L’immaginazione al potere è ancora di attualità?

Quando Herbert Marcuse illuminò tutta una generazione di lettori attraverso una critica ad ampio raggio del capitalismo industriale era il 1964, ed il suo saggio che ha fatto giustamente epoca era intitolato “L’uomo a una dimensione”[1]un testo che avrei ruminato soltanto qualche decennio dopo, peraltro corredato dalla notevole introduzione di Luciano Gallino, sociologo del cui valore mi accorsi ancora più tardi, proprio qui nelle assise del Circolo Dossetti di Milano.

La “dimensione unica” evidenziata da Marcuse era quella consumistica promossa dal modello di società capitalistica occidentale, ma il declino della libertà individuale e sociale era in un certo senso spinto anche dal modello di oltrecortina sovietico, il quale relegava ogni aspetto della vita umana ad un’unica funzione di tipo materialistico; il fondatore del nostro Circolo Giovanni Bianchi a questo proposito era solito citare un’affermazione di San Giovanni Paolo II, in relazione alla quale con la caduta dell’URSS “…È crollato il più grande esperimento di ingegneria umana che la storia ricordi…[2]. I ragionamenti del filosofo di origini tedesche diventarono in breve la bandiera dei movimenti studenteschi del ’68, che assunsero lo slogan “dell’immaginazione al potere” come una sorta di “programma rivoluzionario”, giacché da un lato si evidenziava il contrasto, la dualità, la divaricazione, tra due diverse facoltà umane estremamente preziose: la razionalità cioè per buona parte il pensiero scientifico, e la creatività quindi l’arte materia di cui gli italiani avevano certamente cognizione; inoltre se ne auspicava per così dire la “presa del potere” per l’immaginazione, in quanto modalità “anti-autoritaria” che consentiva di attenuare se non di eliminare l’oppressione esercitata dalla tecnologia in funzione del profitto e del consumo.

Il controllo era esercitato anche mediante la creazione di “bisogni indotti”, cioè di quelle necessità che non venivano percepite come immediatamente utili dal consumatore, ma risultavano “costruiti” a monte attraverso mirate campagne pubblicitarie dai produttori. In queste dinamiche è evidente l’utilità del “discernimento” (termine Martiniano del saper cogliere le possibilità di riconciliazione e di pace, qui utilizzato in un senso più estensivo), ottenuto dalla comparazione delle opposte suggestioni, giacché il genere umano non è guidato soltanto dall’istinto, ma anche dalla razionalità e dall’immaginazione appunto, che ci aiutano magari a stabilire le diverse priorità. 

Un siffatto “sistema” – per utilizzare ancora un lessico sessantottino – non può che essere “totalitario” mentre l’unidimensionalità dell’ homo consumista azzera le altre sfere dell’esistenza delineate dentro una chiave di lettura ontologica: insomma una rivoluzione sì ma regressiva compiuta per opera di un pugno di uomini in modo certo non violento, anzi attraverso l’adesione spontanea, che ha dettato però le nuove regole dell’integrazione sociale, della felicità individuale, della (presunta) democrazia. 

Dice Gallino nella sua introduzione: “…Una società dov’era cresciuta la soddisfazione per aver sconfitto il fascismo e la povertà si ritrovava così, attraverso i tratti che L’uomo a una dimensione sovrimponeva alla sua immagine, ad essere dipinta dai suoi giovani come un nuovo sistema oppressivo, tanto più efficace per la sua inedita capacità di inserire nella coscienza stessa dei suoi membri la convinzione di vivere in un regime di autentica libertà…[3].

A farne le spese sono state certamente in primis le classi subalterne (il sotto-proletariato ed il proletariato urbano, la cultura contadina), poiché l’integrazione della classe lavoratrice nella civiltà industriale ha avuto come contropartita la necessità di lavorare e di consumare sempre di più, sottraendo il tempo libero versus quello comandato in fabbrica, ed anche l’umanità che viene annientata dallo spirito individualistico acquisito.  

Tuttavia oltre a questo si aggiungeva anche l’obliterazione del cosiddetto “pensiero critico”in tutte le classi sociali, cioè di quella facoltà cognitiva e capacità intellettuale di formarsi un giudizio al di là del senso comune – o come si direbbe oggi dell’opinione mainstream – agendo in modo da trarre informazioni dall’osservazione, dalla comparazione, dalla comunicazione, dal confronto. Emblematico a questo riguardo fu un celebre film del regista romano Elio Petri dal titolo “La classe operaia va in paradiso”, in cui l’ “operaio massa” Lulù (un bravissimo Gian Maria Volontè), amato dai padroni per la sua elevata produttività, raggiunse in quella temperie una dimensione di alienazione, che lo portò vicinissimo alla pazzia, ma anche a contestare quel modello di sfruttamento imposto, pagando però a duro prezzo la sua protesta. 

