Pier Cesare Bori. Per un concorso etico tra culture.

Perché un testo sull’interpretazione delle Scritture? Perchè questo testo cerca di proporre una strada per costruzione un’etica comune proprio nella temperie che stiamo vivendo, dove l’interpretazione più diffusa é quella sullo scontro tra civiltà, senza alcuna speranza di remissione. Si tratta di realizzare una pace comune su una medesima terra, a partire da una medesima natura, quella umana.

1. leggi il testo dell’introduzione di Marica Mereghetti

2. leggi la trascrizione della relazione di Pier Cesare Bori

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Testo dell’introduzione di Marica Mereghetti a Pier Cesare Bori

Tesi sulla lettura secolare delle scritture ebraico-cristiane

Perché un testo sull’interpretazione delle Scritture? Perchè questo testo cerca di proporre una strada per costruzione un’etica comune proprio nella temperie che stiamo vivendo, dove l’interpretazione più diffusa é quella sullo scontro tra civiltà, senza alcuna speranza di remissione. Si tratta di realizzare una pace comune su una medesima terra, a partire da una medesima natura, quella umana.

Certo é problematico parlare in questo momento di quale metodo usare per costruire un’etica condivisa, nel mezzo di una guerra – o meglio di più guerre -, di fronte ad un mondo contraddittorio e diviso in ricchi e poveri. Certo la guerra cui assistiamo ha motivazioni politiche ed economiche sottaciute, ma si risolve sempre di più di fronte alla pubblica opinione come uno scontro tra “noi” e “loro” dove é molto facile riconoscere i cattivi, mentre forse i buoni, tanto buoni non sono. Basti pensare a quello che succede tra arabi e Israeliani.

Il testo che discutiamo oggi si propone come articolazione di tesi che, partendo dalla storia dell’interpretazione del testo biblico, riscoprono – attraverso il paradigma etico-dottrinale del testo – la consapevolezza della pluralità delle lingue e delle culture, ma anche il loro tendenziale convergere verso un’etica comune.

Storia dell’interpretazione

Si tratta in questa prima parte degli approcci ermeneutici delle Scritture ebraico-cristiane in base al criterio della secolarità. Secolarità qui significa “interrogare il testo a partire dalla concretezza della situazione mondana in cui si é posti ad operare”, sviluppando un atteggiamento critico rispetto alla teologia ed alle ideologie dominanti. Evidentemente assistiamo ad una non compiutezza di questo processo ermeneutico anche nel mondo cristiano.. Il valore metodologico di questa lettura secolare – va da sé – é condivisibile anche da altre tradizioni religiose a fronte del momento grave che stiamo vivendo di “scontro di civiltà”, contro ogni rivendicazione confessionale di mistica purezza dell’appartenenza religiosa.

Il paradigma biblico

Questa tesi insiste sul carattere comparatistico della ricerca per poi correggere la prospettiva tenendo conto della relatività delle posizioni di appartenenza. Non si é quindi alla ricerca di un progetto illuministico che, partendo dalla giusta intuizione che non esiste trasformazione storica senza un fondo di motivazioni religiose, assembli sinteticamente dei pezzi delle varie tradizioni o crei una realtà del tutto nuova ed astratta. Non si tratta di trasformare il proprio linguaggio religioso in un metalinguagggio che tutto assimili ed introietti al fine di formare un’unica tradizione.

Occorre innanzitutto accettare l’ineliminabilità del paradigma biblico, il suo essere la nostra “lingua religiosa materna”, ma al tempo stesso occorre riconoscere l’irriducibile pluralità delle lingue: ciò significa avere la capacità non di sintetizzare i contenuti, ma di cogliere le specificità (Weil), in un compito di traduzione che sappia lasciarsi scuotere dalla lingua degli altri testi normativi (Benjamin), all’interno di una continuità storica e di un continuo scambio tra realtà.

Ma come recuperare l’universalità attraverso l’individuale? Questo significa comprendere le analogie esistenti della natura umana, sia nel loro carattere biologico che nel loro essere persistenze di emozioni, affetti, che hanno diverse formulazioni culturali “comunicanti attraverso il comune tessuto affettivo”.

