partito? Ma ne siamo certi che sia il partito? E poi se è il partito, come lo deve fare, se lo vuole fare, come potrebbe essere fatto, le domande che sono state poste le toccherò alla fine.

Per affrontare il tema come faccio, come sto facendo, bisogna sciogliere due piani e, ahimè, bisogna scioglierli poiché le risposte alle domande che riguardano: ma ce la può fare un partito? È possibile costruire un meccanismo più complesso di quello dei partiti di massa in cui, come è stato detto, chiediamo al gruppo dirigente, all’élite, al leader non soltanto di essere capace di non deludere, dei valori, ma gli chiediamo di essere capace di veicolare e di mobilitare, di veicolare in giù e in su conoscenza, compito complicato? Ma siamo certi che si riesce a montare una macchina di questo genere?

Poiché le risposte alle domande poste, sono risposte che proverò a dare, ma sono risposte ovviamente tentative, che attendono sperimentazione, quindi fare, un fare monitorato, un fare osservato, un fare che riporti le lezioni, le sconfitte, i successi a sistema. Poiché quindi la strada non è breve, non c’è nulla dietro l’angolo, bisogna essere molto convinti che la strada sia giusta per prenderla. E per essere molto convinti che la strada da prendere sia quella, bisogna che la costruzione teorica che è stata richiamata, e che io ripercorro in modo diverso, perché non c’è altra strada, sia robusta. Perché se sei convinto che perché la società continui ad avanzare, perché ci sia sviluppo nel senso e nella definizione di Amartya Sen, sviluppo uguale libertà sostanziale, sviluppo uguale messa in condizione del massimo numero delle persone di realizzare, o almeno di convincentemente tentare di realizzare gli itinerari di vita che ogni singola persona ha, perché questo è sviluppo, detto in modo semplice sviluppo uguale e poi crescita e inclusione sociale – ma dietro a questo binomio ci sta questa cosa – dobbiamo essere convinti che oggi in Italia e altrove, per realizzare questo sviluppo, per avere le politiche necessarie per avere questo sviluppo, ci vuole una politica e che questa politica debba essere mediata da un partito. Dobbiamo essere convinti parecchio perché se no lungo la strada ci convinciamo di quello che è buio, come dirò, e come ci siamo convinti in questi anni, ovvero che la società civile ce la può fare da sola, ovvero che il problema, alla fine, ahimè, è che in questa società globalizzata servono, e non ci piacciono, dei poteri forti, fortissimi, quindi serve l’autorità. Perché questa tentazione ce l’abbiamo tutti, ognuno di noi, perché di batoste ne abbiamo prese, ne prendiamo e ne continueremo a prendere tante.

Per cui in questa fase, la solidità dell’impianto teorico ci deve far convincere che, quando abbiamo preso una batosta, ci fermiamo un attimo e ci diciamo: ma siamo proprio sicuri che non sto perdendo tempo a occuparmi di sistema? Perché sicuramente non perdo tempo se mi impegno nella società con quel tanto che ognuno di noi ha di amore per gli altri, o di racconto di chi è, ha poca importanza, il racconto di chi è, di chi sei e quindi se ti sei raccontato una cosa poi, per realizzarti, devi farla. Non perdiamo certamente tempo quando ci dedichiamo, all’interno di una microassociazione, a scambiare qualcosa, l’acqua, l’aria, le condizioni degli immigrati, lì non perdiamo tempo di sicuro. Ma è evidente che dedicando quello che rimane al tempo di lavoro necessario, visto che siamo buona parte di noi lavoratori salariati, io non lo sono perché sono diverse le mie condizioni di produzione, io non sono un lavoratore salariato, sono un dipendente pubblico e non sono un lavoratore salariato, ma molti di noi siamo lavoratori salariati, lo sono migliaia di giovani che sono precari, sono lavoratori salariati nella definizione di Carlo Marx per cui il lavoratore salariato è qualunque lavoro la cui soddisfazione del lavoro e la cui remunerazione del lavoro non dipendono esclusivamente dall’impegno che ci impiega, ma dipendono da un fattore che dipende dagli altri, controllato da altri, che è il capitale. Oggi non è più soltanto la macchina del capitale materiale, ma il capitale immateriale, aperta e chiusa parentesi, il capitale immateriale i cui diritti di controllo si sono rafforzati enormemente in questi vent’anni a seguito degli accordi TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) del WTO, cioè che è uno dei tratti della modernità; cioè oggi siamo in una società capitalistica particolarmente forte, non tanto per la globalizzazione, c’è già stata, esagerata nella narrativa, ma perché oggi il controllo sui mezzi di produzione passa anche per il controllo del capitale immateriale, e il controllo del capitale immateriale rafforza la natura salariata del lavoro. Che poi questo lavoro sia di partita IVA, precario o dipendente, in fabbrica sempre lavoro salariato è, identico, soltanto che è frammentato, non si riesce a organizzare ecc. ecc.

Bene, dicevo che non è tempo perso quello che ognuno di noi riesce a sottrarre al proprio lavoro, ai propri impegni personali e familiari, cioè darwiniani, cioè alla sopravvivenza del proprio DNA (per essere brutali), ma che dedica a qualcosa che non ha a che fare con la sopravvivenza del proprio ultimo ego, che non è se stesso ovviamente, ma che è, diciamo, qualunque cosa che abbia il tuo DNA dentro, nella lettura iperdarwiniana, iperindividualista che ha prevalso in questo trentennio, ma che ha una sua radice. Bene, non perdiamo certamente tempo se dedichiamo il nostro fare a cambiare quella piccola cosa, certamente se tutti noi facciamo così, ed è la tendenza della società italiana di fronte al dramma dei partiti, ma perché devo impegnarmi in un partito? Almeno faccio qualcosa… ed è la caratteristica di centinaia di migliaia di giovani, definiti apolitici, ma stiamo scherzando? Politicissimi, solo apartitici, sì apartitici. Il 4% dei giovani italiani ritiene i partiti utili, il 40% dei giovani italiani con meno di 29 anni fa politica, la fa nelle sue modalità. Ma se tutti noi facciamo così siamo sicuri che la società non cambierà. E lasceremo la partita evidentemente ad altri che è quello che abbiamo fatto in questi trent’anni.

Allora, dobbiamo convincerci in modo molto forte che la fatica, perché è faticoso fare quel mestiere che è pieno di sconfitte, e quindi pieno di dubbi, non sai se ce la fai e devi essere molto convinto che per cambiare la società devi fare quello, e non che è colpa di qualcun altro e che almeno tu… non tu egoista che pensi solo a te stesso, tu sei egoista e altruista, ma il tuo altruismo, il tuo amore per gli altri lo manifesti nel cercare di cambiare il micro delle piccole cose. E non è tempo perso. Non so se è chiaro. Però poi non prendiamocela, non arrabbiamoci con il fatto che la società va in questa direzione, perché va in questa direzione come frutto della sommatoria di questi nostri individuali comportamenti.

Questo lungo preambolo serve a spiegare perché ritorno su alcuni punti che sono stati toccati. Noi abbiamo un problema come Italia, perché noi abbiamo un piano generale che è stato toccato e poi un piano italiano: l’Italia ha… non è vera, rispetto a come è ritenuta la cosa, esiste l’anomalia italiana, ed è fatta di due cose semplicissime: una riguarda il mercato e una riguarda lo Stato, che poi sono due componenti.

Per quanto riguarda il mercato ha un deficit di concorrenza, punto. Di concorrenza, non di meritocrazia, perché è stata raccontata così, poi la conseguenza è che le persone per quanto riguarda il mercato, il mercato fa fatica a selezionare il merito, ma il punto è la concorrenza, cioè la modalità di funzionamento del mercato non concorrenziale, è un dato, un dato storico, un dato forte. E l’altro dato è una amministrazione pubblica e uno Stato che sono in condizioni non comparabili con quelli di nessun altro paese, Grecia a parte, perché è una forma degenerata nostra, perché in Grecia non hanno avuto il meraviglioso quindicennio, non hanno avuto il compromesso straordinario del quindicennio post fascista e quindi loro non hanno avuto neanche, come dire, la raddrizzata che quel quindicennio ha dato, con tutto il fatto che non ha risolto i problemi, ha però rimesso il paese su un altro binario. Quindi, non è Grecia. Però la convergenza a lungo periodo è Grecia, è Argentina nel nostro paese, è evidente che è quello, ed è legato a uno Stato normocentrico, antiquato, arretrato con elementi ancora propri, maturati durante il fascismo e non eliminati, ahimè, per via della natura del compromesso straordinario che DC, PCI, forze liberali e Stati Uniti raggiungono nel dopoguerra. Di questo compromesso fa parte anche la non defascistizzazione nelle persone e nelle istituzioni dello Stato. Questi due sono due dati anomali italiani e quindi noi dobbiamo capire i problemi generali del capitalismo che vive una crisi generale e delle soluzioni sbagliate che a questa crisi sono state date in questo trentennio, il liberismo innestato nel corpaccione italiano. Poiché i paesi sono stati tutti investiti, io li metto soltanto in fila perché questo mi consente di analizzare il livello generale.

Mi fa molto piacere che sia stata colta una roba di cui parliamo poco. Non perché quella separazione che è stata descritta e su cui non ritorno, la separazione fra controllo dei mezzi di produzione e controllo delle decisioni di impresa e il risparmio non sia fondamentale, non perché essa sostituisca l’altra separazione fondamentale del capitalismo che è quella tra capitale e lavoro, la cui analisi affonda in Carlo Marx, ma è stata, come dire, riscattata dall’essere Carlo Marx un problema, perché si è sempre mescolata la parte diagnostica con la terapia; poiché la terapia ha avuto qualche problema nella storia e, diciamo, la parte analitica, specie chi l’ha vissuta da vicino, l’ha messa da parte. Chi non l’ha vissuta da vicino, e questo lo dico sul piano culturale del paese, perché noi abbiamo un problema culturale particolare; cioè, gli Stati Uniti con Marx ci fanno i conti senza problemi, Marx è normalmente citato in tutti i paper dell’Università di Chicago. In Italia, uno come Luigi Zingales, che brevemente è stato un leader, di formazione liberista, non ha problemi e nei suoi libri cita Carlo Marx perché con Carlo Marx ha compreso alcuni pezzi fondamentali del capitalismo, la separazione fra il valore d’uso e il valore di scambio e la separazione fra capitale e lavoro. È andato vicino a questa seconda separazione che hanno capito meglio di lui Infeld e Schumpeter e poi, diciamo, Berlin, Mill, durante la grande navigazione rooseveltiana.

