Maria Cristina Bartolomei. La libertà del cristiano nella chiesa e nel mondo. Laicità e spazio pubblico.

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Corso di formazione alla politicaIl tema della laicità può essere introdotto da prospettive differenti: laicità può essere predicata del singolo, eventualmente credente, oppure dello Stato (lo “Stato laico”), ed è ovvio che le questioni sono diverse, ma anche, ed è cosa interessante, collegate. Laicità può essere inoltre riguardata dal punto di vista della Chiesa, e a sua volta della Chiesa quale Magistero, quale comunità dei credenti, dei teologi…; oppure dal punto di vista dello Stato, o di singoli cittadini non credenti… Insomma, la questione è complessa.

Maria Cristina Bartolomei. La libertà del cristiano nella chiesa e nel mondo. Laicità e spazio pubblico.

1. leggi il testo dell’introduzione di Roberto Diodato

2. leggi la trascrizione della relazione di Maria Cristina Bartolomei

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1 premessa di Giovanni Bianchi 10’09” – 2 introduzione di Roberto Diodato 31’43” – 3 relazione di Maria Cristina Bartolomei 55’20” – 4 prima serie di domande 7’42” – 5 risposte di Maria Cristina Bartolomei 9’43” – 6 seconda serie di domande 10’50” – 7 risposte di Maria Cristina Bartolomei 21’21” – 8 terza serie di domande (con intervento di Giovanni Bianchi) 11’03” – 9 risposte di Maria Cristina Bartolomei e Roberto Diodato 29’42”

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Testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Maria Cristina Bartolomei

Il tema della laicità può essere introdotto da prospettive differenti. Qui seguirò, collegandoli, due saggi di Maria Cristina Bartolomei (professore di Filosofia della religione all’Università Statale di Milano), il primo dedicato alla recezione dell’enciclica Gaudium et spes, l’altro intitolato Laicità e spazio pubblico, pubblicato sulla rivista “Appunti di cultura e politica”. Dicevo però di prospettive differenti: laicità può essere predicata del singolo, eventualmente credente, oppure dello Stato (lo “Stato laico”), ed è ovvio che le questioni sono diverse, ma anche, ed è cosa interessante, collegate. Laicità può essere inoltre riguardata dal punto di vista della Chiesa, e a sua volta della Chiesa quale Magistero, quale comunità dei credenti, dei teologi…; oppure dal punto di vista dello Stato, o di singoli cittadini non credenti… Insomma, la questione è complessa.

Ma prima di seguire una via indicata dalla professoressa Bartolomei, vorrei ricordare quanto scriveva Dossetti nella Introduzione al libro Le querce di Monte Sole di don Luciano Gherardi. Dossetti scrive nel 1986, avendo ormai sotto gli occhi i risultati della DC e della  Prima Repubblica: “Bisogna riconoscere che gli esiti non brillanti delle esperienze dei cristiani nella vita sociale e politica  non sono tanto dovuti a malizia degli avversari  e neppure solo a proprie deficienze culturali (che certo spesso li hanno resi subalterni a premesse dottrinali non omogenee al Vangelo) ma anche e soprattutto a deficienze di abiti virtuosi adeguati, la mancanza di sapienza della prassi … quella sapienza che – supposte le essenziali premesse teologali della fede, della speranza e dell’amore – richiede in più un delicatissimo equilibrio di esercitata prudenza e di fortezza magnanima; di temperanza luminosa e di affinata giustizia individuale e politica; di umiltà sincera e di mite ma reale indipendenza di giudizio; di sottomissione e insieme di desiderio verace di unità, ma anche di spirito di iniziativa e di senso della propria responsabilità; di capacità di resistenza e insieme di mitezza evangelica” (p. XLII). Direi che questa figura, tratteggiata da Dossetti, di cristiano dall’abito virtuoso impegnato nella vita sociale e politica potrebbe essere un buon modo di pensare la laicità del cristiano come valore, come tensione e intenzione più che come stato. Ma su questo tornerò alla fine del mio intervento.

Possiamo invece prendere avvio dalle valutazioni che Maria Cristina Bartolomei dà della fecondità portata dalla Gaudium et spes nella vita della comunità cristiana.

Bartolomei mette in rilievo come con la Gaudium et spes si apra una importante “prospettiva per la teologia postconciliare; essa, in particolare, dovrà attuarsi e misurarsi secondo un nuovo paradigma, ossia la storicità della salvezza, espresso dal concilio col rinnovato uso dell’antico termine patristico economia. A tale luce si riconosce che il deposito della fede si traduce in una dottrina in cui l’elemento immutabile è sempre segnato da contingenze storiche e culturali, che ne connotano l’espressione e ne rendono provvisorie alcune prospettive. La Chiesa deve annunciare l’Evangelo della salvezza all’umanità concreta nelle sue effettive circostanze di vita; deve quindi preoccuparsi di conoscere le condizioni reali, storicamente determinate, in cui in una certa epoca l’umanità si trova, cogliendo e analizzando i contesti culturali, sociali, politici e le loro mutazioni in atto. Sul piano del metodo, tale analisi deve sempre precedere le enunciazioni teologiche e le riflessioni pastorali, riconoscendo come il giudizio sulle situazioni non si possa dedurre da verità atemporali e astratte, ma vada mediato da un discernimento che ne consideri e vagli le peculiarità”. Si tratta quindi di attrezzarsi per cogliere i segni dei tempi, interpretarli, e testimoniare in essi, attraversandoli, la propria fede. Soltanto così la Chiesa riconosce che «la storia è a suo modo un luogo teologico» in cui Dio continua a farci conoscere la sua volontà, “ luogo e modo in cui Dio sempre di nuovo incontra l’umanità per vivere in comunione con essa, il luogo in cui il mistero dell’Incarnazione continua ad attuarsi”. Era mutato insomma, con la Gaudium et spes, l’atteggiamento della Chiesa, non più preoccupata di condannare il mondo, quasi essa si costituisse in un «altrove», per poi entrare in rapporto col mondo. A partire dalla Gaudium et spes “la Chiesa trova, invece, il mondo in se stessa … nella consapevolezza che la salvezza è per il mondo e si compie nell’avvento del Regno di Dio (GS 45). La Chiesa non è tesa a inglobare il mondo, né a difendersi, attaccandolo, dal mondo che non le si sottomette”.  “Conseguenza di tale impostazione è il principio del dialogo, ispirato a solidarietà, collaborazione, cooperazione (GS 1 e 3), vale a dire alla precedenza – dal punto di vista del valore e della successione temporale – della ricerca di ciò che unisce rispetto alla considerazione di quanto divide”.

