Fattori determinanti per la crescita dell’Italia. Di Vincenzo Sabatino.

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editoriale

Sono da poco stati diffusi i dati definitivi delle primarie del PD che hanno visto la schiacciante vittoria di Matteo Renzi con il 70% dei voti, e la sua riconferma a segretario del partito, sugli altri due competitor il ministro Andrea Orlando (20% circa) e Michele Emiliano (poco più del 10%). Elezioni che hanno avuto un’affluenza molto elevata: circa 2 milioni di votanti.

Tuttavia focalizzerò il mio intervento sulla tematica economica. In particolare: 1. il problema costante della perdita di competitività del nostro paese, causata da una politica industriale acefala che dovrebbe al contrario essere il vero motore per la crescita e l’occupazione; 2. l’economia della conoscenza ovvero la nuova forma di organizzazione economica, nata a seguito della crisi del 2008, che sta sempre di più sostituendo il vecchio capitalismo; 3. l’immobilità sociale che attanaglia oramai da decenni il nostro mercato del lavoro e che neanche il Jobs Act è in grado di aggredire.

Se mi è consentita la presunzione, definirei questi tre punti un’agenda strategica economica essenziale per la trasformazione del nostro paese e ritornare a crescere a ritmi superiori rispetto a quelli attuali.

La competitività nel nostro paese

Il mese di Aprile ci ha offerto tante notizie il cui impatto sulla competitività economica del nostro paese è molto rilevante. Le due più importanti ritengo siano state: 1. il declassamento del nostro paese ad opera della società di rating Fitch; 2. l’oramai decennale caso Alitalia.

Il declassamento

Come il più coinvolgente dei film noir per il ficcanaso di turno, ci è arrivata la comunicazione dell’agenzia statunitense Fitch che ha abbassato da BBB+ a BBB con outlook stabile il rating sovrano dell’Italia. In generale noi italiani non abbiamo una grande cultura economica scolastica che ci possa permettere di valutare bene questi dati e forse è meglio così perché questo ci consente di rimanere sempre fiduciosi e speranzosi e di tirare avanti senza allarmismi eccessivi. Quindi anche questo ennesimo declassamento relativo al ribasso sia delle prospettive macroeconomiche che di quelle di finanza pubblica ed i rischi politici aumentati che in sintesi ci dicono che siamo “deboli e instabili” non ci tocca più di tanto. In realtà che cosa vuol dire essere declassati al coefficiente BBB? Vuol dire che chi si occupa del nostro debito pubblico ovvero il ministero dell’economia e delle finanze e il sistema bancario hanno una “media capacità di rimborso del nostro debito che è in fase di peggioramento”. BBB è un rating medio-basso che implica una qualità medio bassa come debitore e in generale un outlook (analisi di variabili di competitività, credibilità e stabilità politica) di qualità medio-bassa. In estrema sintesi: 1. le banche italiane hanno visto aumentare la mole di crediti deteriorati che in termini lordi è cresciuta, negli ultimi quattro mesi, passando da 199 a 203 miliardi; 2. il fallimento registrato sul fronte della riduzione del debito pubblico che, in prospettiva, espone maggiormente il Paese; l’Italia ha aumentato il suo debito/PIL di mezzo punto nel 2016, al 132,6%. E’ l’11,2% al di sopra dell’obiettivo previsto nel programma di stabilità del 2013. Adesso possiamo preoccuparci!

Il caso Alitalia

Un altro tema di questi giorni è il fallimento strategico e gestionale di Alitalia e l’ennesimo intervento del governo. La stragrande maggioranza dei dipendenti di Alitalia ha votato No al referendum sul preaccordo su tagli ed esuberi per cui il consiglio di amministrazione di Alitalia ha avviato le procedure per la richiesta al governo di amministrazione straordinaria: nomina del commissario. Non ci sarà dunque alcuna ricapitalizzazione e la compagnia si avvia verso un percorso a ostacoli che potrebbe portarla fino alla svendita pezzo per pezzo. L’esecutivo ha annunciato infatti che negozierà con l’Unione europea il via libera ad un aiuto pubblico per un orizzonte di sei mesi. Si tratterà di un prestito ponte e non di una nazionalizzazione. Soldi utili per traghettare il vettore nella fase di amministrazione straordinaria, visto che la compagnia tra circa un mese esaurirà la propria liquidità. Una vicenda quella della compagnia di bandiera che finora è costata a noi contribuenti 7,5 miliardi di Euro nella forsennata strategia, disegnata oramai un decennio fa dal governo Berlusconi, di voler mantenere a tutti i costi l’italianità della nostra compagnia di bandiera; linea condivisa anche da tutti i governi che gli sono succeduti fino ad oggi.

Il mainstream ci ricorda sempre che la chiusura immediata e la perdita delle rotte nazionali causerebbe uno choc di maggiore entità della perdita di cui lo Stato si è sinora fatto carico. Inoltre che il proprietario e gestore deve per forza rimanere privato. Mi permetto di dissentire su entrambi i punti: le rotte interne sarebbero nel breve periodo rilevate dalle compagnie low cost, mentre sulla proprietà privata giustifico il mio disaccordo facendo ricorso alla teoria (e pratica) economica. Il mercato del trasporto aereo è un mercato naturalmente monopolistico che in base alla scienza economica può essere gestito o da un privato di grandissime dimensioni (es. compagnie aeree americane) con numero elevatissimo di passeggeri o direttamente dal pubblico così come accadeva nella Prima Repubblica quando l’Alitalia era gestita dall’IRI. Con la strategia delle liberalizzazioni degli anni Novanta si è pensato che settori strategici per il paese come il trasporto aereo, le telecomunicazioni, l’energia, ecc., potessero essere gestiti dai privati con profitto a prezzi più bassi, come di fatto è accaduto. Purtroppo ci si è accorti che trasformando i monopoli naturali in oligopoli o monopoli semplici si è introdotta un’ottica di profitto e rendita di breve periodo a scapito degli investimenti competitivi o strategici che queste aziende invece garantivano al paese quando erano di proprietà pubblica. Attualmente stiamo pagando questa impostazione contro natura di politica industriale che si sta verificando anche in altri settori come le TLC per la banda larga. Chi sono i colpevoli? I ministri competenti? In parte. L’indiziato numero uno sono certamente i multimilionari top manager di queste aziende multinazionali: fedeli alla logica del profitto o a quella strategica per il paese? Come direbbe qualcuno “questo è il problema” dato che la realtà ci ha detto che esiste un trade-off tra i due obiettivi.

