(PAGINA TEST) – La laicità dei cristiani.

Parlandone nelle periodiche e feconde “cene di lavoro” organizzate nel suo appartamento a Sesto, Giovanni Bianchi ipotizzava di aprire sul sito del Circolo Dossetti una collana di microsaggi che possano costituire momenti di approfondimento che vadano oltre la dimensione dell’articolo riprendendo lo spirito della rivista “Bailamme”, impresa che vide Giovanni come direttore e Pino Trotta come “motore” della rivista.

Seguendo questa sua indicazione, da oggi il Circolo Dossetti inizierà una pubblicazione settimanale di una serie di microsaggi inediti che Giovanni Bianchi scrisse pensando poi di raccoglierli in un libro che si sarebbe chiamato: “Il Leviatano”. I saggi verranno pubblicati ogni lunedi preceduti da un breve riassunto in grado di orientare il lettore.

I temi riguardano il rapporto tra democrazia e religione: la laicità, la politica dopo il Concilio Vaticano II, i “valori non negoziabili”,  la convivenza di due Papi, il ruolo del cattolicesimo democratico e la costruzione di un “laburismo cristiano”.

Vengono poi affrontate le contraddizioni che caratterizzano la nostra società liberale:  la corruzione, il familismo, le disuguaglianze e la povertà, l’aumento degli anziani e i problemi che ciò comporta, il crescente ruolo dell’elettronica e dell’automazione e le sue conseguenze, la crisi finanziaria e il tumultuoso tramonto di quello che Giovanni definisce “narcisismo occidentale” con la nascita di una emergenza democratica che ha una profonda e drammatica radice antropologica.

Non mancano le riflessioni sui partiti e sul significato del fare politica: il mutato significato della militanza, il rischio della creazione di una “casta” politica, la categoria del “tradimento” (dalle scelte nella seconda guerra mondiale all’elezione del Presidente della Repubblica), i rischi per la cultura politica passando dai “patemi del PD” al “labirinto romantico dei cattolici democratici”.

Il focus delle sue riflessioni è tuttavia il “Leviatano”, lo Stato e le istituzioni che lo compongono: le regioni, le province, i comuni. La visione Sturziana del Comune e del federalismo, prima desiderato e poi dimenticato dal dibattito politico, la rinnovata importanza delle città attorno alle quali si struttura economicamente e politicamente il globo intero,  il ruolo fondamentale e la crisi profonda della burocrazia che “ruba il futuro, toglie dignità, libertà, certezze”.

Come scrive Giovanni: “Nelle stagioni del Leviatano campeggia l’autunno. E l’autunno del Leviatano vuol dire il prevalere della burocrazia. Intorno ad essa si affannano insieme le definizioni e le critiche. Perché forte è il bisogno, accresciuto dalla crisi, della “quarta libertà”. Compito arduo e complicato. Dal momento che la missione di breve periodo per radicare ed accrescere la quarta libertà comporta di ridisegnare lo Stato, le Regioni e gli enti locali – come espressione della comunità e non dei governanti – in una dimensione di governabilità basata sulla fiducia scaturente dall’uso imparziale e trasparente del rapporto tra burocrazia e democrazia, tra amministrazione e politica.

Una sfida cioè ad affermare la cultura dell’uomo prima dell’avidità dell’interesse, riportando la risorsa umana nella giusta dimensione di lavoro, di sinergia e collaborazione, di passione, di capacità di instaurare relazioni di gruppo e comunitarie. Con l’esigenza evidente di una bussola istituzionale, davvero indispensabile per acquisire gli strumenti innovativi e definire l’agenda della governabilità.” 

Nei saggi si ritrova il Giovanni Bianchi ispiratore e fondatore dell’Ulivo con Romano Prodi e Beniamino Andreatta,  i vari temi vengono affrontati con lo spirito “riformista” e “innovatore” di chi non crede che i problemi si possano risolvere con la rimozione, con il dileggio, con la minimizzazione, ma bensì vadano affrontati evidenziando contraddizioni e conflitti di interesse e promuovendo ragionevoli compromessi.

Uno spirito, quello “riformista” e “innovatore”, da recuperare in un dibattito politico in cui è spesso bandito il confronto vero, quello che affronta i nodi reali dei problemi sulla base dei dati, quel confronto che Giovanni nelle sue memorabili cene ma in tutte le occasioni in cui si confrontava col pensiero degli avversari politici invece affrontava, perché diceva che bisogna partire da un punto di vista per potersi confrontare con gli altri, ma avere un punto di vista non significava arroccarsi su quel punto di vista, e “la politica si divide tra chi si arrocca nella sua posizione e chi invece si mette in cammino” e Giovanni in cammino si metteva, davvero.


Nel breve saggio di oggi “La laicità dei cristiani”, scritto il 15 aprile 2007, viene trattato il tema della laicità, definita da Giovanni come “un rapporto: tra come pensiamo Dio e come pensiamo Cesare, tra la Chiesa e lo Stato, tra la coscienza collettiva e le istituzioni. Un rapporto che muta ed è profondamente mutato.”

Partendo dall’intervista concessa dal Cardinale Scola al “Corriere della Sera” il 17 luglio del 2005 in cui si chiedeva una “nuova laicità”, Giovanni illustra i motivi che rendono “vecchia” l’attuale concezione di laicità e il percorso per arrivare a un consenso etico tra culture che vada oltre l’articolo 7 della Costituzione del 1948 disegnando un nuovo ruolo per il laico cristiano.