Ora, anche tralasciando gli importanti corollari di tale idea (“il superamento sia di una prospettiva individualistica dell’etica (GS 30) sia di una concezione individualistica della salvezza (GS 24); l’attenzione alla libertà, fraternità e giustizia sociale (GS 17, 29 e 39); il riconoscimento che alla edificazione della città dell’uomo debbono concorrere, dialogando, credenti e non credenti (GS 21); il richiamo alla autonomia delle realtà terrene (GS 36), che viene declinata anche come grande rispetto per la cultura, la scienza, il sapere umani, sottolineando come la Chiesa non si leghi in modo indissolubile ed esclusivo ad alcuna cultura e intenda invece entrare in comunione con tutte (GS 58)”), si tratta comunque di comprendere se l’impostazione dei rapporti Chiesa-mondo sia stata efficacemente perseguita e realizzata, abbia cioè a mezzo secolo di distanza dato frutti, cambiato il mondo vivificandolo e preparandolo ad affrontare i nuovi problemi posti dai processi migratori e dalla globalizzazione dell’economia.  A parere di Maria Cristina Bartolomei, “Il cambiamento della società in multietnica e multireligiosa ha trovato la Chiesa molto pronta a rispondere sul piano della solidarietà e della accoglienza, ribadite come obbligo morale; meno all’altezza, invece, sul piano teologico e culturale, del pluralismo culturale ed etico, e in generale del pensiero contemporaneo. La Chiesa non è ancora riuscita ad adeguare pienamente la sfida a un pensiero che includa in sé il paradigma della relazione e della storicità. Per reazione, si registrano ritorni di aspirazioni a rassicuranti modelli di dottrine immutabili. Non mancano cedimenti a idee e pratiche di supplenza nei confronti delle istituzioni mondane o di concorrenza nei confronti di queste. Il nodo oggi più problematico è la questione della laicità, del rapporto tra Chiesa e Stato, della modalità della presenza ecclesiale nello spazio pubblico”. Un tale nodo si intreccia a partire da un’oscillazione di significato che riguarda il termine “Chiesa”: una domanda che quindi si può porre a Maria Cristina Bartolomei è cosa si debba primariamente intendere con tale termine. Bartolomei risponde implicitamente a tale domanda: «Ogni uomo e tutta l’umanità dovrebbero venire convocati per la costruzione della chiesa, o meglio per l’evangelizzazione. Universalità del soggetto chiesa; questo il punto più decisivo dell’impegno del Vaticano II. Si potrebbe qui parlare di ecumenismo in senso largo, che diventa poi laicalità della chiesa nella forma più radicale possibile. Qui c’entrano bene le affermazioni conciliari che si riferiscono all’ampiezza del mistero: Cristo è più grande del cristianesimo, inteso come fenomeno storico già realizzato, lo Spirito Santo è più grande di tutte le chiese messe insieme. Chiamare in causa la storia e la cultura significa chiamare in causa ogni uomo, tutti gli uomini. Anche i non credenti (dice espressamente la Gaudium et spes) possono contribuire, anzi devono contribuire”. Sembra allora che il termine “chiesa” vada inteso secondo una concezione dinamica, come un processo di concreta spiritualizzazione dell’esistenza (in un senso per cui lo spirito è massimamente concreto e incarnato) nel quale tutti gli esseri umani, come popolo della chiesa e quindi propriamente come laici, sono coinvolti e grazie al quale il senso della vita esposto esemplarmente in Cristo diventi senso comune. Si noti allora allora la differenza tra maiuscolo (Chiesa) e minuscolo (chiesa); di quale “chiesa” stiamo parlando? (vi prego di considerare questa problematica distinzione tra maiuscolo e minuscolo anche leggendo il seguito). E’ questa la “chiesa” che si sta realizzando sulla scorta delle indicazioni e della spinta della Gaudium et spes?

Se ci collochiamo da un differente punto di vista, quello di una diffusa interpretazione della storia, la laicità viene correlata al processo tipicamente moderno di secolarizzazione del politico e quindi dello Stato, che sempre più pensa se stesso per se stesso, non solo come fondamento del diritto positivo, ma come autore di valore collettivo, di forme valore di cittadinanza che talvolta comportano strutturalmente, almeno a livello ideale, la tutela dell’eguaglianza nel diritto, del pluralismo delle opinioni, della legittimità di varie forme di alterità. Vengono elaborati insomma i cataloghi dei cosiddetti diritti umani, che possono essere certamente in sintonia con lo spirito del cristianesimo e da esso anche provenire ed essere promossi, ma che talvolta non sono in sintonia con questo. Da questo punto di vista il tema della laicità dello Stato si pone come questione del rispetto, della tutela e del diritto di efficacia pubblica delle differenze di opinione su valori fondamentali. Anche qui si tratta di un processo (pensiamo con quanta fatica i moderni Stati democratici e liberali gestiscono l’avvento dello straniero, cioè del radicalmente altro) complesso e difficile, tale da suscitare un dibattito importante per il futuro stesso della forma statale. Bartolomei mette in luce il rilievo dei temi in discussione: “Il dibattito attuale circa il modo di intendere la laicità – e, specificamente, il ruolo della religione e delle istituzioni religione nel contesto politico e civile –  si sviluppa intorno ad alcune grandezze fondamentali; esse sono innanzitutto il concetto di spazio pubblico;  il riferimento alla religione civile, cioè alla indigenza di fondamento dello stato liberale e democratico …; il rapporto tra etica religiosa ed etica laica; l’emergere di istanze identitarie che entrano in conflitto con la laicità. Il dibattito include ulteriormente la messa a tema della concezione della democrazia (solo il metodo della conta, ovvero la dittatura della maggioranza o non, piuttosto, una proposta di partecipazione, di corresponsabilità, implicante alcuni valori costitutivi – costituzionali! – di equità, solidarietà, libertà e di tutela delle minoranze?) e la compatibilità … tra democrazia e fede religiosa, laddove il metodo democratico, sempre provvisorio e plastico, vada a toccare temi sui quali una fede religiosa abbia invece posizioni assolute (i «valori non negoziabili»): la riserva della obiezione di coscienza è a tutela di questi casi, ma potrebbe non risolverli tutti, giacché il funzionamento della cosa pubblica non può non porre dei limiti anche alla facoltà di esercitare obiezione di coscienza”. Si colgono così in tutta la loro ampiezza le conseguenze possibili di un serio discorso sulla laicità, che investe il senso stesso dell’idea di democrazia.

Quanto all’Italia, la sua situazione è, come sappiamo, storicamente assai peculiare e ciò, scrive Bartolomei, “comporta l’acuirsi del tema della laicità dello Stato nel confronto sui valori ritenuti non negoziabili dalla Chiesa”. Ora tale confronto non si svolge in un luogo indifferenziato, ma in uno “spazio pubblico” che ha diversi attori ed è popolato di strategie di vario genere, che sono spesso strategie di controllo dell’opinione pubblica attraverso le quali lo spazio pubblico invece di essere “il frutto di un processo nel corso del quale gli individui, facendo leva sulla loro ragione, si appropriano coralmente della sfera di quanto è pubblico e posto sotto il controllo della autorità statale, e la trasformano così in una sfera in cui è possibile esercitare anche una critica nei confronti del potere dello Stato” diventa spazio mediatizzato: “Oggi – continua Bartolomei – vi è un forte rischio di declino dello spazio pubblico, che tende a venire soppiantato dalla «pubblicità» e dai suoi fini di manipolazione a scopo commerciale, che minaccia di trasformare la società in società di puro consumo”. Si può porre quindi un’altra domanda, che può sembrare superficiale ma è invece a mio avviso cruciale: Chi e come oggi può entrare nello spazio pubblico? Può far sentire la propria voce? Attraverso quali mediazioni? Lo spazio pubblico è davvero dialogico, è davvero incontro tra orientamenti razionalizzabili? E più profondamente: cosa significa “razionalizzabile”: è opinione ragionevole quella che incontra o costruisce il consenso nello spazio pubblico? O la ragionevolezza dell’opinione è intrinseca al suo significato? E se è così quali garanzie può offrire?

