L’Europa nostra patria: un rinnovato progetto di buona politica

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Lunedì 12 maggio ore 17.30 – Milano, salone delle ACLI via della Signora, 3

Guido Formigoni, coordinatore di “c3dem” ha illustrato à il documento, Giovanni Bianchi e Franco Totaro lo hanno discusso.

Il gruppo delle associazioni di cultura politica di radice cattolica che si riuniscono nella rete “c3dem” (costituzione, concilio, cittadinanza), in vista delle elezioni europee, ha espresso un documento programmatico. D’intesa coi “c3dem”, i cattolici democratici lombardi promuovono la presentazione del documento.

L'Europa nostra patria: un rinnovato progetto di buona politica

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Laboratorio C3dem

L’Europa nostra patria: un nuovo progetto di buona politica comune

  1. Il progetto di integrazione europea rimane l’unica possibile salvezza del Vecchio continente, nella stagione della globalizzazione e della crisi della politica moderna, a fronte del rischio di invecchiamento e di impoverimento della società europea, contemporaneamente a quello di marginalizzazione economica e politica internazionale dei vecchi Stati e dei popoli dell’Europa. Il progetto europeo ha salvato la pace di un continente che si era lacerato in un trentennio di «guerra civile» distruttiva e ha accompagnato lo sviluppo e l’avvicinamento dei diversi popoli europei. Appare assolutamente dirimente ricordarlo, proprio a cent’anni dallo scoppio dell’«inutile strage» (come la definì Benedetto XV). Ora, questo progetto resta l’unica possibilità di futuro, in un mondo in cui giganti politici come Cina o Stati Uniti condizionano sempre di più la pretesa asettica libertà economica del mercato globale. In un mondo, per giunta,  in cui la crisi economica divenuta stagnazione strutturale mostra che il rapporto tra politica, economia e finanza va profondamente mutato. La crisi ha caratteri drammatici e chiede «più politica», proprio in tempi di «antipolitica» dilagante. Perché questo salto in avanti della politica sia buono, occorre verificarla continuamente e misurarla sugli obiettivi e sui metodi. E l’impressione è che a livello nazionale sia ormai difficilissimo farlo: a livello europeo si può intravedere lo spazio dell’innovazione.
  2. Questa fiducia si scontra con il paradosso dell’attuale crescita di sentimenti e posizioni antieuropee. Occorre a nostro parere prendere sul serio le obiezioni che circolano. Si parla di squilibri tra i diversi settori, di egemonia di alcuni Stati su altri, di eccesso di burocrazia, di una regolamentazione eccessiva, di carenza di democrazia, di vincoli eccessivi della moneta unica. E’ certo che l’attuale struttura dell’Unione sia riformabile, ma queste critiche sono in parte frutto di opinioni errate o almeno forzate: ad esempio, non si può criticare la tecnocrazia di Bruxelles quando sono spesso i governi nazionali a frenare; oppure non si può sostenere che ci sia l’egemonia di alcuni Stati se gli altri sono assenti o silenti nel processo decisionale; non è vero che l’Europa serva a sprecare soldi degli Stati virtuosi verso i lassisti del Mediterraneo, come non è vero che l’Europa è la causa dei mali di chi si trova con bilanci fuori controllo e alta disoccupazione: piuttosto c’è un interesse comune degli uni e degli altri a trovare formule di Europa forte; non si può  pensare che la superiorità della legge europea su quella nazionale sia frutto di un caso perverso, quando è stata decisa proprio per salvare i governi democratici dal caos; non si può temere il «super-Stato» europeo quando in tempi di crisi tutti chiedono più tutele agli Stati; non si può credere al mantra dell’Europa subalterna alle banche, quando l’unica forma di regolamentazione efficace delle banche sta venendo dall’Europa; non si può pensare che sia possibile «uscire dall’euro» senza costi e rilanciare così l’economia nazionale, sottovalutando il dramma dell’isolamento e della distruzione di risparmi e ricchezza che questa scelta comporterebbe. Se queste polemiche appaiono quindi infondate, altre critiche possono essere più ragionevoli e addirittura necessarie, ma non portano a chiedere «meno Europa», quanto piuttosto «una diversa Europa», con istituzioni rappresentative e capaci di decidere,  oltre che con più convinzione della solidarietà nell’ interesse comune.