Al tornar nelle genti io son sconfitto;
Ripiglio i colpi, gemo sotto il basto:
Cristo ha ragione e Machiavelli vince.
Clemente Rebora, I frammenti Lirici

Siedo sul ciglio della strada.
Il guidatore cambia la ruota.
Non mi piace da dove vengo.
Non mi piace dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
con impazienza?
Bertolt Brecht, Elegie di Buckow



Una laicità in cantiere

Anche la laicità è in costruzione nel Paese della transizione infinita. O almeno me lo auguro. A fronte di una secolarizzazione che ha eroso non solo la religione, ma i simboli profondi.  Il bisogno di identità nasce così. C’è chi reinventa i Celti  e chi assegna alla cultura cattolica una funzione di ricognizione rassicurante dove le radici storiche appartengono assai più alla sociologia di Durkheim che al vangelo del Nazareno. Non solo dunque la società e la nazione sono “liquide”, ma producono disorientamento. E soprattutto il pensiero resta liquido… Il pensare in pubblico, il pensare politica.

Tra tanti che usano Aldo Moro come il ketchup dei finti democristiani, pochissimi ricordano che Moro aveva l’abitudine di ripetere che il pensare politica è già per il novanta percento fare politica.

A quale percentuale ci saremo mai ridotti? Perché va estinguendosi l’abitudine di pensare politicamente?

Residui di nomenklatura (non oligarchie) occupano lo spazio che fu dei partiti di massa. E in generale nella vita quotidiana l’immagine tende a mangiare il territorio. Ha ragione Woody Allen: “Il cinema si ispira alla vita, e la vita, si sa, si ispira alla televisione”.

In una orografia scossa e sconnessa i rapporti vanno ripensati, rimisurando prima le distanze e poi le vicinanze, dal momento che non portano lontano gli accordi sulle subordinate. E la laicità è un rapporto: tra come pensiamo Dio e come pensiamo Cesare, tra la Chiesa e lo Stato, tra la coscienza collettiva e le istituzioni. Un rapporto che muta ed è profondamente mutato.

Credo che nessuno nel nostro Paese abbia meglio sintetizzato e chiarito la circostanza nella quale ci troviamo del Patriarca di Venezia, il cardinale Scola, nell’intervista concessa al “Corriere della Sera” il 17 luglio del 2005. In essa Scola chiede una nuova laicità. E lo fa connotando il tema all’interno delle contingenze della globalizzazione, con una lucidità che sottrae finalmente l’aggettivo nuova alla stucchevole deriva degli ismi. Vi leggo un’istanza di responsabilità e di discernimento che postulano il protagonismo delle fedi, delle culture, della coscienza e del dialogo incessante. Le cose vanno dette. Le provocazioni accettate e rilanciate.

Una nuova laicità non è ovviamente data, ma si propone come un cammino nel quale ci si inoltra, in compagnia, discutendo lungo la via. La metafora è quella del Vangelo lucano che mostra i discepoli in viaggio per Emmaus (cfr. Lc, 24, 13 – 35). Con un cambio di verbo: lo sperabamus può essere declinato al presente e al futuro. Il credente è connotato dalla perseveranza, non dalla depressione.

E non possiamo dimenticare che fu Norberto Bobbio, maestro per tutti di democrazia, a suggerire l’icona di un’Italia tutta abitata da “diversamente credenti”.

Laicità è diversità. Diversità e differenze che si dicono in dialogo. Che sono incamminate (o dovrebbero) alla costruzione di una cultura di “meticci”, secondo l’indicazione, interetnica ed interreligiosa, del cardinale Scola, perché la società multietnica, anche per il Belpaese, non è una parentesi ma un destino. Per il Rapporto ISMU del 2006 gli immigrati stranieri presenti sul suolo italiano con permesso di soggiorno ammontano a 3.012.000; mentre gli irregolari vengono stimati nel numero di 760.000. 

Perché dunque una laicità nella quale siamo cresciuti s’è fatta vecchia ed una nuova preme alla porta? Risponde il Patriarca di Venezia: “Perché il 1989, con la caduta delle utopie, marca il passaggio a una nuova fisionomia dell’umanità, che ha segni clamorosi: la globalizzazione, la civiltà delle reti, le biotecnologie, l’interculturalismo, che io preferisco chiamare “processo” di meticciato di civiltà. Se a questi segni si connette l’evoluzione del rapporto tra nazioni e ordine mondiale, tra guerra e terrorismo, ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale della democrazia e della società civile. Si tratta di attuare una pratica e di pensare ex novo una teoria della laicità. Dobbiamo impegnarci con pazienza a rivedere le cose”. [1]

Demodé (eppur scultoreo) il celebratissimo articolo 7 della Costituzione del 1948:  “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. 

Molte cose sono rapidamente mutate nel cielo di questo Stato, quasi leviatano sospeso su di un civile trasformato e in frammenti. L’etica cattolica é sempre meno sovrapponibile all’etica di cittadinanza, e ciò nonostante il riavvicinamento culturale tra settori di opinione pubblica un tempo considerati laici e l’ecclesialità ufficiale. Il problema non è quanto il cattolicesimo surroghi  in Italia la religione civile: si tratta piuttosto di trovare un consenso etico tra culture per evitare quantomeno il rischio realissimo di abitare città divenute agglomerati di ghetti contrapposti… 

Ce la faremo? Ne vale comunque la pena. E il credente dovrebbe essere da tempo avvertito: non gareggi in immaginazione con lo Spirito Santo, e stia in attesa – oportune et importune  – dei suoi suggerimenti.