Questo pecorso ha una immediata rilevanza etico-giuridica. Lasciamo parlare il testo: “Il primo compito nella direzione di una cultura dei diritti umani, che offra un solido fondamento ad una prassi corrente, é infatti quello della critica della propria cultura, e della conoscenza di culture diverse dalla nostra. Dalla propria cultura é difficile, probabilmente impossibile uscire. Ma é importante, nel contatto con altre culture, valorizzare anzitutto nel nostro contesto quegli elementi che siano suscettibili di un’interpretazione in direzione universalistica. Questo processo di interpretazione si regge sulla premessa che particolarità e universalità non sono tra loro in contrasto, e che una tendenziale, inespressa e mai pienamente esprimibile universalità. Certo il concetto di natura non é formalmente indispensabile all’idea dei diritti umani”.

Vale in questo senso l’interessante storia della redazione dell’articolo 1 della dichiarazione universale dei diritti umani che recita: “Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità”.

Sapienza

Partendo dall’affermazione secondo la quale “Interpretazione di qualsiasi testo, e primo fra questi il testo biblico, non é possibile senza comunione spirituale con questo”, si denota come la lettura dovrebbe assumere quale primato quello della sapienza.

La sapienza ha carattere pratico e non metafisico, attiene all’ “intelligenza della propria vita” e non ai fini ultimi della realtà. Essa si accompagna al desiderio della giustizia, ed é come la legge prossima ed accessibile a tutti; essa soprattutto “ha carattere in qualche modo sperimentale (oltre che trasmissibile e tradizionale), razionale, mondano, secolare, suscettibile perciò di accogliere “sapienze straniere”.

Di fronte ad una scienza, e ad una opinione che è sempre più strumentale, occorre tornare ad un concetto di sapienza più vicino a quello degli antichi: alla sapienza socratica che consiste nella capacità di ordinare rettamente le cose umane, a partire da se stessi sino alle grandi scelte politiche. Ma questa sapienza e conoscenza la ritroviamo anche nelle culture orientali, cinese e indiana, sino alla grande tradizione del sufismo islamico.

Il testo di Bori si sofferma su personaggi come Simon Weil, Tolstoi.

Il prototipo del rapporto sapienziale é il rapporto primario tra la madre e il bambino, rapporto non oggettuale, ma corporeo, centrato sul desiderio del bambino e sulla capacità strutturante della madre, così come insegna l’esperienza psicoanalitica. Una interazione fortemente simbolica e capace di far sorgere il gioco, il pensiero, la creatività, la distinzione tra sé e l’altro. Si tratta della capacità della madre di nutrire il bambino e insieme di orientarne e formarne il desiderio. Il rapporto tra testo e lettore é analogo a quello tra madre e bambino, “un rapporto spirituale, un legame di adulta lealtà che si fonda su una infantile affezione”.

Questo rapporto amorevole-erotico torna sempre alla lezione di Diotima, all’amore che aspira alla sapienza e alla bellezza e che si disciplina e si educa alla contemplazione del bello e del buono, sino alla liberazione del potere generativo che comporta obbedienza e creatività.

La legge

Il tema principale della quarta tesi é di carattere contenutistico e verte intorno all’idea della legge, partendo dalla consapevolezza che la legge é al centro della sapienza biblica ebraica e cristiana: una legge da osservare e mettere in pratica, non da abolire, ma da compiere, attraverso le sue caratteristiche sapienziali di intimità, accessibilità, praticabilità e tendenziale universalità.

Il comandamento é radicato nella creazione e l’obbedienza ne é il bisogno costitutivo, la sua fonte di gioia. La sua radicalità coincide con la sua evidenza”razionale-sapienziale” (Tolstoi)

La sottomissione fiduciosa é inizio di conoscenza prima ancora che di consolazione: si tratta della reciproca implicanza dell’adempimento della legge e della conoscenza di Dio. La rivelazione é infatti legata alla pratica dei comandamenti. Questo circolo tra conoscenza ed azione é tipico di altre tradizioni religiose e culturali.

Etica

Il tema finale delle tesi é quello dell’etica: tema imposto dalla “assunzione metodica di una prospettiva secolare”, per una costruzione etica comune in un mondo dove le crisi che si susseguono hanno in comune anche il progressivo rifiuto di ogni tentativo di una “modernizzazione teologica”: torna in questo senso la tematica cara a Bonhoeffer sull’attesa di un nuovo linguaggio non-religioso per un “mondo adulto”. Questo significa accettare realmente il confronto.