  3. L’Unione europea che oggi conosciamo è frutto di un cammino i cui promotori hanno sostenuto che un accrescimento progressivo delle competenze avrebbe portato quasi insensibilmente a una vera unione politica (era la tesi dei «funzionalisti»). L’ultimo passaggio è stata la moneta unica: cedere questo potere da parte degli Stati avrebbe di fatto realizzato una nuova sovranità europea. Oggi questa promessa non ci sembra credibile, perché siamo arrivati a un processo istituzionale molto elaborato, ma la volontà politica comune è lontana e l’Euro stesso soffre di questi limiti. Anche a questo proposito però c’è un paradosso: qualsiasi strada che appaia più democratica è bloccata dalle paure rispetto a processi di legittimazione complicati e incerti (i referendum su un «salto di qualità costituente» in alcuni paesi sarebbero difficili da vincere). Noi però continuiamo a credere che l’obiettivo finale dovrà essere una unione politica federale europea. Senza una coesione politica, l’Europa resterà sempre monca e incompleta. Il problema arduo è come arrivarci. Per ora, in mancanza di alternative più credibili, sembra necessario utilizzare gli spiragli che esistono già nelle attuali istituzioni. Ad esempio, già le nuove regole del Trattato di Lisbona chiedono al Consiglio europeo (capi di governo) di indicare la presidenza della commissione «tenendo conto» del risultato elettorale delle elezioni del parlamento, il quale dovrà poi anche votare la commissione. Sono tutti passi democratici inediti, che vanno nella direzione dell’unione politica che vogliamo.
  4. Allora, prendiamo sul serio le elezioni di parlamento del 25 maggio. Non si tratta di un rito stanco per creare un’istituzione debole. La posta in gioco sullo sfondo di queste elezioni è invece alta e significativa. I risultati elettorali (quanti cittadini voteranno, quali forze politiche avranno la maggioranza) possono essere significativi almeno su tre fronti diversi.
    1. Superare l’austerità. L’azione coraggiosa della Bce per ora ha salvato l’Euro, ma agendo al limite dei trattati. L’Euro finora ha funzionato come vincolo di controllo alle politiche di bilancio sane e stabili (partendo dai parametri di Maastricht fino all’ancor più rigido fiscal compact che impone la riduzione progressiva dei debiti a chi supera il tetto del 60% sul Pil). Tali istanze hanno una loro giustificazione, ma se sono proseguite senza criterio in tempi di recessione, diventano strumenti di un circolo vizioso depressivo dell’economia. Se tutti tagliano la spesa pubblica, il reddito crolla e il debito, in rapporto al Pil, non può scendere. Occorre ora sperimentare tutte le caratteristiche dell’Euro come elemento di una forte sovranità europea. Proprio l’esistenza di una grande e solida moneta riconosciuta in tutto il mondo può dare spazio per politiche espansive (come hanno fatto, ciascuno a suo modo, Stati Uniti, Giappone e Cina). Occorre quindi accompagnare una autonomia maggiore per l’Eurozona rispetto i paesi dell’Europa a 28 non aderenti alla moneta unica (il che è già una prospettiva aperta dal consiglio europeo alla fine 2013). E indirizzare questa autonomia verso un vero e proprio new deal europeo. Il che significa accrescere il bilancio dell’Unione con altre risorse proprie, raccogliere maggiori finanziamenti sui mercati con gli Eurobond, tassare le transazioni finanziarie speculative (una Tobin tax europea non deprimerebbe l’economia reale e raccoglierebbe notevoli fondi anche con aliquote minime) e lanciare un piano di investimenti selettivi per una crescita sostenibile dell’economia del continente. Questa strategia deve diventare l’altra faccia del controllo di bilancio rafforzato e del fiscal compact. E’ interessante in questa direzione l’ “Iniziativa dei cittadini europei” (Ice) che è stata proposta da alcuni organismi della società civile: se essa raggiungerà un numero di firme sufficiente, potrà essere un fattore nelle istituzioni.
    2. Rilanciare il modello sociale europeo. Occorre affrontare in modo creativo la tendenza all’invecchiamento delle popolazione e gli effetti di una struttura economica meno flessibile rispetto ad altre parti del mondo. Se ci faremo bloccare accettando semplicemente di regredire sul livello del Welfare, perderemo quell’originalità europea che storicamente ci è stata invidiata, che è sostanzialmente riuscita a «quadrare il cerchio» tra dinamicità economica e protezione sociale. Nella dinamica della globalizzazione, questo rilancio è impossibile su scala nazionale. Il Consiglio europeo di ottobre 2014 è già stato programmato su questi temi (e quindi anche la presidenza