Bartolomei scrive: «lo stato liberale/libertario e secolarizzato vive di presupposti che da sé stesso non può garantire. Questo è il grande rischio nel quale, a causa della libertà, si è messo. Come stato libertario esso può sussistere solo se la libertà che esso garantisce ai suoi cittadini si regola dall’interno, a partire dalla sostanza morale del singolo e dalla omogeneità della società. D’altra parte, lo Stato non può cercare di garantire queste energie di regolazione interna a partire da sé, cioè coi mezzi della costrizione giuridica e del comando autoritativo, senza rinunciare al suo carattere libertario e ricadere  -su un piano secolarizzato – in quella pretesa totalitaria dalla quale esso aveva fatto uscire nelle guerre civili confessionali». Ciò significa che il principio di legittimazione delle opinioni è intrinseco alla “sostanza morale” del singolo e della collettività, poiché non si può prescindere dalla scelta libera delle coscienze. E’ necessario allora allo Stato “laico” un “supplemento d’anima” che non gli sia esteriore e tantomeno giustapposto, e, secondo Bartolomei “lo Stato non può cercare tale supplemento d’anima se non in una religione. Il problema è che tale necessità si sente più acutamente in una situazione di multiculturalismo, ma proprio in essa è più difficile tale soluzione, giacché molte religioni sono presenti e bisogna sceglierne una sola”. Ma posto così il problema della scelta diventa il problema della conquista del consenso; si tratta di un rischio che Bartolomei chiarisce molto bene: “Le prevalenti proposte di laicità provenienti da ambiti e autorità cattolici sembrano dire: «ognuno entra nello spazio pubblico con la sua identità, la misura con gli altri; se riceve la maggioranza dei consensi, perché non potrebbe vederla imporsi?». Questo criterio, apparentemente democratico, è la distruzione della laicità, e anche della democrazia, giacché si basa su una interpretazione di quest’ultima meramente contabilistica, estremamente riduttiva e distorcente. Nello spazio pubblico si dovrebbe entrare spogliati delle proprie casacche, facendo un passo indietro dalle proprie identità, e cercando di mettere in comune ciò che può essere messo in comune. Si entra, vale a dire, da cittadini e non da aderenti a una istituzione religiosa o da credenti in questa o quella religione”. Si tratta quindi di valorizzare la coscienza e la morale personali per promuovere una richiesta di riconoscimento rischiando il dialogo nello spazio pubblico. Questo atteggiamento richiede la valorizzazione di due istanze; innanzitutto “andrebbe valorizzato molto di più l’approccio tipico delle Costituzioni democratiche e delle grandi proclamazioni internazionali, come quella dei Diritti dell’uomo. Non c’è pretesa di deduzione da una istanza naturale o trascendente, ma si opera col criterio del riconoscimentoUn criterio che andrebbe cristianamente valorizzato invece che sospettato. Esso dice che quei valori sono efficaci nel momento in cui vengono riconosciuti e non prima. Ma dice anche, appunto, che essi vengono riconosciuti, non «posti». Il riconoscimento non li fa essere, ma si inchina ad essi”. Il problema si sposta così sulle forme secondo le quali si attua il riconoscimento (che come tale non è sufficiente: il popolo tedesco negli anni trenta “riconosceva” il valore della razza ariana, ma non per questo si “inchinava” alla trascendentalità di un valore), cioè sulle modalità del discorso pubblico. Rispetto a ciò Bartolomei scrive “cultura democratica è quella in cui ognuno può comprendere e discutere le ragioni dell’altro, e in cui ognuno è pronto a farlo e a lasciare che altri lo faccia nei propri confronti … La laicità implica più profonde dimensioni: cognitive e coscienziali, da intendersi come libertà di conoscenza, di credenza, di critica e autocritica, dunque come un atteggiamento di mente aperta, di prontezza al confronto e al dialogo, di rispetto delle credenze senza pretendere di giudicarne la verità in modo assoluto.  In questo senso, laicità è l’unico atteggiamento mentale commisurato alla sfida della complessità del reale, un atteggiamento che ha molto bisogno di essere promosso entro la Chiesa italiana”. Si ritorna insomma, giungendo a questa concezione laboratoriale della democrazia, alla questione della Chiesa. Concluderei allora riprendendo ancora le parole di Dossetti, che coniugano a me pare con chiarezza le due dimensioni essenziali dell’azione dei cristiani nella storia e della condizione di relazione reale tra questa azione e la Chiesa quale comunità cristiana. Per Dossetti (cito sempre dall’Introduzione a Le querce di Monte Sole, p. XLI) la “sapienza della prassi… non sta tanto in un enuclearsi progressivo di una cultura omogenea alla fede …, ma sta soprattutto nell’acquisizione di abiti virtuosi: che occorrono tutti non solo per agire, ma anche e prima per pensare correttamente ed esaustivamente i giudizi e le azioni conseguenti”. Senza queste virtù non c’è alcuna possibilità di prassi cristiana “laica” ma solo “ideologumena” che talvolta scambiamo per dottrina sociale cristiana, ma queste virtù per Dossetti di fatto possono essere Chiesa a una condizione che è un transito per la Chiesa stessa, del tutto spiazzante le logiche di formattazione dello spazio pubblico, e a suo avviso e in ultima analisi non eludibile: “E’ mai possibile che anch’essa [la Chiesa] non sia soggetta allo stesso svuotamento, alla stessa kenosi, allo stesso annullamento, alla stessa necessità di passare per l’irrisione, l’obbrobrio, il disprezzo, la svalutazione progressiva, la perdita di tutti i valori apparenti? […] La kenosi, lo svuotamento, l’annullamento della Chiesa!”  (Giuseppe Dossetti, Il Signore della gloria, in id., La parola e il silenzio, Paoline, Milano, 2005, pp. 305s).

Trascrizione della relazione di Maria Cristina Bartolomei

Poiché è la prima volta che partecipo a questi incontri permettetemi di dire innanzitutto che ringrazio per l’invito a partecipare a una iniziativa che considero molto urgente e opportuna, i richiami a un insegnamento, a un esempio, quello di Dossetti, che sono particolarmente luminosi e incisivi per chiunque si muova nella storia e nel mondo, portando anche in sé un riferimento di fede in Cristo.

Mi permetto di ricordare che poco lontano da qui, in via Sant’Antonio, si sta svolgendo un incontro di preghiera e di riflessione nel venticinquesimo anniversario della morte di Giuseppe Lazzati, un’altra diversa ma grande figura di cristiano laico che esprime la responsabilità della sua libertà.

Anche il nostro incontro è un modo di far memoria, anche di Lazzati come di tanti altri testimoni, di un impegno cristiano nel mondo tra i quali, consentitemi di menzionare di nuovo, visto che l’ha già fatto Giovanni Bianchi, in questa sede per lui così significativa, Padre Davide Maria Turoldo, l’opera del quale occupa un posto così centrale nell’educazione dell’uomo, proprio nel senso di condurre fuori, nel senso etimologico, condurre fuori alla libertà, alla libertà umana e cristiana, alla libertà di obbedire alla coscienza.

L’incontro di oggi si inserisce in un contesto nel quale credo tutti abbiamo provato e proviamo un profondo disgusto per lo scempio, e direi la prostituzione, del termine libertà, che è un termine volto al plurale di una parola, quindi della costituzione di una parola e di un concetto sacri per ogni essere umano per il quale tanti hanno sofferto e dato la vita, e sacri ancor più per il cristiano che sa che la croce del Signore è il prezzo della sua libertà.