Si perviene quindi al delicatissimo tema del rapporto tra politica ed etica laddove “si tratta di rendere presente nel politico un’etica che conservi il nucleo essenziale e radicale della tradizione religiosa, ma ridimensioni drasticamente le modalità eteronome con cui l’etica tradizionale si configura, con il rinvio ad autorità esterne alla coscienza”.

Condividendo questo percorso di secolarizzazione e di autonomia della politica rispetto alle forme confessionali dell’etica, le chiedo, se a distanza di anni non nota anche lei un progressivo peggioramento della situazione reale, ovvero di un progressivo abbandono da parte della politica della rivendicazione della propria laicità ed autonomia, e di una progressiva intromissione “interessata” delle chiese.

Le basi della moderna cultura dei diritti sono state elaborate accostando i diritti civili e politici (la prima generazione, le rivoluzioni americana e francese) ai diritti economico-sociali (la seconda generazione, il movimento socialista) mentre si affacciano i diritti di terza generazione, quelli della pace, dell’ambiente. Eppure richiamarsi ai valori della cultura dei diritti non basta ad assicurare che i diritti stessi siano attuati e rispettati, perché essi da soli non sono sufficienti a costituire un’etica pubblica e privata. Come uscirne? Attraverso “l’ipotesi di una elaborazione etica collettiva in cui la pluralità delle tradizioni… tutte accolte criticamente, confluisca in un complesso di convincimenti fondamentali, comunemente condivisi (sia pure con inevitabili contrasti e conflitti)”.

Questo compito va affrontato mirando ad accrescere il consenso sulla base dei convincimenti etici fondamentali che ritroviamo alla base del vivere sociale di buon parte dell’umanità. Il diritto non si attua senza il sentimento dell’obbligo verso ogni essere umano. Tornano qui le parole attualissime di Simone Weil e del suo testamento, parole sulle quali troppo spesso, oggi come allora, si ha un moto di irrisione.L’idea di obbligo verso l’essere umano in quanto tale, a partire dai suoi bisogni concreti, viene dopo quello della rivendicazione dei propri diritti e delle proprie libertà che nulla vogliono sapere dei doveri verso gli altri. La conclusione é quella per cui “al carattere incondizionato, assoluto dell’obbligazione morale quanto al suo fondamento corrisponde, anzi é inversamente proporzionale la concretezza del suo oggetto, che emerge dalla specificità e determinatezza antropolgica, storica, politica dei bisogni umani, che costituiscono il contenuto dei diritti. E se é impossibile una dimostrazione del fondamento, nella sua purezza incondizionata e nella sua universalità, giacché la sua verità si può cogliere solo nel fare obbediente, é invece possibile intraprenderne una verifica nella coscienza dei popoli”.

Il percorso fin qui seguito si situa al centro di una riflessione sulla possibilità di compiere percorsi politici in un mondo diviso e in una situazione di emergenza. La democrazia inverte l’acquiescenza di ogni totalitarismo (politico o religioso) secondo cui il dovere é di credere, obbedire, combattere. Essa afferma invece che nostro obbligo é ragionare, decidere e costruire giorno per giorno la giustizia e la pace.

Alla fine di questa introduzione vorrei porre alcuni spunti di discussione partendo proprio dalle tematiche sino a qui sviluppate.

Uno dei temi che sembra essere centrale in questo momento é quello che riguarda l’altra metà del cielo: ovvero quello del dominio del corpo femminile (e vorrei aggiungere anche quello del corpo dei bambini). Lontana dal ritenere che esso debba essere sbandierato quale giustificazione tarda di una guerra di liberazione (si sapeva e si taceva da anni sulla condizione delle donne all’interno del regime dei talebani), esso é realmente uno dei temi sui diritti umani che devono essere affrontati urgentemente dall’agenda politica. Vorrei aggiungere laicamente affrontato, proprio perché una delle dimensioni gravi della minorità femminile é quella che deriva anche dalla interpretazione dei testi religiosi: sia dove si santifichi la capacità generativa della donna, spogliandola e separandola in qualche modo dalla sua naturalità e quindi levandole il corpo, sia dove di fatto si depersonalizzi il femminile, non riconoscendogli alcun diritto e vanificandone la sapienza. Se é vero che la condivisione femminile dei diritti (politici, economici, religiosi, culturali) é un arricchimento per l’umano tout court, é vero anche che solo una lettura laica, storica, o come lei sostiene, una lettura secolare irrinunciabile e necessariamente critica anche dei testi sacri e della storica misoginia dei cleri può essere un passo verso una liberazione delle concrete situazioni di vita che le donne in troppe nazioni vivono.