italiana del semestre prossimo potrà svolgere un ruolo importante nel prepararlo). L’Europa è stata troppo subalterna alla logica della finanziarizzazione e al ciclo politico neoliberista globale, mentre ha conosciuto anch’essa una divaricazione crescente dei redditi e dei patrimoni che è deleteria per l’economia e per la società: oggi ha il compito di vincolare finalmente gli strumenti finanziari e riprendere il solco della sobrietà, della ponderazione, della concertazione, della solidarietà sociale, della integrazione ordinata degli stranieri. L’Europa sociale non può che prendere forma attraverso un’ampia consultazione delle realtà vive delle diverse società, concordando modelli il più possibili comuni e convergenti. Il Welfare non può infatti sopravvivere solo in alcuni Stati mentre altri fanno competizione riducendo i loro costi, mentre la cittadinanza e i diritti – anche dei cittadini di nuova immigrazione – non possono sopportare condizioni troppo divaricate. Non neghiamo che si debbano ridiscutere i privilegi, ma la cosa più importante è investire coraggiosamente sul futuro: saranno i «paesi emergenti» ad avvicinarsi a noi (e non il contrario), se saremo in grado di presentare la credibilità e la sostenibilità di un sistema europeo di Welfare moderno.
    3. Affermare un nuovo protagonismo europeo nel mondo. L’Europa che in passato aveva unificato il mondo con lo slancio dell’economia e anche con la pressione imperialistica, oggi è di fronte al dilemma tra una crescente impotenza e la costruzione di un modello nuovo di «potenza civile». Per scioglierlo, occorre decisione e creatività. Si dovrebbe utilizzare sempre più nelle relazioni internazionali il modello cooperativo imparato dalle democrazie, attraverso la composizione degli interessi e non l’imposizione di forme egemoniche. Si tratta di un modello che non può che tornare a valorizzare la cornice dell’Onu, dopo il discredito degli ultimi anni. Occorre poi imparare dagli errori – si pensi alla storia dei Balcani nel decennio ’90, al Medio Oriente, alle vicende delle primavere arabe – e soprattutto superare le tentazioni dell’azione in ordine sparso da parte dei singoli Stati verso il mondo extra-europeo in una logica bilaterale perdente. Non ci sono più «grandi potenze» che possono ragionare come i vecchi paesi coloniali. Non basta cercare clientes, o limitarsi a esultare per le rivolte che facciano cadere regimi autoritari: per consolidare nuove democrazie occorre monitorare e accompagnare i processi, affiancarli con saggezza e sostegni economici, perché abbiano sbocchi positivi e fecondi. I casi aperti sono ancora molti, dal Mediterraneo all’Ucraina (in molte situazioni dove il nazionalismo è un pericolo da controllare). Ma tutto il mondo africano è ad esempio naturalmente portato a guardare all’Ue con una speranza che non va tradita.
  5. Resta infine aperto un problema culturale e comunicativo: l’Europa non è un dato di fatto, perché gli effetti del passato pluralistico sono ancora forti. Non c’è un unico popolo (demos) europeo consegnato dal passato, non c’è lingua comune né storia comune (anzi, la storia è spesso un elemento divisivo se non rielaborato appropriatamente). L’Europa è irriducibilmente plurale e non può che emergere unitariamente che come progetto in cui le diversità si mettono assieme. Questo comporta anche sul piano religioso, che ci sta a cuore, pensare l’Europa come frutto dell’eredità di grandi religioni, in primo luogo naturalmente il cristianesimo, ma anche come costruzione segnata intimamente dalla laicità. Intesa come metodo di convivenza alta e feconda, nella fraternità e nel dialogo, tra religioni, filosofie, convinzioni diverse. Da cattolici democratici, questo ci stimola a trovare modo di investire la fede nella ricerca comune di una approssimazione sempre più forte ai valori profondi dell’umanità europea e mondiale. L’Europa può quindi vivere solo come progetto, che si deve alimentare continuamente, ma è comunque un itinerario obbligato entro un progetto storico di pace e fratellanza. L’obiettivo comune sta nel futuro, ma deve essere raccontato come capace di creare identificazione e coinvolgimento nel presente. Per rilanciare l’Europa dobbiamo costruire una presentazione del progetto europeo che sia realistico nel suo procedere, sostenibile tecnicamente e al tempo stesso convincente in democrazia (cioè capace di costruire consenso). Occorre tutti portare il proprio contributo in questo cantiere aperto di nuova e buona politica.