IL LAICO CRISTIANO 

Tra due codici 

La polemica spesso aspra e ricorrente su progetti di restaurazione, su tentativi di ritorno al passato, può confondere il dibattito sui temi cruciali del laicato nel nostro tempo. Non si tratta di difendere il Concilio, ma di realizzarlo, incrociando coraggiosamente i problemi che ci circondano, senza i miti di un’era dello Spirito, sopraffatta, ora, da un’era della Legge. 

A separare il passato dal presente c’è proprio questa realtà del laicato che è il punto di partenza, irrinunciabile, di ogni ulteriore ricerca. Forse nulla meglio di un confronto sommario tra il codice di diritto canonico del 1917 e quello del 1983 ci può avvisare di questo evento nuovo. 

Il codice del 1917 rispecchia un atteggiamento sul  laicato assai lontano nella storia della Chiesa, rimasto quasi immutato nei secoli, tanto da poter risalire a Graziano. I laici erano il “popolo” cui era concesso di possedere beni temporali, di prendere moglie, giudicare, fare offerte, pagare decime, fare beneficenza e così salvarsi. Da questo popolo si distinguevano i chierici, dediti alla contemplazione e alla preghiera, lontani ab omni strepitu temporalium, eletti da Dio ad un regno che consisteva nel reggere sé e gli altri nella virtù e che era significato dalla loro corona in capite, la tonsura. Così recita il codice del 1917: «L’ordine sacro distingue per volere di Cristo i chierici dai laici nella Chiesa per il governo dei fedeli e per il ministero del culto divino». 

In tale contesto i laici che lavorano, si sposano, amministrano possono salvarsi comprimendo i vizi insiti in tutte queste attività e facendo beneficenza. Essi restavano popolo da cui venivano tratti (sorte electi) i chierici che governavano la Chiesa. L’esistenza di questo popolo coincideva con la sua funzione ecclesiale che era quella di fornir chierici alla Chiesa, perché esso potesse essere governato e salvato. 

Il codice del 1917 non recepisce quello che pure era stato un vasto e profondo movimento del laicato nei decenni precedenti, quando i laici si organizzavano mettendo capo a vari movimenti di azione cattolica. Tali movimenti erano intesi come longa manus della gerarchia ecclesiastica. Così Pio XII definiva l’azione cattolica: «un instrument entre les mains de la hierarchie, qui doit ệtre comme le prolongement de son bras et que est de ce fait soumise  par nature à la direction de l’ecclesiastique”. Oppure i laici erano intesi come collaboratori dell’apostolato gerarchico, essi, come diceva Pio XI, «partecipavano all’apostolato della gerarchia”. Ci sono dei particolari curiosi, ma significativi. Qualcuno proponeva allora che i dirigenti dell’Azione Cattolica fossero tonsurati e fosse loro conferito qualche ordine minore, e questo per la ostinata convinzione che nessuna funzione religiosa ecclesialmente rilevante poteva essere svolta dai laici se non strappandoli al mondo e facendoli in qualche modo diventare chierici o suore… Tale proposta, come racconta Congar, non ebbe seguito, ma rimase, per così dire, sospesa nella storia a venire. 

Questa era la situazione, per usare una data, del 1917. Un lento lavoro, un lavoro profondo si era però già cominciato all’interno della Chiesa, in quel “popolo di Dio” che andava maturando esperienze e problemi che eccedevano di gran lunga l’impostazione del codice del 1917. Tra il 1917 e il Concilio Vaticano II si svolge quella teologia e quella vita cristiana che possiamo definire delle realtà terrene, della  autonomia dell’ordine temporale. Non è questa la sede per ritornare su quell’appassionante dibattito, basta qui rilevare che emergeva allora una verità antica come le Scritture. L’“ordine temporale”si inseriva nell’ordine della creazione ed esso andava riportato a Dio attraverso la  sua peculiarità, la sua autonomia, iuxta propria principia. Il saeculum non si contrapponeva all’Evum, la storia della salvezza non era un’altra storia. Sono noti a tutti autori come Maritain, Chenu,  Congar, La Pira, Lazzati. La valorizzazione teologica del temporale, l’intuizione che la secolarità è luogo teologico essa stessa non poteva che inscriversi in una lettura diversa del laicato nella chiesa e nel mondo.

Basta per questo richiamare alcune proposizioni del nuovo codice di diritto canonico del 1983. I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò resi partecipi, nel modo loro proprio, dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo; sono chiamati ad attuare, secondo la condizione giuridica propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo» (can. 204). Il fondamento comune della Chiesa è il battesimo, l’essere tutti Christi fideles, e quindi tutti, laici e chierici, partecipi del sacerdozio comune. Partecipi cioè di quella “piena dignità” che padre Philips mette in rilievo come tonalità dominante non soltanto del capitolo de laicis ma di tutta la costituzione Lumen Gentium, e che ha in Sant’Agostino il primo estimatore: con voi sono cristiano, per voi sono vescovo. 

Tale partecipazione non è univoca, ma si articola in vocazioni particolari, in carismi complementari, in talenti diversi, secondo la lettera di Paolo ai Corinti. 

C’è distinzione tra sacerdozio comune e sacerdozio sacramentale, senza che ciò implichi separatezza. L’elemento che caratterizza la vocazione laicale è quello della “secolarità”. “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”(Lumen Gentium). Essi vivono nel secolo: “Ivi sono chiamati da Dio a contribuire, quasi dall’interno, a modo di fermento, alla santificazione del mondo”. Attraverso la dimensione della “secolarità” si sviluppa un orizzonte specifico di evangelizzazione, autonomo dei laici. 

