Il paese unito

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Giovanni BianchiIl 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino votò la legge con cui veniva conferito a Vittorio Emanuele II di Savoia il titolo di Re d’Italia: in tal modo, con la nascita del nuovo soggetto istituzionale, veniva messo un sigillo di ufficialità alla progressiva annessione al Regno di Sardegna degli Stati preesistenti sul territorio della penisola italiana ottenuta tramite guerre, sommosse popolari e plebisciti. Rimanevano al momento esclusi dal nuovo Regno il Triveneto, ancora sottoposto ad occupazione austriaca, e Roma ed il Lazio, soggetti alla sovranità pontificia.

Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale, che si sarebbe completata solo nel 1918 con l’annessione di Trento e Trieste a seguito della Prima guerra mondiale, è divenuto elemento di discussione e di divisione, anche se è quasi impossibile comprendere dove ed in che misura la polemica storiografica si intrecci con la propaganda politica spicciola – ed un po’meschina.

Naturalmente è vero che l’Italia intesa come nazione precede da molti secoli l’esistenza dello Stato italiano, ed è altrettanto vero che questa unità è determinata da elementi culturali, linguistici, religiosi, che determinano l’esistenza di un patrimonio comune che ha potuto far sì che gli stranieri percepissero l’Italia, pur nelle sue radicate diversità, come un insieme prima ancora che l’idea nazionale si affacciasse come conseguenza della Rivoluzione francese e della volontà di riscatto dei popoli (o delle loro classi borghesi ed intellettuali, che in un’epoca di analfabetismo diffuso svolgevano il ruolo quasi naturale di coscienza pubblica) rispetto a retaggi di un passato remoto che le Potenze che avevano sconfitto Napoleone avevano preteso imporre ai popoli d’ Europa come se le novità indotte dal passaggio del grande Imperatore – ne fosse egli consapevole o meno- non si fossero sedimentate nei cuori e nelle menti delle  migliori intelligenze del Continente.

D’altro canto, continuare ad insistere sugli errori, sulle prevaricazioni e anche sugli autentici crimini che vennero commessi per arrivare alla costituzione dello Stato unitario giova veramente a poco, solo che consideri che tutti i principali Stati europei si costituirono a seguito di guerre civili, stragi, pulizie etniche e persecuzioni religiose, e che anche l’ultimo Stato unitario d’ Europa, la Germania, più giovane di nove anni del nostro, ebbe vita grazie all’iniziativa di una monarchia guerriera, quella prussiana, contro tutte le resistenze interne ed esterne.

Altrettanto scettici lasciano le presunte “nostalgie” per gli Stati pre – unitari che si affermano qua e là, e che non potendo essere nostalgie vere e proprie (si può avere nostalgia solo di quello che si è sperimentato di persona, e non esistono persone  oggi viventi che possano dire di essere state effettivamente suddite dell’Austria-Ungheria o del Regno delle Due Sicilie) appaiono più che altro argomenti di dialettica politica, o di vera e propria mitologia, declinati su di un localismo deteriore, visto che in genere i portatori delle istanze di popoli conculcati dall’occupazione “piemontese” sono anche portatori di sostanziose note spese che chiedono all’odiato Stato centralista di saldare pronta cassa, come dimostrano  certe non edificanti vicende del nostro regionalismo autonomo.

Più realistico e costruttivo appare l’atteggiamento della Gerarchia ecclesiastica, che pur avendo a suo tempo avversato un percorso di unificazione nazionale che si affermava spesso con le armi di uno schietto anticlericalismo e che ebbe il suo culmine nella chiusura del potere temporale dei Pontefici, valuta oggi l’unità d’Italia come un valore da preservare e difendere, riconoscendo altresì, come fece Paolo VI nel centenario di Porta Pia, che quell’importante evento aveva anche liberato la Chiesa da un compito non suo, quello appunto dell’esercizio del potere temporale, contribuendo al suo percorso di purificazione.