Come si affronta il tema delle “gerarchie etiche condivise”? Perché il grande timore, una volta avvenuto il riconoscimento di quei valori “minimi” di riferimento, é che si instauri una spirale di delegittimazione dei doveri e dei diritti, alla fine della quale “anything goes on”, tutto va bene, e ogni cosa é comparabile ad altra, senza alcuna scala di valori e di riferimenti certi.Il rischio è di ingenerare una grande confusione per cui tutto diviene diritto riconosciuto senza alcun limite, neppure quello immediatamente riconoscibile del prossimo che mi sta vicino e dove soprattutto ogni discorso sui doveri viene bollato quale negazione della società dei diritti;

Una straziante riflessione storica credo che debba essere ancora affrontata, pur nella difficoltà che essa comporta: quella sulla diabolica eredità del nazismo: aver trasformato una cultura e un popolo che per duemila anni erano stati inermi – proprio letteralmente senza armi – in una nazione che non riesce più da anni a trovare percorsi di pace con un altro popolo.

Le tesi

1 – storia dell’interpretazione. L’antica esegesi biblica cristiana si qualifica per l’ambito ascetico-mistico in cui si situa l’interprete, l’esegesi dei movimenti evangelici e della riforma é segnata dall’istanza secolare, nuova ma anche originaria. Questa secolarità, sotto il profilo conoscitivo, viene assunta metodicamente e sviluppata dall’esegesi storico-critica, ma in ambito accademico e confessionale non trova compiuta realizzazione.

2 – il paradigma biblico. Si propone che la ricerca storico-critica torni a privilegiare i contenuti etico-dottrinali essenziali al testo biblico ebraico e cristiano, e abbracci nella comparazione, sotto lo stesso profilo etico-dottrinale, altre scritture extrabibliche. Compito dell’interprete tuttavia, secondo questa proposta e a differenza di molti progetti illuministici, non é di costruire un metalinguaggio che assimili e porti ad unità le diverse tradizioni religiose, ma di operare dentro all’ineliminabile paradigma linguistico biblico risvegliandovi la consapevolezza della pluralità delle lingue e delle culture, della loro traducibilità, delle continuità storiche che le collegano e della propria e altrui potenziale universalità. Questo compito ha anche una immediata rilevanza etico-giuiridica.

3 – sapienza. “Leggere le scritture nello stesso spirito in cui furono scritte” ovvero farne una “lettura spirituale” vuol dire leggere il testo biblico come testo di sapienza. La tradizione classica, in particolare l’insegnamento socratico, la tradizione biblica, le tradizioni orientali, autori moderni distinguono tra un conoscere scisso ed astratto e una sapienza che cerca di cogliere il nesso tra parti e tutto, tra il pensare e l’agire, e concordano nel considerare quest’ultima l’unica degna di essere perseguita e nell’indicarne i testi fondamentali e il modo in cui interpretarli. Il rapporto madre-bambino rappresenta il prototipo che illumina la situazione sapienziale, dove la disciplina e la liberazione del potere generativo del desiderio costituiscono il compito della sapienza e l’aspirazione del desiderio stesso, inteso come forza unica e indivisa.

4 – La legge. La legge è al centro della sapienza biblica ebraica e cristiana. Non si può sospendere la pratica della legge in attesa di conoscere l’esistenza di Dio, ma la sottomissione fiduciosa ai comandamenti evidentemente e immediatamente vincolanti, compresi quelli impliciti nelle beatitudini, é già sin d’ora un inizio di conoscenza, oltre che di felicità e di comunione.

5 – Etica. Nel grave momento attuale, il compito più urgente non é quello teologico, ma quello di superare la separazione tra etica e politica e di contribuire all’elaborazione di un’etica che, offrendo la base consensuale e tendenzialmente universalistica della moderna irrinunciabile cultura dei diritti, sia l’alveo in cui la pluralità delle tradizioni, accolta criticamente, converga in un complesso di convincimenti fondamentali.

 Trascrizione della relazione di Pier Cesare Bori

Vi sono molto grato. Devo dire che ho fatto un’altra edizione del libro, di 110 pagine rispetto a questa di 90, e poi c’è un’altra ristampa. La prima redazione, come sempre, è forse quella più efficace. Magari ne farò una terza, che ritorna alla prima. Nella prima c’è tutta l’intuizione di quei momenti.

