Filippo Andreatta. Scenari di transizione. La politica internazionale nel XXI secolo.

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Corso di formazione alla politicaIl testo del Prof. Filippo Andreatta  che presentiamo oggi e che apre il corso del 2014: “Scenari di transizione. La politica internazionale nel XXI secolo”, edito dal Mulino nel 2012, è un lavoro collettivo di un gruppo di studiosi  di relazioni internazionali che hanno avuto rapporti –  come studenti, ricercatori o docenti – con la facoltà di Scienze Politiche di Forlì  intitolata a “Roberto Ruffilli”  dove, da 20 anni, esiste uno dei primi corsi di Scienze Internazionali e Diplomatiche. I saggi toccano alcuni dei più importanti aspetti della scena internazionale con una particolare strategia: anziché tentare di prevedere ciò che avverrà si cerca di “esplorare le conseguenze di un evento potenziale senza avere l’ambizione di prevedere le probabilità che si verifichi.”

Filippo Andreatta. Scenari di transizione.

1. leggi il testo dell’introduzione di Stefano Guffanti

2. leggi la trascrizione della relazione di Filippo Andreatta

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

1. presentazione di Giovanni Bianchi 15’35” – 2. introduzione di Stefano Guffanti 31’03” – 3. relazione di Filippo Andreatta 1h 08’46” – 4. prima serie di domande 05’30” –  5. risposte di Filippo Andreatta 02’54” – 6. seconda serie di domande 06’53” – 7. risposte di Filippo Andreatta e chiusura 05’18”

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Testo dell’introduzione di Stefano Guffanti a Filippo Andreatta

Il testo del Prof. Filippo Andreatta  che presentiamo oggi e che apre il corso del 2014: “Scenari di transizione. La politica internazionale nel XXI secolo”, edito dal Mulino nel 2012, è un lavoro collettivo di un gruppo di studiosi  di relazioni internazionali che hanno avuto rapporti –  come studenti, ricercatori o docenti – con la facoltà di Scienze Politiche di Forlì  intitolata a “Roberto Ruffilli”  dove, da 20 anni, esiste uno dei primi corsi di Scienze Internazionali e Diplomatiche.

Dopo la premessa di Filippo Andreatta e l’introduzione di Lorenzo Zambernardi: “La politica internazionale nell’età della transizione”  il testo è strutturato in due parti: la prima contiene sette saggi che trattano di “Politica e sicurezza internazionale”, mentre la seconda parte contiene cinque saggi riguardanti “Economia e società globale

I saggi toccano alcuni dei più importanti aspetti della scena internazionale con una particolare strategia: anziché tentare di prevedere ciò che avverrà si cerca di “esplorare le conseguenze di un evento potenziale senza avere l’ambizione di prevedere le probabilità che si verifichi.”

Se prendiamo come esempio i rapporti tra USA e Cina, non si tenta di calcolare le probabilità di un conflitto tra queste due nazioni, ma si cerca invece di riflettere sulle conseguenze potenziali che una competizione tra di esse implicherebbe.

Gli studi sono poi caratterizzati, come sottolinea Andreatta, da un’enfasi sull’analisi politologica unita alla presenza di una solida base teorica ed una attenzione alle variabili economiche e sociali.

Il primo studio: “II declino della potenza americana e la transizione egemonica nel pacifico“ di Davide Fiammenghi, riprende la teoria della “transizione di potere” secondo la quale “tra due Stati, uno egemone in declino e uno più debole ma in ascesa, i rapporti di potere dovranno prima o poi ribaltarsi, così che il forte si venga a trovare in uno stato di relativa debolezza.”

La crescita cinese ha già causato tensioni con gli Stati Uniti che hanno, a causa di questa competizione geopolitica, orientato la loro politica verso il pacifico.

L’autore svolge poi un’analisi della transizione di potere nella quale, citando Organski, al vertice del sistema internazionale abbiamo “la più potente nazione del mondo” e vi sono poi grandi potenze, medie potenze con proiezione regionale e potenze minori.

Ebbene, in presenza di diversi tassi di crescita tra i vari paesi, “il pericolo non verrà da stati deboli e insoddisfatti dello status quo poiché non posseggono le risorse necessarie per contestare l’ordine costituito; nemmeno le grandi potenze soddisfatte sono un pericolo, poiché mancherebbe loro l’incentivo per contestare l’ordine. Sono le grandi potenze insoddisfatte, che hanno sviluppato il loro potenziale solo dopo che l’ordine esistente era stato stabilito, e non godono dei suoi vantaggi, che cercheranno di sovvertirlo”

Il declino degli Stati Uniti è stato annunciato diverse volte da più di 20 anni: a favore dell’ l’Unione Sovietica, del Giappone, ora della Cina. La Cina cresce a un ritmo maggiore rispetto alla crescita “media” degli USA, ma questo è tipico dei paesi che provengono da una relativa arretratezza. Il FMI stima che il PIL cinese a parità di potere d’acquisto supererà quello americano nel 2017; le spese militari americane sono più di cinque volte quelle della Cina, ma la spesa militare cinese è passata dai 16,6 miliardi del 1989 ai 129 miliardi del 2011 con un tasso di crescita molto elevato.

Il Dipartimento della difesa americano nel 2012  sosteneva che “……..nel lungo termine l’ascesa della Cina come potenza regionale avrà la capacità di influenzare l’economia USA e la nostra sicurezza in una varietà di modi……….”. Vi sono dispute sull’indipendenza di Taiwan, sui diritti marittimi, e la strategia americana appare orientata a stipulare alleanze e rafforzare la presenza militare nella regione per contenere o incanalare gli obiettivi cinesi.

Nel saggio: “Il futuro della lunga pace in Asia orientale”  Emanuele Castelli affronta il tema della pace nella regione più pacifica degli ultimi vent’anni mentre, nei trent’anni precedenti, era stata una delle aree più conflittuali del sistema internazionale.

Tra  le varie interpretazioni (riallineamento sino-americano, presenza di comuni “valori asiatici”….), Castelli privilegia l’approccio di un filone di studi che sottolinea il ruolo del capitalismo come causa della pace attraverso lo sviluppo economico che ha caratterizzato il cosidetto “miracolo asiatico” favorendo la democratizzazione di paesi come Taiwan, Corea del Sud, Indonesia e la scelta, a partire degli anni ottanta del secolo scorso, del “socialismo di libero mercato” da parte di una potenza continentale come la Cina comunista.

Il decollo del capitalismo in Asia orientale è stato descritto dall’economista nipponico Kaname Akamatsu  con il paradigma delle Oche volanti (Flying Geese): “alla prima oca-guida levatasi in volo negli anni cinquanta (il Giappone), seguirono nel decennio successivo due paesi (Taiwan e Corea del Sud) che vennero successivamente emulati da altri quattro (Hong Kong, Singapore, Malesia e Indonesia)

Un capitalismo caratterizzato tuttavia da dinamiche particolari:

  • il successo economico giapponese delle Keiretsu applicato anche in Corea del Sud e nei primi anni sessanta, attraverso la cinghia di trasmissione di Singapore, diventato un modello per Thailandia e Malesia;
  • l’apertura alle economie occidentali della Cina, indotta dalle tensioni con l’Unione Sovietica iniziate a fine anni ottanta;
  • la creazione, da parte dei paesi del Sud-Est asiatico preoccupati per il conflitto in Vietnam, di un forum multilaterale come L’ASEAN nata con la dichiarazione di Bangkok nel 1967.

La caratteristica peculiare che più ha contribuito alla modernizzazione dei paesi dell’area est-asiatica, riconosciuta financo dalla Banca Mondiale in un celebre report del 1993, è il determinante ruolo dello Stato e delle elite autoritarie che, nel momento di avvio della modernizzazione, guidavano tutti gli stati est-asiatici.

Uno “Stato sviluppatore” che ha garantito, accanto alla crescita costante dell’economia, un aumento nei livelli di aspettativa di vita e di alfabetizzazione e una diminuzione dei livelli di povertà e dell’ineguaglianza sociale. Si è così determinato un processo di integrazione tra economie meno  sviluppate ma ricche di materie prime e di manodopera e paesi con abbondanza di capitale, tecnologie avanzate ed esperienza.

Anche la Cina è entrata nel network di relazione dei paesi dell’area dopo: la svolta a metà anni 70 di Deng Xiao Ping che comprende l’importanza della crescita economica per il mantenimento della legittimità ideologica del partito comunista, le quattro modernizzazioni degli anni ’80, la creazione di zone economiche speciali nell’area costiera, il riavvicinamento tra Pechino e Taiwan sotto la Presidenza di Ma Ying Yeou e la crescente consapevolezza della Cina che solo uno stato ricco può acquisire rilevanti capacità militari (il budget militare cinese è aumentato di due volte e mezzo negli ultimi dieci anni e ciò ha destato notevoli preoccupazioni sia negli altri paesi del sud-est asiatico che negli Stati Uniti e, testimonianza del fatto che la ricchezza e il comunismo cinese convivono assai facilmente, il reddito annuo dei politici cinesi di vertice è oggi molto maggiore rispetto a quello dei tanto criticati senatori americani…)

Il saggio di Claudia Astarita: “Cina e India: stabilità impossibile senza riforme”  analizza i cambiamenti nelle priorità economiche e i legami tra crescita e stabilità sociale alla luce del ridotto consenso della popolazione per il governo in entrambi i paesi.

I cambiamenti nella composizione del Comitato permanente dell’ufficio politico del partito comunista cinese da un lato, le consultazioni nazionali del 2012 e le future generali del 2014 in India dall’altro, influenzeranno la capacità delle leadership politiche dei due paesi di implementare quelle riforme economiche necessarie per rimanere protagonisti della politica internazionale ?

Riuscirà Pechino a lasciarsi alle spalle gli Stati Uniti (dopo aver superato il Giappone nel 2010) mantenendo tassi di crescita superiori al 7% e inflazione inferiore al 4% ? Questi tassi di crescita appaiono invidiabili a noi europei ma, considerando la disoccupazione che il progresso tecnologico crea in Cina ogni anno, dobbiamo considerare che un tasso di crescita inferiore al 6% significa per la Cina un aumento della disoccupazione con relativa perdita di consenso politico e aumento del malcontento  sociale !

