Il vero contributo politico dei credenti

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Giovanni BianchiLa questione del bene comune informa di sé l’insegnamento della Chiesa in materia sociale forse prima ancora che esistesse, o si affermasse l’ esistenza, di una dottrina sociale della Chiesa. Lo stesso Aquinate, nel suo De regimine principum dedicato al Re Santo Luigi affermava sostanzialmente che nessun potere può considerarsi legittimo e benedetto da Dio se non è orientato al bene complessivo del corpo sociale, escludendo quindi il diritto di sangue e di stirpe.

In epoca più tarda teologi domenicani come Vitoria e gesuiti come Molina affermarono in sostanza il diritto del popolo a ribellarsi a sovrani che non garantissero al popolo i diritti innati stabiliti da Dio.

Nel nostro secolo la riflessione più penetrante non tanto sul bene comune inteso in termini astratti ma su di una società orientata nella direzione del bene comune è stata propria dei filosofi personalisti e comunitari, da Maritain a Mounier, che hanno cercato di superare la dimensione confessionale di tale bene comune per ricondurla ad una in cui potessero riconoscersi anche persone diversamente credenti rispetto ai cristiani.

In Mounier ad esempio (di cui sta per terminare l’ anno centenario della nascita) ciò è particolarmente evidente soprattutto nella definizione dell’ aggettivo “comunitario” che egli pone come necessario completamento dell’ istanza personalista : indubbiamente vi è un’ influenza di un pensiero già esistente, non solo in ambito cattolico, dove del resto vi è la riflessione dei domenicani della famosa comunità del Saulchoir, a partire da Marie – Dominique Chenu (che collaborerà con Mounier alla scuola di Uriage e che nel dopoguerra scriverà su “Esprit”), sulle implicazioni comunitarie del pensiero tomista, come pure alle riflessioni di filosofi come Scheler e di sociologi come Tonnies, al quale si deve la fondamentale distinzione fraGesellschaft (società) e Gemeinschaft (comunità), che verrà fatta propria dai personalisti i quali daranno rilievo alla particolare valenza umana dei rapporti intessuti nella seconda a fronte degli scambi formali in cui si sostanzia la prima.

Al di là di questo, il pensiero di Mounier si esprime nella sua originalità attraverso la definizione della comunità personalista come  il luogo in cui “ognuno si realizzerebbe nella totalità di una vocazione continuamente feconda e la comunione dell’ insieme sarebbe una risultante viva dei traguardi del singolo”. In questo senso, come si vede, la comunità è la risultante dell’ insieme delle aspirazioni e delle idealità personali (una “persona di persone”, come si sarebbe espresso lo stesso Mounier) che è al vertice di tutte le altre forme di vita associata umana, e che in qualche misura le trascende non essendo basata né sul consenso amorfo delle masse né sugli interessi di ordine materiale delle società economiche o la ristretta dimensione ideologica delle società politiche o culturali.

Nella concezione personalista lo Stato perde la funzione hegeliana di persona collettiva per assumere funzioni di servizio rispetto alla persona umana e ai “mondi vitali” in cui essa esplica in modo più ampio la propria personalità (un simile concetto,a riprova di quanto queste idee fossero diffuse nell’ intellettualità italiana, informa di sé l’ art.2 della Costituzione della Repubblica italiana), le quali, a partire dalla famiglia, vengono considerate preesistenti e quindi dotate di diritti originari rispetto allo Stato stesso. In questo senso, le funzioni dello Stato inteso nella sua dimensione procedurale vengono ridimensionate a beneficio dei corpi intermedi i quali hanno la capacità di esprimersi direttamente nell’ agire politico anche a scapito delle forme della rappresentanza democratica.

Sta qui, in effetti, uno dei luoghi topici della critica a Mounier da parte di autori di diversa ispirazione e che più avanti esamineremo: l’ indifferenza, che alcuno addirittura tramutano in avversione, nei confronti della democrazia liberale e delle sue procedure. Ora, che da parte di tutto il movimento personalista vi fosse un atteggiamento insofferente e critico nei confronti dei meccanismi di una democrazia bloccata e priva di idealità è un dato di fatto, ma non necessariamente la critica della democrazia procedurale diventa critica della democrazia pura e semplice. Come è stato autorevolmente rilevato dall’ allora Cardinale Ratzinger nel famoso dibattito con Habermas a Monaco di Baviera: “Per il processo decisorio democratico rimangono come strumento indispensabile esclusivamente la delega della rappresentanza da un lato e la decisione della maggioranza dall’ altro (…) Anche le maggioranze, però, possono essere cieche o ingiuste. La storia lo dimostra in modo più che evidente: quando una maggioranza – per quanto preponderante- opprime con norme persecutorie una minoranza, per esempio religiosa o etnica, si può parlare ancora di giustizia o di diritto? Il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione dei fondamenti etici della legge: la questione se non esista qualcosa che non può mai diventare legittimo, qualcosa dunque che di per sé rimane sempre un’ ingiustizia, oppure al contrario anche qualcosa che per sua natura è legge immutabile, a prescindere da ogni decisione della maggioranza, e che da essa deve essere rispettata”.