Certamente alcune delle modalità con cui si giunse all’unificazione nazionale hanno ancora oggi delle conseguenze sul concreto assetto politico economico ed amministrativo del nostro Paese, a partire dalla dialettica fra potere centrale e potere locale. Più volte nel corso degli ultimi anni si è lamentato che l’opzione federalista sostenuta energicamente da Carlo Cattaneo sia stata sconfitta a beneficio del modello unitario del Regno di Sardegna che a sua volta faceva riferimento al centralismo di impronta francese. E tuttavia, il pensiero politico di Cattaneo aveva un’impostazione, prima ancora che federalista, rigorosamente repubblicana (più ancora di quella di Mazzini, che peraltro era anche lui antifederalista), nel senso che presupponeva l’abbattimento di tutte le monarchie assolute, con la costituzione di Repubbliche democratiche che dessero vita ad un governo di tipo confederale sul modello, da lui  molto ammirato, della Svizzera.

Nelle condizioni oggettivamente date, anche per l’impossibilità di una realizzazione dello Stato unitario che fosse espressione di un moto unicamente interno e di matrice popolare, l’opzione monarchica e centralista risultò prevalente. Del resto, lo stesso Cavour, nel brevissimo periodo che trascorse alla guida del Governo del nuovo Regno – dal 17 marzo 1861 fino al 6 giugno di quello stesso anno, quando improvvisamente morì- si pose il problema di una nuova organizzazione dei poteri locali , attraverso il progetto di legge del ministro degli Interni Marco Minghetti che mirava a mantenere al Governo centrale le leve di politica generale, estera, militare e finanziaria, decentrando a nuovi organismi su base regionale la quasi totalità delle competenze dei ministeri dell’Agricoltura, del Commercio e della Marina. Il progetto fallì per una serie di motivi, non ultima la difficoltà crescente nella gestione dell’ordine pubblico nelle province meridionali, che rendeva rischioso, agli occhi del Governo di Torino, costituire Enti autonomi come le Regioni che potevano essere il prodromo di una nuova divisione di ciò che con grande fatica era appena stato unificato.

Naturalmente questo non giustifica gli errori che vennero commessi nella gestione della costruzione amministrativa dello Stato unitario, ma spiega semmai come la storia successiva del nostro Paese sia stata condotta nel senso di una progressiva rivendicazione di spazi e di competenze da parte degli Enti territoriali, che in pari tempo però li riconduce all’interno della cornice unitaria essendo stata mancata al momento della creazione dello Stato italiano l’opportunità federalista nel senso classico.

Le modalità di realizzazione del progetto unitario sono stata sottoposte a critiche spesso acuminate, nel corso di questi centocinquant’anni, da parte di storici, economisti, sociologi, esponenti politici e finanche importanti scrittori (da Fogazzaro a De Roberto a Tomasi di Lampedusa), e molti degli aspetti evidenziati da questi autori sono oggetto di discussione tuttora.

Ciò non toglie tuttavia che la costituzione dello Stato unitario debba essere considerata come un bene in sé, in quanto tolse gli Italiani dalla loro dimensione provinciale, li aprì alle correnti del pensiero moderno, li rese consapevoli di un destino comune e liberò la Penisola da ogni forma di dominazione straniera.

L’ unità nazionale è allo stesso tempo il presupposto ed il primo dei quattro pilastri su cui si regge la nostra convivenza civile, gli altri tre essendo la Resistenza antifascista, la Repubblica e la Costituzione. Ogni attentato contro uno di questi pilastri è, in senso lato, un attentato contro l’Italia, e la forma attuale del patriottismo , come ci hanno insegnato i Presidenti Scalfaro, Ciampi e Napolitano, non può che essere quella di un patriottismo fondato sulla Costituzione, il documento fondamentale che riassume in sé i valori che ci rendono orgogliosi di essere Italiani.

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