Sarà in grado, inoltre il governo cinese, di completare la transizione da un modello di crescita ispirato alle esportazioni a uno sostenuto prevalentemente dalla domanda interna, migliorando le condizioni di vita della popolazione e passando, nel contempo, da una crescita basata sui finanziamenti pubblici e sulla bolla immobiliare a una economia basata su biotecnologie, information technology, carburanti alternativi, tecnologie volte a favorire il risparmio energetico ?

Per ora faccio notare che tra luglio e settembre la crescita economica in Cina è stata del 7,8% con una diminuzione a settembre delle esportazioni….

E L’India, dopo un 2010 e un 2011 di crisi economica e di instabilità politica, otterrà con le elezioni del 2014 un governo sufficientemente compatto, in modo tale da sostenere la crescita economica, superare le numerose resistenze corporative e promuovere una seconda fase di riforme dopo quelle implementate da Manmohan Singh, artefice del miracolo economico degli anni 90 ?

I due giganti sono caratterizzati dalla necessità di concentrarsi su una serie di problemi interni, dall’impossibilità di continuare a beneficiare delle riforme economiche senza supportarle con trasformazioni politiche di ampio respiro  e dalla comune mancanza di leadership politiche carismatiche e, nonostante abbiano sistemi politici completamente diversi, dovranno affrontare sfide per molti versi simili.

Emiliano Alessandri nello studio intitolato: “La nuova Turchia nello spazio post-ottomano: sviluppi interni e dinamiche internazionali“, analizza la posizione di coloro che considerano la Turchia un possibile “baricentro regionale”  in grado di essere, al tempo stesso, interlocutore e partner dell’UE, membro affidabile della  NATO, fonte di esportazione ai paesi vicini di un “modello turco” in grado di conciliare Islam e democrazia.

Erdogan e il suo partito “islamico-moderato”, l’AKP, promuove infatti l’immagine di una “nuova Turchia” in grado di coniugare sviluppo economico e rivalutazione della storia pre-repubblica Kemalista e della tradizione islamica.

E’ indubbio che in Turchia abbiamo assistito a un processo di liberalizzazione e apertura dell’economia a partire dagli anni ottanta con le forze che incarnavano l’eredità di Ataturk, inoltre, con la fine della Guerra fredda, il paese ha dovuto perseguire un riposizionamento regionale tenendo conto delle nuove opportunità disponibili, in particolare tra il 1983 e il 1989 sotto la guida di un primo ministro come Ozal, proveniente dalla banca Mondiale e formatosi negli USA.

Dal 2002, con il dominio dell’AKP, abbiamo assistito a una accelerazione della proiezione internazionale della Turchia, che guardava ai paesi vicini non più come minacce ma come mercati potenziali, a una serie di riforme interne in parte ispirate dall’Unione Europea, all’appoggio alla “democratizzazione” proposta dalle Primavere Arabe.

Tuttavia tali riforme sono state anche un mezzo per il ridimensionamento del potere delle forze armate e delle elite laiche kemaliste ,aumentando il potere dell’AKP. La crescita economica impetuosa arrivata al 9% nel 2010-2011 si è sempre accompagnata all’esistenza di un forte mercato nero, a vaste zone di povertà e arretratezza, a una partecipazione femminile al mercato del lavoro che ha mostrato segni di regressione negli ultimi anni, a forti contraddizioni sul tema dei diritti civili e alla introduzione di un programma islamista con canoni conservatori rigidi ai quali l’elite kemalista si era in passato opposta, per tacere delle tensioni con gli USA e con Israele e dell’avvicinamento a regimi come quello Iraniano o Siriano e ai rapporti con le varie “primavere arabe” e, in particolare, con l’Egitto.

In sostanza, non esiste un “modello turco” perché siamo in presenza di un processo in divenire in cui irrisolte tensioni etniche e religiose si sommano a forti polarizzazioni politiche e ideologiche fra fautori del nuovo corso di Erdogan e suoi oppositori.

La Turchia dovrà decidere la sua strategia per il futuro muovendosi tra un opzione neo-occidentale ed europea e una opzione neo-ottomana che la vede come “forza terza agli Stati Uniti e  all’Unione Europea, al centro di sempre più ampie relazioni e sviluppi regionali che ispirano le sue politiche internazionali all’interno di una  visione “turco-centrica” del futuro del paese.

“Le conseguenze della Primavera araba”, lo studio di Alice Marziali, parte da quel 17 dicembre 2010 in cui Mohammed Bouazizi, venditore ambulante tunisino, si diede fuoco e ripercorre questa singolare esplosione di ribellioni e proteste che hanno toccato uno dopo l’altro una serie di paesi islamici che sembravano impermeabili a fenomeni di questo tipo.

Dall’Egitto di Mubarak alla Siria di Assad, passando attraverso Libia, Giordania, Marocco, Arabia Saudita, Kuwait, Bharein, emerge una situazione diversificata a seconda dei diversi contesti statali.

Nei paesi repubblicani (Egitto e Tunisia) assistiamo al “successo” della primavera araba, con tutte le incognite e i problemi che ben conosciamo, sono stati destituiti dittatori come Mubarak e Ben Ali ed è iniziato un processo democratico travagliato e dall’esito incerto.

Le monarchie del Golfo e quelle che si autoproclamano di discendenza profetica invece, hanno visto, da un lato, la repressione nel sangue delle proteste del Bahrein guidata dall’Arabia Saudita che si è posta al centro di un gruppo di paesi conservatori e reazionari insieme al Qatar che cerca di influenzare le dinamiche dei processi in atto nei paesi arabi in chiave anti rivoluzionaria e anti iraniana.

Marocco e Giordania, con il loro sistema di monarchia temperata dalla presenza di un Parlamento e di una Costituzione, affrontano le riforme chieste dai movimenti di protesta interni con un mix di limitate politiche assistenziali, riforme costituzionali e aiuti economici finalizzati a contenere il malcontento.

Infine abbiamo le vere e proprie situazioni di “guerra civile”.

La Siria, governata dagli alawiti, una setta islamica sciita in un paese a maggioranza sunnita, in cui la famiglia Assad è appoggiata dal regime sciita iraniano mentre i ribelli sono appoggiati dai regimi arabi sunniti.

Lo Yemen, dove la Repubblica democratica dello Yemen del Nord e quella dello Yemen del Sud, unificate dopo una guerra sanguinosa nel 1990, continuano a combattersi visto che la parte sud del paese si considera in realtà “occupata” da parte del nord.

Infine il caso libico caratterizzato dall’implosione di un sistema, quello di Gheddafi, storicamente in opposizione ai paesi arabi moderati, dove la ribellione partita dalla  Cirenaica,  zona ad alta densità islamista che  Gheddafi  controllava in maniera ferrea, ha portato a una situazione di vuoto politico e istituzionale caratterizzata da una serie di divisioni tribali.

Sullo sfondo resta poi fondamentale il ruolo dell’Iran che scatena timori da parte dei regimi sunniti e rischi di guerra con Israele, nonché quello dei movimenti islamisti che agiscono nei paesi della regione il più noto è potente dei quali è rappresentato dai Fratelli musulmani fondati da el Banna in Egitto e diffusi anche in Tunisia e in Marocco.

In sostanza siamo di fronte a profonde trasformazioni, che hanno ridefinito gli equilibri regionali tra sciiti e sunniti a loro volta con al loro interno tre blocchi principali: Arabia Saudita, Qatar e Turchia le cui vicende  abbiamo visto in precedenza.

Lo studio di Marco Pinfari “Il ruolo e le iniziative delle organizzazioni regionali nella risoluzione dei conflitti: problemi e prospettive future.”  esamina l’operato di organizzazioni regionali come l’Unione africana (UA), la Lega degli Stati Arabi (Lsa), L’ Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci) e la stessa Unione Europea, dal 1945 in poi.

La percentuale di casi in cui l’operato di queste organizzazioni ha ridotto l’intensità dei conflitti tra paesi membri non ha mai superato il 33% e si è progressivamente ridotta a percentuali intorno al 10 %.

Queste organizzazioni regionali nate tra gli anni quaranta e sessanta presentano quattro categorie di problemi:

  • legali dovuti all’architettura giuridica di queste istituzioni che ad esempio prevedono la “non interferenza di uno Stato membro negli affari di un altro stato membro (art. 3 della Carta dell’Organizzazione dell’unità africana);
  • politici che portano ad indebolire queste organizzazioni per evitare il rafforzamento dell’identità degli stati membri (es. visione pan-araba)
  • dovuti alla reticenza degli stati membri a supportare economicamente le organizzazioni;
  • di coordinamento, in particolare quando vi sono aree di competenza delle organizzazioni sovrapposte.

In conclusione queste organizzazioni potranno contribuire allo sviluppo di un mondo più pacifico se saranno in grado di generare forme di collaborazione più efficaci verticalmente (ad es. con le Nazioni Unite) e orizzontalmente tra le diverse organizzazioni attive nella regione.

Lo studio di Francesco Giumelli “L’evoluzione delle sanzioni internazionali” mostra invece come negli ultimi anni l’attenzione della comunità internazionale si sia spostata dagli Stati all’affermazione della responsabilità individuale (es. congelamento dei beni di Gheddafi da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2011) migliorando l’efficacia delle sanzioni.

Lo studio ripercorre l’utilizzo delle sanzioni internazionali nel corso della storia utilizzate come mezzo di risoluzione di crisi unitamente allo strumento militare, il passaggio da sanzioni  che colpivano indistintamente tutti i membri di una comunità a “sanzioni mirate” che colpiscono coloro che hanno funzioni politiche o economiche siano essi individui o gruppi valutandone efficacia e controindicazioni.

Successivamente  vengono esaminate le diverse valutazioni effettuate dagli  studiosi sull’utilità delle sanzioni e lo studio si conclude con la contrapposizione di tre diversi scenari:

  • l’abbandono dello strumento delle sanzioni, siano essi  mirate o generali, da parte della comunità internazionale e degli stati;
  • il ritorno all’utilizzo delle sanzioni come strumenti discrezionali in mano all’autorità politica;
  • un’ulteriore evoluzione del sistema mondiale nel quale il diritto internazionale viene rafforzato da istituti di garanzia alle libertà individuali.

Passiamo ora ai saggi della seconda sezione del libro che riguarda “Economia e società globale”

Manuela Moschella con “Governare la finanza globale: crisi e cambiamento” esamina il funzionamento e la governance dei mercati finanziari intesa come l’insieme delle istituzioni, meccanismi, regole e procedure decisionali che permettono il corretto funzionamento del sistema monetario e finanziario internazionale.