Non è chi non veda il capovolgimento teologico dell’impostazione precedente. Dove il mondo era visto come un male necessario da contenere e reprimere, richiedendo dall’esterno salvezza, qui la secolarità diventa luogo teologico della santificazione, valorizzazione della storia e del creato che tende alla Croce. E secolarità indica piena autonomia del temporale, pluralità delle opzioni, rispetto della loro libertà. Dovere specifico dei laici, recita il nuovo codice, «è, ciascuno, secondo la propria condizione, di animare e perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico e in tal modo rendere testimonianza a Cristo, particolarmente nel trattare tali realtà e nell’esercizio dei compiti secolari».

Secolarità e cristianità 

Ho esposto queste brevi riflessioni a partire dai due codici di diritto canonico del 1917 e del 1983 per verificare insieme l’enorme distanza e la fase teologica nuova in cui siamo incamminati. 

Il problema non è più quello del ritorno ad una vecchia immagine di Chiesa, ma quello dell’autonomia del laicato. Questa è un fatto, ma insieme un problema. Ricordo le ormai lontane parole di padre Chenu quando andava ripensando la sua teologia del lavoro: essa non poteva essere un complemento, un altro volume che si aggiungeva alla vecchia teologia. Quel punto di vista “parziale” portava a ripensare la teologia tutta intera. “Non si tratta di allargare la morale classica, di dedurre dai principi eterni applicazioni marginali per sistemare meglio la situazione contingente; bisogna conoscere ex novo questo nuovo terreno …”. E la teologia del lavoro è interna a quella del laicato. Questo è un primo punto su cui insistere. Ma è un punto che fa problema: l’autonomia del laicato è un fatto critico che interroga incessantemente ogni distinzione raggiunta, ogni irenica conciliazione. Per capire questo bisogna ritornare a ripercorrere il linguaggio teologico che l’ha sostenuta. Oggi assistiamo a questa situazione paradossale: la realtà, l’evento dell’autonomia del laicato e insieme la crisi del suo linguaggio teologico. Esperienze che non trovano un linguaggio al livello  della dignità raggiunta e che neppure più riescono ad essere parlate da fuori. Emblematica in tal senso la dimensione della secolarità. Sembra un orizzonte chiaro e preciso, ma quando ci addentriamo al suo interno diventa una incessante proposta di problemi. 

Ogni volta che incontro questa parola mi ricordo quella stupenda lettera di Dietrich Bonhoeffer dell’8 giugno 1944, che per me rimane il punto di partenza di ogni riflessione che voglia misurarsi con la crisi, la discriminante strategica di quanto di nuovo e di vecchio si agita sotto questa parola. “Ha raggiunto ai giorni nostri una certa compiutezza il movimento iniziatosi verso il XIII secolo … che aveva come obiettivo l’autonomia dell’uomo (intendo per autonomia la scoperta delle leggi, in base alle quali il mondo vive e basta a se stesso nella scienza, nella vita sociale e politica, nell’arte, nella morale, nella religione). L’uomo ha imparato a cavarsela da solo in tutte le questioni importanti, senza ricorrere all’ipotesi  di lavoro “Dio”.” Proprio questa autonomia dell’uomo è diventata il tormento dell’apologetica cristiana, protestante e cattolica. “L’apologetica cristiana è scesa in campo contro questa sicurezza di sé in varie guise. Si tenta di convincere il mondo diventato adulto che non potrebbe vivere senza il tutore Dio». 

Questi attacchi appaiono a Bonhoeffer assurdi, scadenti, non cristiani perché «Cristo viene scambiato per un determinato grado della religiosità umana, quanto dire con la legge umana». I1 problema centrale per Bonhoeffer è invece proprio questo: Cristo in un mondo diventato adulto. 

Il suo giudizio sulla teologia liberale possiamo farlo nostro e applicarlo in gran parte alla teologia che accompagnò e seguì il Concilio Vaticano II.  “La debolezza della teologia liberale è stata quella di concedere al mondo il diritto di assegnare al suo interno uno spazio a Cristo; nel conflitto tra Chiesa e mondo, essa ha accettato la pace – relativamente onorevole – dettata dal mondo. La sua forza, invece, è stata quella di non tentare di far tornare indietro la storia e di accettare realmente la sfida anche se essa si è conclusa con la sua sconfitta”. Il merito enorme di Barth sta per Bonhoeffer nell’aver riconosciuto per primo l’errore originario di tutti questi tentativi, che è quello «di voler ri-servare alla religione uno spazio nel mondo o contro il mondo». Va anche notato che la pace con il mondo e il suo perbenismo evita ai credenti il rischio del martirio e al mondo il disturbo della persecuzione. 

C’è nella cultura teologica cattolica una sorta di mito, l’idea di un’epoca felice, quella della cristianità. Mi sembrano assai penetranti in proposito le riflessioni di Giuseppe Angelini: “Per intendere il rapporto tra cristianesimo e storia è indispensabile ancora oggi riferirsi alla figura storica realizzata dal cristianesimo latino nell’arco di tempo che va dal VI al XVI secolo. Essa indubbiamente comporta un massimo di densità civile; il cristianesimo è allora la fondamentale istanza spirituale dalla quale la civiltà medievale deriva il suo orientamento, la sua unità, i suoi paradigmi di  valore e di senso. Il cristianesimo è la forma della civiltà. L’affermazione può e deve essere anche rovesciata: la civiltà è la forma storica del cristianesimo”. Ora è proprio questa coincidenza tra cristianesimo e civiltà che è infranta dalla storia moderna. Se il “progresso” cristiano si identifica con il progresso dell’idea e delle istituzioni cristiane nel mondo, entro un quadro civile sostanzialmente fermo, l’emergenza del moderno è invece esperienza del mutamento. Scrive sempre Angelini: «L’esperienza moderna della storia si produce parallelamente alla crisi della egemonia civile della Chiesa. Fa parte dei mutamenti civili complessi che inaugurano nei tempi moderni la fine dell’organizzazione civile nella forma della “cristianità”. Almeno per tale aspetto la novità moderna è vissuta dal cristianesimo tradizionale come novità minacciosa, non prevista e non voluta, ma anzi temuta, in molti modi e per molto tempo condannata».