Quindi, queste due separazioni del capitalismo sono i due problemi da risolvere: ma perché dobbiamo risolverli? Ho letto alcuni saggi interessanti di Pietro Ingrao degli anni Settanta e Ottanta, il capitalismo è quella cosa che ci ha dato l’innovazione, ci ha dato l’aumento della produttività, ci ha dato l’allungamento della vita, non devo ricordarvelo, quindi noi fino a che non ne troviamo un altro di sistema, abbiamo bisogno di fare i conti con quello, quindi abbiamo bisogno di regolare queste due separazioni.

L’altra cosa è l’istanza di giustizia, evidentemente, che è raccolta in una parola, così abbiamo l’itinerario: noi europei abbiamo sintetizzato in una bellissima parola che non a caso sostituisce nel caso dell’Unione Europea quella che nella Costituzione americana è la parola “felicità”, che è una parola tutta sola e individuale, noi abbiamo scritto “armonia”. Perché la frase principale, la parola principale del trattato dell’Unione Europea è harmonious development, “armonia”. E a questa è piegata una parte del trattato, la coesione, il concetto di coesione. Jacques Delors non a caso con le sue influenze l’ha detto: in questa armonia si possono ritrovare quelli della tradizione socialcomunista, cristianosociale e liberale.

Bene. Questa roba, qui nello schema che io ho in testa, queste due contraddizioni, a un certo punto chi le affronta nel mondo? Quelli che Salvatore Natoli chiama socialdemocrazia, riferendosi con questa parola non solo alla posizione socialdemocratica europea, ma anche al rooseveltismo. Quindi, l’intero mondo occidentale affronta queste due separazioni e affronta la questione della giustizia, cioè di come garantire delle opportunità a tutti, di favorire che le opportunità non siano troppo dipendenti da dove sei nato e dalla famiglia in cui sei nato, con la socialdemocrazia.

Questo, nel mio schema, va a sbattere, durante gli anni Sessanta, su tre problemi fondamentali: uno, notissimo, che è già stato anche visto, è che per riuscire a realizzare quella soluzione si richiedeva fortissima discrezionalità pubblica: ecco la parola chiave ideale per catturare l’attenzione: discrezionalità. Quelle due separazioni vengono affrontate con forte discrezionalità, cioè tu affidi a dei funzionari pubblici che selezioni la discrezione di regolare. Pensate a quella di cui abbiamo parlato più di tutte che è quella fra risparmiatori e manager: come si affronta per trenta, quarant’anni, che sia in Germania o negli Stati Uniti, gli strumenti sono diversi, dipendono dalla cultura e dalla storia, ma hanno in comune la discrezionalità. Negli Stati Uniti sono le Corti di Giustizia i regolatori che hanno fortissimi poteri discrezionali nel regolare quanto l’uno e l’altro: tu non puoi dare ragione solo al risparmiatore, perché nel capitalismo se tu dai ragione solo ai risparmiatori egoisti che poi vogliono un sacco di soldi e vogliono tenere sotto cinghia il capitalista per ammazzare il capitalismo, perché la forza del capitalismo è la libertà delle spinte animali, devi lasciarlo libero il capitalista anche se si prende dei rischi, come diceva Carlo Marx: il primo sfruttato è il capitalista stesso che sfrutta se stesso, perché diventa matto per riuscire e mette a rischio se stesso, la propria vita e tutto. Il primo sfruttato è il capitalista, ma per spingerlo a sfruttarsi, cioè a produrre innovazione, grandi idee, cavolo, quello deve essere libero di decidere, quando arriva il momento, quello che vuole. In un mondo in cui il risparmiatore è troppo tutelato, il capitalista dice: va bene, d’accordo, non faccio gran che.

Allora, grande discrezionalità, ma il problema qual è? È il vecchio problema weberiano, cioè la discrezionalità del pubblico per poter stare sul mercato determina decelerazione e tutto quello che sapete benissimo. Il sistema va a sbattere, a parte i casi estremi italiani, va a sbattere ovunque: sul lassismo, sulla degenerazione… Guardate la Gran Bretagna pre-Thatcher, è una Gran Bretagna dove lo Stato è sfasciato, dove il dipendente delle imposte britanniche lavora un’ora, la socialdemocrazia non ce l’aveva fatta, aveva battuto contro un problema.

Gli altri due problemi riguardano la persona, perché la socialdemocrazia non era riuscita, aveva disegnato la scuola, la salute, la cura delle persone che stanno male, ma quelli che stavano male spesso diventavano matti, a scuola erano tutti uguali, la salute era tutta uguale e la persona si era persa. Evidentemente, quando centinaia di migliaia, milioni di persone che sono più istruite, che hanno acquisito conoscenze, che hanno superato i bisogni primari, che si possono quindi permettere… per cui già soltanto avere un ospedale ed essere curati era una meraviglia, no, scusatemi: io sono una persona fatta in questo modo, in questo certo modo, io ho avuto un tumore, ma io ho queste caratteristiche, io voglio che tu fai una cosa per me, non è che io voglio che tu entri nella diagnostica, io sono uno studente, sì ma non voglio il grembiulino, ed ecco, è il ’68, è la rivolta diciamo contro la socialdemocrazia perché il ’68 è una rivolta generale del mondo giovanile e non contro quel modello omogeneo. Quindi, la socialdemocrazia non ce la fa a rispondere alle persone.

Terza caratteristica problematica della socialdemocrazia è che, attutendo, cercando di evitare che le persone cadano in disgrazia e finiscano male e garantendogli le condizioni, questo garantismo arriva a minare il capitalismo, avrebbe detto Marx, a segare il ramo su cui il capitalismo si siede, perché se io alla fine… (l’esempio è sempre la Gran Bretagna se no siamo al Sud dell’Europa), se io so che il mio sussidio di disoccupazione mi tiene in vita e che non ci sarà particolare controllo e che me lo posso pure andare a spendere in America Latina dove vale tre volte, i ragazzi giovani di quella generazione andavano in America Latina col sussidio di disoccupazione. Cioè se non ce la raccontiamo così non capiamo la violenza, la durezza, e anche il successo e il consenso della reazione liberista.

Quindi, la reazione liberista, poco importa che sia stata gestita dalla destra o dalla sinistra, meglio prendere quella di sinistra che almeno la capiamo meglio, che è quella del neolaburismo, è sostanzialmente l’automatismo contro la discrezionalità, è cercare di ridurre al massimo i meccanismi discrezionali per evitare quel problema irrisolvibile weberiano del funzionario pubblico che non riesco a tenere a bada. C’è un bellissimo libro che sta per uscire di Patrik Regales, sono quattro mesi che sta per uscire, di cui ho scritto la postfazione, la postfazione non è ancora uscita e bisogna che la metta in rete. È un libro molto carino che racconta senza pancia, quindi non contro all’inizio, insomma racconta il drammatico insuccesso del modello neolaburista, composto da mercato, automatismo del mercato, quindi, sempre per tornare all’esempio separazione-risparmio, laddove fino a prima, fino a quel momento, si era usato, per risolvere la separazione, molta discrezionalità, si usa automatismo.

Che vuol dire automatismo? Vuol dire: i manager si comporteranno bene? useranno bene i risparmi che mettono nelle loro mani, non perché sanno che se lo usano male vengono mazzolati dal civile al penale, per cui perdono tutto e finiscono magari anche in gattabuia, che era il modello diciamo del quarantennio precedente, ma si comporteranno bene perché legano la loro retribuzione al valore delle azioni. Questo è un meccanismo automatico, lo stock option. I derivati, lasciate perdere tutta la menata del fabbisogno della leva finanziaria, questa criminalizzazione della finanza, ecc.; la leva finanziaria è uno strumento fondamentale del capitalismo, se vogliamo abolirla aboliamo il capitalismo, quindi siamo molto chiari, il problema non è la leva finanziaria, il problema è di capire in questa leva finanziaria chi controlla che il risparmio arrivi nelle mani delle persone e che sia usato appropriatamente. Ebbene, il derivato non è che è sporco, è il meccanismo, è tutto automatico, è tutto automatico, è l’idea che io posso assicurare in un altro mercato delle caratteristiche.

Quindi, io sostituisco la discrezionalità di un tribunale del Delaware che fino al ’78-79 sarebbe intervenuto con violenza e avrebbe detto: tu hai emesso della carta straccia, stai massacrando gli azionisti e stai usando questi soldi per soddisfare le tue velleità, a una situazione in cui dico che per evitare errand(?), io costruisco un meccanismo dove c’è un sistema assicurativo o un sistema di punizione: automatismo. Questo è un punto fondamentale, perché non ci siamo, non ne siamo usciti ancora ed è evidente che ne siamo ancora dentro, noi siamo ancora nel mondo dell’automatismo, non è cambiata una virgola, scusate se esco dall’Italia, ma non è cambiata una virgola di questo sistema.

L’altro pezzo di automatismo, che è stato evocato, è la tecnocrazia nel governo della cosa pubblica, con un’idea geniale anche qui: guardiamo al caso inglese, non ai casi che sono andati male, al caso migliore perché se prendiamo i peggiori, diciamo, facciamo presto. Parliamo di una società in cui è stato costruito, sette anni ci ha messo il laburismo per costruire quel modello, tra il ’90 e il ’97 e l’hanno costruito all’inglese, hanno preso le meglio teste e non era neanche ipertecnico, non soltanto economisti e ingegneri ma anche filosofi, era un’operazione culturale quella che fa il laburismo, che richiede tempo, produzione di valore e non è neanche tutta liberistica perché insieme a Bell ci stava una montagna di altri, oltre a Brown ci stava Mendelson, ci stavano dieci teste, quindi un’operazione che possiamo dismiss.