Dopo aver esaminato le ragioni che richiedono regole e istituzioni che governino il mercato finanziario internazionale, l’autrice tratteggia un’ evoluzione storica della governance: gold standard alla fine del XIX secolo, sistema di Bretton Woods al termine del secondo conflitto mondiale, crescita dei flussi di capitali internazionali e riforme post-crisi dei paesi in via di sviluppo negli anni ottanta e novanta in particolare:

  • il ruolo-guida svolto dai paesi finanziariamente più avanzati;
  • la delega di responsabilità dal pubblico al privato nei processi di sorveglianza (es. l’accordo di Basilea II che fissa i requisiti di capitale regolamentare per le banche che operano a livello internazionale);
  • l’espansione nel numero di organismi e organizzazioni coinvolti nei processi decisionali con particolare attenzione al G20 e al Financial Stability Board, organismi di cui fanno parte tecnici quali funzionari dei ministri delle finanze e delle banche centrali (G20) regolatori domestici e organizzazioni internazionali (Fsb) con il coinvolgimento nella “membership” di questi organismi sia dei paesi economicamente avanzati che di alcuni paesi emergenti;
  • la crescente importanza di reti transnazionali di regolatori (Comitato di Basilea sulla vigilanza bancaria, International Association for Insurance Supervisors, International Organization for Securities Commission) che producono regole con valenza generale caratterizzate da un processo decisionale informale tra i “tecnici” che li compongono e sono caratterizzati dalla lontananza da pressioni politiche.

L’ultima parte del saggio esamina, alla luce della crisi finanziaria globale, il rapporto di potere tra il gruppo dei paesi avanzati e quello dei paesi emergenti, rapporto che l’autrice considera fondamentale per capire le prospettive di sviluppo globale delle regole della governance finanziaria, data l’interdipendenza fortissima tra l’ascesa delle economie emergenti e i rischi di rallentamento economico che si registrano nelle economie avanzate.

Arlo Poletti ne “L’organizzazione mondiale del commercio: sfide e prospettive tra legalizzazione e regionalismo” si occupa della crescita del commercio mondiale, che mediamente è cresciuto del 6% negli ultimi 60 anni (da 84 miliardi di dollari nel 1953 a 15 trilioni di dollari nel 2006) con un’internazionalizzazione dei consumi dovuta al fatto che una quota crescente di beni e servizi sono prodotti in un paese e consumati in un altro.

L’autore esamina il ruolo dell’OMC fondata nel 1995 e diretta emanazione del GATT, il trattato  intergovernativo che ha regolato il commercio internazionale a partire dalla sua adozione nel 1947.

I principi fondamentali del regime commerciale internazionale sono:

  • il principio di non discriminazione (uguali opportunità per ogni Stato membro nei confronti degli altri Stati membri);
  • il principio di reciprocità (a concessioni da parte di uno o più Stati membri corrispondono altrettante concessioni da parte di uno o più altri Stati membri).

Il sistema di commercio internazionale è caratterizzato da un insieme di processi multilaterali (negoziati intergovernativi finalizzati all’adozione di norme per la liberalizzazione del commercio), e bilaterali. L’autore esamina poi gli strumenti per la risoluzione delle controversie e conclude con le due grandi sfide per il futuro del regime commerciale internazionale:

  • continuare ad essere percepito come uno strumento efficace e legittimo per favorire l’adozione di norme per la liberalizzazione del commercio internazionale;
  • fronteggiare la minaccia costituita dal fenomeno dell’esplosione degli accordi commerciali regionali che costituiscono un potente attacco al primo dei due principi cardine visti prima: l’idea che il processo di liberalizzazione internazionale commerciale non debba avere carattere discriminatorio.

 Eugenia Baroncelli nello studio: “La banca mondiale e la lotta alla povertà nel mondo globalizzato”  esamina il ruolo che la Banca ha avuto dal 1946, anno della sua nascita ,nella sua mission di sostegno allo sviluppo

Vengono passati in rassegna i numerosi cambiamenti che hanno caratterizzato il sistema internazionale: fine del sistema monetario del Gold Exchange Standard, maggiori opportunità di finanziamento per i paesi in via di sviluppo accompagnate da instabilità dei mercati e delle valute, crisi del debito degli anni ottanta, crollo del comunismo reale e dell’Unione Sovietica e nuove opportunità per i paesi esclusi precedentemente dagli scambi globali, crisi asiatica degli anni novanta e successiva crisi globale.

Per rispondere a queste sfide, la Banca Mondiale ha perseguito la promozione della causa dello sviluppo, rivedendo spesso la sua “mission”.

La struttura istituzionale della Banca è adeguata alla sua natura multilaterale oppure è caratterizzata da dinamiche minilaterali? Quanto ha migliorato la situazione la recentemente approvata voice and participation reform?

Infine viene affrontato il tema degli effetti di composizione relativi alla presenza di nuovi donatori nel mercato delle politiche per lo sviluppo, le implicazioni della “promozione” di nuovi attori sulla scena economica globale.Iin particolare viene discusso il ruolo della Cina che è diventata da debitore creditore della Banca e, a livello bilaterale, ha implementato una promozione dello sviluppo con modalità slegate dalla governance “buona” che hanno contraddistinto l’azione della Banca nel nuovo millennio.

Viene analizzato anche il rapporto Banca – Unione Europea che rappresenta il donatore più generoso ed il maggior azionista e ha assunto un controllo crescente sull’operatività dei programmi finanziati tramite i propri aiuti creando dinamiche non sempre cooperative con la Banca

L’autrice si interroga poi sulla riforma dell’attuale meccanismo del voto ponderato e per constituency  che contraddistingue la Banca, anche alla luce della crisi globale in atto e dei riequilibri nei ruoli dei maggiori Stati dentro l’economia globale

Ne “Le sfide del fenomeno migratorio: il caso europeo” ,di Michela Ceccorulli, si cercano di esaminare le varie sfaccettature della realtà migratoria per comprenderne le complessità e l’attualità a fronte delle sfide globali.

Secondo l’Organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo, la migrazione viene definita come “il processo di qualsiasi movimento interno o internazionale di persone indipendentemente dalla sua durata o dalle sue cause” (OECD 2008).

Vengono esaminate le migrazioni come fenomeno di portata globale, evidenziandone le particolari rotte e criticità. Come attesta la Banca Mondiale la maggior parte dei flussi migratori è limitata ad ambiti regionali, le rivolte scoppiate nei paesi dell’Africa e del Medio Oriente nel 2011 hanno  causato fenomeni migratori dalla Libia verso Egitto e Tunisia e dall’Egitto verso Giordania e Turchia e solo un numero limitato di persone ha tentato di varcare il mediterraneo.

Si passa poi ad esaminare lo spostamento delle masse verso il territorio europeo e al suo interno con le strategie che l’UE ha messo in atto per gestire il fenomeno. Si passano in rassegna una serie di studi sui vari  effetti economici, sociali, culturali, di sicurezza dell’immigrazione e le sfide che la politica dovrà gestire sia negli Stati Uniti che nell’ UE.

Ad esempio la Banca Mondiale nel 2011 ha calcolato che 215 milioni di persone vivono al di fuori del proprio paese di origine e secondo la divisione Affari economici e sociali dell’ONU il numero maggiore di immigrati proviene nell’ordine da Asia, America Latina e Caraibi, Africa.

I rifugiati invece ammontavano nel 2010 a 86 milioni, di cui l’80% risiede nei paesi in via di sviluppo, in particolare 54% in Asia e 23% in Africa, mentre l’Afghanistan contava il maggior numero di rifugiati seguito da Iraq e Somalia.

Paolo Natali ne “L’energia e l’evoluzione dello Stato sovrano” analizza come la gestione dell’energia nei diversi territori influenza la struttura della comunità internazionale e i diversi  modelli  statali, in quanto l’energia rappresenta la più strategica delle risorse naturali e quella più direttamente legata al potenziale economico poiché nessun prodotto o attività possono essere portati a termine senza di essa.

In un contesto in cui la struttura della comunità internazionale è in transizione e l’intensità energetica provocata dall’industrializzazione dei BRICS, in particolare Cina e India, sarà superiore per la maggiore popolazione coinvolta, a quella di Stati Uniti ed Europa, diventa fondamentale comprendere lo sviluppo del mix energetico.

In base al mix  delle energie utilizzate cioè, avremo diversi sviluppi della centralità o perifericità delle diverse regioni del globo.

Inoltre lo studio evidenzia come la dimensione dello Stato sovrano, della quale tuttavia il mondo attuale non può fare a meno, sia inadatta alla formazione delle politiche energetiche i cui diversi aspetti sarebbero meglio indirizzati in un quadro transnazionale.

 Vorrei concludere evidenziando la presenza di un “filo rosso” all’interno dei saggi presenti nel volume: il lungo processo storico di declino del modello di sviluppo occidentale dovuto, da un lato, all’indebitamento sempre meno sostenibile causato dalla debolezza della politica e dagli eccessi di finanza, dall’altro, alla crescita di grandi potenze emergenti che riducono la quota di risorse prodotte dall’Occidente.

Quale sarà in questo contesto  il ruolo dell’Occidente negli equilibri mondiali ? Come potrà favorire un processo di pace allargando alle potenze emergenti il modello di cooperazione istituzionalizzata e multilaterale che lo  caratterizza ?

Andreatta, nella prefazione del libro, cita due posizioni opposte: Edward Gibbon ottimista sul fatto che le tecniche economiche e militari moderne avrebbero portato ad un miglioramento delle relazioni internazionali e Oswald Spengler che affermava che le tecnologie si diffondono molto più rapidamente della cultura e che pertanto nuove potenze aggressive avrebbero eroso il primato dell’Occidente generando conflitti violenti.

In conclusione, la politica internazionale è in una fase di transizione, sia a livello delle relazioni di potere tra gli Stati, sia per quanto riguarda le istituzioni che hanno governato la politica e l’economia globale negli ultimi decenni e non è chiaro se l’epoca di transizione in cui stiamo vivendo porterà ad un mondo più cooperativo oppure più conflittuale di quello che ci siamo lasciati alle spalle.

Trascrizione della relazione di Filippo Andreatta

Grazie. Buon giorno a tutti. Io, in realtà, ritengo che, oltre a essere disordinato, come ha detto giustamente Giovanni Bianchi, il mondo di oggi è anche un mondo post-occidentale e ho preparato qualche immagine, qualche dato per farvi vedere cosa intendo per questo.