Questo è il contesto naturalmente dell’attualità ed è anche il contesto, come è già stato ricordato, di essere cristiani, nella fattispecie nella declinazione cattolica, in Italia, con tutta la storia che conosciamo molto bene, le luci e le ombre di questa storia, e i pesi. In questo contesto ringrazio moltissimo Roberto Diodato per l’introduzione, al termine della quale stavo pensando che potrei anche non parlare, potremmo cominciare a discutere… Però penso che poi qualcuno direbbe che non ho fatto i compiti e quindi lo faccio. Cercherò di essere un po’ più breve di quello che avevo previsto, ma in realtà i temi sono già emersi tutti. Però io lo faccio in un’altra chiave, nel senso che in quei testi che ho meditato, che sono stati richiamati, vissuti, criticati e già arricchiti dall’intervento di Diodato c’è, come dire, il corpo storico e i problemi storici dell’esercizio di questa libertà, ma c’è poco la tematizzazione della libertà in quanto tale; cioè quella è la trama e adesso io vorrei mettere un pochino in evidenza l’ordito e come questo ha a che fare con la libertà, visto che è il tema più specifico.

Dato che forse dovrò poi alla fine troncare il discorso, vi dico prima qual è il cuore, l’intreccio centrale, così avete chiaro dove andiamo a parare. Accetto la sfida: Giovanni Bianchi ha ricordato che ho studiato, e sono grata e orgogliosa, al Sant’Anselmo a Roma, luogo antico quant’altri mai nella trama dei cenacoli del pensiero teologico romano, e per mia fortuna prima di questo avevo però avuto un potentissimo vaccino da qualunque eventuale tentazione di finire nell’ideologia attraverso lo studio della filosofia che è il mio esercizio professionale prevalente e che consente a questi due occhi di guardare con questi due occhi: un occhio totalmente laico e l’occhio della fede. Unendoli nella visione, perché poi la visione è unica, solo così è tridimensionale, ma sapendo che c’è una distinzione che va sempre tenuta. Qui però non devo dirlo perché sono cose che avete nel DNA.

Allora, qual è questo tema della libertà? Ci tornerò, ma ricordo che La libertà del cristiano è il titolo di un celeberrimo, importantissimo saggio di Martin Lutero (1520); Leone X fa la bolla Surge Domine minacciandolo di scomunica e Lutero risponde con La libertà del cristiano. Quindi, quando si tratta della libertà del cristiano c’è subito un aggancio (questo incontro non è su questo specifico punto) alla situazione storica concreta in cui questa libertà si esercita e con i limiti e le condizioni con cui ha dovuto fare i conti, con i nuovi momenti di tensione anche, che purtroppo, come appunto nell’esempio che ho richiamato, ci dice subito che è anche il rapporto con la Chiesa che dovrebbe essere il luogo dove il cristiano respira a pieni polmoni. Purtroppo, non sempre lo è stato e non sempre lo è, per essere buoni.

Permettetemi, qui mi sento a casa, in questo luogo, e anche tra voi mi sento a casa e quindi mi consento qualche trasgressione al rigore espositivo. Ne ho accennato all’inizio del nostro incontro con Diodato. Credo che tutti abbiamo visto su alcuni quotidiani stralci di una lettera inviata dall’attuale presidente di Comunione e Liberazione al Nunzio Apostolico in Italia Mons. Bertello, nella fase preparatoria della scelta del nuovo arcivescovo di Milano. Ecco, noi discutiamo della libertà del cristiano in una condizione in cui ci sono questi modelli. Chi non l’ha vista se la vada a vedere, non entro nel merito, non voglio far polemica su questo, ci sono cose troppo più importanti da dire. Però sono condizioni reali, storiche anche quelle in cui ci troviamo.

Allora, parlare della libertà del cristiano in una condizione storica concreta, in una situazione politica culturale precisa vuol dire anche in una condizione ecclesiale precisa. Quest’anno ricorrono i 50 anni del Concilio e anche questo è un contesto in cui questo nostro discorso si situa, del resto è stato ampiamente citato un documento conciliare.

La libertà del cristiano, pensando a tutto questo, incluso Lutero, la possiamo capire con una struttura in croce, ma non nel senso di una elevazione mistica di identificazione per quanto importante, ma nel senso che si dà nel punto di incrocio di alcune grandezze. La libertà del cristiano si dà nella tensione del punto di incontro tra la fedeltà a Dio e la fedeltà al mondo e alla storia, da un lato, e dall’altra parte, nella tensione tra la indeterminatezza della libertà, aperta a tutto, tutta per tutti, e l’obbedienza. L’obbedienza a che cosa? L’obbedienza, sicuramente se è un cristiano, prima di tutto alla parola di Dio, evidentemente, al Vangelo, ma anche, e non meno, e proprio per questo perché il Vangelo e la Parola di Dio si sono incarnati, l’obbedienza, l’ascolto, il mettersi al servizio di tutto questo sta nel bandire le ingiustizie della storia, le storture della storia. Non è libero di fare quello che gli pare. È libero di obbedire alle esigenze che vengono dalle grandi ingiustizie della storia.

Direi che in qualche modo il modello è quello di Bonhoeffer: la libertà del cristiano è resistenza e resa, altrimenti, appunto, è una favoletta.

Nella libertà del cristiano questo è il cuore, questa sarebbe l’ouverture: la libertà del cristiano è libertà dai poteri e dal potere, perché liberi dal potere si può fare qualcosa che non si può fare se non si è liberi dal potere. Sul potere poi c’è tutto un dibattito politico, lo conosciamo benissimo da Giolitti in poi. In realtà, il potere – lo sappiamo – schiavizza e forse Francesco d’Assisi avrebbe resistito per un mese a diventare schiavo del potere, ma tutti gli altri diventano schiavi molto più presto.

Liberi dal potere, e dai poteri, e se permettete questo gioco un po’ fastidioso di parole ma poi smetto, liberi dal potere del potere, per poter efficacemente cambiare le cose e poter efficacemente servire chi potere non ne ha. Liberi di sé, per ascoltare la voce di chi non ha voce. Liberi dalle sudditanze, e qui stento a dire ideologiche perché personalmente reputo che il grande carnevale della fine delle ideologie sia molto negativo; la fine delle ideologie è l’inizio del potere della pubblicità, tanto per capirci a spanne. Liberi dalle sudditanze pseudoideologiche per poter sperare. Ecco, questa è una parola che è già risuonata oggi, per essere capaci di sperare e di osare sperare di cambiare il mondo.

Penso qui al bel saggio di Claudio Napoleoni Cercate ancora e penso anche a (lo dico già adesso), penso a questo fatto. Uno dei filosofi che amo molto è Adorno il quale dice: “Noi siamo inseriti non fino agli occhi ma fin sopra la testa (forse la differenza tra ogni credente e Adorno è che noi possiamo sperare di essere inseriti fino al naso e non fin sopra la testa per un pezzettino ancora di libertà) in un sistema che assolutamente ci avviluppa e ci toglie completamente il respiro, non abbiamo possibilità, non abbiamo alcuna speranza”. E allora che cosa facciamo? Adorno dice che la prima cosa che dobbiamo fare, il primo atto di libertà e di resistenza è riconoscerlo e rendercene conto. Allora, ecco perché ho citato Napoleoni: noi effettivamente siamo in un sistema, la crisi prodotta non dall’economia reale ma dalla bolla delle speculazioni finanziarie (e non chiedetemi di entrare nei particolari perché è sorpassa ogni mia capacità di immaginazione), il fatto che noi siamo effettivamente tutti insieme nel mondo avviluppati da poteri che hanno ramificazioni, capacità che appunto superano, apparentemente, ogni nostra possibilità di intervento, da cristiani possiamo dire: “Tutto questo però non è Dio, questo sistema non è Dio, non è assoluto, l’hanno fatto gli essere umani e quindi esseri umani possono cambiarlo”. Questa è la sfida dell’osare la speranza, possono cambiarlo, non so quando, non so come, non so con che tappe, ma possono cambiarlo.