Fine dell’organizzazione civile dunque nella forma della cristianità. E’ la cristianità quella sorta di mito fondante che attraversa l’intera vicenda del rapporto del mondo cattolico con il moderno. E rispetto al suo dissolvimento non è stato estraneo al mondo cattolico quell’atteggiamento profondamente intuito da Nietzsche del “risentimento”, “cui è preclusa la reazione vera, quella dell’azione, e che può soddisfarsi solo grazie ad una vendetta immaginaria”.

Alla dimensione della cristianità non si sottrae, anche se attraverso un confronto teorico più alto, quel movimento di pensiero teologico che si affaticò intorno al tema dell’autonomia del temporale. L’apertura al moderno avveniva all’interno di uno schema teorico dei distinti che finiva per esaurire ogni interrogazione inquietante. E’ ancora Angelini a cogliere, con la consueta acutezza, questi aspetti assai rilevanti: «La teologia cattolica prevalente e il magistero ecclesiastico hanno cercato la soluzione del problema ricorrendo alla distinzione dei due piani, naturale e sovrannaturale, temporale ed eterno, tra i quali si divide la vita del cristiano. E nel quadro dell’ordine temporale naturale hanno elaborato un’etica sociale raccomandata dalla “ragione” universalmente umana, e non invece immediatamente dalla fede positiva ed “escatologica”. Nella “razionalità”di tale etica si esprime l’intenzione di farne un’istanza universalmente riconoscibile, pur all’interno di un mondo civile in cui è venuta meno l’unità religiosa e confessionale. La razionalità mentre comporta da un lato la perdita di tensione escatologica, non riesce a realizzare il guadagno di una presenza alla storia. Perché la razionalità del cosiddetto diritto naturale – categoria fondamentale nell’etica cattolica – fa riferimento ad una ragione che dimostra di non saper comprendere la storia. Sicché il chiaro interesse che pure mostra il cattolicesimo per le questioni di civiltà rischia di non riuscire un effettivo contributo alla vicenda civile: ma non per presupposto “escatologismo”, ma piuttosto per “anacronismo””. 

Due sentieri interrotti

Le tendenze attuali ad una clericalizzazione del laicato e ad una secolarizzazione della Chiesa sono inquietanti: esse indicano uno stato di crisi, intorno al problema dell’autonomia del laicato e della laicità. I1 grosso scontro, e non a caso, avviene proprio sullo schema interpretativo che aveva sorretto la prospettiva di una teologia della secolarità: da una parte esso viene compiutamente accettato, dall’altra svuotato di senso. 

L’intero impianto della teologia delle realtà terrene, la distinzione stessa tra piano del temporale e dello spirituale, al cui interno era stata resa possibile la valorizzazione della “secolarità”, presuppone, come sua stessa possibilità, un atteggiamento positivo o di ascolto delle realtà terrene attraverso la categoria del discernimento che è in grado appunto di separare il grano dalla zizzania, in una disposizione pastorale che coniuga misericordia e giudizio. 

Buona parte del Convegno di Loreto del 1985 su “Riconciliazione e comunità degli uomini”  ruota intorno a questa disposizione. Domina invece in alcune posizioni una visione catastrofica del moderno. Catastrofica, non apocalittica. Vi si vede lo sradicamento dell’essere sostituito da un fare o da un volere senza fondamento e senza verità. Ciò porterebbe progressivamente la cultura moderna alla nuda e semplice distruzione di valori morali ed umani, che costituivano il più ricco patrimonio culturale dell’umanità. E’ così che si sarebbe perduta soprattutto la consapevolezza che a Dio si può arrivare attraverso la ragione e non solo per fede. Questo – si fa notare – è il più grave evento della storia contemporanea, che non ha consumato tutti i suoi effetti negativi e fra questi l’impossibilità di ricomporre teoreticamente in unità l’ordine temporale e l’ordine spirituale. Quanto vivano di “risentimento” tali parole si mostra da sé. Quella unità tra i due ordini poteva vivere solo all’interno della cristianità; le rovine di una ragione che assegnava anche a Dio le sue regole diventano rischio mortale per il cristianesimo stesso. Civiltà e cristianesimo coincidono, l’autonomia del temporale in tanto ha senso in quanto inscritta in una civitas christiana che, anche se non c’è, serve almeno come criterio di orientamento.

Non diverso l’atteggiamento di Augusto Del Noce: “Nichilismo è il termine d’uso oggi per significare la caduta nel mondo occidentale di valori finora considerati come supremi, e certamente il fenomeno è nuovo perché non si tratta affatto di una crisi di crescenza in un processo di sostituzione di valori che tramontano con valori nuovi, come finora era sempre stato nella storia». Per Del Noce l’unica crisi positiva, di crescenza, si ha nel passaggio dalla civiltà antica alla cristianità; da allora ogni crescenza è solo ritorno, un eterno ritorno di civiltà cristiana e barbarie del nichilismo. 

Ciò che accomuna queste interpretazioni è una sorta di “tristezza metafisica”: ancora una volta il decomporsi di un glorioso patrimonio culturale diventa un attentato alla fede stessa, alla possibilità di dire Dio oggi. 