20 aprile 2014

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L’Europa nostra patria: un rinnovato progetto di buona politica comune

Un appello della rete «Costituzione, concilio cittadinanza»

  1. Il progetto di integrazione europea rimane l’unica possibile salvezza del Vecchio continente, nella stagione della globalizzazione e della crisi della politica moderna, a fronte del rischio di invecchiamento e di impoverimento della società europea, contemporaneamente a quello di marginalizzazione economica e politica internazionale dei vecchi Stati e dei popoli dell’Europa. Il progetto europeo ha salvato la pace di un continente che si era lacerato in un trentennio di «guerra civile» distruttiva e ha accompagnato lo sviluppo e l’avvicinamento dei diversi popoli europei. Appare assolutamente dirimente ricordarlo oggi, proprio a cent’anni dallo scoppio dell’«inutile strage» della prima guerra mondiale (come la definì Benedetto XV). Ora, questo progetto resta l’unica possibilità di futuro, in un mondo in cui giganti politici come Cina o Stati Uniti condizionano sempre di più la pretesa asettica libertà economica del mercato globale. In un mondo, per giunta, in cui la crisi economica divenuta stagnazione strutturale mostra che il rapporto tra politica, economia e finanza va profondamente mutato. La crisi ha caratteri drammatici e chiede «più politica», proprio in tempi di «antipolitica» dilagante. Perché questo salto in avanti della politica ci sia – e sia anche positivo – occorre verificarla continuamente e misurarla sugli obiettivi e sui metodi. A livello nazionale è ormai difficilissimo trovare modo di cambiare: a livello europeo si può invece intravedere uno spiraglio per l’innovazione.
  2. Questa fiducia si scontra con il paradosso dell’attuale crescita di sentimenti e posizioni antieuropee. Occorre a nostro parere prendere sul serio le obiezioni che circolano. Si parla di squilibri tra i diversi settori, di egemonia di alcuni Stati su altri, di eccesso di burocrazia, di una regolamentazione eccessiva, di carenza di democrazia, di vincoli eccessivi della moneta unica. E’ certo che l’attuale struttura dell’Unione sia riformabile, ma queste critiche sono in parte frutto di opinioni errate o almeno forzate: ad esempio, non si può criticare la tecnocrazia di Bruxelles quando sono spesso i governi nazionali a frenare; oppure non si può sostenere che ci sia l’egemonia di alcuni Stati se gli altri sono assenti o silenti nel processo decisionale; non è vero che l’Europa serva a sprecare soldi degli Stati virtuosi verso i lassisti del Mediterraneo, come non è vero che l’Europa è la causa dei mali di chi si trova con bilanci fuori controllo e alta disoccupazione: piuttosto c’è un interesse comune degli uni e degli altri a trovare formule di Europa forte; non si può pensare che la superiorità della legge europea su quella nazionale sia frutto di un caso perverso, quando è stata decisa proprio per salvare i governi democratici dal caos; non si può temere il «super-Stato» europeo quando in tempi di crisi tutti chiedono più tutele agli Stati; non si può credere al mantra dell’Europa subalterna alle banche, quando l’unica forma di regolamentazione efficace delle banche sta venendo dall’Europa; non si può pensare che sia possibile «uscire dall’euro» senza costi e rilanciare così l’economia nazionale, sottovalutando il dramma dell’isolamento e della distruzione di risparmi e ricchezza che questa scelta comporterebbe. Se queste polemiche appaiono quindi infondate, altre critiche possono essere più ragionevoli e addirittura necessarie, ma non portano a chiedere «meno Europa», quanto piuttosto «una diversa Europa», con istituzioni rappresentative e capaci di decidere, oltre che con più convinzione della solidarietà nell’ interesse comune.