Forse volete sapere cosa ho fatto dopo questo libro. Dal 1995 io ho praticato molto nell’insegnamento: io faccio una Filosofia Morale un po’ particolare a Scienze politiche, senza essere proprio docente di Filosofia Morale. Ho chiesto di insegnare filosofia morale insieme a Storia della Teologia; ho insegnato a centinaia a migliaia di studenti perché la cosa piace moltissimo. In un libro edito da Carocci ho raccolto una sequenza di testi che illustra appunto questo percorso sapienziale attraverso le grandi culture, le grandi civiltà. Si comincia con Platone, la Caverna, la liberazione attraverso il sapere, si arriva al Simposio, Eros che cerca Sapienza, il bisogno di Sapienza; poi al mondo cinese, Confucio, alla Regola d’Oro, che è centrale (ho scoperto la rilevanza enorme della Regola d’Oro), poi leggiamo alcuni testi buddisti, il Deuteronomio, il Discorso della Montagna, alcune Sure del Corano, una parte della Sunna; chiudiamo con Seneca e Marcaurelio. Questo per dare un’idea di quale è il nostro orizzonte, un orizzonte costituito dal mondo greco-romano con al centro la Bibbia. Il discorso è che non si arriva a delle conclusioni, anche se la Regola d’Oro probabilmente è la scoperta più importante, ma ci si abitua appunto a percorrere. Si scopre che è possibile percorrere, è possibile esplorare questi mondi, è possibile comparare, è possibile classificare, è possibile giungere ad alcuni risultati, ad alcuni convincimenti etici fondamentali. Quindi una posizione, diciamo, radicalmente anti-relativistica, ma al tempo stesso, non è una ricerca di una sintesi ma è la possibilità di individuare alcuni temi, alcuni convincimenti fondamentali.

Ecco, ho esplorato personalmente altri mondi cristiani, altre al cattolicesimo. Mi sono accostato ad una realtà molto interessante, poco nota fra noi, che è la società degli Amici Quaccheri, che da 350 anni pratica un tipo di cristianesimo radicale, mistico ed umanistico.

Quando stavo facendo la seconda edizione del libro, stava finendo un’esperienza che abbiamo condotto a Bologna, il Gruppo Simone Veil, con Giancarlo Gaeta. Ci siamo riuniti per settimane, per serate interminabili, abbiamo tentato di portare nella sinistra il discorso delle culture e delle tradizioni, un discorso etico, pluralistico; con scarso successo. L’idea era questa: che occorreva un radicamento secondo l’espressione della Weil.

Per questo la seconda edizione del libro porta una prima tesi in cui si parla dell’importanza del leggere, una tesi che non c’è nella prima.

Uno dei temi più importanti di questo libro è quello che bisogna provare a mettere in atto ciò che uno dice e se non ci riesce pazienza, perché siamo tutti inadeguati. Anche questa è una bellissima esperienza, di non riuscire a fare quello che uno vorrebbe. Il fare è sicuramente importante ed aiuta anche a capire. Mettersi nelle situazioni e cercare di provare ad attuarle: in questo modo si capisce meglio il problema, si capisce meglio se è vero. Io sono per una forte circolarità tra il pensare e il fare e anche per una forte limitazione del parlare, nella misura in cui non si è sperimentato. Parlare poco perché se poi non si vede che funziona, se non riesci a comunicarlo, a chi parli? Parli tra te e te, o parli tra pochi amici, ecco.

L’esperimento più forte che ho condotto negli ultimi tre anni è l’insegnamento di queste cose in carcere, come volontario. E’ stata una cosa un po’ più articolata del semplice andare lì e fare lezioni a qualcuno. E’ un corso che io conduco insieme a un gruppo di studenti che si chiama “Una via“. Il corso si chiama “Passi verso un ethos condiviso“. Questo corso lo abbiamo già fatto 5 volte con i miei studenti . In primavere faremo la sesta cosa. I partecipanti sono quasi esclusivamente magrebini, detenuti di ascendenza islamica, nord-africana islamica. Io uso un po’ anche l’arabo per questo. Ecco negli ultimi 10 anni ho lavorato molto sull’arabo. Il percorso è abbastanza simile a quello universitario. C’è un passo di Al Faharabi sulla città perfetta, la città virtuosa: la necessità del vivere comune; c’è un altro passo di Averroè sulla razionalità: ragione e fede che non sono due modi per dire la stessa cosa…. E poi la Regola d’Oro che di trova nella tradizione della Summa e si trova in molte altre culture. E’ molto importante nella cultura cinese, che contiene chiarimenti molto interessanti.