Qual era la risoluzione riguardo alla conoscenza? L’idea in altre parole che mettendo le meglio tecniche, e non solo la tecnocratica, nelle migliori delle sue accezioni, mettendo le meglio, non molto diverse da quelle che Roosevelt in qualche misura aveva compiuto negli anni Trenta, peccato che il mondo è cambiato. Quindi, l’idea che in questo mondo per riformare la scuola, per ridurre la povertà dei bimbi in Gran Bretagna, i problemi che avevano gli inglesi, per ridurre il numero di questo dramma delle ragazze di 15-16 anni che fanno figli, per migliorare il sistema dei trasporti che è il peggiore d’Europa e tale resta, per risolvere i problemi pubblici e della salute (lasciamo perdere la salute in Gran Bretagna), per risolvere questi problemi si potesse disegnare un sistema raffinato (tra l’altro regalandoci una cosa che se noi siamo furbi usiamo, perché poi questa era la vecchia tradizione della sinistra: sapere usare il meglio di quello che negli errori si produceva), costruire, dare ai cittadini la possibilità di conoscere, di conoscere i risultati e la qualità dei servizi che vengono prodotti, costruendo un sistema di indicatori molto articolato, molto complesso, misurabilità metrica: i cittadini sanno, i cittadini guardano queste informazioni e reagiscono con i piedi, soprattutto, exit, rispetto allo schema Hirshman, exit and voice, reagiscono attraverso l’uscita, non comprando le scuole, non mandando i figli nelle scuole cattive, non andando negli ospedali che non funzionano. E anche, nel mercato politico non votando, diciamo, le liste di chi non funziona. La società civile la organizziamo per bene, tutta bella pulita, in modo che la gente possa discutere con altri che discutono della stessa cosa. Il sistema degli indicatori è stato discusso dal centro e i funzionari applicano.

Questa è la visione che viene provata in Gran Bretagna, una visione che è fallita completamente in termini dell’unica variabile che conta, l’esito, gli esiti finali stessi che sono stati fissati. Una visione che aveva la caratteristica di iper-illuminismo, di assoluto iper-illuminismo, quasi pianificatorio nel suo modo che replicava, e quindi blocca la società. Perché, questo è un punto fondamentale, perché che cosa c’è di comune alle due cose che ho detto? Perché se capiamo le ragioni del fallimento della soluzione liberista capiamo lo strumento con cui andare avanti, arriviamo a capire perché non abbiamo altra strada che lo sperimentalismo democratico e la mobilitazione cognitiva e allora ci mettiamo a tentare di ricostruire un partito.

Qual è l’errore comune ai due meccanismi? Regolo il capitalismo con automatismi, costruisco un meccanismo raffinatissimo di indicatori che ha evidentemente gli elementi dell’automatismo? Qual è il punto? È la nostra ignoranza, cioè la risposta sta nella parte migliore di una grande testa pensante austriaca che è Von Hayek. Dobbiamo fare shopping, dobbiamo sapere prendere il meglio di quello che c’è stato. Hayek, quando attacca la pianificazione, l’attacca dicendo che siamo ignoranti e quindi inevitabilmente diventeremo servi di ignoranti, cioè di persone che non potranno che fare solo i loro interessi, anche perché non hanno idea di come produrre. Ma questo che è vero, ed era già un po’ vero nel 1930 sia per Roosevelt che per Lenin, sia per la NEP che per il New deal che hanno elementi comuni dal punto di vista dell’impianto concettuale evidentemente, anche se costruiti con tecniche un po’ diverse dal punto di vista delle libertà democratiche, ma all’inizio sono assimilabili. Se non era già allora vero che c’era nessuno che aveva tutta la conoscenza necessaria per sapere quali siano le modalità con cui produrre una buona scuola, per dare una buona competenza, per affrontare in modo appropriato dei tumori che abbiano quelle caratteristiche, per venire incontro al problema di genere di una persona che si domanda di che genere veramente sono. Ci sono poi sì dei protocolli, poi sì degli indirizzi generali. Non sto dicendo che tu non debba scriverli, anzi è un compito ancora più difficile, devi scegliere degli indicatori, devi scrivere degli indirizzi attuando i quali, realizzando i quali (sperimentalismo democratico) tutte le centinaia di migliaia di soggetti, produttori e consumatori di quei servizi, abbiano la chance di riempire di contenuti quegli indirizzi stessi. Perché? Perché la conoscenza necessaria per produrre e fare buona scuola a Catanzaro piuttosto che a Bergamo, una parte rilevante, non tutta, attenzione, della conoscenza necessaria ce l’hanno i soggetti di Catanzaro e di Bergamo, si tratti degli insegnanti, si tratti degli studenti, si tratti delle famiglie degli studenti, si tratti degli imprenditori che vorrebbero avere della forza lavoro che viene da quella scuola: è dispersa tra questi soggetti.

E lo sa bene un paese come il nostro, policentrico che nonostante il disastro romano, complessivo del paese, perché va avanti? Perché pratica questa cosa che sto dicendo, non è che sto dicendo una cosa strampalata. Se andate a ricostruire come mai in un certo territorio la cura dell’infanzia funziona, perché in quel territorio la scuola funziona, perché in quell’altro territorio l’ospedale funziona, ritrovate delle filiere di persone dal lato della produzione, sia essa produzione sul mercato, pubblico o di terzo settore, e dal lato del consumo, cioè di chi esprime il bisogno, ritrovate dei luoghi in cui si è maturato un saper fare, un saper realizzare. Se no il paese ce lo saremmo già perso.

Allora, se in una società dove una montagna di persone sono terribilmente istruite, hanno pezzi… figurati se io scappo alla cosa difficile che poni: ma sappiamo fare politica? ognuno di noi ha un pezzo di conoscenza? Ed è una domanda più delicata di quella che poni, ma queste domande riguardano la parte partito, adesso ancora non esiste il partito, sto parlando del governare. La tesi generale che io metto sul tavolo, tra l’altro non oserei metterla sul tavolo se non l’avessi appresa, capita da altri, ma soprattutto se gli altri non mi avessero convinto, o il mio girare il mondo non mi avesse convinto, che la si sta praticando, se no sto dicendo delle cose insensate. Quello che io sostengo è: ci sono pratiche nel mondo, nel mondo occidentale, nel nostro paese, nei paesi di nuova industrializzazione, che è un punto importante, i quali non devono mica fare tutta la strada che abbiamo fatto noi, sono arrivati più direttamente a questo, parlo dell’esperienza del Brasile soprattutto, che hanno individuato questa strada alternativa, che reintroduce discrezionalità, discrezionalità dei livelli di governo, e forme e modalità di partecipazione delle persone in processi che devono essere ovviamente, come dice Amartya Sen, informati, perché la procedura con la quale hanno luogo deve essere tale che se la dici grossa, e la devi dire grossa, poi mi devi far vedere perché l’hai detta grossa e su quali basi l’hai detta grossa in un contesto partecipativo di qualunque tipo. Quindi, informati, informati e informanti, capaci di usare l’informazione, accesi, quindi anche molto duri e quindi la riproposizione del conflitto come indispensabile strumento di innovazione.

Questa idea, tanto per essere molto chiari, viene e ha forti radici (penso che chi di voi ha interesse a vedere queste radici c’è un bel libro di Gilberto Serravalli), questa idea ha – il capitalismo ci insegna molte cose – radici nel comprendere i processi innovativi dell’impresa, nell’impresa l’innovazione nasce dal conflitto, non dal conflitto fra gli interessi, conflitto di soluzioni. Un’impresa che funzioni è un’impresa dove gli ingegneri tra di loro si massacrano, dove hai cinque soluzioni… si massacrano per dire: ma no, ma sei pazzo, è questa la soluzione, e questa provala e prova quest’altra. I processi, l’innovazione, il saper raggiungere con minor costo e con più efficacia dei risultati li ottiene soltanto il conflitto. OK, va bene. Quindi questo è il tipo di governo che ho in testa, di modo di governare che io chiamo sperimentalismo democratico.

Accantono: Italia. Se riapiccichiamo, ho fatto una sorta di carrellata rapidissima, la crisi della socialdemocrazia e i suoi due ostacoli. La risposta liberista all’errore, la possibile via di uscita. Se ci mettiamo l’Italia sopra, che cosa ci troviamo? Quello che è stato ricordato, su cui ci possiamo anche soffermare, poi possiamo prendere mille strade per discutere, che in quello straordinario quindicennio post-bellico, negli anni del miracolo, negli anni straordinari, noi troviamo delle soluzioni transeunte, delle soluzioni non definitive. Infatti, non costruiamo concorrenza; è lì, in quei 15 anni, che non riusciamo a costruire concorrenza e pubblica amministrazione. E ci inventiamo una cosa che molti pensano sia una cosa straordinaria, infatti veniamo copiati, citati in tutto il mondo, che è l’ente pubblico. Che è questa trovata che poi era pre-fascista addirittura, l’idea degli enti pubblici che già c’era: c’era dall’INA all’Opera Nazionale Combattenti, parlo di cose post prima guerra, all’IRI, all’ENI, alla Cassa per il Mezzogiorno. E noi sostituiamo, inventiamo un soggetto (non ho tempo per entrarci, ma ho speso diversa parte della mia vita a ragionare su questa cosa), costruiamo un soggetto pubblico con modalità di comportamento privatistico. E pensiamo di avere il mondo che ci guarda, ci segue, perché in quegli anni tutto il mondo, tutto il dibattito sullo sviluppo dice: l’Italia ha trovato un’altra strada.

Non è tanto un’economia mista pubblico-privato, ha trovato uno strumento che risolve tutta una serie di problemi: risolve la separazione proprietà e controllo, affronta la questione della separazione fra lavoro e capitale, fa sviluppo e, tra l’altro, fa tecnologia, fa ricerca. Solo che è una soluzione che per una serie di ragioni in realtà non risolveva, era molto inaffidabile. Secondo Marcello De Cecco era una soluzione che reggeva, perché era affidata a delle persone straordinarie, Sinigaglia e Mattei, persone che si erano formate durante l’antifascismo, probabilmente Marcello De Cecco ha in parte ragione, io dico che è legata anche in parte alla grande straordinaria eredità di De Gasperi, la sua capacità di tenere il partito della Democrazia Cristiana fuori. E poi quando una persona come Amintore Fanfani che, per interessi generali, fa quello che credo che lui faccia, innesta però dei germi terribili che sono quelli che sono stati evocati prima.