  3. L’Unione europea che oggi conosciamo è frutto di un cammino i cui promotori hanno sostenuto che un accrescimento progressivo delle competenze avrebbe portato quasi insensibilmente a una vera unione politica (era la tesi dei «funzionalisti»). L’ultimo passaggio è stata la moneta unica: cedere questo potere da parte degli Stati avrebbe di fatto realizzato una nuova sovranità europea. Oggi questa promessa non ci sembra credibile, perché siamo arrivati a un processo istituzionale molto elaborato, ma la volontà politica comune è lontana e l’Euro stesso soffre di questi limiti. Anche a questo proposito però c’è un paradosso: qualsiasi strada che appaia più democratica è bloccata dalle paure rispetto a processi di legittimazione complicati e incerti (i referendum su un «salto di qualità costituente» in alcuni paesi sarebbero difficili da vincere). Noi però continuiamo a credere che l’obiettivo finale dovrà essere una unione politica federale europea. Senza una coesione politica, l’Europa resterà sempre monca e incompleta: il problema arduo è come arrivarci. Per ora, in mancanza di alternative più credibili, sembra necessario utilizzare gli spiragli che esistono già nelle attuali istituzioni. Ad esempio, già le nuove regole del Trattato di Lisbona chiedono al Consiglio europeo (dei capi di governo) di indicare la presidenza della commissione «tenendo conto» del risultato elettorale delle elezioni del parlamento, il quale dovrà poi anche votare la commissione. Sono tutti passaggi democratici inediti, che vanno nella direzione dell’unione politica che vogliamo e quindi vanno valorizzati.
  4. Allora, prendiamo sul serio le elezioni di parlamento del 25 maggio. Non si tratta di un rito stanco per creare un’istituzione debole. La posta in gioco sullo sfondo di queste elezioni è invece alta e significativa. I risultati elettorali (quanti cittadini voteranno, quali forze politiche avranno la maggioranza) possono essere significativi almeno su tre fronti diversi.
    1. Superare l’austerità. L’azione coraggiosa della Bce per ora ha salvato l’Euro, ma agendo al limite dei trattati. L’Euro finora ha funzionato soprattutto come vincolo di controllo per politiche di bilancio sane e stabili (partendo dai «parametri di Maastricht» fino all’ancor più rigido fiscal compact, che impone la riduzione progressiva dei debiti a chi supera il tetto del 60% sul Pil). Tali istanze hanno una loro giustificazione, ma se sono proseguite senza criterio in tempi di recessione, diventano strumenti di un circolo vizioso depressivo dell’economia. Se tutti tagliano la spesa pubblica, il reddito crolla e il debito, in rapporto al Pil, non può scendere. Occorre ora sperimentare tutte le caratteristiche dell’Euro come elemento di una forte sovranità europea. Proprio l’esistenza di una grande e solida moneta riconosciuta in tutto il mondo può dare spazio per politiche espansive (come hanno fatto, ciascuno a suo modo, Stati Uniti, Giappone e Cina). Occorre quindi costruire un’autonomia maggiore per l’Eurozona all’interno dell’Unione (il che è già una prospettiva aperta dal consiglio europeo alla fine 2013). E indirizzare coscientemente