La mia idea è che questa regola è fondamentale. Per Kant essa è banale. Si! Naturalmente, se uno non l’approfondisce. Tra la dimensione della legalità e quella dell’attenzione della cura, la Regola d’Oro diventa uno strumento molto interessante.

Chiudo l’inciso sulla Regola d’Oro. La Regola d’Oro era già al centro della Dichiarazione delle Religioni per un ethos mondiale, promossa sopra tutto da Hans Kung nel 1994 (mi pare ’94-‘95) nell’anniversario del Congresso Mondiale delle Religioni. Non c’è pace senza la pace religiosa e si individua nella Regola d’Oro il principio fondamentale della giustizia e della pace.

L’ultima cosa che ho fatto è una certa riflessione sulla figura di Gesù. C’è una ricerca magnifica in atto su Gesù, con un forte contributo ebraico, critico e stimolante. Si è usciti dalla storia teologica e c’è stato un forte impulso allo studio antropologico, allo studio storico. Negli ultimi 20 anni c’è un meraviglioso sviluppo a partire da quel libretto di Thissen “Gesù e il suo movimento” (1970). Ma adesso ci sono delle cose bellissime e affascinanti, soprattutto i lavori di Crossand. Viene fuori un movimento di Gesù che si delinea fortemente nella rottura con l’ascetismo separatistico del Battista e si esprime massimamente nella commensalità e nella cura, nella guarigione, come un movimento che attraversa il paese, portando comunione e liberazione, cioè commensalità e terapia nel senso più profondo.

E’ molto bello soprattutto il libro di Crossand “The birth of Cristianità” (La nascita del Cristianesimo). Naturalmente la distanza rispetto alle istituzioni attuali è immensa, ma questa ovviamente non è una novità. Io traggo molta ispirazione da questo anche per il lavoro che sto sviluppando, che va oltre appunto al fatto dell’insegnamento in carcere. Io seguo questi detenuti man mano che escono o sono espulsi. Ho cominciato a visitare le famiglie degli immigrati stessi in Tunisia. Un’esperienza molto bella, molto arricchente, di cui non scrivo, non ho voglia di scrivere. Voglio godermela senza raccontare troppo.

Ieri guardavo un po’ questo libro e dicevo: ma guarda quante cose ho messo! Ero impressionato da me stesso. C’è troppo, probabilmente. Forse la redazione breve è quella più interessante. Prendete in mano le tesi, e vi dico un po’.

La prima: volevo dire che ci vuole un’esegesi laica della Scrittura e che c’è pochissimo di questo. L’interprete, chi legge, ha la sua dignità. Ho portato avanti un assioma che ho appreso da Benedetto Carati, e che trovo sommamente espresso nella tradizione degli amici quaccheri. La Scrittura va letta nello stesso spirito in cui fu scritta; anche il leggente è ispirato, e non solo il testo. Cioè c’è una dignità spirituale del leggente accanto alla dignità spirituale del testo. Ecco appunto Gregorio Magno che parla del carro trainato da animali, ma lo stesso spirito anima le ruote e gli esseri animati. Le ruote sono la Scrittura e chi tira sono i leggenti. Hanno lo stesso spirito e quando il leggente vola, anche la Scrittura vola e quando il leggente è a terra anche la Scrittura è terra terra; quando il leggente è un bravo ecclesiastico che vive nelle mura, la Scrittura risponde a queste sue bisogna. Il problema è appunto di provocare la Scrittura.

Ho una piccola esperienza di lettura del Qoelet o dell’Ecclesiaste che è molto significativa da questo punto di vista. Il libro è stato letto come vanità del mondo nella tradizione ecclesistico-monastica, a parte Cernetti, che anche lui è a suo modo un asceta e un anacoreta. Il realtà il Qoelet è un libro della vita, è un libro che dice che c’è la gioia e l’allegrezza nel cuore. Insomma c’è questo bisogno di un’esegesi laica della Scrittura e quello che vi dicevo del gesto di Gesù può essere illuminante con il Qoelet: un invito alla condivisione della semplice umanità. Bisogna tornare a questo. La mia prima tesi voleva dire questo: l’esegesi storico-critica in un certo senso è laica. Solo in un certo senso, perché vi sono sempre chierici e intellettuali che scrivono per i concorsi, ecc. Non c’è compiuta realizzazione di un’esegesi laica della Scrittura.