La libertà del cristiano, quindi, è già emersa in questo, è attraversata dalla contraddizione evidentemente, non è la libertà paradisiaca della libera danza nell’armonia delle cose. È attraversata dalla contraddizione e, come diceva appunto la bella citazione finale di Dossetti, la contraddizione anche nella Chiesa. Non stupisce più a questo punto che anche nella Chiesa ci siano tante contraddizioni rispetto a questa chiamata a una libertà che libera; si è liberi perché si è liberati, da cristiani bisogna dire, dalla salvazione di Gesù Cristo, e si liberi solo se a propria volta si diventa liberanti.

Allora, tre direzioni di senso costruttivo e poi cercherò di riassumere la mia esposizione se no non c’è spazio per la discussione che mi sembra la cosa più importante.

Richiamare brevissimamente il fondamento, la qualità e il senso della libertà del cristiano, richiamare in questo senso il tema della libertà della Chiesa e nella Chiesa. Libertà della Chiesa, lo dico subito, lo abbiamo sentito dire tante volte, per lo più viene rivendicata nelle situazioni in cui l’istituzione Chiesa non è stata o non è libera di esercitare alcune funzioni. Ma libertà della Chiesa è qualcosa di molto di più ed è, non dico nel punto finale così provocatorio di Dossetti, ma è una Chiesa libera dentro di sé, e questo non sempre accade.

Libertà della Chiesa: anche qui, libera prima di tutto, dai rapporti con il potere, questo poi è il nucleo fondamentale, al servizio della liberazione del mondo, non dico che uno di noi è un pezzetto di mondo, ma anche tutto il mondo. E questo mi pare il senso della libertà del cristiano, e così potrei concludere, ma da qui comincio. Del mondo, ma non del mondo, vuol dire nella contraddizione, senza uscite di sicurezza dalla contraddizione, ma liberi.

E la libertà, in un percorso di formazione alla politica, è un tema molto importante perché la libertà è fine e mezzo. Rosa Luxemburg ha insegnato a tutti l’essenzialità della coincidenza tra mezzi e fini. Questo, anche per l’impegno politico del cristiano, è qualcosa di non così scontato, storicamente non è così scontato, però questa è una frontiera di sfida senza la quale non dico che non ci sia impegno politico cristiano che è una cosa per la quale vorrei fare non uno, ma tre passi indietro, ma l’impegno politico di un cristiano deve avere questo punto, del riconoscimento dell’identità tra mezzo e fine.

Libertà non solo come mezzo e come fine, instaurazione della libertà come impegno politico, ma anche riflettendo come libertà di chi si impegna in politica. Il nesso è: non si può essere liberi se non si è liberatori ma non si può essere liberatori se non si è liberi perché nel momento in cui si è preda di sudditanze alienanti e indebite queste si tendono a ripetere nella posizione della propria azione politica.

Qui c’è il nodo, lo menziono e vado avanti: storicamente il cristiano che rapporto ha avuto con la libertà? Ricorderemo l’anno prossimo l’editto di Costantino e qui c’è un discrimine molto chiaro: o lo ricordiamo come editto della libertà religiosa, o lo ricordiamo come editto che apre il modello imperiale. Qui ci si trova proprio con due poli a 180 gradi. Tutti sappiamo che non i singoli cristiani ma certamente il cristianesimo come istituzione, come chiesa, ha ceduto tardi al riconoscimento del valore della libertà personale e politica e quando ha ceduto si è posto il problema: ma il cristiano che opera in politica non è forse il cittadino di due città, che ha sempre un limite di fedeltà alla città terrena perché obbedisce, e questo è poi il motivo della separazione della chiesa anglicana, e perché poi obbedisce al papa e quindi in realtà non è poi uno al pari con gli altri.

E qui interviene il tema che è già stato approfondito della laicità. Per questo la laicità ha profondamente a che fare con la libertà, con la libertà, per meglio dire, trova un suo rispecchiamento concreto, storico effettuale nella prassi della laicità.

E la laicità, nell’incrocio che ho detto prima, ho poi omesso, perché pensavo di recuperarlo dopo, il punto non spaziale di intersezione che è il punto della coscienza Questa bipolarità per cui il cristiano, soprattutto cattolico, sarebbe, sempre con la coscienza, diviso in due, la fedeltà al suo stato, ma deve anche obbedire a un’istanza esterna per cui è sempre sospettabile. Questa è una visione appunto dicotomica dell’essere umano, non è ancora avvenuta la sintesi e il riconoscimento del luogo di questa sintesi che è la coscienza. La coscienza di cui ognuno è responsabile e che è non la prima istanza ma l’ultima, la prima nel senso di maggior valore, l’ultima alla quale si perviene.

Nella teologia della dottrina cattolica si dice chiaramente che se uno fa un atto di virtù oggettivamente buono, però è convinto in coscienza che sia una cosa malvagia, fa peccato; questa è una cosa bellissima e, al contrario, se uno commette un atto oggettivamente errato ma in coscienza veramente, profondamente convinto che sia una cosa buona, non fa peccato. Questo è stato sempre detto, lo dice Tommaso d’Aquino, che insomma non è sospettabile di essere un pericoloso rivoluzionario. Ma questo principio della coscienza è sempre stato riconosciuto però non riconosciuto effettualmente come riconoscimento, scusate la ripetizione, di un’istanza nei confronti della quale ognuno è responsabile in prima persona, in prima e ultima persona, ascoltando le ragioni dello stato, quelle della Chiesa e poi c’è il luogo dove tutto questo si coagula, il crogiolo di tutto questo che è la coscienza.

La Chiesa, nel suo insegnamento pubblico ufficiale ha sempre avuto molta paura di questo perché coscienza è l’altro nome della libertà, appunto non una libertà spensierata, ma tuttavia una libertà.

Allora quando parliamo della libertà del cristiano certo non abbiamo questa idea rivendicazionista, adesso ci liberiamo dai legami, no, non è questo: sapere che se si fa questo è per obbedienza alla chiamata alla libertà, non perché ci piace di più, perché è più moderno. Il cristiano fondato sulla parola di Dio, che parla nella Scrittura ed è annunciata dalla Chiesa e certificata anche dal Concilio, riscopre l’esercizio della libertà, valutata nella coscienza come servizio della Chiesa al mondo, il che non significa sempre in accordo con le opinioni culturali di alcune autorità ecclesiastiche.

E qui salto un po’ di cose perché il tempo è tiranno, però voglio dire su questo tema della libertà dico solo questo: effettivamente oggi ha un corpo storico che non aveva ieri; sono state già menzionate tutte le dichiarazioni di riconoscimento dei diritti umani, prima dei diritti dei cittadini, i diritti dei popoli e le nuove soggettività che chiedono riconoscimento, i diritti del malato, i diritti del bambino, i diritti delle donne, i diritti! I diritti, riconoscimento dei diritti di soggetti. Questa è incarnazione concreta, fioritura concreta della libertà.