Questo è il dato, diciamo, di lungo periodo, della divisione produttiva nel mondo tra Occidente, in giallo, e il resto del mondo. Ovviamente, l’Occidente, lo sappiamo, è una minoranza, è 1/5, 1/6 della popolazione mondiale, ma ha goduto a lungo di un dominio molto significativo. Dal punto di vista politico, quando i miei nonni sono nati, quindi questa fase, l’80% del globo era controllato da potenze occidentali tramite gli imperi. Ma anche dopo, quando c’è stata la decolonizzazione, c’è stato un dominio economico che ormai era dato per scontato e che sta venendo meno tanto che recentemente più del 50% della produzione mondiale è passato nelle economie emergenti. Questo ovviamente è un bene perché è un mondo più eguale.

Vediamo un altro modo di guardare questi dati. Su questa cartina vedete tutti i paesi del mondo collocati secondo due indicatori: da questa parte un indicatore di ricchezza, cioè il reddito pro capite annuale medio di quel paese, e invece sull’asse delle Y, l’asse in alto, un indice di benessere che è l’aspettativa media di vita. E questi dati sono definiti all’inizio di questa storia, all’inizio dell’era contemporanea, cioè al 1800; e vedete come la maggior parte dei paesi sia in realtà in una situazione simile, di miseria e di malattia, comunque di una aspettativa di vita non molto lunga. Non so se riuscite a vedere i numeri, però per i paesi più longevi l’aspettativa di vita era 40 anni, mentre era di 25 per quelli meno longevi.

Dal punto di vista della ricchezza il reddito pro capite medio era nei paesi più ricchi attorno a 2 mila dollari, in quelli più poveri a 400 dollari. Quindi, era un mondo relativamente uguale dove appunto la differenza tra il più ricco e il più povero era di 5 volte e di 15 anni nell’aspettativa di vita.

Poi è successo che è arrivata l’industrializzazione e l’industrializzazione ha trasformato la società, l’ha portata da società conservatrice, rurale, dove non succedeva mai nulla, a una società dinamica, urbana, cittadina che ha consentito una grande esplosione del benessere. Però solo in alcuni paesi. Per identificare i paesi, la dimensione della pallina rappresenta la popolazione, mentre il colore rappresenta l’area geografica da dove proviene: in particolare in arancione ci sono i paesi europei, in giallo quelli americani, in rosso quelli dell’Asia orientale (e questa è la Cina, più grande degli altri), in azzurrino quelli dell’Asia meridionale, quindi l’India, e in blu quelli africani.

Guardiamo che cosa succede dopo la prima grande fase di industrializzazione. Vediamo che ci sono alcuni paesi che diventano più ricchi e più sani, più longevi, e sono ovviamente i paesi occidentali, vediamo gli Stati Uniti qui e le grandi potenze europee da questa parte. Gli altri invece rimangono indietro, rimangono dove erano un secolo prima, in un mondo malsano e povero, in miseria.

Questo processo si accentua, continua ad accentuarsi. Questo è il 1945, quindi sempre più verso l’angolo, diciamo, della felicità che è quello in alto a destra dove si vive a lungo con molte risorse economiche a propria disposizione, mentre continua a rimanere schiacciata nell’angolo sfortunato gran parte della popolazione mondiale.

Guardiamo come cambiano le cose da allora ad adesso. Certo, le nazioni ricche sono diventate ancora più ricche e sono diventate ancora più longeve, adesso abbiamo raggiunto gli 80-85 anni nei paesi dove i sistemi sanitari funzionano meglio, ma altri paesi hanno recuperato; in particolare, se guardate le due grandi biglie della Cina e dell’India, vedete che arrivano da qui, nel ’45, a qui nel 2009. Quindi, fanno in 50 anni quello che l’Occidente ha fatto in 200 anni. Certo, permangono disuguaglianze inaccettabili, ci sono, sia a livello assoluto, dei paesi che sono tuttora troppo poveri, ma soprattutto sono aumentate le disuguaglianze. Abbiamo detto che la differenza tra il più ricco e il più povero era di 5 volte all’inizio, adesso i paesi più ricchi hanno 40mila-50mila dollari di reddito pro capite, quelli più poveri continuano ad averne 1.000, quindi da 5 a 50 volte la differenza tra il più ricco e il più povero.

Anche a livello di aspettative di vita, abbiamo detto che la differenza era di 15 anni, 40 nei più longevi e 25 nei meno longevi, adesso è da 85 nei paesi più longevi fino a 45 per i paesi, soprattutto africani, dove le epidemie continuano a mietere giovani vite.

Ciononostante, siamo tutti preoccupati dei nostri problemi, dei tradimenti, dei partiti, delle pitonesse, e ci stiamo dimenticando che siamo cittadini del mondo e non stiamo più osservando quello che sta succedendo intorno a noi. Questo processo ha fatto sì che una delle più belle notizie, inimmaginabile anche solo 30-40 anni fa, sia ormai a portata di mano, ed è il fatto che non c’è più la povertà in questo mondo. Ricordo che leggevo, c’è una rete di ricordi che risale a quando ho cominciato a leggere i giornali, che la povertà attanagliava (sto parlando di povertà assoluta cioè sotto un dollaro al giorno, quindi la fame, letteralmente non si arriva ad avere 2 pasti al giorno), era purtroppo la piaga che affliggeva metà della popolazione del mondo: 2 miliardi di persone vivevano al di sotto di una soglia di povertà assoluta. E questo nel 1990.

Il numero di persone al di sotto di quella soglia, grazie a questo grande recupero-rincorsa soprattutto in Cina e in India, ha ridotto grandemente questo numero, praticamente dimezzandolo, da 2 miliardi a 1 miliardo, e le proiezioni sono che, se non succede niente (dopo parliamo di che cosa potrebbe succedere), ma se non succede niente e proiettiamo questo trend nel futuro, questo trend porterà la povertà sostanzialmente a scomparire. Non la povertà in senso di avere tutto quello che si vuole a propria disposizione, ma almeno la povertà in termini di fame.

Allora, per chi ha una sensibilità come immagino che sia prevalente in questa sala e che, appunto, è la stessa della mia cultura, è una notizia assolutamente meravigliosa e della quale noi continuiamo a dimenticarci perché siamo persi dentro i nostri problemi.

Sicuramente, tra questi problemi c’è il fatto che davamo per scontato che l’Occidente fosse dominante nel mondo, adesso non lo è più e, bisogna essere sinceri, anche se non è un bellissimo e molto cristiano sentimento, è qualche cosa che può dare ansia. Prima si dava per scontato che in qualche modo tutto quello che accadeva doveva accadere attorno a noi, ma adesso ci sono altri protagonisti. Può darsi che questo ci dia una certa ansia ma allo stesso tempo non possiamo dimenticare che finalmente abbiamo un mondo più giusto; rispetto a un mondo che per due secoli è stato governato da un quinto e i quattro quinti erano assolutamente fuori dalla porta, adesso abbiamo un mondo più equilibrato dove altre potenze non occidentali si affacciano sulla vita internazionale e sulle prospettive di benessere.

A questo proposito voglio cercare di qualificarvi quanto sto dicendo facendovi vedere qualche nuova immagine. Questa è la distribuzione del reddito mondiale pro capite nel 1970, per il quale trovate la distribuzione in scala logaritmica, tanto più alto, ovviamente tanta più gente c’è. Ci sono due picchi di persone: il picco delle persone che aveva tra i 10 e i 100 dollari di reddito al giorno e il picco dei poveri. Sono crollati in modo che possiate identificare l’area geografica di provenienza sulla base di quello che ci siamo detti adesso: quindi, l’India sostanzialmente, più altre piccole cose, la Cina, l’Africa, l’Occidente. Questo era il blocco comunista che come sapete era meno efficiente di quello occidentale.

Guardate che cosa successo tra il 1970 e oggi. Guardate: questo è prima e questo è dopo. Innanzitutto, è più grande perché c’è stata una grande crescita della popolazione: c’erano 4 miliardi di persone nel 1970, adesso sono 7 miliardi, quindi ovviamente è più grande. Ma guardate che cosa è successo a Cina e India. Cina e India erano qui, sotto la soglia di povertà, sono uscite dalla soglia di povertà. C’è ancora un miliardo di persone al di sotto di questa soglia in gran parte in Africa.

Ovviamente, l’Occidente è diventato più ricco, ancora più ricco di quello che era, questo io ci tengo a ricordarlo. Io mi ricordo di un’Italia ancora povera, che era costretta a spegnere le luci perché c’era una crisi energetica, dove c’era una sensazione che bisognava guadagnarsi i regali perché non venivano facilmente dai genitori, dove si andava in vacanza in maniera attenta alle spese, magari vicino a casa, non si andava in vacanza ai Carabi, si mangiava la pizza solo l’ultima sera perché bisognava fare le valigie per andare via. Un’Italia austera che però aveva dietro di sé la speranza di un miglioramento, pertanto aveva la consapevolezza del fatto che era un’Italia comunque molto più forte e più ricca di quella che emergeva dalla guerra.

E si confrontava con le generazioni del passato che avevano fatto quelle guerre, i nonni la prima guerra mondiale, i genitori la seconda guerra mondiale e quindi aveva una propensione a non lamentarsi, a non cedere ai mutamenti perché se si aveva appunto l’influenza si veniva curati da una nonna che magari aveva perso tre fratelli con la spagnola o per un’epidemia di tifo, malattie sconfitte con un semplice vaccino, ma che all’epoca, prima dell’invenzione della penicillina, uccidevano.

La sensazione adesso di un impoverimento, soprattutto tra le giovani generazioni, è un impoverimento gravissimo perché tocca quello che muove l’azione degli uomini, cioè la speranza, ma non i beni reali oggettivi; cioè i consumi sono raddoppiati dal 1970 a oggi, adesso tutti vanno appunto all’aspirazione di andare in vacanza, a fare il giro del mondo, andare in America, ad avere i motorini, i telefonini, le macchine, eccetera eccetera. Quello che è cambiato nel nostro paese, ne parleremo alla fine, è soprattutto l’aspettativa, quello che guardando avanti si può chiamare speranza, mentre dal punto di vista oggettivo, e qui stiamo per il momento parlando di questo, c’è stato un miglioramento.