L’economia della conoscenza

I due passaggi cruciali che ritengo necessari per capire il nuovo ambiente economico verso cui ci stiamo dirigendo sono i seguenti: 1. quello dal capitalismo, così come lo conosciamo, all’economia della conoscenza; 2. l’introduzione del Principio dell’Eguaglianza come principio di pari livello rispetto a quello della Libertà. Ritengo che la direzione di politica economica da prendere anche nel nostro paese debba essere proprio questa della consapevolezza dell’esistenza di questi due passaggi per avere “Un futuro in cui credere”, così come diceva Bernie Sanders. Ma COME si fa? Innanzitutto dobbiamo capire quali sono le logiche di questa nuova forma di organizzazione dell’economia rispetto alla classica economia di mercato. Le principali proprietà dell’economia della conoscenza sono:

  1. non ci sono banche, ma venture capitalist (persone facoltose, mecenati e fondi privati);
  2. manca il concetto di profitto di breve periodo;
  3. il lavoro è flessibile, ma si è contemporaneamente imprenditori di sé stessi;
  4. non ci si può permettere di non essere laureati. Qui l’Italia ha ancora molto da fare rispetto alla media europea;
  5. il knowledge worker è altamente istruito, tendenzialmente viene dal mondo della ricerca o dell’istruzione;
  6. ricerca e istruzione sono i due veri mercati derivati dell’economia della conoscenza che hanno in comune il fatto che entrambi appartengono alla sfera pubblica e non a quella di mercato. Conoscenza e quindi istruzione e ricerca sono settori in cui è riconosciuto che il mercato fallisce. Pertanto risulta fondamentale la competitività e l’organizzazione di uno Stato, essendo la conoscenza un’economia a investimento pubblico;
  7. il sapere è un bene comune quindi non esclusivo e non competitivo, ha costi di riproduzione molto bassi e si produce grazie alla comunicazione e alla cooperazione volontaria;
  8. è un’economia immateriale e produce beni tendenzialmente immateriali.

L’immobilità sociale ed economica

I dati ISTAT di fine Aprile ci dicono che il tasso di disoccupazione è all’11,5%, il doppio circa rispetto al 6,7% del 2008. Sindacati e Presidente della Repubblica ricordano oggi 1° Maggio che la disoccupazione giovanile rimane a livelli stratosferici e questo porta alla fuga di cervelli. In più il cuneo fiscale rimane alto con un differenziale di più di 10 punti base rispetto alla media europea. Per esempio uno stipendio di 1.400 Euro costa all’impresa 2.400 Euro lordi. Il problema dell’incremento del reddito da lavoro (mobilità economica) sta peggiorando rispetto ai partner europei anche a causa della scarsa produttività in caduta dell’1,2% su base annua (Anno 2016). Ma è sempre e solo una questione fiscale o di produttività? O c’è di più? I fattori della disuguaglianza che di più incidono sui redditi da lavoro e sul declino del ceto medio italiano sono:

  1. la moderata eguaglianza di opportunità;
  2. la trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza attraverso le condizioni familiari d’origine;
  3. un numero ancora insufficiente di laureati;
  4. un basso tasso di rendimento della laurea e del capitale umano;
  5. la presenza di troppe asimmetrie informative nel mercato del lavoro;
  6. il fenomeno degli Overeducated, laureati collocati in posizioni di lavoro medio-basse secondo la logica: “basta avere un lavoro anche se si guadagna poco” (Generazione 1.000 Euro. A chi ci arriva?!);
  7. la mancanza di una strategia di politica economica e industriale per il paese oltre che una politica dell’istruzione che sappia valorizzare i migliori frutti che produce, principalmente i laureati, evitando che vadano all’estero.

Il dato che meglio di tutti fotografa la mancanza di mobilità sociale è quello inerente alla concentrazione di ricchezza, tecnicamente denominato Indice di Gini. Questo coefficiente può anche essere interpretato come il misuratore del declino del ceto medio. In Aprile abbiamo anche appreso che nel 2010 il 10% più ricco della popolazione dell’Europa occidentale deteneva il 64% della ricchezza complessiva. I livelli attuali di disuguaglianza di ricchezza sono molto simili a quelli di sette secoli fa. Una situazione che rispecchia un livello di disuguaglianza sociale ed economica sempre più elevato.

Pertanto frasi come quella del Ministro Giuliano Poletti, considerata infelice e scabrosa: “per trovare lavoro meglio il calcetto dei curricula”, purtroppo fotografano la cruda realtà del lavoro per i giovani in Italia nel 2017. Le sue parole non hanno fatto altro che mettere in evidenza un problema storico del nostro mercato del lavoro: la Selezione e la Qualità del Capitale Umano che avviene principalmente per relazione e non per competenza.

Vincenzo Sabatino
(Componente Consiglio Direttivo Circoli Dossetti)

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