Erano argomenti che trattò con le sue riflessioni anche Pier Paolo Pasolini, figura di intellettuale certamente ante litteram, e che lo spinsero ad elaborare conclusioni ardite per quei tempi, quali quella di uno “sviluppo senza progresso”, della “mutazione antropologica degli italiani”, della “omologazione di massa”; in una celebre intervista con Enzo Biagi descrisse il suo tentativo di sottrarsi da queste dinamiche, mediante la cultura, la sua arte, la sua poesia che in un certo senso erano e sono “merci inconsumabili”. 

Se la società della Francia del XVIII secolo – quella della Rivoluzione Francese per intenderci – distingueva la stratificazione sociale di quel tempo in nobiltà, clero e terzo stato (borghesia e in gran parte proletariato), il “ventre molle” della borghesia contemporanea è ben lontano per sua natura da qualsiasi spirito rivoluzionario che sia in grado di minare alle fondamenta l’ordinamento costituito, se con quest’ultimo termine di borghesia intendiamo quella compagine intermedia che detiene la proprietà ed il controllo dei mezzi di produzione e distribuzione, industriali, commerciali, finanziari e financo intellettuali.

Da un punto di vista politico la borghesia diventa classe quando agisce per organizzare gli interessi “rivoluzionando” l’assetto dello Stato per modellarlo sulla forma delle sue esigenze; comunque l’asservimento a logiche consumistiche con la conseguente creazione di un archetipo di nuovo “borghese benestante”, ha in un certo senso sordinato l’esprit revolutionnaire, giacché quel modello di società conteneva in sé anche una promessa di felicità, e si sa un popolo felice e ben nutrito non si ribella e men che meno pensa a possibili svolte rivoluzionarie, che destituiscano chi è al potere per mettere i rappresentanti dei ceti vincitori.

Tuttavia all’attualità si può ravvisare fortunatamente un certo risveglio delle coscienze, soprattutto delle nuove generazioni, che tornano a considerare alcuni principi forti rimasti un po’ marginalizzati. La situazione post pandemica è caratterizzata certamente da notevoli turbolenze: la guerra alle porte dell’Europa, la crisi climatica, quella energetica, quella annosa occupazionale, ecc., comunque questi ultimi fattori ci stanno spingendo anche verso una ridefinizione delle priorità e dei bisogni ritenuti fondamentali.

Che ci sia necessità di immaginazione per risolvere i problemi che ci assillano non c’è dubbio, se non proprio l’“immaginazione al potere” sarebbe urgente però dare più “potere all’immaginazione”, e se così fosse potrebbe essere anche probabile che certe questioni possano prendere una piega assai diversa da quella prospettata, magari su tematiche cruciali come la tutela del lavoro, della salute, dei migranti, della nostra “casa comune” la Terra.

Che la politica consista anche nella capacità di avere immaginazione non finalizzata però alla creazione di una “immaginazione collettiva” costruita per legittimare il potere, è altra cosa di palmare evidenza.  La ritrovata consapevolezza sulle questioni ambientali potrebbe consentire l’elaborazione di un pensiero ampiamente condiviso su quell’ “ecologia umana integrale” magistralmente delineata dall’enciclica di Papa Francesco “Laudato Sì”, che avrebbe poi varie ricadute sul paradigma socio-economico di riferimento. 

Verrebbe da dire che nei tempi dell’ “intelligenza artificiale” come prodotto di routine alfanumeriche imparate da macchine che sono in grado di auto-apprendere è necessaria e forse ancor di più quell’ “intelligenza umana” che è invece il frutto delle connessioni relazionali, esperienziali e dello studio; dove l’ “immaginazione” cioè quella forma astratta e libera del pensiero ha notevoli spazi di manovra, poiché in ogni caso qualsiasi creazione viene successivamente alla sua immateriale immaginazione.

Andrea Rinaldo 


[1]       Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 2008
[2]       Fonte: https://www.benecomune.net/rivista/numeri/dicembre-2014-qualcosa-di-personale/la-democrazia-ai-tempi-del-populismo/
[3]       Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 2008, p. IX Introduzione.

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