Comunque stiano le cose, in quei 15 anni non soltanto non risolviamo i problemi, ma abbiamo anche creato un piccolo mostro che è la partecipazione statale, che è già diventato un mostro nel ’57-‘58, ma ricordatevi sempre che gli effetti economici sono più lenti, gli effetti economici negativi li vediamo dal ’65-’66, ma il mostro già c’era nel ’57-’58, pieno di buone intenzioni, ma adesso non voglio seguirti sulla questione storica. La Malfa in quegli anni lì dice che capiscono che c’è un problema di controllabilità, e fanno pure peggio, perché costituiscono il ministero delle Partecipazioni Statali che è l’inizio della fine. Cioè, non capiscono nulla del modello di sviluppo di Francesco Saverio Nitti e invece di farne evolvere la versione privatistica verso un modello che forse ci poteva stare, lo fanno evolvere nella direzione di un ente controllato dal Parlamento, ed è la fine. La storia di Gian Lupo Osti che in questa città è un personaggio rilevante, racconta la storia di questa fine.

Questo che cosa significa? Significa che quando succede il patatrac che noi non costruiamo mai completamente perché non ce la facciamo con quella pia, noi non facciamo mai la socialdemocrazia, tanto è vero cha da noi la salute e la sanità arrivano 15 anni dopo e, quando arrivano, arrivano senza il contrappasso delle tasse perché la finanza pubblica non è governata, è l’unico paese che pensa di fare servizi senza le tasse, da cui l’accumulo del debito che nasce tutto entro quei quattro anni, e poi tutto il resto è follow up e oggi abbiamo il 120% del debito per un errore che è della seconda metà degli anni Settanta, dal ’75 al ’77, e poi rimbalzato con le politiche del nostro esimio.

Questo però significa una cosa. Noi non abbiamo mai costruito un sistema discrezionale perché è già diventato partito-centrico: i partiti si sono già identificati, immedesimati sullo Stato, sono già diventati partiti stato-centrici. E abbiamo quindi amplificato, come Claudio Napoleoni coglie nel 1962 – lo dico perché vengo da Torino dove abbiamo discusso a lungo una bellissima raccolta di saggi su Claudio Napoleoni fatta da Marcello Messori per la collana “Economisti abruzzesi” – e abbiamo moltiplicato la rendita, cioè abbiamo moltiplicato il numero e la quantità di pezzi della classe dirigente, questo è un punto fondamentale per l’uscita, che siano essi giornalisti, parto da loro, che denunziano i mali continuamente del paese, sono dei rentier, diciamo non è che lavorano, non è che fanno più inchieste o indagini, raccontano e vivono e qualche volta alimentano in realtà gli scandali che narrano di una Italia appiattita, che non ha picchi, non ha punti, che è un avvallo e un alibi a tutti a essere parassitari, perché se tutti sono parassitari, io sono cretino se non sono parassitario. Quindi, la diffusione del parassitismo e la produzione di rendita all’interno delle imprese che sono evocate invece di fare politica, quindi la degenerazione dei nostri corpi intermedi, la degenerazione di Confindustria e sindacati che diventano degli organi che diventano degli organi, i secondi con la formazione, il primo è una delle più povere organizzazioni imprenditoriali che esistono nel mondo occidentale dedita semplicemente alla individuazione di che cosa?, dei rimedi, dei sussidi dei prossimi sei mesi, di come tirarla alla lunga, di come riflettere gli interessi dell’uno e di quell’altro.

Tutto questo scivolamento che non è fuori dal capitalismo perché la rendita è dentro il capitalismo, ma non ha argini, noi non gli costruiamo gli argini, sbraca, non mettiamo gli anticorpi, non mettiamo le reazioni, non mettiamo, per usare un termine della terminologia americana, non mettiamo un checkout di questo meccanismo e i partiti diventano parte di questa storia. Il Berlinguer criticato allora per moralismo, e il Berlinguer che ha visto, lo dice bene Gotor in questa raccolta di saggi che ha fatto di Berlinguer 8-9 mesi fa, un anno fa, è il Berlinguer che ha capito con l’entrata delle regioni in funzione e il fatto che il PCI per la prima volta non è soltanto (il PCI ha sempre influenzato il governo, il 64% delle leggi sostenute) e lui vede che stava diventando esattamente come gli altri e quindi fa quel tentativo, quella operazione che non avrà successo, ma che non è moralistica, è la sensazione che non c’è una deontologia, e quindi noi abbiamo detto che lo facevamo per generosità e quando siamo al dunque siamo esattamente come gli altri.

Quindi, quando il capitalismo esplode perché quando le rendite sono eccessive il capitalismo non tiene; ed esplode tangentopoli. Tra l’altro, un numero ve lo voglio dare, un numero solo perché il mio mestiere è quello di economista: ricordiamolo sempre che l’arresto, come dire, la caduta forte, che poi diventerà arresto nel 2000, del tasso di crescita della produttività, che nel capitalismo è la misura del capitalismo, poi tutto il resto deriva da lì perché se ci sono bassi salari le cose… dall’Electrolux, nominatene una, FIAT, quello che volete, il crollo del tasso di crescita della produttività avviene all’inizio degli anni Novanta: quindi tangentopoli è la registrazione di una situazione in cui la rendita ha raggiunto livelli tali che sta bloccando i processi innovativi del capitalismo. Nelle statistiche, se andate a guardare, trovate un altro quinquennio di forte crescita della produttività che è fittizia, è gasata, è l’ultima grande svalutazione (il nostro grande strumento per ridurre i costi) e con quella roba noi gasiamo e voi la vedete cadere dal ’96 ma in realtà era caduta nel ’91-’92, poi tre anni di botto, ok.

Quindi, quando arriva tangentopoli è per questo, a mio parere, è per questa situazione, che esplode e che ha due riflessi, uno economico e uno politico. Quello economico è che viene la voglia di dire: abbiamo capito cosa dobbiamo fare, dobbiamo prendere il modello, che nel frattempo era diventato il modello automatismo, e faccio quello, lo applico all’Italia; e nella logica di questo trentennio drammatico in cui i tecnocrati sono anche a Washington, a Francoforte, a Bruxelles, ovunque c’è l’idea che ci sia qualcuno da qualche parte che possa scrivere raccomandazioni in cui dice a tutti quello che si deve fare, perché sappiamo cosa si deve fare, ed è lo stesso in tutti i luoghi, che è il pendant a livello internazionale di quella stessa malattia tecnocratica iper-illuminista, a noi ci arriva tutto, ma mal si impatta su una pubblica amministrazione che è quella che è, e quindi diventa grottesca,

Quel modello diventa grottesco e degenera in una sensazione di impotenza, perché nel frattempo si sgretola. Cioè, noi non rinnoviamo i funzionari della pubblica amministrazione, il new public management all’italiana… Attenzione, attenzione! Ci sono pezzi dell’Italia fatta così, ci sono pezzi del ministero della Salute, ci sono filiere straordinarie, interstiziali, che hanno preso il meglio di quella esperienza per cui trovate in Italia… Abbiamo tanti pezzi in Italia, abbiamo l’ISTAT che è uno dei migliori istituti statistici internazionali. Quindi, noi abbiamo in realtà dei pezzi di metrica, almeno di misurazione, abbastanza solidi, quindi abbiamo statistiche migliori di altri, e alla fine, se andiamo a guardare, ma che stai dicendo?, mi potreste dire. Fino all’altro ieri, adesso purtroppo siamo crollati di nove posti, noi, secondo le statistiche dell’OMS, abbiamo un sistema della salute che era nei primi posti del mondo. Ma non frutto di un disegno, di un indirizzo generale, frutto di un paese con uno straordinario spirito animale, con uno straordinario policentrismo, con uno straordinario spirito, diciamo, di persone che nei picchi, in quei luoghi che ho detto prima, mettono la fatica, l’impegno, l’abnegazione.

Però complessivamente, il sistema non tiene. L’immagine che voglio darvi è: tu prendi questo e lo schiaffi sul sistema, e l’ultimo punto della peculiarità italiana del nostro Stato è la stonatura monocentrica, cioè in un paese dove il convincimento politico dell’amministrazione è che la riforma è una norma e che quindi il lavoro che c’è da fare in questo senso… Cioè, pensate: avete un modello che pensa che tutto si decide, che i tecnocrati decidono, non viene attivato un meccanismo di mobilitazione dei tecnocrati all’inglese, perché i partiti non ce la fanno, nessun partito in questi vent’anni riesce a farlo, qui non hai un sistema di mobilitazione all’inglese, qui i tecnocrati sono qualche volta capaci, qualche volta scadenti, non hai la mobilitazione che hai nella Gran Bretagna e, contemporaneamente, hai un sistema che pensa ingenuamente, anche in buona fede e che ha esaurito il suo compito quando ha scritto una norma in Parlamento, che non presidia i processi di attuazione.

Durante il governo Monti, il governo di cui ho fatto parte, noi abbiamo approvato 280 decreti attuativi e di questi la metà riguardavano governi precedenti, un quarto il governo Prodi. E non stiamo parlando di attuazione nel senso moderno del termine, perché attuazione è ciò che c’è a valle del decreto attuativo, decreto attuativo è quello che mette il soggetto in condizione di cominciare ad attuare. Noi non abbiamo monitoraggio dei processi, non abbiamo valutazione dei risultati dei processi, quando l’abbiamo introdotta, perché l’abbiamo introdotta, è diventata procedurale, nominalistica, non abbiamo il Parlamento e soprattutto i Consigli Regionali e i Consigli Comunali che non hanno più un ruolo, visto l’aumento molto forte degli esecutivi, che non hanno saputo, voluto e saputo, forse avevano altro da fare, diciamo, come abbiamo visto dalle risultanze delle inchieste, non hanno voluto o saputo diventare un organo di vigilanza e di monitoraggio. E quindi abbiamo un processo all’inglese che viene appiccicato a un paese che non è abituato a fare attuazione, dove il monitoraggio non c’è, dove la società, diciamoci la verità, non è abituata a guardare i numeri e a discuterne.

E questo ve lo dico da ministro della Repubblica perché nel campo della mia attività, usando la politica comunitaria e i fondi comunitari, abbiamo introdotto elementi, diciamo, inglesi; perché, l’ho detto prima, quello che dobbiamo fuggire è l’illusione che quello risolva, ma gli strumenti di quel meccanismo sono gli strumenti base anche di un processo partecipato, perché un processo partecipato deve avvenire, per essere informato, sulla base dei numeri.