Certo è stato più drammatico questo, però non è stato a scapito di questo. Non è che le difficoltà degli uni, sono causati dal miglioramento degli altri, ognuno qui ha fatto la sua gara. Lo avete visto chiaramente prima: non è che l’Occidente è cresciuto schiacciando il resto del mondo, semplicemente il resto del mondo è rimasto fermo mentre l’Occidente inventava l’industrializzazione e andava avanti. Quando questa invenzione è passata agli altri, gli altri si sono mossi, però le due cose sono indipendenti.

Ora cerco di spiegare meglio cosa vuol dire avere questi dati, che possono sembrare un po’ astratti, per la vita quotidiana facendo una semplificazione. Allora questa è la distribuzione del reddito più semplificata, e più approssimata di quella che avete visto prima. Cioè sono 4 miliardi di persone, ciascun omino è un miliardo di persone e, come vi ho fatto vedere, due omini su quattro, cioè due miliardi di persone vivevano al di sotto della soglia di povertà. Un miliardo di persone, tendenzialmente occidentali, che viveva al di sopra della soglia di ricchezza a 40 dollari al giorno e un miliardo che stava nel mezzo. A grandi linee, è la stessa cosa che vi ho fatto vedere prima e a grandi linee adesso vi faccio vedere che cosa significa la seconda cosa che vi ho fatto vedere.

Da 4 miliardi di persone siamo passati a 7, quindi ce ne sono di più: un solo miliardo è rimasto al di sotto della soglia di povertà, c’è un miliardo, che possiamo chiamare nuovi poveri cioè persone che sono al di sopra della vecchia soglia di povertà, quindi non hanno problemi alimentari immediati però stanno comunque in una situazione di indigenza. Poi c’è una classe media, potremmo chiamarla a livello globale, di 3 miliardi di persone, soprattutto in Asia, che è al di sopra delle soglie di povertà, ma al di sotto delle soglie di ricchezza. Poi c’è un miliardo di persone che è nella vecchia soglia di ricchezza mentre l’Occidente appunto ha allargato ancora i propri confini e dalla soglia antica di ricchezza è al di sopra di una nuova soglia di ricchezza che sono 80 dollari al giorno di consumo. Non per famiglia al giorno, quindi una famiglia di 4 persone vuol dire 320 dollari, quando c’è gente che vive con 2.

Ma vorrei qualificare esattamente cosa vogliono dire questi livelli di consumo cercando di immaginare, per quanto mi è possibile, che cosa può desiderare, qual è l’aspirazione più importante, dal punto di vista economico del benessere, di ciascuno di questi gruppi.

Il più facile è il primo. Il primo è al di sotto di una soglia di povertà alimentare, rischia di morire di fame per cui la sua aspirazione è il cibo. Immagino che chi ha superato la soglia del cibo ma non ha nient’altro la cosa che vorrebbe di più è attaccarsi alle reti di acqua, di elettricità ecc. ecc. perché quel miliardo di persone incastrato, diciamo, qui in mezzo non ha accesso all’elettricità e quindi immagino che voglia, desideri, avere questo strumento. Tre miliardi di persone hanno l’elettricità ma non hanno i soldi per comprarsi gli elettrodomestici, il che vuol dire, per capirci, che lavano i panni a mano; chiunque di voi ha memoria nella sua vita o nel racconto dei nonni, questo vuol dire restare tre ore al giorno, tutti i giorni, a fare i bagni. Quindi, 5 miliardi di persone fanno i panni a casa.

Ho provato sopra a stabilire delle date che sono le date che rappresentano quello che noi occidentali, in quel periodo, vedevamo come obiettivo. Noi, problemi di fame, dopo il 1600 non ne abbiamo avuti, ci sono stati i singoli paesi, anche recentemente in Irlanda, il Trentino che è la mia regione di adozione ha avuto una carestia e una epidemia di pellagra a seguito dell’unificazione con l’Italia perché tutta la sua economia è stata sconvolta dall’essere agganciata al Veneto anziché essere agganciata al Tirolo, quindi ci sono stati 20 anni di carestia. Però, diciamo, non erano strutturali i problemi di fame, senza le guerre ovviamente, al netto delle guerre in Occidente. Quindi, l’Ottocento è il secolo in cui si cercava appunto di avere la modernità, di avere l’elettricità in casa, non c’erano solo i treni fuori, ognuno cercava di avere in casa sua qualche cosa. La prima parte del Novecento è la conquista degli elettrodomestici, quindi l’emancipazione dai lavori di casa sostanzialmente.

Poi c’è il consumismo e quindi i nuovi ricchi hanno già gli elettrodomestici e cominciano ad andare sui beni cosi detti di lusso: vogliono magari l’ultimo telefonino dell’ultima generazione, questa è la grande aspirazione per cui sono motivati a lavorare per accumulare un po’ di risparmi e comprarsi questo. Chi vive al di sopra di questa soglia ha necessità ulteriormente sofisticate, per esempio di vivere più a lungo, e quindi spesa sanitaria, o avere una migliore impressione di sé, quindi chirurgia estetica, o si sentono depressi e quindi quelle pillole forse sono degli antidepressivi, quindi hanno un tipo di desiderio, di consumo superfluo, diciamo.

Questo è per qualificare quello che ho detto prima. Io penso che sia una bellissima notizia quella della sconfitta della povertà assoluta: non è che vuol dire che tutti improvvisamente girano in Mercedes, e questo, per inciso, è una delle ragioni di un perdurare dell’ansia in Occidente, perché le motivazioni in gran parte del mondo sono purtroppo concordi: anche se non hanno più fame nel senso alimentare del termine, hanno comunque voglia di crescere, di qualcosa da conquistare: regalare alla propria famiglia per la prima volta nella storia la prima lavapiatti è qualcosa che è significativo e motiva di più di quanto non possa essere comprare il quindicesimo cellulare ai propri figli di 12 anni.

Un’altra grande trasformazione è a livello demografico. Abbiamo visto che da 4 miliardi siamo passati a 7 miliardi; vi posso anticipare che da 7 miliardi alla fine del secolo arriveremo a 10 miliardi. C‘è da interrogarsi se il mondo possa sopportare questa esplosione demografica e quindi posso dare una buona notizia: tendenzialmente, io penso di sì. Innanzitutto, perché si fermerà a 10 miliardi, lo vedete nelle proiezioni che c’è un fortissimo rallentamento nella crescita, dopo entriamo sulle differenze dei numeri, ma guardate nel suo complesso l’umanità. L’umanità, che aveva due miliardi e mezzo di persone nel 1950, quadruplica entro la fine del secolo, però non cresce ulteriormente. Questo è legato al miglioramento delle condizioni di vita perché chi è più ricco fa meno figli, ed è una regola, per molteplici ragioni: innanzi tutto perché ha meno bisogno di fare figli in quanto vivendo in un paese più sanitariamente solido, diciamo, le probabilità sono inferiori quindi non c’è necessità di avere 10-12 figli sostanzialmente, e poi cambiano i consumi e le prospettive di vita. È una regola che abbiamo visto, che più le società diventano ricche, meno figli vengono fatti.

E quindi questo miglioramento delle condizioni medie dell’umanità porta a una diminuzione della pressione demografica, che porta alla fine, diciamo, della esplosione demografica attorno ai 10 miliardi, che è una figura relativamente sostenibile.

Ma questi 10 miliardi avranno un volto, una natura, un’identità completamente diversa dai 4 miliardi da cui siamo partiti. Avranno diverse provenienze geografiche e vi do gli stessi dati facendo vedere non la somma, ma confrontando gli uni con gli altri alcune regioni del mondo.

Allora, questi sono i paesi del medio-Oriente e del nord Africa, i paesi arabi diciamo, e questa è l’Europa e nel 1950 vedete che i paesi arabi sono un sottomultiplo, attorno a 100 milioni, con l’Europa attorno ai 500 milioni e quindi il 20% dell’Europa. Guardate che cosa è successo fino adesso e che cosa succederà presumibilmente nel resto del secolo: verranno superati e quindi gli europei rimarranno più o meno stabili attorno a 500, 600, 700 milioni mentre c’è una moltiplicazione nei paesi arabi. Vi fa paura quella che è rappresentata?

Il dato è identico ma la scala è diversa perché dovevo accomodare i numeri più grandi: i dati sono questi, l’Europa non si è mossa, non sono stato neanche a metterla. Guardate che cosa succede alla Cina, che va in declino demografico dopo l’arrivo della ricchezza, all’India che sarà la Cina del futuro, sarà quasi il doppio demograficamente e quindi immetterà nel mercato globale nuovi lavoratori dando appunto quella grande spinta, quella locomotiva che la Cina è adesso, probabilmente l’India lo sarà nei prossimi 10 anni, ma anch’essa andrà in declino demografico, invecchierà così come sta invecchiando l’Europa e quindi diventerà a crescita lenta.

Quindi le speranze per la seconda metà di questo secolo sono in Africa. L’Africa sarà la locomotiva dello sviluppo mondiale perché sarà l’unico posto dove la crescita demografica immetterà nuovi lavorator  con voglia di lavorare, di crescere, di fare, che avrà un impatto a livello globale.

Soffermiamoci un secondo sulla dimensione di questo dato. L’Africa nel 1950 aveva 300 milioni di persone, la metà dell’Europa, alla fine del prossimo secolo saranno oltre 3 miliardi. Quando uno pensa alla necessità, come ha fatto il Presidente del Consiglio italiano, disperatamente ma con un certo successo, di far sì che l’Europa si faccia carico della frontiera del Mediterraneo, sta prendendo in considerazione questo processo qui, che è destinato a moltiplicarsi. Perché semplicemente una massa così grande di persone farà pressione per, appunto, riuscire a trovare sbocchi migliori.

Quindi, sostanzialmente, nel 2100 avremo un mondo in cui, ritorniamo indietro a vederlo, più o meno uno su tre sarà africano, un vivente, una persona vivente sarà africana, uno su tre verrà dall’Asia e tutto il resto del mondo sarà un terzo. Il che vuol dire che l’Occidente, l’Europa e il nord America, saranno un sesto, uno su sei proverrà dall’Europa e dall’America del Nord.

Queste trasformazioni di cose fondamentali come la capacità produttiva economica e il numero di persone, la demografia, portano a tutta una serie di sfide: io mi concentro su quattro in maniera diseguale. Cioè: che conseguenze politiche hanno questa variazione, questa transizione, questi cambiamenti? Secondo: che effetti ci sono sulle risorse naturali. Terzo che effetti ci sono sulla politica interna e quarto come le potenze non emergenti, le vecchie potenze occidentali (farò una piccola riflessione in particolare sull’Italia), stanno gestendo, o possono cercare di gestire, questi tipi di processi.