Una strada analoga, ma non esiti diversi, ha percorso l’altro atteggiamento, quello della teologia progressista. Qui l’autonomia delle realtà temporali si è messa in strada per diventare loro egemonia, ancora una volta una sorta di coincidenza, almeno tendenziale, tra cristianesimo e storia, di cristianesimo e liberazione, visione della Chiesa come critica incessante dell’esistente, riserva escatologica e quindi deperimento della sua specificità, approdo del cristianesimo ad antropologia. 

Padre Ernesto Balducci, cui il genio operoso e credo anche una evidente “toscanità” impediscono di iscriversi a qualsiasi scuderia teologica, ha probabilmente in testa questo esito quando scrive: «Dovendo semplificare un discorso in sé complesso, direi che adesso mi trovo in una posizione, anche teologica, che chiede che tutte le questioni siano ricondotte alla soglia antropologica e ivi confrontate con le istanze esistenziali e storiche oggi in campo. La Chiesa in questo senso diventa marginale, è problema subalterno, non primario». In tale contesto il mondo diventa il criterio con cui discernere la Chiesa: “Di delusione in delusione si è trasformata in tesi la mia ipotesi che fosse possibile guardare la Chiesa a partire dal mondo, assunto non come categoria illuministica,  ma come punto di riferimento del progetto di salvezza e come luogo di elaborazione dei suoi contenuti storici». 

I rischi che vengono da entrambe le letture – quella catastrofica e quella antropologica – sono evidenti. Nella prima la lettura della secolarità diventa fondamentalmente sterile; è così fosco il quadro del moderno che essa finisce per essere testimonianza separata di una “legge” e di una “ragione” che vive in un astrale isolamento ed è portata quindi a separarsi o ad approdare ad una interiorità inefficace. La spiritualità laicale si realizza nel nascondimento, nella non visibilità dello Spirito, che trova il suo complemento nella certezza sacramentale della gerarchia. I1 limite è la mancanza di un approdo vero ed intimo con la storia, essa stessa vero luogo teologico della propria esperienza di fede. 

Nell’altra lettura il laico finisce invece per essere figura dominante della Chiesa e quest’ultima è risucchiata dalla dimensione antropologica. La distinzione tra laico e chierico è praticamente visibile, non teologicamente fondabile. “Penso che nel futuro – cito ancora padre Balducci – la Chiesa dovrà eliminare dalle sue strutture la figura del prete così come si è prodotta in mille anni di storia, del prete della riforma gregoriana, che unifica in sé la figura dell’uomo di Dio – cioè dell’uomo del sacro, dell’uomo della contemplazione – e il ruolo di ministro della comunità che deve rispondere di quello che fa e di quello che è alla comunità come tale».

Dalla contrapposizione alla differenza

Ora non si tratta di mediare le due posizioni, ma di cercare un punto di vista diverso senza alcuna pretesa di averlo trovato. Mi servirò di alcuni accostamenti che potranno forse apparire provocatori e certamente controcorrente, ma che spero tentino almeno un pensiero. Vorrei partire da due riflessioni. La prima è questa: “Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita fatta di carne e di spirito, ed è questa che deve essere – nell’anima e nel corpo – santa e piena di Dio: questo Dio invisibile lo troviamo nelle cose più visibili e materiali. Non vi è un’altra strada: o sappiamo trovare  il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai. I1 cielo e la terra, figli miei, sembra che si uniscano laggiù, sulla linea dell’orizzonte. E invece no, è nei vostri cuori che si fondono davvero, quando vivete santamente la vita ordinaria». 

Mi sembra questa una riflessione assai bella. La vita del cristiano è questo essere carne e spirito; l’escatologia non si proietta nel futuro se non in quanto vive nella vita ordinaria, segno e differenza insieme. Il secondo pensiero è il seguente: “A questo cristiano non viene mai in mente di credere o di dire che lui scende dal tempio al mondo per rappresentare la Chiesa, e che le sue scelte sono le soluzioni cattoliche di quei problemi. Questo non va, figli miei! Un atteggiamento del genere sarebbe clericalismo, cattolicesimo ufficiale o come volete chiamarlo. In ogni caso vuol dire violentare la natura delle cose. Dovete diffondere dappertutto una vera mentalità laicale, che vi consentirà di evitare ogni intolleranza ed ogni fanatismo, ossia, per dirlo in modo positivo, vi farà vivere in pace con tutti i vostri concittadini e favorire anche la convivenza in ogni ordine della vita sociale». 

Potrà forse stupire qualcuno, ma entrambe le citazioni sono prese da Josémaria Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, a riprova del fatto che il tema della laicità incalza e affatica un arco molto vasto e differenziato di soggetti ecclesiali e che la maturità del laicato è un problema non più circoscrivibile. 

Questa constatazione mi richiama alcune osservazioni di una lettera di Bonhoeffer: «Matrimonio, lavoro, Stato e Chiesa hanno il loro concreto mandato divino, ma come cataloghiamo la cultura e la civiltà?. .. Esse non rientrano nell’ambito dell’obbedienza ma in quello della libertà che comprende tutti e tre i campi del mandato divino. Chi non avverte questo spazio della libertà, potrà anche essere un buon padre, un buon cittadino e un buon lavoratore, persino un buon cristiano, ma dubito che sia un uomo completo e come tale anche un cristiano nella accezione piena della parola». 