Quando abbiamo messo, facendo una cosa che non c’è in nessun altro paese d’Europa, i numeri della politica di quel giovane sul web in una maniera con open data, scaricabili per fare profitto, tutte le cose di questo mondo, che si chiama www.opencoesione.it, dove qualunque cittadino della Repubblica, qualunque associazione può entrare e vedere seicentomila progetti per un totale di 90 miliardi di euro, e per ognuno di questi vederne l’osso, lo stato di avanzamento e l’aggiornamento ogni tre mesi, non è che il paese improvvisamente è impazzito e ha cominciato a usarlo: i miei, che hanno fatto questo mestiere, hanno vinto un premio a Dublino, un altro negli Stati Uniti, ne parla la comunità del web e sono diventati… e sono contento io per loro e io per me stesso. Abbiamo avuto tre giornalisti che hanno fatto un po’ di rumore per i primi giorni: fine. Non è che ci sta qualcuno delle associazioni, dei giornali, delle inchieste… ci si può fare di tutto, anche, scusate, delle frescacce, ma delle frescacce di quelle che fanno venire fame, prendo tutti quei numeri, li sbatto dentro e provo a vedere se i sindaci di sinistra hanno fatto meglio di quelli di destra nel realizzare la stessa cosa. Vedo, uso quello per andare a vedere.

Adesso ci sarà una giornata di mobilitazione, ve lo devo dire prima della fine, in tutta Italia perché i miei che continuano a lavorare sono straordinari, stanno continuando a fare casino, per cui adesso ci sarà una mobilitazione in tutta Italia, ci sarà una giornata di mobilitazione per l’utilizzo di quei dati. Ogni città potrà prendere quei dati e i cittadini potranno andare a vedere l’intervento arricchendo l’informazione contenuta sul web quantitativa, con la constatazione se il cantiere esiste, se quella scuola è stata costruita, se quella cura per l’infanzia è praticata, oppure se ci stanno tutte le cose sballate. Ok, poi semmai su qualcosa di questo di molto pratico se ne può discutere, poi alla fine a tutti noi piace menar le mani.

Però quale è il punto? Perché questa storia la dico con più passione? Perché è quella che sta dietro alla mia follia di dire adesso al sabato e alla domenica faccio politica, perché mi sono reso conto di che cosa? Ci vengo tra un istante, però devo dire una cosa prima. Che cos’è che faceva sì che anche in un caso in cui si era iniziato a praticare un modo di governare in applying, cioè che metteva le persone in condizione di partecipare e non succedeva niente, mi sono detto: che cosa manca? Manca un soggetto intermediario, manca il medium fra la società. Dove può avvenire il salto? Manca un partito. Cos’è che non hanno trovato? Nel Sulcis dove ho fatto un’operazione simile? Cosa non hanno trovato all’Aquila dove abbiamo smandrappato la ricostruzione autoritaria top-down costruita dal governo Berlusconi e abbiamo costruito una ricostruzione civile simile a quella adottata in precedenza nelle Marche, cambiando completamente e scrivendo una nuova legge, ridando un ruolo ai comuni, costruendo degli uffici speciali, reclutando con bando (lo dico perché ne sono orgoglioso), realizzando un bando per l’assunzione di 300 ragazzi che sono stati assunti, un bando nazionale al quale hanno partecipato 16.000 persone. E i numeri, nonostante purtroppo le grida tra il sindaco e il ministro che fanno parte di un’altra Italia, i numeri sono impressionanti perché le cose si possono cambiare in questo paese. La ricostruzione del centro storico dell’Aquila si è sbloccata nel 2012 e perfino La Repubblica, che generalmente dice che il mondo va tutto male, ha mostrato dei numeri, un grafico, per cui la gente può dire qual è il racconto nazionale che prevale: che la ricostruzione dell’Aquila ferma era e ferma è, ed è quello che tutti voi pensate in questa sala, ma non è più così. È uscito perfino su La Repubblica: la ricostruzione dell’Aquila è sbloccata, ci sono 1.800 caschi gialli dentro il centro storico, ci sta una spesa altissima, tra l’altro l’Italia sta investendo una montagna di soldi, il più grande cantiere d’Europa, un miliardo e 200 milioni di euro all’anno di utilizzo, con una verifica, con un sistema di monitoraggio. Però, perché voi non ne sapete niente e siete convinti di un’altra cosa? Perché? Perché non c’è politica in questo paese. Quella roba lì è tecnica, è tecnica, non c’è dibattito politico, non c’è sussulto, non c’è attacco, non c’è discussione, non c’è lezione, cosa ci dice, cosa impariamo perché non c’è un partito, non c’era un partito.

Certo, il sindaco era membro di un partito, il Partito Democratico, quando sei sindaco di una città, ti posso concedere qualunque cosa perché sei stato eletto e rieletto, segno di un’intesa, di un’empatia con la popolazione, ma quello è il sindaco, che c’entra il sindaco, ovviamente non può dare di matto, ma come può non dare di matto il sindaco di una città in quelle condizioni, deve esprimere la pancia dei cittadini. Ma io voglio un partito dove discutere. Io avevo una organizzazione politica. Ci arrivo così, con una cosa pratica perché poi ritorno e chiudo sul generale.

C’era un’organizzazione politica, un piccolo partitino, Appello per L’Aquila; ha fatto più quel partito con un rappresentante in consiglio, standomi addosso, io ero convinto di aver fatto tutto, alla sera andavo a casa alle undici, entravo sul web, su Twitter: Appello per l’Aquila, badaban, e dice: ma in realtà aveva preso l’impegno di fare questo ecc. ecc. E lì per lì, ovviamente che fai, t’arrabbi? Preferisci che non ci sia? È ovvio anche se sei una persona tendenzialmente civile, però la mattina dopo invece quella è una occasione, chiami i tuoi: ragazzi, veramente hanno ragione, non abbiamo rispettato. Cioè, la società mi parlava in modo non rumoroso e gridato, che servono le urla? non servono a gran che, ma invece una critica dura, informata, chi me la faceva? Un consigliere comunale dell’Aquila, ha fatto più lui per la città, lui per me era l’Aquila, era la società dell’Aquila (Voce dal pubblico: Meno male che c’è Twitter.) Ho capito, ma in questo casino Twitter per me è stato uno strumento importante, perché mi diceva: Barca, su su, che stai raccontando? E dove mi arrivava? Prima di arrivare gridato, e ormai irrecuperabile dai giornali, mi arrivava da 7-8 persone con le quali io ormai interloquivo anche con 12, 13, 14 Twitter, gli facevo vedere, gli davo i link, gli dicevo non è così, capivo io che qualcosa si era bloccato per strada, capiva lui che le cose erano più avanti. Non c’è flusso, ma sono rimedi.

Ve ne dico un’altra sull’Aquila, più populista, demagogica: quando ho scritto la norma per L’Aquila, prima di presentarla all’interparlamentare, prima di presentarla al Consiglio dei Ministri, io l’ho presentata ai cittadini dell’Aquila in due assemblee, una che andava al Fatto Quotidiano, che erano convinti di darmi un po’ addosso simpaticamente, stavo relativamente più simpatico degli altri, però avevano organizzato un’assemblea da grida dove io sono andato,e poi invece una l’avevo organizzata io. È un modo normale che un ministro della Repubblica discuta una norma in piazza con i cittadini? Va bene una volta, ma non ci siamo: io posso volerla discutere in assemblea con i cittadini davanti a 2.000 persone, ma io voglio che sia animata da 5-6 organizzazioni che sono quelle che tirano il filo e che il giorno dopo mi stanno addosso, che mi fanno tirar fuori 7 impegni in quella giornata, che ne prendano nota. Non c’era medium tra lo Stato e la città, non c’era intermediario. Ok? Vi sto dando il senso di quello che ho detto prima?

Allora, questa cosa, questa patologia è ovunque, è persino nel rapporto tra i sindaci e le città, perché anche operazioni importanti come quella di Milano, agli occhi anche di uno che non ci vive tutti i giorni, è evidente che è una realtà nella quale l’elezione è avvenuta attraverso una mobilitazione: e dopo? Dopo? Dove sta il dibattito profondo, politico, animato sull’impatto di medio e lungo termine che avrà l’Expo su questa città? Dove sta la discussione profonda sulla modalità con cui l’industria, il terziario, le modalità di vivere verranno toccate, potranno essere toccate? Dove sta la discussione? E chi la può animare trattandosi di questione globale? Le singole associazioni ci provano, lo so che esistono, ne ho discusso in questa città.

È sufficiente? Lo chiedo a voi. È chiaro che mi sto preparando, sto giocando, e vi prendo ancora 10 minuti, sto giocando, visto che non potrò più mostrare… però tra un istante sul partito, sto preparandomi gli argomenti di dire: ma che alternativa c’è? Allora come siamo arrivati a convincervi di questo? Perché devo chiudere per venire poi al partito.

Devo dire ancora due cose di impianto. Ecco, ho detto la reazione economica, la reazione politica è importantissima, vi ricordo soltanto che per me il libro di riferimento è quello di Salvatore Lupo che racconta questo ventennio incredibile. La conoscete benissimo, la risposta qual è? È la risposta di una persona che io stimo perché so che parla e ha parlato senza interessi, quindi l’errore drammatico che suggerisce all’Italia è un errore fatto, di quelli che vanno presi sul serio, ed è Mario Segni. La risposta a tangentopoli è: basta con i partiti, società civile, sindaco d’Italia. Lì stiamo oggi, stiamo ancora lì. L’intera classe dirigente di questo paese, la migliore, lasciamo perdere la peggiore ci interessa poco, la migliore è convinta, il gruppo dirigente del Partito Democratico, quello di prima, quello di prima prima e quello di adesso, dentro di sé ha questo convincimento che la soluzione dei problemi del paese politicamente avvenga attraverso la società civile e il sindaco d’Italia.

Che cos’è questa cosa? Non è altro che la riproposizione di una soluzione di autorità. Cosa vuol dire? Vuol dire: a) il paese non riesce a fare le riforme, non riesce a migliorare la scuola, non riesce a migliorare la situazione della giustizia, perché manca l’autorità. Non è diversa dalla tesi di Silvio Berlusconi che quando non riusciva a combinare niente diceva non ho sufficienti poteri. È l’idea fondamentale che anima questo paese da vent’anni, che ha animato tutto il dibattito sulle riforme istituzionali, tutto il dibattito sulle riforme elettorali, tutto, come è stato evocato, il dibattito sulla governabilità. La governabilità incredibilmente in un paese come il nostro, dove è ovvio che governabilità vuol dire funzionalità, presidio, monitorabilità, accountability dell’amministrare, questo vuol dire governare in un paese come il nostro, dove governabilità è diventata la fragilità, sia nel senso della mancanza di poteri, sia della mancanza di certezza nell’esercizio della funzione politica. Come se non fosse invece vero, come sappiamo bene, che il Consiglio dei Ministri, il Presidente del Consiglio hanno, rispetto al Parlamento, dei poteri altissimi, molto più significativi; dal punto di vista dei poteri di interdizione, del Parlamento italiano sono minori di quelli del Congresso americano nei confronti del Presidente degli Stati Uniti. Come si vede benissimo dalla situazione corrente.