questa autonomia verso un vero e proprio new deal europeo. Il che significa accrescere il bilancio comune con altre risorse proprie, raccogliere maggiori finanziamenti sui mercati con gli Eurobond, tassare le transazioni finanziarie speculative (una Tobin tax europea non deprimerebbe l’economia reale e raccoglierebbe notevoli fondi, anche con aliquote minime). Lanciare quindi con queste risorse un piano di investimenti selettivi per una crescita sostenibile dell’economia del continente. Questa strategia deve diventare l’altra faccia del controllo di bilancio rafforzato e del fiscal compact. E’ interessante in questa direzione l’ “Iniziativa dei cittadini europei” (Ice) che è stata proposta da alcuni organismi della società civile: se essa raggiungerà un numero di firme sufficiente, potrà essere un fattore di pressione nelle istituzioni.
    2. Rilanciare il modello sociale europeo. Occorre affrontare in modo creativo la tendenza all’invecchiamento delle popolazione e gli effetti di una struttura economica meno flessibile rispetto ad altre parti del mondo. Se ci faremo bloccare, accettando semplicemente di regredire sul livello del Welfare, perderemo quell’originalità europea che storicamente ci è stata invidiata, che è sostanzialmente riuscita a «quadrare il cerchio» tra dinamicità economica e protezione sociale. Nella dinamica della globalizzazione, questo rilancio è impossibile su scala esclusivamente nazionale. Il Consiglio europeo di ottobre 2014 è già stato programmato su questi temi (e quindi anche la presidenza italiana del semestre prossimo potrà svolgere un ruolo importante nel prepararlo). L’Europa è stata troppo subalterna alla logica della finanziarizzazione e al ciclo politico neoliberista globale, mentre ha conosciuto anch’essa una divaricazione crescente dei redditi e dei patrimoni che è deleteria per l’economia e per la società. Oggi ha il compito di vincolare finalmente gli strumenti finanziari e riprendere il solco della sobrietà, della ponderazione, della concertazione, della solidarietà sociale, della integrazione ordinata degli stranieri. L’Europa sociale non può che prendere forma attraverso un’ampia consultazione delle realtà vive delle diverse società, concordando modelli il più possibili comuni e convergenti. Il Welfare non può infatti sopravvivere solo in alcuni Stati mentre altri fanno competizione riducendo i loro costi. La cittadinanza stessa e i diritti umani e civili – anche dei cittadini di nuova immigrazione – non possono sopportare condizioni troppo divaricate. Non neghiamo che si debbano ridiscutere i privilegi, ma la cosa più importante è investire coraggiosamente sul futuro: saranno i «paesi emergenti» ad avvicinarsi a noi (e non il contrario), se saremo in grado di presentare la credibilità e la sostenibilità di un sistema europeo di Welfare moderno.
    3. Affermare un nuovo protagonismo europeo nel mondo. L’Europa che in passato aveva unificato il mondo con lo slancio dell’economia e anche con la pressione imperialistica, oggi è di fronte al dilemma tra una crescente impotenza e la costruzione di un modello nuovo di «potenza civile». Per scioglierlo, occorre decisione e creatività. Si dovrebbe utilizzare sempre più nelle relazioni internazionali il modello cooperativo imparato dalle democrazie, attraverso la composizione degli interessi e non l’imposizione di forme egemoniche. Si tratta di un modello che non può che tornare a valorizzare la cornice dell’Onu, dopo il discredito