Ciò che emerge è proprio l’unità di carne e spirito che fonda la vita del laico e la sua libertà nel mondo. Libertà vera. Il mondo adulto, di cui parlava Bonhoeffer, esige una risposta cristiana che ha abbandonato il risentimento, che ama la terra. Ma chi avesse una immagine gaia della terra, chi confondesse la gaia scienza per una scienza felice, sarebbe deluso. Non a caso don Giuseppe De Luca non si stancava di ripetere che la storia del mondo è storia della pietà e insieme storia dell’empietà. 

L’essere adulti diventa per il cristiano reggere l’amore del mondo con il suo mistero, reggere la lacerazione profonda che coniuga felicità e dolore senza riconciliarli nel sogno, senza fuggirli nella Speranza. La Speranza, questa virtù teologale, non compone un conflitto, ma dispone alla Grazia. Qui credo il senso di “carne e spirito”, qui la lotta antiidolatrica di cui parlava Bonhoeffer contro ogni consolazione cristiana: né tristezza metafisica, né ottimismo antropologico.  

Due autonomie 

Autonomia del laicato e autonomia delle realtà terrene vanno tenute ostinatamente insieme, oltre la crisi della loro cultura fondante. Essa ci è servita, come la scaletta di cui parlava Wittgenstein, per arrivare lassù. Quella scala ora non c’è più e occorre, a partire da dove siamo arrivati, tentare nuove chiarezze iniziando dall’ascolto della Scrittura e del nostro mondo. Nell’orizzonte della laicità abbiamo imparato a vivere la profonda, intima storicità della nostra fede. Tornare indietro, ridisegnare nuove o vecchie filosofie della storia non ci sarebbe possibile se non a prezzo della menzogna. Ma il tempo che ci attraversa non è quello di un pensiero che si adatta alla moda e si omologa ai grandi numeri. Il tempo che scandisce la storia della nostra fede è piuttosto quello della differenza. Ciò apre un sentiero e non approda ad una conclusione. 

Stenta a farsi strada nel mondo cattolico il senso stesso della “secolarità” del moderno, che è quello che ha rotto il connubio tra cristianesimo e cristianità. Vista in quest’ottica, l’esaltazione di Bloch e del futuro fatta da Moltmann non differisce originariamente da quella di De Maistre fatta da Del Noce. E’ che in entrambe vive questa omologazione tra cristianesimo e mondo. Nell’una il cristianesimo è “tormento della storia”, futuro del mondo; nell’altra è il mondo stesso, se compreso nella sua “verità”, che non è quella della Parola, ma della cristianità. In entrambi il cristianesimo è umanesimo integrale, sia che si dissolva nella storia, sia che la storia si dissolva nella sua dimensione sacrale. 

La secolarità allora o è vuota autonomia del temporale o è apparenza. Il punto cruciale è invece intendere questa differenza della Parola divina. Essa non rinuncia al tempo perché fa parte del suo essere proferita ed intesa, né cerca altri tempi. Questo tempo è il suo tempo: e qui non edifica una civiltà, ma custodisce la Buona Novella. Non emerge per contrapposizione, ma per differenza. Questo terreno della laicità, dell’autonomia del temporale è un terreno scosceso. Non esiste una soluzione cristiana, il cristianesimo non è una grande terapia. Quella salvezza in enigmate, di cui parlava Paolo, quella “caparra” è diventata certo possesso, gloria barocca sulle macerie del mondo. E invece la secolarità su cui cresce la vocazione laicale è spazio difficile. Essa vive nel tempo povero dell’ “enigma” e della “caparra”. 

I valori sono questa differenza stessa offerta come luogo di comunione: l’irriducibilità della creatu-ra, l’attesa della pace messianica, la fraternità d’una discendenza dalla Croce, l’amore al compito quotidiano. Questo è il minimum  del nostro linguaggio, e non pretendiamo né di costruire una civiltà cristiana, né di sapere che tutto ciò che esprime l’uomo è distrutto dal nichilismo moderno. Bisogna stare nel nichilismo moderno, attraversarlo, non fare come la scimmia di Zarathustra che si volta disgustata dinanzi alla metropoli, dimentica di quante pietre cristiane sono  disseminati la sua gioia e il suo orrore. Bisogna tenere il tempo. 

Secolarità e politica

Questo discorso e queste riflessioni non sarebbero completi se non si parlasse anche esplicitamente della politica. Spesso ci si dimentica di come uno dei luoghi di esperienza su cui è cresciuta la realtà della autonomia del laicato è stata in Italia proprio la politica. Basta anche solo sfogliare il classico volume di De Rosa sulla storia del movimento cattolico per vedere quale accumulo di esperienze, quale crescita c’è stata sul terreno dell’organizzazione, della consapevolezza della propria dignità civile, ma anche della crescita della propria dignità religiosa. 

La politica è stata uno dei luoghi teologici in cui si è sviluppata una coscienza nuova, anche ecclesiale. E qui non basta parlare di politica in senso generico. Il punto più alto di questa parabola è stato don Luigi Sturzo e la sua idea di partito. L’autonomia politica del laicato non è stata conquista facile, e nella forma partito, del Partito Popolare, essa ha assunto uno dei livelli di chiarezza più profonda, più creativa. Partito di cattolici, aconfessionale, programmatico, capace di assurgere ad una visione nazionale e moderna dei problemi senza mai smarrire la sua ispirazione cristiana. Né vanno dimenticate le battaglie di Sturzo in favore del clero meridionale, contro il suo parassitismo, la sua caccia di protezioni e di prebende, la sua lotta per un clero autonomo, capace di una pastoralità non servile, in grado di offrire una immagine di Chiesa sottratta al sogno legittimista e ad un atteggiamento passivo. 