Dall’altro la società civile parla direttamente. Questa cosa ha retto l’Italia, ma che cosa c’è stato dopo? Ci sono quattro partiti in Italia, diciamo, con qualche significato. Tre di questi partiti, cioè tutti salvo il PD, sono tentativi di costruire espressioni della società civile, visti dal punto di vista di chi li ha costruiti. Lo è certamente il club di Berlusconi, lo sono certamente le operazioni di Mario Monti, lo è nella sua testa in un certo senso quella di Grillo. Sono tre modalità enormemente diverse, dirette da figure enormemente diverse, un tecnocrate, un imprenditore, un attore, ma sono tre modelli simili con disattenzione evidentemente ai meccanismi interni, allo statuto, alle modalità di selezione del gruppo dirigente e al dibattito interno. Sono tre tentativi di far parlare direttamente la società civile.

Questo è il primo degli ultimi due punti generali prima di arrivare a dire e quindi rispondere ai punti e perché con tutto questo dovremmo riuscire, pensare di riuscire, a rispondere a un partito, come costruirlo e come risolvere alcuni problemi.

L’ultimo è il seguente: è stato evocato più volte, è stato evocato molto bene, il pantano, parola che uso anch’io perché non è evidente che è un pantano, ma diamogli un termine chiamiamolo trappola; noi siamo in una trappola, quella che è definita, sul piano dell’economista, una trappola. Che cosa è una trappola del sottosviluppo? L’immagine della trappola è quella forma geometrica tridimensionale dove il pallino finisce sempre al centro; è una cosa dalla quale allontanandosi in maniera non troppo forte dal punto di caduta, si ritorna al punto di caduta. Cioè un luogo in cui tentativi, esperienze, pratiche di allontanamento che non siano di rottura… devi rompere, devi rompere, il paese va rotto. Perché? Ce lo dice benissimo l’ultimo riferimento, lo uso nel mio impianto, non è citato e quindi lo metto sul tavolo perché è un pezzo per riuscire a capire ma perché un partito è come…, ce lo dice Daron Acemoglu, economista greco di grande valore, che in qualche modo appartiene al main stream, perché oggi il main stream dell’economia è tornato a dire delle cose interessanti, in un libro importante, tradotto anche in Italia, il cui titolo in inglese era Why nations fail, in italiano forse Perché le nazioni falliscono, non mi ricordo come si chiami.

Si richiama allo storico, l’economista è uno storico che esamina un po’ di storia e si domanda perché a un certo punto capitano le Argentine? La risposta che è marxiana, arricchita dalle teorie moderne ecc., è molto semplice e banale: non perché le classi dirigenti non sappiano cosa fare o come attivare dei processi per uscire, ma perché le classi dirigenti non vogliono uscirne, perché traggono dalla trappola dei benefici distributivi che sono talmente grandi da far sì che essi privilegino il fatto di avere una fetta certa di una torta che si restringe, rispetto a una fetta incertissima di una torta che cresce, Il solito sistema parassitario. Che tocca tutti, come diceva Raffaele Mattioli su classe dirigente nel senso amministrativa, politica, economica e della comunicazione. Benissimo.

Come se ne esce da queste trappole? C’è un interesse, sono quelli che dominano e poiché sanno che se c’è cambiamento non si fanno ostaggi, non sono disposti a fare un compromesso perché la risposta sul piano economico è roba discussa. Cavolo, ti garantisci poiché sei in comando una sopravvivenza dignitosa, accetti l’innovazione e il cambiamento e lì c’è poco da rispondere. C’è un esempio che è eclatante, che è forte e lo si capisce, ed è la stessa ragione per la quale un re mai accetterà di abdicare, per la democrazia gli diranno, ma lo abbiamo visto in Egitto, lo abbiamo visto nell’ultimo sommovimento, perché quel patto non sarà rispettato.

E in democrazia è la stessa cosa, non parliamo di tagliamento, di tagliare la testa; il capitalismo è un animale, e la democrazia insieme quando funzionano, quando producono sblocco, non ci sono limiti, occasioni di profitto, idee, cambiamento, innovazione, giovani che arrivano, aperture… basta pensare ai momenti felici della storia nazionale, con alta probabilità che prevede un patto con i mille, e i loro diecimila, e i loro centomila, e i loro due milioni perché, come diceva Gherardo Colombo, la catena del parassitismo non è che si ferma ai mille. Nella sua famosa risposta alla domanda: come mai tangentopoli si è fermata? Dice: è colpa di Berlusconi, sarebbe facile rispondere a Colombo, dire che certo quello ci ha messo parecchio nell’attaccare Di Pietro, però la vera ragione è che quando la gente ha visto che arrivava al terzo livello, no, adesso non vogliamo tagliare la testa, così abbiamo più chance di sostituirlo.

Allora ci vogliono le rivoluzioni, diciamo; non hanno dato sempre esiti meravigliosi, anche, ahimè, le più recenti, le guerre peggio mi sento, ovviamente le guerre sono in Giappone, come cambia, e anche in Germania, come cambiano attraverso una guerra e una sconfitta bellica, però insomma è un po’ caro. Cambiano attraverso dei cataclismi naturali, anche questi sono un po’… se continua così sarà quello il fattore, oppure cambiano attraverso la politica, attraverso la politica, attraverso quella cosa e io aggiungo la parola generosità e follia. Cioè, io non sono convinto che questo è l’unico punto, soprattutto in termini di leadership (e con questo ti dà una prima risposta, poi entro nelle risposte), io non sono convinto che ci sia bisogno solo di Gesù Cristi, perché i Gesù Cristi sono pochi, sono pochissimi, anche quando la generosità, come dire, non è così alta come nell’esempio.

Devi usare anche degli egoisti, un po’ folli, avventuristi che non spaventati dall’improbabilità, talmente maniacalmente innamorati di se stessi, che possono pensare che galleggeranno, anzi vinceranno, nella nuova partita, quindi sconvolgono, quindi fanno saltare tutti gli equilibri. L’esempio storico per me più importante nella mia cosa, perché mi sono letto quattro volumi e poi perché la tesi dei volumi non è legge di Barca che poi ce l’appiccica, è Lyndon B.Johnson, il BJ, il vero grande presidente degli Stati Uniti, altro che JK, cioè il presidente a cui l’America deve di essere oggi una nazione, come dire, quasi civile. È quello del Vietnam, è proprio lui, ed è lo stesso che ha dato agli Stati Uniti due cose fondamentali: le riforme sociali che John Fitzgerald Kennedy aveva promesso e che non avrebbe mai portato a casa perché non era bono, non era proprio bono, non lavorava, non aveva mai lavorato nella sua vita, e secondo una cosina non irrilevante che ha fatto di quella una nazione democratica, perché non lo era fino a quel momento, il voto vero ai neri, a cui voto era vietato, sapete che fino a Lyndon Johnson votavano in Arkansas 5 mila neri.

Ma perché Lyndon Johnson è importante? Perché è difficile trovare una persona più cattiva di lui, e più egoista di lui; la straordinaria biografia di Robert Caro ci racconta e ci restituisce una persona terribile che imbrogliava le elezioni da quando andava a scuola, che ha imbrogliato le elezioni degli assistenti a deputato, le ha imbrogliate proprio, ha contraffatto i ballot, che quando, alla sua prima votazione nel Texas, ha chiamato i manceros che venivano dal Messico e ha fatto sostituire tutte quante le urne di sei county: e ha battuto Stevenson nelle primarie che poi gli aprirono la strada. Secondo Caro lui non c’entra nulla con l’uccisione di Kennedy ma ha trovato tutte le carte in cui si vede che Lindon Johnson, quando Bob Kennedy gli porta la proposta di fare il vice-Presidente che lui aveva sempre rifiutato ecc. ecc., l’accetta e l’accetta perché ha fatto i conti e ha scoperto che in un caso su tre il vice-presidente è per morte prematura del Presidente… Non sto scherzando, stiamo parlando di uno che pensava soltanto a se stesso, eppure è diventato uno strumento.

Cosa voglio dire con questo? Io voglio recuperare il ruolo nostro, di tutti noi, cioè i movimenti. Perché lo diventa? Perché c’è un movimento straordinario nella storia di quegli anni, perché c’è Martin Luther King, perché c’è un movimento per i diritti, perché c’è lo scontro con Malcom X, perché lui, per diventare il Presidente degli Stati Uniti che fa la storia, deve fare quello, perché glielo ordina la società, perché la società si sta esprimendo attraverso movimenti, associazioni e il suo Partito democratico, una parte di quel partito. Quindi, anche dei folli, degli egoisti terribili, e questo ci dà qualche speranza, arricchisce il novero, diciamo, degli agenti di cambiamento.

Adesso vado secchissimo perché veramente l’ho fatta molto lunga e penso che voi prevediate ed è giusto che ci sia una bella discussione. Però, devo dire delle cose molto secche.

Allora, perché un partito? Portando in positivo quello che prima ho detto in negativo, perché io ritengo che sia necessaria una cosa, che è una associazione, la nostra Costituzione la chiama associazione volontaria, io stesso il partito lo chiamo democratico e poiché un partito democratico rinnovato, di moneta buona, costringerà anche gli altri a far moneta buona, questo è lo schema evidentemente, perché se tu ce la fai, ce la fai. Ma perché un partito? Perché c’è bisogno di un’associazione generalista, ecco questo è il punto, generalista, non specifica, che non pretenda più, che non può più accontentarsi (che poi ci tenga ai valori), che non può più accontentarsi solo di avere una fede, di raccogliere delle persone, anche centinaia di migliaia. Del resto, anche il partito confessionale quando nasce non è molto diverso anch’esso da un partito di massa, con cose simili le quali scelgono quelli che studiano l’avanguardia e gli dicono: tu porta avanti l’idea di cui io ho 10 punti. No, perché la società è quella, è istituita, quindi un partito, un’associazione generalista che raccolga al proprio interno una quantità sufficientemente elevata di conoscenze in tutti i campi, accumunate da valori, vengo alla questione, accumunate da valori. Perché accumunate da valori? Servono ancora se no non vai da nessuna parte, accumunate da valori, le quali persone convogliando la propria conoscenza e quelle di altri (adesso vengo anche a quella di altri) costruisca delle soluzioni, pretenda che esse siano attuate, ne guardi, ne segua l’attuazione usando anche gli strumenti che ci ha regalato il liberismo nella sua versione di sinistra, ma non più usati come strumenti di attuazione dall’alto, e quindi che disegni soluzioni, che selezioni persone in grado di attuarle e che ci credano e sappiano attuarle, e che ne verifichino l’attuazione e che, in un processo senza fine, ovviamente, svolgano questa funzione generale; un soggetto generale, organizzato però, organizzato per questi quattro mestieri che ho detto.