Brevemente, è già stato detto, le potenze emergenti: allora questa è una mappa della Cina con segnalate le guerre che la Cina ha combattuto nei primi anni della sua indipendenza, cioè dopo la rivoluzione e poi successivamente; ovviamente c’è la guerra col Giappone, c’è la tensione, quasi una guerra civile con Taiwan, la guerra di Corea, la tensione con Breznev sul fiume Furi del 1969, la guerra contro l’India, la guerra contro il Vietnam, non la guerra americana, ma la guerra con cui i cinesi hanno invaso il Vietnam. Quindi, una potenza estremamente bellicosa. Da nord niente, e l’ipotesi è che appunto si siano preoccupati di fare affari piuttosto che sparare. E io su questi problemi sono relativamente ottimista: ritengo che se l’Occidente, che non è più il dominus del mondo, è abbastanza saggio dal cooptare queste nuove potenze, e quindi da scrivere le regole del sistema internazionale in modo che anche le grandi potenze le sentano proprie, allora questo è qualcosa che funziona. Se viceversa si ostina a voler mantenere delle regole che lo privilegiano quando i fatti non giustificano più questa cosa, questa tensione farà sì che i nuovi forti che non sono più privilegiati dalle regole, prima o poi chiedano i privilegi. E quindi, diciamo, il mio è un appello e una speranza nella saggezza dei leader occidentali.

Cosa succederà alle risorse? Questo è il mondo nel 2050, quando ci saranno ulteriori crescite demografiche e vedremo che, come avevo detto, non ci saranno più poveri, verrà sconfitta la povertà. Cosa vuol dire? Vuol dire che ci saranno 4 miliardi di persone nella fascia, diciamo, quella senza gli elettrodomestici, 3 miliardi di persone e 2 miliardi di persone nella ricchezza assoluta. Quindi, c’è un aumento di 2 miliardi di persone da qui al 2050. Ma se noi manteniamo lo stesso livello di consumo di oggi per quelle fasce, vediamo che ci sarà un raddoppio del consumo energetico, nel senso che chi non ha elettrodomestici consuma poco, quindi ogni miliardo di persone consuma questo che si chiama un “megatec”, una misura standard a livello internazionale. Un miliardo di persone consuma un megatec. Tre miliardi di persone in quella categoria consumano 2 megatec. Questi a cui appartengono gli occidentali consumano 6 megatec a testa.

Allora qui, come sapete, c’è una tensione politica perché l’Occidente sta dicendo alle grandi potenze emergenti: “Consumate di meno, bruciate meno energia”, perché grandi responsabilità stanno appunto in aumenti nella produzione di energia e nell’erosione di risorse naturali che questo comporta. Ma i paesi emergenti dicono: “Ma scusate, consumate meno voi, perché dove sta scritto che gli occidentali debbano consumare 6 megatec per un miliardo di persone?”.

Ed è straordinariamente difficile ridurre il consumo di energia, non è andando in bicicletta ogni tanto, è lavare i panni a mano se uno vuole ridurre, buttare via lavastoviglie, lavapiatti, televisioni eccetera, eccetera. È estremamente difficile immaginare questo. Finché non immaginiamo questo, nessun occidentale per favore dica ai cinesi di fare diversamente da quello che abbiamo fatto noi finora. Direi che senza citare le Scritture, un minimo di decenza fa sì che uno non possa chiedere agli altri quello che non è disposto a fare lui stesso.

Quindi, questo è un ottimismo qualificato. La cosa che mi rende più speranzoso, ma anche più preoccupato, riguarda invece la terza sfida, quella della politica interna. Questa esplosione di ricchezza, quindi questo uscire di gran parte dell’umanità dalla carestia, dalla fame, ha creato una domanda per i diritti politici. Mentre se uno vede arrivare la fine della settimana senza morire di fame ed è molto concentrato su quello, quando ha assicurato i suoi bisogni fondamentali, comincia a dire: “Ma io voglio anche le elezioni, voglio anche la democrazia”, e quindi normalmente lo sviluppo economico è abbinato a una certa democratizzazione.

E se guardiamo la mappa dei regimi politici oggi, vediamo che ci sono 3 zone colorate in maniera diversa. Le zone verdi sono le zone a piena democratizzazione, le zone gialle sono quelle che hanno qualche problema ma sostanzialmente sono democratizzate e le zone invece blu, o viola, se siete daltonici come me o no, sono le zone dove c’è autocrazia e dittatura. Allora, ci sono naturalmente buone e cattive notizie. La buona notizia è che la zona che, come in geopolitica chiameremmo marittima, cioè le zone costiere dell’umanità, insieme alla grande democratizzazione in Europa orientale e in America latina seguita alla fine della guerra fredda, sono in effetti in una transizione positiva verso una maggiore democratizzazione. L’Africa è la migliore notizia da questo punto di vista.

Ci sono tante definizioni di democrazia ma quella che mi piace di più è basata sull’alternanza, cioè sul fatto non che ci siano elezioni, le elezioni c’erano anche in Unione Sovietica, ma che il governo in carica perda almeno una elezione. Allora mi sembra che ci sia la democrazia, insomma si vota, si va al governo, e perché la democrazia sia consolidata, deve anche poter andare a casa quel governo per via elettorale, non perché gli sparano con un colpo di stato militare.

Secondo questa definizione, di un governo non eletto, di un governo mandato a casa con le elezioni, sapete quante democrazie, secondo questa definizione, fino al 1990 c’erano in Africa? È facile: zero. Sapete quanti governi dal 1990, non un arco temporale lunghissimo, in Africa sono stati mandati a casa? Trenta, ci sono 30 democrazie in Africa oggi. Beh, è una bellissima notizia anche questa, no?

In Asia lo sappiamo. Segnalo, per esempio, che ci sono, cominciano, non tanto le primavere arabe che sono, diciamo, ancora sospese come giudizio, ma guardate per esempio l’Indonesia, stati islamici che cominciano a diventare democratici, più secolarizzati.

Ovviamente, ci sono cattive notizie: ci sono stati dittatoriali, alcuni moderatamente, alcuni terribilmente dittatoriali. Non so se li vedete, ma in rosso sono segnati i posti nei quali nel 2013 ci sono stati atti di violenza politica, dalla Nigeria, al Mali, al Congo, al Sudan, alla Siria, all’Iraq, all’Afghanistan, e sono tutti in quella zona: la repressione politica e la violenza tendono ad andare di pari passo.

Guardiamo un arco di tensione di questa transizione: questa è un’altra immagine che a me colpisce molto, è la Cina divisa nelle sue regioni, ma le sue regioni non vengono chiamate col nome delle regioni, vengono chiamate con un paese che ha quel reddito pro capite, quel livello di ricchezza per cui, per capirci, il Tibet, che è questa regione qui, ha il reddito pro capite del Congo, mentre le zone come Macao o Hong Kong hanno il reddito pro capite di Singapore o del Qatar. Allora, abbiamo detto che questa veloce ricchezza porta a delle maggiori disuguaglianze tra paesi e anche all’interno dei paesi: in Cina è decollata una parte della Cina mentre un’altra è rimasta al mondo agricolo e rurale; per cui le tensioni che questo provoca per un partito comunista, un sistema a partito unico, non è facile trovare le stesse politiche che funzionano per gli sceicchi, piuttosto che con le stesse politiche che funzionano per l’Africa centrale. E quindi, appunto, le trasformazioni portano anche delle tensioni potenziali. Questo è, nonostante appunto la grande crescita cinese.

Faccio una riflessione invece su un’altra visione del mondo, cioè sul mondo arabo, questo famoso medio Oriente-nord Africa. In alto trovate una delle conseguenze dell’industrializzazione, cioè la capacità di sostenere gran parte della popolazione in città, quindi liberandola dalla schiavitù di dover coltivare livelli agricoli di sostentamento, e quindi l’urbanizzazione. Da noi l’urbanizzazione è avvenuta prima, tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, quindi una grande trasformazione in cui le città c’erano ma erano una minoranza della popolazione che abitava in città, il resto abitava in campagna e, viceversa, adesso si è inurbato, dopo di che è rimasto più o meno stabile, è cresciuto molto lentamente, questo nella parte europea che è quella gialla.

Guardiamo in Cina cosa è successo. In Cina c’è stato un aumento della urbanizzazione legato a questo grande decollo delle città costiere orientali, ma siamo ancora ben al di sotto dei livelli europei. Nel mondo arabo questa tensione è diventata molto più veloce perché nello stesso periodo il mondo arabo ha fatto sì che si sia raggiunto in pochi decenni il livello di urbanizzazione dell’Europa. E vorrei sottolineare l’importanza storica ma politica di questa trasformazione. Le società rurali sono tutte società conservatrici dove tendenzialmente le aspettative di vita, il livello di benessere delle generazioni è sempre lo stesso, perché sempre le stesse cose fanno, cioè estraggono da una terra che è fissa i prodotti per il sostentamento. Sicuramente, c’è un grandissimo miglioramento con la tecnologia però si tratta di società tendenzialmente conservatrici, dal punto di vista economico. E conservatrici dal punto di vista morale, sociale, nel senso che i legami sono ancora quelli della tradizione, ci si conosce tutti in campagna, sono quasi tutte senza esclusioni società religiose, pre-secolarizzate, dove il ruolo della chiesa è di fornire servizi, o anche solo di fornire occasioni di aggregazione.

Le società urbane non hanno nulla di tutto questo, sono società dinamiche per definizione perché vuol dire che la maggior parte delle persone non lavora per produrre cibo, mentre ci deve essere una grande produttività nell’agricoltura per sfamare persone, e quindi sono persone liberate per fare altre cose, operai, imprenditori, eccetera. Sono dinamiche dal punto di vista sociale, perché non si incontrano le persone, hanno solo forme più sofisticate, i partiti, i sindacati, ma non ci si incontra più nelle piazze del paese e tutte, senza, esclusione, sono società secolarizzate.

Noi ormai siamo abituati. Ma immaginiamoci la prima generazione che si inurba, esce dalle campagne ed entra in città, sopratutto se lo fa con la velocità con cui è avvenuta nel mondo arabo. Allora si tratta di una generazione che abbandona se stessa, abbandona la vita dei padri e dei nonni per scegliere l’avventura, un modo completamente diverso di vivere in città e non torna indietro. Non torna indietro anche perché per esempio si scolarizza, va in città, studia e va a scuola per cui le sue aspettative e le sue capacità non gli consentono di tornare indietro. Se lo fa con questi ritmi non può neanche andare avanti perché le città non sono in grado di assorbire metà della popolazione che entra così rapidamente.