Nel Partito Popolare di Sturzo l’autonomia del laicato, la secolarità si dispongono ad un confronto alto e serrato col moderno, fuori da ogni atteggiamento distruttivo o di condiscendenza. Non occupare lo Stato, non delimitare spazi sociali, ma attivizzare la società, democratizzare lo Stato. Vedere in Sturzo una immagine ridotta dello Stato perché egli è teso alla difesa tenace dei corpi intermedi è non cogliere un aspetto strategico del suo pensiero politico. Mai il pensiero del cattolicesimo democratico si era confrontato a questa altezza e con questa creatività con i problemi dello Stato, del partito, della società, della politica. E mai la laicità in Sturzo è luogo di neutralizzazione, spazio amorfo: essa è anzi visione agonistica del conflitto, non sua versione clericale. 

C’è oggi una tendenza ad un deperimento, ad una dimenticanza di tutto ciò. La politica più che una sfida moderna al moderno è vista come una occupazione di spazi, una recinzione di confini. L’agonismo dei valori diventa spartizione di ambiti. Lo Stato e il partito sono ridotti per una loro laicità infida: meglio il sociale. Non partito ad ispirazione cristiana, ma movimento cattolico; non la polemica sturziana contro i clerico-moderati, ma nuovo Patto Gentiloni. La “durata” del sociale rende effimeri i tempi della politica, li rende inconsistenti. La crisi del cattolicesimo democratico mette oggi in forse l’idea stessa del partito di Sturzo, che non è e non è mai stata quella del “partito cristiano”. 

Io penso che una secolarità agonistica, una laicità inquieta debbano tenere questa idea forte di partito, salvaguardare un’idea alta dello Stato. Non esiste qui da noi cultura politica del moderno che non passi, non si disciplini in questa esperienza. Vorrei che fosse chiaro che la mia non vuole essere la difesa di un partito, ma difesa di un’esperienza di laicità che vedo in dissoluzione o nella ripetizione di vecchie cose o nella esaltazione patetica di una creatività del sociale che rischia di mettere insieme edonismo rampante e isole economiche cristiane. Esperienze che vengono dopo esperienze più alte, non avendole neppure immaginate. Ad una austera filosofia della storia accompagnano la celebrazione dei nuovi eroi del sociale e una distribuzione abbondante di etichette di protestantesimo nei confronti degli esponenti del cattolicesimo democratico.

È un esempio da non seguire, neppure rovesciandone i termini e le etichette, benché la tentazione sia talvolta forte. E’ una strada che non approda a nulla, un procedimento che non costruisce. 

Partire dall’esperienza

E del resto non siamo portatori di domande strane. Impastati di impegno sociale e politico, non chiediamo a questa chiesa, in nome di un di più di laicità, di farsi democratica, così come non chiedevamo ieri che si facesse tutta operaia: pensiamo più semplicemente che questa chiesa sia chiamata dallo Spirito a diventare chiesa, e che questo sforzo ci riguardi, molto da vicino. 

In un mondo dove le sociologie ci dicono di un progressivo sradicamento degli uomini dalle proprie radici culturali, nel cuore della metropoli come nelle aree più periferiche e ambientalmente tranquille, il bisogno di testimonianza si fa ineludibile. Una testimonianza che è atteggiamento da non separare e contrapporre alla politica, secondo una vulgata cattolica troppo, e immeritatamente, generalizzata, ma da ricondurre da un diffuso disagio del laicato  a una dossettiana “saggezza nella prassi”. 

È il tema che nel lessico di Giuseppe Lazzati si presentava come “costruzione della città dell’uomo”. A partire da una sottolineatura della  dura fatica di pensare e del pensarsi mettendo al vaglio le  proprie esperienze che è il senso di un primato irrinunciabile, per le associazioni, i movimenti e le comunità, a partire dalla sottolineatura della formazione.L’unico vero antidoto, e non soltanto per i giovani, verso gli scivoloni nella cultura dell’immagine, nella sua soffice, ma reale e pervasiva violenza. Testimonianza e costruzione che prendono insieme le mosse da una domanda sul rapporto tra le realtà temporali e il Regno di Dio. 

Proprio Lazzati, parlando in un circolo delle Acli dell’hinterland milanese, definiva le realtà temporali come “tutto ciò che costituisce il contesto della nostra vita quotidiana: la famiglia, il lavoro, l’economia, la politica, la scienza…  Si chiamano temporali perché sono collocate nel tempo e durano quanto dura il tempo”.

La fedeltà ad esse, nella prospettiva del Regno, fonda la vocazione laicale, per la quale Lazzati indicava un fondamento teologico, un fondamento cristologico e un fondamento ecclesiologico. Tutto concorrendo a costituire il laico come soggetto attivo della Chiesa, proprio perché «tutta l’attività umana deve essere redenta attraverso l’opera della Chiesa». 

Se dunque ogni credente è chiamato a quella fedeltà a Cristo che Paolo riassumeva in un’espressione quanto mai forte, “per me vivere è Cristo”, il laico cristiano è però tenuto ad una fedeltà ulteriore nei confronti di quella che viene chiamata l’autonomia delle realtà temporali, nel senso che – annotava sempre Lazzati – “le leggi attraverso le quali le realtà temporali possono essere ridotte a servizio dell’uomo per la crescita dell’uomo, di ogni uomo, di tutti gli uomini, sono dentro la realtà, ce le ha messe Dio». 


[1] Intervista di Aldo Cazzullo al cardinale Angelo Scola, “Ora un patto per una nuova laicità”, in “Il Corriere della Sera”, Domenica 17 luglio 2005, p.9.

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