Ma perché un partito, una rete di associazioni non è lo stesso? Una rete di associazioni può arrivare al massimo trasferire informazioni, non scatta, può arrivare a costruire una grande manifestazione su un punto delicato, può arrivare a individuare un candidato a sindaco, non credo a primo ministro; cioè vicino, una cosa vicina, che sia diverso ma non riesce a dargli gli strumenti per governare, non gli dà la soluzione, non gli sta addosso, rimane rete, rimane rete di opinione, di valutazione.

Del resto, un’associazione organizzata con dei funzionari, che diano continuità, con dei funzionari come in un partito, con delle regole di selezione dei gruppi dirigenti, con un indirizzo robusto, un partito insomma. Guardando al resto del mondo, d’Europa, dico che i partiti non stanno bene, ma sono quelli che governano la musica oggi. Ci sono, sono quelli che convogliano.

Il partito conservatore, pensiamo anche agli altri: il partito laburista esiste e sta macinando dentro di sé il post-laburismo, il partito conservatore, Cameron non è Cameron, è il partito conservatore con cui deve fare i conti, il dibattito interno al partito conservatore è vivace anche sulle cose, ahimè, sbagliate: sarebbe meglio Cameron sull’Europa che non i suoi, ma è lui che deve rispondere al paese, la società gli dice: voglio uscire dall’Europa e lui fa i conti con questo; e li media, come media la classe dirigente, inventandosi un rimedio come il referendum, quello è un dibattito interno a un partito che elabora una linea, la gente si sente rappresentata nel partito e se non lo fa vince quell’altro, Uptik, come cavolo si chiama…

In Germania, non devo neanche dirlo, in Austria non devo dirlo, in Francia il Partito socialista ha vinto, adesso poi non riesce a gestire la vittoria, ridandosi una cosa di partito, imparando dagli Stati Uniti come fare campagna elettorale, come contattare le persone, adottando metodi nuovi, ovviamente. Sembra una grande cosa: arriva Veltroni che dice: il Partito democratico è in America il partito, che poi ha il baco originario di alcuni aspetti del Partito democratico che sono dentro al suo statuto appunto; ci sono anche alcune cose anomale, dove appare un partito con la direzione del partito, a cui affidi l’indirizzo strategico, è composta potenzialmente da 120, in realtà con tutte le nomine, da 200 persone: vuol dire che non pensi di fare funzionare un partito, stai rivelando che non ci credi che fai funzionare un partito, perché un organo di direzione, come un consiglio di amministrazione, deve averne una decina, quindici, e deve essere ben diretto, 19 al massimo.

E poi un partito dove il segretario e alcune cariche importanti sono elette da persone che manifestano la voglia, il desiderio di eleggere quella persona in Parlamento? Ma quale associazione mai al mondo ha i propri organi dirigenti eletti dalle persone che non partecipano? E io non mi faccio tanare: ma gli iscritti? Gli iscritti non mi interessano, gli iscritti non sono una buona categoria, perché gli iscritti sono cammellati, inventati il giorno prima, iscritti il giorno prima, valgono quanto, o sono peggio di quelli che hanno fatto la fila per le primarie. Quello che sto dicendo per dire che quando nasce il Partito democratico, nasce evidentemente… cioè dietro non c’è un’idea che sto costruendo… e il metro è gli Stati Uniti. Dov’è l’errore? Perché quello è un partito leggerissimo, ha un segretario leggero, si mobilita solo per le elezioni. Errore di analisi degli Stati Uniti, gravissimo, fatto da chi riteneva che fosse Jack Cable quello capace e non invece LJ. Errore molto grave per due motivi.

Primo perché si dà il caso che in quel paese, come sapete, le elezioni si svolgono ogni anno perché vengono elette cariche amministrative, vengono eletti i giudici, vengono eletti tutti i capi degli enti pubblici locali, quindi si vota continuamente. Quindi, dire che un partito sia solo per le elezioni vuol dire che è un partito permanente. Sapete anche che le elezioni iniziano due anni prima, quindi quella è una sciocchezza ma grossa, perché quello è un paese in permanente stato di voto.

Secondo, per un motivo più fine che non avevo capito, e che ho capito grazie ai miei che lavorano con me in questa piccola avventura che faccio, e poi se volete, ma non la racconto adesso e sulla quale chiudo e poi alzando la palla magari ci torniamo, secondo motivo, perché in quel paese il Partito democratico è circondato da una serie di organizzazioni che con la terminologia degli anni Cinquanta avremmo definito collaterali, perché il sindacato è un’organizzazione totalmente collaterale, assolutamente. Perché, da dove son venute le idee sulla Chrysler e i soldini per farla? Non è che Obama se li è inventati. Così come quando si parlava di finanza si è affidato ai soliti nomi, quando si è trattato di lavoro si è affidato al sindacato. E l’idea sulla salute, tutto il disegno e il fatto che qualche cosa ha portato a casa, a differenza di Clinton, da dove viene? Dalle associazioni no-profit che lavorano e che sono democratiche, e che gli forniscono idee, i paper e le persone durante le campagne elettorali. Quindi, non capisci niente del Partito democratico americano se non capisci che è un pezzo di una rete. Noi siamo un’altra cosa, queste trasposizioni tipiche, leggere, non meditate, di soluzioni di altri paesi senza comprenderne le caratteristiche. Sono tutte argomentazioni a contrario, le argomentazioni che sto usando qui.

Ma se fan tutti così dobbiamo essere il solo paese che non ha partiti? Che pensa di uscirne in un altro modo? Se deve essere un partito deve saper fare quelle cose e quindi deve sapere e combinare una delle tre domande principali, locale e globale. Per farlo evidentemente la sua forza è l’asse per il PD tra l’altro, e quindi d’ora in poi parliamo solo di PD, cioè della incredibile sua articolazione territoriale che gli dà una possibilità ancora di pescaggio all’interno della società, per lo più policentrica, quindi vivace nei suoi mille centri, dove il rilievo, l’importanza della conoscenza locale è altissima, quella non manca mai. Perché non diventi, come dice Amartya Sen, localismo, localismo chiuso agli altri valori, hai un passaggio sul globale, quindi che cosa hai bisogno? Hai bisogno di un partito nazionale, di un’anima, di ricostruire un sistema di formazione in cui…

Facciamo un esempio banale, perché a me piacciono le cose concrete, ne ho discusso con i compagni e amici del circolo PD di Bruxelles. Si sta per andare alla campagna elettorale, quante cose ci verranno dette terribili del tipo: ma come mai il governo… noi dobbiamo saper rispondere, dobbiamo saper rispondere nel colloquio quotidiano, in ascensore, mentre prendiamo un cappuccino; abbiamo bisogno di elementi informativi, quante volte ci viene detto: è inutile, non si può governare perché la globalizzazione impedisce la finanza, la MF, la competizione sul lavoro. Questi sono elementi che pur essendo un paese di istruiti, ecc. ecc., ognuno di noi sa il suo e quindi abbiamo bisogno di ricostruire una narrativa complessiva di un partito che si racconta una storia di come è messa l’Italia, di quali sono i suoi vantaggi comparati ai suoi svantaggi nel quadro internazionale e una storia sull’Europa. Abbiamo, nel PD ha una narrativa sull’Europa? Se vi chiedono: la posizione qual è? Alla fine della storia le cose non vanno troppo male? Andiamo così alle elezioni?

Perché stiamo andando così alle elezioni. In fondo non è così male, oppure in fondo, l’altra posizione, la non-Europa sarebbe costosissima, la gente non ne può più dell’Europa costosissima, questa Europa è costosissima. Dobbiamo prendere di petto alcune cose, dirle con coraggio, ma per farlo ci vuole un dibattito nazionale, ma semplice. Un tempo forse la DC, il PSI, il PRI, il PCI e chi altro, che cosa si faceva? Si mettevano 15 persone attorno a un tavolo, come fa qualunque paese del mondo, come ha fatto l’Olanda per arrivare a una posizione ahimè pericolosa che è vicina a quella di Cameron, hanno fatto così. Un sabato e una domenica si sono riunite 40 persone e hanno fatto un dibattito nazionale sulla posizione dell’Olanda nell’Europa. Quindi, la mobilitazione cognitiva è sì il territorio, ma io non sono un localista e il livello locale è un livello globale fatto di polmone, di discussione tra il livello nazionale, il che vuol dire riportare anche gli intellettuali.

Che cosa è l’intellettuale? È un tecnico, un esperto. Si abusava anche di questa parola un tempo. Comunque, nella dizione gramsciana eccetera, l’intellettuale è un tecnico il quale ha un impegno generale, ha un impegno generale di cambiamento. E oggi ci sono una montagna di intellettuali che sono confinati per svolgere una funzione di tecnocrati quando vengono chiamati a fare il tecnocrate, per di più con una amministrazione che è quella che è, e quindi i saggi possono decidere qualunque cosa vuoi, tanto la macchina non funziona. Oppure fare gli opinionisti sui giornali. Che cosa manca? Di nuovo manca l’aspetto certo che riguarda il vostro lavoro, il lavoro di tanti giovani in Italia e poi li porti dentro a delle vicende, a delle cose ma non c’è un dibattito nazionale forte. Quindi così la affronti.