Il punto fondamentale è: è possibile leggere la Bibbia in modo che essa entri nel consenso etico? Perché se noi diciamo, per esempio, che il Cristianesimo non è una religione, come è possibile fare questo confronto? E’ una cosa che io non dico più, mi sembra in fondo una formulazione apologetica e anche un po’ presuntuosa. E poi ho trovato che lo dicono tutti: l’Islam non è una religione; tutte le altre sono religioni, loro solo non sono religione. E’ un atto di arroganza in fondo….Il Cristianesimo è una religione se ha un’assolutezza per chi la vive; d’altro canto, invece , ha una sua relatività, che può essere comparata con le altre, se la si vede come una Sapienza.

Alla base del libro c’era il problema: possiamo mettere in sequenza la Bibbia con le altre culture? Possiamo comparare? Come possiamo cercare un consenso se l’universalismo consiste nel portare tutti a dire: sì la Bibbia è la rilevazione e il resto no! Certo è un universalismo, ma è un universalismo monistico, non pluralistico. Come può entrare invece la Bibbia in un contesto di universalismo pluralistico? Che tipo di lettura dobbiamo fare della Bibbia? Anzi tutto una lettura laica, a partire dal bisogno, a partire dalla vita concreta. Ma questo non basta.

C’è una seconda tesi, che è una tesi metodologica molto importante, che dice: universalità e particolarità non sono in contrasto. E’ possibile, lavorando nel particolare, guardando nel particolare, scoprire in esso potenzialità universalistiche, corrispondenze e traducibilità. Nell’altra formulazione ho detto: operare dentro l’ineliminabile paradigma linguistico biblico, risvegliandovi la consapevolezza della pluralità delle lingue e delle culture e la loro traducibilità nelle continuità storiche che le collegano e della propria e altrui potenziale universalità. Quindi è possibile lavorare nell’ambito biblico. E’ un ambito ineliminabile. Io non penso che possiamo uscire dal paradigma biblico, penso che fa parte del nostro linguaggio. Non dico che la nostra cultura è solo biblica, ci sono tante altre cose (prima citavo Platone, Vistotele..), ma bisogna lavorare nel testo biblico risvegliando in noi la consapevolezza della pluralità delle lingue e delle culture. Della traducibilità, dell’universalità potenziale: questo è il tipo di scelta, quindi una scelta anti-relativistca. Certo, un antirelativismo non ingenuo, non basta dire che ci sono delle verità universali.

E’ complicato, lo so. L’antropologia insiste sulla relatività culturale, ecc. Tuttavia penso che all’interno del particolare sia possibile ravvisare l’universale. Qui c’è anche un discorso sul concetto di “natura”. Non credo che si possa più parlare di “natura umana”, però penso che sia possibile istituire, anche qui, un discorso sull’ “umano” a partire dalla corporeità, a partire dalle emozioni. C’è un collegamento strano a quel libro, allora appena uscito, di Carlo Ginzburg sulla decifrazione del Sabbah. Egli scopre isomorfismi nelle fiabe, nelle storie, per esempio il monosandalismo, la zoppaggine, come costante culturale. Lo zoppo è sempre quello che ha delle risorse in più per entrare nel mondo sopranaturale. Un discorso che toccava la lingua sacra soggiacente, che rende traducibile. Perché si può tradurre un fenomeno straordinario? Come mai si può tradurre? Che cosa è che rende possibile?

Di qui la necessità di un’esegesi laica. La seconda tesi è quella di lavorare nel nostro particolare ma in direzione universalistica. Quindi un universalismo critico, consapevole delle alterazioni e delle difficoltà che possono sorgere.