Pensate per esempio, lo dico senza nessuna polemica, all’effetto psicologico che hanno poche migliaia di immigrati nelle città italiane e si tratta di poche migliaia. Pensate se milioni di persone vengono in città, hanno un effetto su chi abita in città enorme, ma anche su chi è appena arrivato e non riesce a essere assorbito. E quindi è una generazione sospesa, che non vuole tornare indietro al passato e non riesce ad andare avanti al futuro.

Quindi cosa fa? È vulnerabile, va a cercare le soluzioni, le scorciatoie delle rivoluzioni. Sapete quando è avvenuto a Parigi questo meccanismo? A Parigi è avvenuto alla fine del Settecento. Sapete quando è avvenuto in Italia? Dopo la prima guerra mondiale. Sapete quando è avvenuto in Germania? Dopo la prima guerra mondiale. Le idee, il valore delle idee non cambia. La gente è sempre quella, così come il nazismo e il comunismo sono sempre quelli. Le fortune delle idee dipendono dalle condizioni sociali. Allora questa é una condizione sociale in cui in Europa sono arrivati i totalitarismi perché frustrati, questi giovani hanno chiesto a un messia secolare di salvarli.

Bene. Che cosa c’è dietro alla disamina? Forse qualcosa di analogo e nonostante sia orribile quello che sta succedendo al mondo arabo, nelle parti violente, come la Siria, è ancora molto poco rispetto a quello che abbiamo fatto noi. Anche su questo esorto a non sparare giudizi con una certa superiorità culturale, perché l’urbanizzazione nell’Europa occidentale ha provocato decine di milioni di morti in Europa e fuori dall’Europa.

Quindi sono processi estremamente difficili, dolorosi. Guardiamo ad esempio il confronto tra due paesi: uno già arrivato, se non invecchiato, l’Italia, e la Siria. Guardate, questi sono i numeri di persone dal 1971 al 2012. L’Italia è rimasta più o meno la stessa, sappiate che per fortuna l’immigrazione ha rimpolpato il numero di italiani che se no era fermo o in declino, prima lo ha contenuto e adesso ultimamente lo sta aumentando a 59 milioni. Guardate nello stesso periodo dal 1971 a oggi, in 40 anni, da 6 milioni a 22, sono quadruplicati in Siria. Se voi pensate che mentre prima c’era un terzo di persone in città, adesso ci sono due terzi di persone in città, quindi sono raddoppiate, vuol dire che le città sono cresciute di 8 volte, si è quadruplicata e poi raddoppiata la popolazione, si è quadruplicata in generale, ma è raddoppiata quella in città, vuol dire che le città sono cresciute di 8 volte.

E questo forse c’entra con quello che sta succedendo in Siria. Ci sono miei colleghi che parlano per esempio di teorie ormonali della violenza. L’età media è di 22 anni, l’età media in Italia è di 45, il che vuol dire che ci sono tante persone sotto i 22 anni quante sopra. Allora forse, appunto, la città per un giovane è anche più soggetta alle chimere, che sono quelle della libertà, ma forse anche quelle del fondamentalismo. Se poi, come è stato giustamente citato, si innesta su delle differenze religiose ed etniche, può essere esplosivo data la situazione appunto religiosa-etnica della Siria: due terzi delle persone sono sunniti, altri sunniti sono di etnia diversa per cui, per fatti loro, diciamo i curdi, ci sono i cristiani, ci sono gli alauiti; gli alauiti controllano il potere. Allora, è evidente che se c’è una richiesta di maggiori diritti, una cosa così è difficile da sostenere. E questo ha portato appunto a una guerra civile dove sono morte più di 120 mila persone e più di un milione e mezzo di persone sono rifugiati.

Questa è la situazione, la mappa più recente che ho trovato. Guardate in colore giallo ci sono i curdi, in rosso la zona governativa e in verde la zona di controllo degli insorti. Tra l’altro, la cosa è complicata ulteriormente dal fatto che gli insorti, intanto, hanno legami internazionali. Abbiamo detto che i giordani appoggiano gli insorti, così come fanno i turchi, mentre la parte sciita del Libano e l’Iran aiutano il governo, tutto complicato. Gli insorti sono un arlecchino di possibilità diverse: ci sono ovviamente i genuini difensori della democrazia, ci sono anche organizzazioni più inquietanti, una che controlla questa fetta di confine con l’Iraq, che si chiama ISIS adesso, che vuol dire stato islamico di Iraq e Siria, quindi cerca di abbattere i confini per creare qualche califfato originario, eccetera eccetera. Non è un’organizzazione nuova, operava in Iraq prima di chiamare nome e si chiamava Alkaida in Iraq.

Bene, guardiamo invece all’Italia. Abbiamo visto un paese giovane e le pressioni che può avere, però anche i paesi invecchiati hanno qualche problema. Questa è la struttura demografica del nostro paese. Pochi anni fa, nel 2005, e nel 2030, questi sono gli anni: chi ha zero anni, 5 anni, 10 anni, 12, 13, 14 eccetera. Questi sono i numeri fino a un milione; questi sono 300 mila, 400 mila, ecc. ecc. Quindi questa linea vuol dire che a 10 anni ci sono 600 mila italiani che hanno, o avevano pochi anni fa, 10 anni. Allora, sostanzialmente, la distribuzione blu vuol dire che ci sono più giovani che anziani, più o meno due trentenni ogni sessantenne. Bene. Guardate nel 2030, non stiamo parlando del XXII secolo, stiamo parlando tra 15 anni. Nel 2030 sarà l’esatto opposto: ci saranno due sessantenni per ogni trentenne.

Pensate solo in termini di debito pensionistico non espresso, oltre al debito pubblico, quello c’è, è del passato; questo è qualcosa per il futuro; cioè una persona deve pagare contributi per sostenerne due, ed è l’esatto contrario di quanto avvenuto fino adesso. No, potete stare tranquilli perché quella persona, i giovani di oggi, lavorerà a lungo, pagherà tanti contributi, avrà lavori di qualità e quindi sicuramente ci riuscirà, non ci saranno problemi.

Vi faccio vedere ora quanto in questo paese si investe sul futuro, sulla conoscenza. Allora questi sono i dati della proporzione di persone laureate all’OCSE, cioè nell’Occidente, e in Italia per gruppo di età, quindi i giovani, i meno giovani, i quasi vecchietti e i vecchietti. Vedete che su tutte le fasce di età l’Italia laurea più o meno la metà di quelli che laureano, in termini di proporzione, negli altri paesi occidentali. Ovviamente, questo era, anticamente, un deficit grosso su numeri bassi, 11% della popolazione laureata, 23% della popolazione laureata, è migliorato, stiamo laureando e ve lo posso assicurare lo facciamo con gli stessi soldi di prima, per cui facciamo un po’ più di lavoro nel mio mestiere, laureiamo 21% dei giovani di oggi (infatti avrei qualcosa da dire sul fatto che la pubblica amministrazione non lavora), però sono raddoppiati gli altri, dal 20 sono passati al 40%, perché è il mondo che cambia, soprattutto la produzione industriale, quindi il lavoro in fabbrica, che non richiede la laurea, lo si fa in Cina, se si vuole emigrare in Cina si può lavorare in fabbrica, magari a due dollari al giorno, però lì si può lavorare, ma qui da noi no! Quindi il tipo di lavoro di una knowledge economy, un’economia della conoscenza, ma anche solo banalmente nei servizi, richiede qualche conoscenza linguistica.

Una cosa che a me colpisce moltissimo perché io mi sto accorgendo nel mio lavoro quotidiano, scusate se vi dico questi temi ma secondo me hanno un senso, è il fatto che c’è una nuova disuguaglianza in Italia: io non vorrei citare don Milani, ma in Italia non era vero quando veniva detto negli anni Sessanta, ma è vero oggi: si laureano solo i figli dei laureati, siamo andati indietro da questo punto di vista.

Questa è quella che io chiamo la trappola dell’ignoranza: sono i dati, anche qui Italia e OCSE, di chi è figlio di un non laureato, quindi è figlio di genitori con un basso livello di istruzione. Allora, di questi, solo il 9%, oggi nel 2013, non sono dati ottocenteschi, solo il 9% di chi ha genitori con basso livello di istruzione va all’università, a fronte del doppio solito dell’OCSE. Ma è gravissimo perché abbiamo pochi laureati. Cioè, il paradosso qui è che l’OCSE avrebbe meno necessità: già il 40% delle persone sono laureate e che anche i figli del resto vadano a laurearsi è meno importante. Noi che non abbiamo laureati è fondamentale che, oltre che per ragioni di equità sociale, ma anche per ragioni economiche, ci sia un accesso di chi non aveva accesso nelle generazioni precedenti. E, viceversa, questo accesso non c’è.

Da qui nascono queste statistiche allucinanti sul fatto che questi futuri pagatori di pensione stanno a casa per il 68% fino a 30 anni; del resto si sa non trovano lavoro, non si iscrivono all’università, cioè, non hanno figli, non hanno i soldi anche per uscire. Il 46% delle femmine, e qui non sto confrontando con la Siria, sto confrontando con la Germania, la Gran Bretagna, dove il 13 o il 6% delle donne sta a casa. Cioè, ci sono percentuali fisiologiche, chi sta a casa per accudire i genitori, eccetera, ma non c’è questo enorme spreco di risorse, perché questo è uno spreco enorme a partire dal fatto che non pagano contributi. Ma soprattutto in termini del fatto che fanno figli più tardi, escono di casa più tardi, si responsabilizzano più tardi, quindi avranno vite di lavoro brevi, oltre che precarie, brevi. Passeranno da una lunghissima adolescenza, a una breve vita adulta, a una lunghissima vecchiaia, perché le aspettative di vita arrivano a oltre 100 anni.

E questo ha portato a una modifica forte nella distribuzione del reddito in Italia. Del resto, nonostante io non sia per nulla materialista o marxista, però voglio fare una provocazione. Nel 1987 chi aveva meno di 50 anni aveva più ricchezza di chi aveva più di 50 anni, questo è giusto, questa è una situazione normale, chi lavora sta accumulando ricchezza, ed è sensato dal punto di vista capitalistico, cioè sono giovani che investono e quella ricchezza là la usano per comprare casa, per fare figli, mentre chi si avvia verso la vecchiaia tende a conservare di più, a spendere di meno, eccetera, eccetera, ed era una minoranza. Nel 2008 la distribuzione del reddito è ribaltata, la maggioranza della ricchezza in Italia è intestata a persone che hanno più di 50 anni, la minoranza della ricchezza è a chi ha meno di 50 anni. Avendo meno di 50 anni ovviamente mi sento defraudato.