Qual è il fondamento della libertà del cristiano? Sarò molto breve su questo passaggio biblico. Ne Vangelo c’è un testo fondamentale, tra i tanti, nelle lettere di S. Paolo, seconda ai Corinti (3-17) “dove è lo spirito del Signore, ivi è libertà” e prosegue “e noi tutti a volto scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, saremo trascinati di gloria in gloria”. Sempre Paolo ha questo tema della libertà in particolare nella lettera ai Galati, non a caso amata così tanto da Lutero che diceva “È la mia Caterina”, sua moglie si chiamava Caterina e la lettera ai Galati gli era cara come sua moglie, un affetto di questo genere! “Cristo ci ha liberato perché restassimo liberi e voi fratelli siete stati chiamati a libertà”, Questa è la lettera ai Galati e nella lettera ai Romani: “Non avete ricevuto lo spirito di schiavi ma di figli”.

Però anche le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni_ “Non vi chiamo più servi ma amici”; l’amico sa quello che fa il padrone, il servo non sa quello che fa il padrone, ma esegue; l’amico è uno che ti guarda in faccia, che dialoga, che è responsabile. E in Giovanni 8-32 “Se rimanete fedeli alla mia parola, allora sarete veramente miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.

Quindi, la libertà del cristiano è libertà di sequela nella parola ed è libertà qui costituita dallo Spirito. Nella misura in cui ha in sé lo Spirito del Signore è libero e nella misura in cui è libero è in sintonia con lo Spirito del Signore. Ora questa libertà, lo dice anche Lutero, non è fine a se stessa perché ce la godiamo, ma è affinché si sia liberi di servire. Chi è schiavo del peccato, adesso uso termini paolini, è schiavo di se stesso, non è libero di sé e non è capace di servire gli altri. È molto semplice ed è molto difficile.

La libertà del cristiano quindi è una libertà che c’è, ma che è anche da conquistare, è una libertà promessa, non è piena; chi di noi potrebbe dire di sé: “Io sono un essere umano pienamente libero”? Tutti sappiamo invece che siamo impastoiati non solo esternamente da mille cose e, in più anche, chi fosse in uno stato di tale armonia interna da essere completamente libero di sé, di tutte le sue energie, ecc., cosa difficile da immaginarsi per un povero essere umano limitato, se fosse cristiano e se fosse un essere umano pienamente, dovrebbe sentire di non essere pienamente libero finché c’è qualcun altro che non lo è. Questo è il punto della libertà.

La libertà è indivisibile, per questo non ci sono le libertà al plurale, ognuno la sua, ognuno il suo pezzettino. La libertà è una e se uno non è libero, io non sono libero. Quindi, la nostra libertà da conquistare e da attendere è dal peccato, dalla malattia, dall’egoismo e anche da certe forme della nostra religiosità, dallo schema di questo mondo, dalla miseria, dalla fame, dalla guerra, dalla paura: tutto questo è libertà da conquistare. Abbiamo bisogno di libertà perché ci è stata promessa.

Però quando arriva lo Spirito del Signore che è libertà (finisco con un passaggio biblico che però secondo me è importante per mettersi in asse con la radice profonda di tutto questo discorso), quando arriva lo Spirito del Signore che è quello della libertà leggiamo in Luca 4-14: “Gesù nella potenza dello Spirito torna in Galilea, entra nella sinagoga, apre il libro del profeta Isaia e legge: ‘Lo spirito del Signore è sopra di me perché mi ha unto per evangelizzare i poveri, mi ha mandato per guarire quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la liberazione dei prigionieri, il recupero della vista ai ciechi e per rimettere in libertà gli oppressi’”. Quando arriva lo Spirito della libertà, questo Spirito ci impegna a promuovere questa liberazione e questa è anche un po’ la cartina di tornasole: se non ha questo effetto, allora non era lo spirito di libertà, era un’ubriacatura.

Visto che ho richiamato il Concilio, dirò molto brevemente che il Concilio su questo tema, leggendo i suoi documenti ricchissimi e tutto quello che volete, ci può lasciare un po’ delusi sul tema proprio formalmente della libertà, perché è ricco ma anche contraddittorio. Per esempio, sempre in Gaudium et Spes, la Chiesa rivendica la libertà per i credenti perché possano edificare nel mondo anche il tempio di Dio, che va benissimo, basta capirsi: se è solo la libertà di edificare gli edifici di culto o se vuol dire qualcosa d’altro. Poi ci cono alcuni passaggi importanti, per esempio nella Lumen Gentium (qui non spiego che documenti sono li conoscete tutti), “il popolo messianico di Dio ha per condizione la dignità e libertà dei figli di Dio”: questo è già un passaggio profondo, questa è una pietra angolare del discorso.

Nella Presbiterorum Ordinis però, nel documento riferito all’esercizio del ministero presbiteriale, c’è una frase che ogni tanto leggo e non capisco: “Spetta ai sacerdoti di curare che ciascuno dei fedeli sia condotto a esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati”. Benissimo, fa parte dell’educazione, in un contesto però in cui l’importante è che questa libertà si eserciti in obbedienza a loro, che se inteso bene va benissimo, ma se invece è inteso che bisogna essere sempre d’accordo con qualunque opinione abbiano, ci mette nella contraddizione.

Però nella Lumen Gentium c’è un’altra frase secondo me importantissima: “Cristo è obbediente fino alla morte e perciò è esaltato dal Padre, è nella gloria del suo regno, a lui sono sottomesse tutte le cose che poi lui sottopone a Dio, affinché Dio sia tutto in tutti”, e poi dice la Lumen Gentium:Questo potere Cristo lo ha comunicato ai discepoli perché anch’essi siano costituiti nella libertà legale e con l’abnegazione di sé e con una vita santa vincano in se stessi il regno del peccato, in se stessi e nel mondo”. È molto sintetico ma che insomma i fedeli in Cristo siano partecipi di questo potere liberatorio di Cristo, siano liberi partecipi di questo potere liberatorio di Cristo, è molto forte; e questo è a tutti, a tutti!

Lasciamo stare altre cose sulla libertà della ricerca teologica, la libertà dell’indagine nell’azione della gerarchia. Ho voluto richiamare questi due scenari, secondo me molto importanti, per dire che quando il cristiano riflette sulla sua libertà nella Chiesa per essere libero al servizio nel mondo, se non si radica in questo rischia appunto di fare del tema della sua libertà il tema del braccio di ferro con il mio parroco, il mio vescovo, il documento dei vescovi… Cosa su cui dobbiamo giocarci storicamente, sia chiaro, però sono un orizzonte ristretto. Quando si è in questa radicalità, in questa verticalità essenziale, c’è libertà di incontrare questi problemi e quindi di muoversi in equilibrio rispetto a questi problemi.

E qui entra la tematica di Gaudium et Spes e adesso dovrei cominciare tutta l’esposizione ma per fortuna l’ha già fatta Diodato. Quindi, richiamo solo alcuni punti. Che cosa significa, infatti, “il cristiano libero in una Chiesa libera dall’incentramento su di sé”? È così davvero? Non è così davvero del tutto, però questo è l’ideale dall’autoreferenzialità. Libera dall’essere prigioniera del modello della cristianità (su questo poi mi fermo un momento) che ha ritrovato nel Concilio il rapporto corretto con il mondo e l’ha ritrovato, e poi si è un po’ attenuata questa consapevolezza (l’ha già citato anche Diodato prendendo le cose che avevo scritto) riscoprendo una cosa molto importante: la propria provvisorietà. La provvisorietà anche della Chiesa è relativa ed è provvisoria. Quando lo sa la Chiesa di essere provvisoria? Quando ha profondamente riscoperto la dimensione escatologica, cioè il fatto che siamo in attesa dei cieli nuovi e della terra nuova nella quale regnerà la giustizia, come dice la seconda lettera di Pietro. Se non ci ricordiamo questo, che siamo pellegrini, stranieri e ospiti su questa terra, in attesa di un compimento, dimenticando questo allora la Chiesa è portata a installarsi nel mondo e a fare quella tragica conciliazione col potere.