degli ultimi anni. Occorre poi imparare dagli errori – si pensi alla storia dei Balcani nel decennio ’90, al Medio Oriente, alle vicende delle primavere arabe – e soprattutto superare le tentazioni dell’azione in ordine sparso da parte dei singoli Stati verso il mondo extra-europeo in una logica bilaterale perdente. Non ci sono più «grandi potenze» che possono ragionare come i vecchi paesi coloniali. Non basta cercare clientes, o limitarsi a esultare per le rivolte che facciano cadere regimi autoritari: per consolidare nuove democrazie occorre monitorare e accompagnare i processi, affiancarli con saggezza e sostegni economici, perché abbiano sbocchi positivi e fecondi. I casi aperti sono ancora molti, dal Mediterraneo all’Ucraina (in molte situazioni dove il nazionalismo è un pericolo da controllare). Ma tutto il mondo africano è ad esempio naturalmente portato a guardare all’Ue con una speranza che non va tradita.
  1. Resta infine aperto un problema culturale e comunicativo: l’Europa non è un dato di fatto, perché gli effetti del passato pluralistico sono ancora forti. Non c’è un unico popolo (demos) europeo consegnato dal passato, non c’è lingua comune né storia comune (anzi, la storia è spesso un elemento divisivo se non conosciuto con rigore e rielaborato appropriatamente nella memoria pubblica). L’Europa è irriducibilmente plurale e non può emergere unitariamente che come un progetto in cui le diversità si mettono assieme. Questo comporta anche sul piano religioso, che ci sta particolarmente a cuore, pensare l’Europa come frutto dell’eredità di grandi religioni, in primo luogo naturalmente il cristianesimo, ma anche come costruzione segnata intimamente dalla laicità. Intesa come metodo di convivenza alta e feconda, nella fraternità e nel dialogo, tra religioni, filosofie, convinzioni diverse. Da cattolici democratici, questo ci stimola a trovare modo di investire la fede nella ricerca comune di una approssimazione sempre più forte ai valori profondi dell’umanità europea e mondiale. L’Europa può quindi vivere solo come progetto, che si deve alimentare continuamente, formando un itinerario originale entro un progetto storico di pace e fratellanza. L’obiettivo comune sta nel futuro, ma deve essere raccontato come capace di creare identificazione e coinvolgimento nel presente. Per rilanciare l’Europa dobbiamo costruire una presentazione del progetto europeo che sia realistico nel suo procedere, sostenibile tecnicamente e al tempo stesso convincente in democrazia (cioè capace di costruire consenso). Occorre tutti portare il proprio contributo in questo cantiere aperto di nuova e buona politica.

27 aprile 2014

Costituzione, concilio e cittadinanza – Per una rete tra cattolici e democratici (www.c3dem.it)

(La rete è costituita dalle seguenti realtà: Agire politicamente, Agorà Marche Laboratorio Valerio Volpini Colle Ameno, Appunti alessandrini, Argomenti 2000, Associazione Comunità e lavoro, Associazione Gervasio Pagani, Associazione Persone e città, Centro Mounier Genova, Centro culturale F.L. Ferrari Modena, Centro studi sen. Antonio Rizzatti Gorizia, Circolo culturale Aldo Moro Genova, Città dell’uomo, Cooperativa cattolico-democratica di cultura Brescia, Cristiano sociali, Fondazione Persona comunità democrazia, Il Borgo Parma, Istituto De Gasperi Bologna, Nuove generazioni Rimini, Paideia Salerno, Polis Legnano, Porta Stiera Bologna, Rosa Bianca).

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