Allora, il mondo sta cambiando in maniera profonda e con esso l’Italia, tanto che appunto stiamo arrivando a toccare il singolo portafoglio del singolo sotto i 50 anni. Io ho 45 anni, ho perso dei soldi. Non sono grandi valori, non c’è bisogno della politica ideologica, ma anche dando per scontato una politica post-ideologica, frantumata in interessi individuali, mi dite chi nel dibattito politico ha parlato di queste cose, dei problemi demografici, dei problemi di distribuzione tra le generazioni, di investimento sull’istruzione? Sapete quanto investe la stato italiano nell’istruzione universitaria? Sette miliardi di euro, il fondo di finanziamento ordinario che è il principale canale di finanziamento sono sette miliardi. Sono molti, sono pochi? Non lo so, fate voi. Sapete quanto spende in un anno l’Università di Harvard che in America è quella che spende più di tutte, ma è un’unica università, 8 mila matricole? Quattro miliardi. Tutte le università italiane messe insieme, sette miliardi. Allora io direi che noi facciamo fatica a crescere e a competere non perché sono speciali i cattivi cinesi ma forse perché abbiamo fatto qualche errore di investimento noi.

Allora, la nostra politica non ha risposto a questo, forse perché era troppo impegnata sul proprio ombelico, italiano e anche europeo. Anche l’Europa ha i problemi dell’euro, eccetera eccetera: Quindi, facciamo fatica ad andare al di là, ed è per questo che ho cercato di darvi delle indicazioni su 200 anni e sull’intero mondo, perché è lì che bisogna guardare, con lo sguardo ampio. Cosa ha fatto la nostra politica?

Questo è, vi assicuro che non è truccato, ci siamo stati sopra un anno, il tentativo sintetico di spiegare il sistema partitico italiano, che è una cosa che per la Germania ci si mette 3 secondi: ci sono democristiani, socialdemocratici e liberali, adesso si sono un po’ complicati con i verdi e altri, bene. Dal 1992 a oggi semplici piani, cioè famiglie politiche nobili, importanti non prendendo proprio in considerazione socialisti, liberali e repubblicani; io prendo in considerazione i tre principali partiti della prima repubblica cosiddetta, MSI, DC, PCI, le due novità della cosiddetta seconda repubblica, Lega Nord e Forza Italia, e ho cercato di seguire, elezione per elezione, come si presentavano alle elezioni, con che simbolo. Questo è il risultato.

Due considerazioni: una ovvia, e cioè che in un paese normale, uno che perde le elezioni cambia leader ma tiene il partito, da noi teniamo i leader e cambiamo i partiti. E questo va bene, nel senso che qui non ci sono vergini, non ci sono vergini, sono tutti reduci. Non c’è uno che non abbia fatti il leader in due o tre partiti diversi, per definizione. E questo forse crea incredibilità di fronte all’opinione pubblica. A parte il contenuto del programma, la credibilità dei contenuti, che secondo me è carente rispetto ai grandi temi globali, c’è proprio un problema di credibilità di chi dirige, del proponente, non solo della proposta.

La seconda considerazione è che, come minimo, la conseguenza di questo è stato un orizzonte breve, i cui ritmi passano dall’imboscata del Senato del 2 ottobre alla formazione di Forza Italia di ieri, di cui tutti stanno parlando: in tre settimane è già cambiato il nuovo governo, cioè siamo fortunati se il governo dura, ci dicono, fino al semestre di presidenza, un anno. Abbiamo votato quest’anno, a febbraio abbiamo votato, e siamo fortunati se dura, per non fare figuracce estreme, fino a dicembre.

Vi ricorderete, prima repubblica un disastro, instabilità cronica. Intanto piano: ci sono due pre-fasi della prima repubblica. Se voi fate il conto dal 1945 al 1968 tre primi ministri hanno governato il 70% del tempo, De Gasperi, Moro, Fanfani; con l’eccezione della seconda legislatura, quella post legge truffa, che rappresenta più o meno il 20-30% di questa cosa qui, hanno avuto certo Moro uno, Moro due, Moro tre, Fanfani uno, Fanfani due… De Gasperi, eccetera, eccetera, quindi c’era una certa instabilità, ma c’era un orizzonte lungo, tre persone in 30 anni.

La cosiddetta seconda repubblica, che era fatta sulla premessa dell’alternanza, del bipolarismo, del maggioritario, della battaglia referendaria, si doveva basare sulla stabilità. Cerchiamo di fare memoria di quanta stabilità c’è stata.

Allora, ha vinto Berlusconi nel ’94, l’han mandato a casa dopo 7 mesi, è arrivato Dini, si è votato nel ’96, è arrivato Prodi. Prodi è andato a casa nel ’98 ed è arrivato D’Alema che ha fatto un paio di governi, ma lo contiamo una volta sola, tranquilli. poi D’Alema si è dimesso alle regionali e hanno messo Amato; Amato non ha corso alle elezioni, e questo non si capisce perché, ed è arrivato un altro signore, che era Berlusconi, che ha vinto e che è durato tutta la legislatura, unico caso da De Gasperi, in cui la legislatura è durata per tutto il tempo con un primo ministro solo. Dopo ha vinto Prodi nel 2006, poi nel 2008 è andato a casa Prodi, è arrivato Berlusconi, dopo Berlusconi è arrivato Monti e dopo Monti è arrivato Letta. Dieci. Se ci aggiungete Ciampi prima, Amato prima, l’unico presidente a vita della Repubblica Andreotti, sono 12, dal 1992 a oggi. Quanti anni sono passati? Venti. Dodici in 20 anni solo in prima repubblica.

Facciamo un confrontello con la Germania, anche qui non con la Cina, partito unico, con la Germania. Sapete quanti cancellieri ci sono stati dal ’92 a oggi? Tre: Merkel, Shroeder, Kohl. Kohl nel ’92 era lì da 10 anni. Questo è l’orizzonte temporale. E allora se uno vuole occuparsi di politica demografica, non ridare, con tutto il rispetto, un po’ di cuneo fiscale indietro, ma ridare speranza ai giovani, una speranza che induca a fare follie, che so: fare un figlio prima dei 30 anni, andare a vivere da solo prima dei 40, allora l’orizzonte lungo a mio avviso sarebbe utile.

E gli italiani se ne stanno accorgendo: le due principali coalizioni, non partiti eh, coalizioni, quindi centro-destra e centro-sinistra, nel 2006, non un’era geologica fa, due elezioni fa, hanno preso 38 milioni di voti; se vi ricorderete ha vinto il centro-sinistra per un soffio, proprio decine di migliaia di voti, quindi erano, ve lo dico, 19 milioni di voti ciascuna delle due coalizioni. Alla elezione non del 2008, quella successiva, centro-sinistra e centro-destra anche lì a una incollatura, ma il voto sommato di queste due (onestamente mi passerete questa cosa, sono le due coalizioni con speranza di formare un governo, le altre sono degnissime tutte però sia il centro che Grillo, non erano voti per contare su una piattaforma di governo), a queste 2 coalizioni nel 2013 sono arrivati 20 milioni di voti. Noi ci facciamo un po’ fuorviare da una cosa importante che sono le percentuali, 33%, 35%, ma se uno va a contare le persone che ci credono, queste persone sono in via di estinzione.

E concludo su un aspetto perché appunto la politica non sta a guardare i problemi sociali, quindi guarda poco al portafoglio degli individui, ai problemi, appunto, su decisioni come fare o meno dei figli, immigrare o rimanere in Italia. Allora, questa è, nelle elezioni del 2013, la composizione sociale delle coalizioni, qui le ho messe tutte invece: Rivoluzione Civile, Centrosinistra, Centrodestra, Centro e Movimento 5 stelle. Operai, impiegati, autonomi, liberi professionisti, studenti, casalinghe, disoccupati, pensionati. Allora, per esempio, noi sapevamo che gli operai erano stati un po’ sedotti da Berlusconi e quindi il 21% vota ancora a sinistra, sommato va beh con il 24% con Rivoluzione Civile, e nel mirino del centrodestra che è in grande spolvero in questa parte d’Italia, la Lombardia, le vecchie roccaforti rosse che sono state conquistate dalla Lega o da Berlusconi. Ma forse qualcuno si è dimenticato di guardare che Grillo prende 4 operai su 10 come voti.

Guardiamo ai lavoratori autonomi: va beh, il centro-sinistra non ne prende tanti, è il partito che lotta contro l’evasione fiscale, insomma, e infatti ne prende tanti Berlusconi; ma forse c’è qualcuno che le paga le tasse ed è assolutamente disperato: il 40% dei lavoratori autonomi vota Grillo. Guardiamo i disoccupati: siamo in crisi e il 20% vota PD o partiti alleati, evidentemente anche SEL, due su dieci. Berlusconi va meglio e Grillo va molto bene. Per chi come me o per chi fra voi ha una sensibilità di centro-sinistra, vi do delle buone notizie, è la granitica tenuta del segmento pensionati al centro-sinistra: 4 pensionati su 10 sono dei nostri e nessuno vota Grillo,.

Evidentemente, questo per dire che la transizione globale di cui ho parlato ha degli effetti inevitabili sull’Italia di cui nessuno parla e forse per questo, anche per questo, porta a delle situazioni di sconcerto e anche di disperazione. La politica, non parlando, non intercetta più quella disperazione perché quella disperazione io la leggo soprattutto nei disoccupati e negli autonomi che devono chiudere l’attività. Questi non votano i partiti tradizionali. Io spero che appunto dopo questa cecità prolungata si cominci a parlare di cose concrete, ad avere uno sguardo grande perché l’Italia è piccolina nel mondo, eravamo più grandi in un mondo piccolo, adesso che il mondo è grande siamo piccoli e quindi non possiamo permetterci di ignorare quello che succede nel resto del mondo.

Quindi bisognerebbe cominciare a riguardare e a dare anche delle risposte, non delle risposte astratte e ideologiche, ma delle risposte che hanno a che vedere appunto con la vita di tutti i giorni

Ed è con questa speranza che vi ringrazio.

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