Il modello della cristianità si è realizzato, ha fatto anche tante cose buone, ma questo non è il momento di fare un bilancio storico. Il modello della cristianità è un modello il cui nucleo essenziale è questo: la prospettiva cristiana come tale ha diretto rispecchiamento della struttura politica, legislativa e sociale di una democratizzazione sociale: questa è la cristianità.

Una cosa molto importante che mi preme dire, guardate che non è inevitabile: ma se in uno stato, in una nazione, di fatto è cristiano il 99% dei cittadini non può non esserci cristianità. No, non è questo il punto: può non esserci cristianità, appunto per quella differenza essenziale tra ciò che è Chiesa e ciò che è mondo, per la provvisorietà della Chiesa, per l’attesa di un compimento, perché quello stato è sempre all’interno di un mondo, ma anche se fosse tutto il mondo al 99% fatto da cristiani, non per questo ci dovrebbe essere necessariamente o stabilmente un regime di cristianità, nel senso che la differenza, la distanza tra l’opera di Dio e l’azione storica che è sempre mediazione, altro che valori non negoziabili, tutto si negozia nella politica e nella storia, tutto si media (in responsabilità ben inteso), la differenza e l’attesa del compimento mantengono la differenza tra ciò che è mondano e ciò che è divino. E per questo non c’è cristianità che tenda invece a riunificarli.

L’impegno in questo senso, che è diverso dalla conquista, diverso dall’idea della presenza, quello che ricordava prima Diodato, entrare nello spazio pubblico con la propria casacca e possibilmente fare in modo che tutti il più possibile la rivestano e poi lo spazio pubblico è il nostro. Invece, la mediazione con tutti, la mediazione sapendo che sono sempre frutti provvisori in questa direzione, che nulla di quello che si fa in questo mondo è estraneo al regno di Dio, ma che nulla coincide col regno di Dio.

Scusate, prima ho fatto un passaggio, spero che non abbia turbato nessuno, un po’ veloce sui valori non negoziabili; per spiegarmi farò solo un esempio: se c’è un punto dei comandamenti che mi sembra essenziale, è il comandamento di non uccidere e mi sembra che nei comandamenti delle dieci parole sia semplicemente non uccidere, punto, non uccidere e basta. Se c’è un comandamento con il quale nel corso della sua storia nei secoli la Chiesa e la cristianità hanno fatto infinite mediazioni è proprio questo. Non è un valore non negoziabile non uccidere? Il fatto è che non esistono, non è possibile nella storia non negoziare, si spera di negoziare bene, di mediare bene, sempre meglio, però si media. Per questo spero di non aver scandalizzato nessuno.

Nella consapevolezza della storicità della Parola Incarnata, qui un altro richiamo che ha già fatto Diodato, della inseparabilità tra la vicenda corale umana e l’evento di salvezza ma che non è la conquista del mondo perché diventi Chiesa, ma è il servizio della Chiesa perché il mondo sia mondo così come Dio lo voleva. Un mondo di libertà, di fraternità, di giustizia, di equità. È una cosa molto simile, ma è esattamente l’altra faccia della medaglia.

Quelle che sono le provocazioni del Vangelo sulla politica le ha già richiamate Diodato, quindi un richiamo soprattutto antindividualistico ma anche l’autonomia delle libertà per bene e questo invito, cial dialogo, al pluralismo, all’incontro con l’alterità con in mezzo sempre quella che io amo, ricorrere a un immaginario femminile con questa placenta che è la coscienza, che è l’incontro tra l’Evangelo e la storia, che non è mai un incontro diretto ma una mediazione, così come la placenta mette in comunicazione la madre e il bambino, ma appunto con un qualcosa di mediano perché se l’incontro fosse diretto sarebbe mortale per entrambi.

Il tema della laicità si inserisce a questo punto (posso andare molto veloce perché è già stato presentato e, semmai, può essere ripreso nella discussione), l’importanza della laicità e il suo senso sono già emersi chiaramente: la laicità è proprio questa consapevolezza della placenta, è l’esercizio placentare nei rapporti tra il Dio dell’Evangelo e la scelta delle scelte storiche, politiche, concrete nel sacrario della coscienza. Il sacrario della coscienza è un’espressione di Padre Turoldo, il quale, permettetemi un’altra libertà, rispondendo a un amico che gli diceva: “Ma io come cristiano non mi sento libero”, diceva: “Entrando in chiesa ci si toglie il cappello non la testa”. Questo direi che è il modo più semplice, ma molto più efficace di quello che ho detto io: obbedienza, ma libertà della coscienza, responsabilità.

È stato citato questo autore dal nome difficile che è Birkenfelder. È un autore molto importante sul quale adesso non entro nel dettaglio che però ha questa sua teoria, che poi spinta alle estreme conseguenze, considera che lo stato democratico e liberale non può esibire un fondamento assoluto proprio perché è uno stato democratico e liberale, sarebbe un contraddizione nei termini se mostrasse una fondazione divina e assoluta. Però, quando a un certo punto chiede: “Ma tu su che cosa ti fondi?”, non può esibire questo fondamento e allora ha bisogno che questo fondamento sia qualcosa d’altro. E fin qui, come dire, è un’analisi di fatto. A questo punto, con un’evoluzione poi all’interno del suo pensiero, Birkenfelder dice quelle cose che non condivido e cioè che non può che trovarlo in una religione; ma poi dice: “Ma nel mondo attuale stati religiosi praticamente non esistono e le religioni sono tante e invece ce ne deve essere una”. Poi lui si riferisce in modo particolare al mondo occidentale, e questo è chiaro. E qual è questa religione? È quella cattolica. Dice: “E gli altri?” Gli altri si adattano. Ora, voi vedete se questa è una linea sulla quale noi possiamo pensare di agire in modo democratico all’interno di una società democratica. Gli altri poi non si adattano e tornano le guerre di religione. Questa è la mia previsione terrificata.

Questo fondamento in che cosa lo trova? Qui c’è un problema importantissimo: basta il consenso? E questo sarebbe mostruoso! Si è citato l’esempio terrificante delle leggi razziali. Il consenso è il riconoscimento (io amo moltissimo questa tematica che anche in filosofia è molto trattata: il tema del riconoscimento) di qualcosa che ci precede ma che fino a quando non la riconosciamo non è efficace né effettuale, ma nel momento in cui la riconosciamo ci inchiniamo. Qual è il criterio per cui ci possiamo inchinare? Il criterio ce lo dà Kant: che sia universalizzabile per tutti gli uomini. Ciò che è universalizzabile per tutti gli uomini merita riconoscimento per cui quello della superiorità della razza ariana era esattamente la negazione di questo criterio.

Una libertà che io rivendico per alcuni, ma in modo che non sia universalizzabile a tutti, non è degna di essere riconosciuta. Non fa parte, non è in quella trama che noi riconosciamo sottesa al nostro vivere individuale e sociale.