Allora, in un confronto di questo tipo, che è al tempo stesso sulle problematiche locali toste sulle quali non può non misurarsi perché, parliamoci chiaro, con il livello di sfiducia nei confronti dei partiti, tu non puoi ripartire solo dalle discussioni generali, tu devi ripartire dicendo: in questo territorio, dati i miei convincimenti generali, io faccio questo che appartiene a una visione, quindi una visione, l’Italia 2030. È evidente che ho bisogno di una visione, di una narrativa e di una visione, però, data la visione, in questo territorio la fiducia la riscopri dimostrando che sei utile a qualcosa, che fai una differenza. In questo processo, che è di confronto concettuale, è un processo, ce lo siamo detti prima, che ha bisogno di due ingredienti (e rispondo a proposito dei gruppi dirigenti di questo partito), ha bisogno di due strumenti questa mobilitazione cognitiva. Nel mio lavoro io uso sperimentalismo democratico per riferirmi a come si governa, mobilitazione cognitiva è la parola che esprimo per il partito.

Un partito che voglia provocare una rottura attraverso un Gesù Cristo o un Lyndon Johnson, una rottura degli attuali assetti, poi però, dopo aver provocato la rottura, devi evitare che nella rottura si inserisca semplicemente un’altra filiera di persone uguali a quelle di prima, perché questo poi evidentemente è il rischio dei momenti di rottura; se sono gestite da un Gesù Cristo, il Gesù Cristo ci starà attento, ma se sono gestite da un Johnson lui fa la rottura e dice: mo se ne vanno tutti questi e arrivano questi altri, ma il metodo non cambia. In quello spazio, che con un’espressione violenta in un circolo del PD ho chiamato il forcipe, cioè la funzione che può essere svolta in questo momento da chi ha vinto le primarie è quella di un forcipe, ma nello spazio aperto da questo forcipe che cosa entrerà, dipenderà moltissimo da noi, dipenderà dalla capacità di costruire metodo e valori. Un partito che sappia fare mobilitazione cognitiva ha bisogno di metodo e valori.

Sul fatto di un metodo perché non è poi facile per un partito… Attenzione! stiamo parlando di un partito che nella città di Milano, o nei quartieri difficili, di forte presenza emigrata, tanto per dire, dove ci sono questioni difficili che hanno a che fare con la convivenza, o altri aspetti, o qualunque cosa, un partito che apra un confronto su un tema, che riporti questo tema al valore nazionale, cioè è un tema che io tratto perché ho un impianto nazionale e poi però su questo apro un confronto, duro ecc., fare questa roba non è facile, quindi il metodo è complicato, puoi fare un disastro. Una delle obiezioni più forti di questi mesi è stata: ma noi abbiamo provato mille volte forme di partecipazione, non abbiamo concluso niente; è un anno che discutiamo, non si stringe mai, il paese se ne muore di partecipazione, ma che dice come crescendo di critica, perché? Perché noi spesso crediamo di costruire metodi partecipativi, ma i metodi partecipativi richiedono una grammatica e un’analisi logica, richiedono dei metodi e delle persone, delle modalità, della trasparenza, quindi c’è una metodologia.

Tra l’altro, noi in Italia abbiamo delle conoscenze su questo, abbiamo delle pratiche su questo significative, e dei valori, è stato detto perché quei valori servono a due cose, servono a motivare la fatica, perché è faticoso fare così il partito, l’altro partito è molto più facile, il partito dei talk-show, il partito delle corse verso l’alto, dei portaborse, non richiede grande fatica. Il partito in cui io mi propongo come leader e pretendo di emergere perché vi dimostro che sono più bravo di lui a governare 60 persone, 100 persone, a portare a casa un risultato, perchécompetiamo su un altro piano, competiamo sulla capacità di essere leader di un processo di mobilitazione cognitiva. Tutto questo è faticoso e richiede un sistema di valori che è stato citato, che è fondamentale, che è costruibile e che, secondo me, è alla portata e che ho provato a evocare nel testo.

Se tu hai metodo e valori il processo che attivi, questa è l’idea che ho in testa, è un processo di selezione della classe dirigente perché alla fine tu non è che ti ritroverai alla selezione alle primarie o alla selezione di lista di sei o di tre, quello che diavolo sarà, o del segretario provinciale, o del segretario regionale attraverso un’operazione in cui si capisce o non si capisce, governata altrove: alla fine alcune persone si imporranno come si sono imposte in altri momenti, come le persone in quel circolo, in quella città, in quella provincia per la capacità che hanno mostrato, non tanto in professioni ma in fare politica.

Quindi poiché fare politica non basta, che è la cosa, mi par di capire, già detta, cioè saper fare politica, quel saper far politica, quella capacità emerge nel corso di quel confronto e non rischi di portare in Parlamento peraltro persone anche di valore ma anche assieme a persone che non avevano doti, esattamente. Quindi, secondo me, in questo processo hai una modalità diversa di selezione del gruppo dirigente. Hai anche degli organi, ho detto prima, hai delle funzioni, hai delle persone fisse, ma che non devono durare tutta la vita. Perché dove sta scritto che un partito rinnovato non debba avere delle persone che fanno soltanto due anni? Dove sta scritto che un ragazzo che abbia preso un PhD non abbia voglia, pagato, poco, ma un ragazzo che ha fatto un PhD è un ragazzo che è contento se si trova un lavoro a 800 euro, a 1000 euro se è un lavoro interessante, in una missione vivace. Dove sta scritto che uno come me, che sto andando verso la fine della mia vita professionale, ma due anni fa, cinque anni, fa non possa prendersi un anno di aspettativa per andare a lavorare in un partito? Dove sta scritto che tanti giovani possano dedicare a un partito un anno della propria vita? E tu ci costruisci con una buona programmazione un gruppo dirigente con alcune pochissime persone fisse, avendo delle persone che, se Dio vuole, realizzano se stesse, il proprio reddito e se stesse, anche da un’altra parte: E quindi il partito non diventa il luogo dove tu dici sì, comunque, dato che è diventato la fonte del tuo reddito. Perché non deve essere così in una società dove il lavoro è diventato, ha assunto queste caratteristiche? Dove sta scritto che non deve essere così? Perché non possiamo immaginarlo?

Sta in parte già avvenendo; in alcuni casi mi ha molto colpito il Partito Democratico di Bologna, cioè non Cascini, quindi 22.000 iscritti, che ha delle modalità non lontane da quelle che ho detto; ci sono due o tre figure giovanili interessanti, tre hanno fatto un triennio e adesso prendono e se ne vanno, ma non se ne vanno perché gli hanno trovato un posto, per essere molto chiari, all’Ente Acqua, perché quello non è un se ne vanno…

Anzi, il partito che io ho in testa è un partito che poiché deve recuperare una deontologia, deve mettere anche delle barriere su questo. Quindi io propongo, tra le varie cose, ma adesso non devo fare l’eco delle cose che propongo, però questa è rilevante perché il paese è ammalato, è stato ammalato a lungo e quando sei stato ammalato a lungo la recidività è possibile, sei debole, e quindi è un partito che nel suo statuto deve avere scritto che nessun iscritto del Partito Democratico può diventare dirigente di qualunque ente pubblico, di qualunque natura (acque, soli, mari, televisioni o altro) se la modalità di selezione non è a evidenza pubblica. Certo, non puoi impedire a uno del PD di partecipare a un concorso pubblico perché se facesse solo questo avresti una massa enorme di persone brave le quali richiederebbero che quella modalità di selezione di quel comune o di quella provincia sia resa pubblica per avere una chance di parteciparvi, quindi avresti avuto due vantaggi con uno.

Questo è un tipo di cose che ho in testa e che possono, e chiudo perché veramente l’ho presa lunghissima, molto più di quello che pensavo, ma ho intrecciato quello che volevo dirvi con le tue sollecitazioni veramente ricche, è un partito che può mirare a raggiungere l’obiettivo più difficile di quello dei vecchi partiti di massa di non deludere le fedi, ma, diciamo, non deludere l’aspettativa, ed è l’ultimo punto che dico, non deludere l’aspettativa di essere un luogo, parliamo un linguaggio semplice, un luogo dove vado, e tu per farlo devi incentivarlo: ma perché io oggi alle 7 devo passare due ore lì dentro? Invece magari vado o a casa, o vado a occuparmi della mia associazione sugli homeless, su quelli senza casa e magari porto pure qualcosa a casa. Per farlo io devo convincere, non devo deludere l’aspettativa di quelli che mi sono venuti, di essere in grado di essere un luogo dal quale io esco avendo avuto la chance di cambiare opinione su delle cose, la chance di avere influenzato e di vedere il segno della mia esperienza che magari ho fatto ad Amnesty International, a Medici senza Frontiere, dove ti pare, ma in generale, di dire: porca miseria, oppure di essere rifiutato con motivazione, continuando a essere non d’accordo magari, ma avendo capito: porca miseria, ci hanno pensato davvero. Cioè di essere un luogo, in altre parole, che sia aperto perché non pensiate, perché non vorrei che pensaste e non è pensabile, che il partito, che pure io penso, sia indispensabile, sussuma dentro di sé tutta quella montagna di conoscenza.

La conoscenza ormai rimane fuori, rimane nelle associazioni, rimane nell’associazionismo, rimane nella società civile, nella sua funzione effettiva; la capacità del partito è di dire: io sono il soggetto generale con alcuni dedicati che vengono, che raccoglie e che ti dà l’occasione di far sì che l’esperienza che avete fatto possa diventare esperienza generale per influenzare il cambiamento delle regole, il cambiamento delle norme, il cambiamento del modo di governare. Buttateci qualche ora alla settimana.

Quindi, un partito che non deluda questa aspettativa che è radicalmente diversa tanto più che può essere un partito che modifica anche il concetto di iscrizione. Alcuni amici, alcuni pezzi del PD in giro per l’Italia, specie nel Sud dove le cose sono più nude, Cagliari e Catanzaro stanno pensando a delle forme con alcune associazioni di partecipazione graduata: il partecipante più simile al vecchio iscritto che dice: va beh, ho capito, sottoscrivo, e il partecipante di progetto, cioè una figura che a quel punto sì può partecipare alla direzione degli organi, che è uno che condivide un pezzo di strada, non se la sente di aderire perché la posizione che ha il PD sui X, Y e Z non gli va bene, ma lui ci sta perché sull’acqua la vede come elemento dirompente. È un partecipante acqua e come tale diventa… Stanno lavorando in giro per il partito attorno a cose nuove.

Mi scuso enormemente perché di solito non sono solito trasbordare, ho un po’ trasbordato e me ne scuso.

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