Per Mounier era evidente la non reversibilità del processo di superamento delle forme tradizionali di cristianità: d’ altro canto, una figura centrale nella vita del cattolicesimo francese come l’ arcivescovo di Parigi cardinale Emmanuel Suhard non aveva avuto paura di tematizzare, in una famosa lettera pastorale per la Quaresima 1947, se ci si trovasse di fronte al declino della Chiesa o se non ci si trovasse di fronte alla opportunità di un nuovo slancio.

Mounier consentiva con questa impostazione, e per lui era chiaro che tale opportunità potesse esser perseguita solo a condizione che si avesse il coraggio di guardare la realtà sociale e culturale per quello che era, senza alimentare nostalgie tanto più dannose in quanto rischiavano di schiacciare la comunità ecclesiale a difesa di interessi contingenti.

Dunque il cristiano deve ritrarsi dal mondo? O, peggio ancora, il cristiano deve imparare dalla logica mondana? No, senz’ altro: piuttosto egli ha un compito più complesso, ed insieme semplice, quello di portare al mondo il Vangelo e nient’ altro che questo, prendendo atto dell’ estinzione del modello storico della cristianità e sostituendo alla logica delle moltitudini quella dei piccoli gruppi, dei foyers (in italiano,l’ abbiamo già visto, si tradurrebbe “focolai”, ma l’ espressione ha un senso più ampio, perché implica sia un luogo in cui ci si ritrova ma anche uno da cui si riparte) che potessero essere dei luoghi di semina del Vangelo in cui i credenti, nell’ attuare la loro vita di fede e di Chiesa, possano esercitare un influsso benefico sulla vita sociale seguendo l’ esempio dei monaci benedettini nei secoli bui.

Come ha annotato recentemente uno storico della Chiesa, don Saverio Xeres, Mounier considera “ come l’ agonia (nel senso di lotta) nel cristianesimo debba attuarsi non nell’ istituire e mantenere un ordine sociale, quanto nel proporre il Vangelo ‘nella sua nudità’. D’ altra parte, la teorizzata sintesi tra cristianesimo e società occidentale non si è mai veramente realizzata o soltanto in modo episodico; il che, più a fondo, significa che essa non è forma né essenziale né originaria del cristianesimo”.

Non solo Mounier quindi si colloca come precursore del rinnovamento indotto dal Concilio Vaticano II, ma consapevolmente, in anni in cui il tema della “teologia del laicato” era ancora informe, assume posizione a favore di una “fede adulta” da viversi in pienezza di responsabilità e di condivisione con tutti, assumendo in prima persona i rischi connessi ad una società complessa in cui il trapasso fra la “vecchia” e la “nuova” cristianità rimane indeterminato.

Mi pare che tale interpretazione del Concilio concordi nella sostanza con quella proposta da Benedetto XVI nel famoso discorso alla Curia romana per il Natale 2005, quella “ermeneutica della riforma” che, senza voler togliere nulla ai principi di fondo, afferma di fatto essersi aperta una fase non ancora conclusa di ricerca di una nuova sintesi nei rapporti fra la Chiesa e la modernità, con il riconoscimento del ruolo degli statisti cattolici nella costruzione di uno “Stato moderno, laico,che tuttavia non è neutro riguardo ai valori”, con una Chiesa che riscopre pienamente se stessa e il suo messaggio di fondo attraverso il superamento di forme transeunti, che rispetta la politica ma si rifiuta di sacrificare a Cesare come se fosse Dio (ed un qualche Cesare che coltiva questa particolare ambizione  c’ è sempre), e che soprattutto non vuol rinunciare all’ annuncio cristiano come al “segno di contraddizione” piantato nel cuore del mondo come una croce fu piantata in una collina alle porte di Gerusalemme.

C’entra tutto questo con l’attualità? Sì, nel senso che il chiacchiericcio su nuovi “codici di Camaldoli” e “ partiti cattolici” ed altre consimili amenità avrebbe un serio fondamento se partisse esattamente da qui, e non dalle preoccupazioni contingenti di un personale politico, ecclesiastico e associativo costantemente ripiegato sull’attualità e troppo incline alla logica dell’autoreferenzialità.

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