Ricordo, scusate, e poi finisco rapidamente, non esiste società umana senza l’orizzonte del diritto, è un tema questo che mi è molto caro: l’orizzonte del diritto, delle leggi, l’orizzonte del diritto al quale tutti ci richiamiamo quando pensiamo a una legge fondamentale qual è la Costituzione in particolare, è sotteso a ogni affermarsi umano che dia luogo alla società; dove lo vediamo questo? Una cosa molto bella, scusate una piccola aggiunta, nella ribellione verso l’ingiustizia. È il negativo che ci provoca (e qui avrebbe qualcosa da dire anche Aristotele) e che ci fa incontrare con qualcosa che noi presupponiamo senza saperlo. A 3 anni un bambino mi dice: non è giusto, e non ha fatto corsi universitari di diritto, non dice “è giusto”, ma “non è giusto”. È quando questo presupposto viene violato che io mi rendo conto che c’era e che nessuno ha il diritto di violarlo.

Allora, il riconoscimento appartiene a questo. Quando c’è stato bisogno di riconoscere i diritti umani? Dopo la seconda guerra mondiale e dopo le tragedie immani, quando abbiamo visto che era violato qualcosa del quale abbiamo assoluto bisogno per vivere. A quel punto c’è il riconoscimento, ma il riconoscimento appunto è sempre qualcosa che si riferisce a uno sfondo che riguarda tutti, che si inchina di fronte a uno sfondo che riguarda tutti e del quale tutti hanno bisogno per vivere e per essere pienamente umani. Certamente, voi dite: ma se non fossero stati d’accordo nel riconoscere i diritti umani cosa sarebbe successo? Sarebbe che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo non ci sarebbe stata, ma non per questo non ci sarebbero stati i diritti dell’uomo. Invece il consenso è una concezione molto pericolosa per cui con il consenso si legittima qualsiasi cosa: mi hanno votato e quindi faccio quello che voglio; ne abbiamo avuto qualche esempio recentemente.

Qui c’è un altro tema: come la religione può o deve presentarsi a esercitare la sua influenza sulla sfera pubblica, e questo è l’ultimo punto, tutti gli altri li salto perché se no stiamo qua fino a stasera. Anche qui c’è un dibattito filosofico tra Habermas, Rose: lo dico per chi è appassionato o cultore della materia… Chi entra nella sfera pubblica? Noi abbiamo parlato della libertà del cristiano, non della libertà cristiana che è un’altra cosa, e dell’azione politica di un cristiano libero. Se nella sfera pubblica pretendesse, mettiamoci il condizionale, di entrare l’autorità religiosa come tale, siamo già fuori da questo schema, non c’è la laicità e ci sarebbe il corto circuito tra l’essere un’autorità in ambito religioso e volerlo essere in ambito pubblico. In fondo questo la Chiesa lo ha sempre riconosciuto vietando a quelli che sono nell’ordine sacro di avere un ruolo politico. Sturzo ha dovuto fare la sua scelta a questo riguardo.

Se mi permettete di parlare molto schiettamente, oggi tutto questo è in pericolo. Non è che ci sia un vescovo che si candida alle elezioni, questo no, ma c’è qualcosa di molto più grave. C’è una tendenza della Chiesa a voler riconoscere le proprie più che legittime visioni influendo direttamente nell’ambito legislativo. Questo è molto di più che se un vescovo o prete si candidano alle elezioni: questo ha a che fare con il tema dei valori non negoziabili, ecc. ecc.. Scusate, ne dico ancora una: quando questo non è possibile c’è questo richiamo terribile, parlo non dei cristiani ma dei cattolici, i cattolici che sono in politica non possono votare certe leggi; una riserva, un non expedit al minimo, si devono tirare fuori.

Ora, tutto questo a mio modestissimo parere è molto pericoloso per la democrazia, è deleterio per la Chiesa e questo è uno dei profili più difficili, più ardui dell’impegno del cristiano libero nella politica, nella società, nell’impegno nel mondo anche nei confronti della sua Chiesa. Cioè, i cristiani debbono dire queste cose alla loro Chiesa. Così non va! Così appunto finiamo di nuovo nell’abbacinamento del potere.

Che cosa significa? Che i valori religiosi non devono esistere nella sfera pubblica? No. La sfera pubblica è una sfera nella quale entrano tutti gli esseri umani, la dimensione religiosa è una dimensione che non connota tutti gli esseri umani ma una gran parte di essi e ha diritto a essere riconosciuta e non combattuta frontalmente perché non ci sia, ma a essere riconosciuta nella libertà nella sua sfera. E non con la formuletta liberale vecchio stampo “libera chiesa in libero stato”, che sappiamo benissimo cosa voleva dire, ma questo significa riconoscimento della dimensione religiosa nel pluralismo della religione.

Qualcuno ha detto, per esempio, nelle cerimonie pubbliche è bene o non è bene che ci sia anche il rappresentante della istituzione religiosa? Io condivido una risposta che è stata data e che mi permetto di comunicarvi: sì, se ci sono i rappresentati di tutte le istituzioni religiose che ci sono in quella società. No, se è uno, anche se ha la maggioranza.

Non immagino per questo le pareti con tutti i simboli religiosi. Abbiamo il crocefisso, no, mettiamoceli tutti. Temo di dire una cosa che spiacerà a molti dei presenti. Io personalmente trovo che assolutamente stolido fare la battaglia per togliere i crocefissi, però trovo che è più stolido e più anti-evangelico fare la battaglia per rimetterceli. Se ci sono, e diciamo ha un retro gusto brutto, tutta la nostra libertà sta nel togliere i crocifissi (anche se personalmente quando vado all’ufficio postale che funziona male e mi fa fare 50 minuti di coda, che ha i computer che non funzionano e vedo il crocefisso dietro, dico: Signore, sarebbe meglio che non ti ci mettessero perché non capisco cosa ci fai qui), Personalmente apprezzo che l’università nella quale io insegno abbia le aule senza segni religiosi in modo che ognuno che entra non si senta…

E finisco con una cosa molto importante e scusatemi per la parte che ho saltato. Io richiamo qui una cosa che ho appreso dal teologo italiano Giuseppe Ruggeri che commenta il passo del Credo “patì sotto Ponzio Pilato” che tutti quanti conosciamo e osserva che la menzione di Ponzio Pilato appare già nel secondo secolo e quindi prima del sinodo di Nicea, come sviluppo della formula che c’è nella prima lettera a Timoteo (6, 12-13) riferita a Gesù “testimoniò la sua bella confessione”, potremo dire diede la sua bella testimonianza, “davanti a Ponzio Pilato”. Ci sono state poi le evoluzioni successive di questo passo di Timoteo. Qual era la testimonianza di Gesù davanti a Ponzio Pilato? Era la sua libertà, la sua assoluta alterità rispetto al potere; era un potere politico perché lui non era un magistrato, era il governatore. Nelle trasformazioni attraverso i padri della chiesa Ireneo e Ignazio di Antiochia era motivo delle persecuzioni che i cristiani subirono, il termine testimoniare in greco è marturia, lo stesso termine di testimonianza e martirio, fu sostituito dal termine patire perché in effetti la testimonianza alta dei cristiani in quel momento si dava attraverso l’accettazione della sofferenza, del patimento, del martirio e così si arriva alla formula “patì sotto Ponzio Pilato” dove ognuno pensa: ha sofferto perché è stato torturato, inchiodato alla croce ed è morto crocefisso. Ma si perde questa cosa importante di Timoteo, di questa esemplarità di dare testimonianza di libertà nei confronti del potere, la cui conseguenza poi è la sofferenza. Testimonianza resa davanti ai potenti di questo mondo e quindi il cristiano libero dal potere può dare bella testimonianza appunto solo se non si mette sotto i poteri di questo mondo. Il cristiano è costituito in questa libertà e in questa libertà però, a prezzo di sofferenze e di contraddizioni, magari anche nella Chiesa, deve mantenersi.

Grazie.

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