La terza tesi è centrale ed è l’applicazione di questo alla Bibbia, ed è appunto l’idea che anche nella Bibbia è possibile ravvisare quella categoria che percorre tutto il mondo critico, le civiltà e le culture: la categoria di Sapienza. La tradizione classica, in particolare quella socratica, la tradizione biblica, le tradizioni orientali, gli autori moderni distinguono tra un conoscere scisso e astratto ed un “sapienza” che cerca di cogliere il nesso tra parti e tutto, tra pensare e agire, e concordano nel considerare quest’ultima l’unica degna di essere perseguita e nell’indicare i testi fondamentali e i modi con cui interpretarli. Quindi se vogliamo stabilire una comparazione dobbiamo individuare uno strato della Bibbia, alcuni libri, ma anche un punto di vista della Bibbia presente da per tutto, che è il punto di vista sapienziale. Qui, nella seconda edizione, ho lavorato di più su questo tipo di proposizione.

Questa posizione a me viene dalle frequenza di una serie di autori: ho lavorato moltissimo con Lev Tolstoj, sopra tutto sul secondo Tolstoj. Tolstoj si convertì ad un cristianesimo critico universalistico alla fine degli anni ’70. Su questo ho scritto un libro, “L’altro Tolstoj“, che adesso esce anche in russo. Ho individuato proprio questo cristianesimo critico universalistico come punto fondamentale. Universalistico vuol dire che Tolstoj ravvisa le stesse idee di fondo nelle grandi culture. Non è un’etica annacquata, come vorrebbe il suo grande avversario Soloviev nel Racconto dell’Anticristo, in cui Tolstoj figura come un specie di Anticristo, testo amatissimo dal Cardinal Biffi. In realtà il cristianesimo di Tolstoj è un cristianesimo di resurrezione, un cristianesimo dei deboli, del discorso della Montagna, dei bambini. Non è un cristianesimo razionalistico, del secolo della Belle Epoque. E’ il perdere la vita per ritrovarla. Tolstoj trova questo nel Tao, nelle grandi tradizioni. Tolstoj espresse questo anche in una serie di libri di lettura che io ho curato, quando ho fatto la prefazione al libro per Einaudi. Quattro libri di lettura furono scritti negli anni dal 1900 al 1910. Io ho tradotto uno di questi, che si chiama “Pensieri per ogni giorno”, Ed. Cultura della Pace. Ogni giorno due o tre pensieri. Poi sono diventati libri grossissimi. Ecco una ricerca sapienziale, per lui era una specie di Nuova Bibbia. Questa è una cosa che ho studiato molto: poi ho lavorato anche su “Guerra e pace” .

Anche Simone Weil ha questa istanza universalistica. Poi ci sono gli altri autori, come i trascendentalisti americani dell’800. Trovo in loro cose bellissime. Anche lì vi è una forma di cristianesimo che va verso la natura. Non si può essere anti-americani, l’America, è una cosa complicata.

Infine vorrei accennare ad un autore molto importante, tutto da scoprire, un gigante: Albert Schweitzer. E’ difficile da studiare perché il nostro sguardo ne prende solo un pezzo: è un grande musicista, è un grande medico, è un teologo, un critico della cultura, insomma tutto. Schweitzer è un grande teologo. Con i suoi due libri, uno sul Gesù storico e l’altro su Paolo, afferma fortemente la sua adesione ad un cristianesimo di prassi. Capiamo ciò che vuol dire un cristianesimo paolino e quindi la possibilità di seguirlo attraverso l’irradiazione del corpo risorto. Contemporaneamente Schweitzer fa una grande riflessione sull’etica dell’occidente in una serie di libri non tradotti della fine degli anni ’20. Egli si confronta anche col pensiero indiano sul tema del rispetto per la vita, come tema centrale della sua riflessione. Egli scandaglia il tema di un atteggiamento attivo verso l’esistenza che caratterizza l’occidente e la difficoltà di ravvisare questo in oriente, dove invece c’è un monismo mistico che ci può insegnare molto. Veramente una figura molto importante. Ho visto che gli studi più recenti sul Nuovo testamento lo valorizzano molto, cioè è la sua ricerca su Gesù che viene esaltata. Ed è uno che effettivamente ha provato a mettere in pratica la resurrezione di Gesù, capiva attraverso la prassi.

Questa categoria è centrale anche per capire la Bibbia.

Poi ho capito che bisogna sviluppare anche il tema della profezia, cioè la coppia profezia e sapienza. La profezia è specifica biblica, la sapienza è universale. Nella Bibbia c’è l’una e l’altra. La sapienza non dice cose diverse dalla profezia. Il profeta parla dall’alto e riceve il comandamento dall’alto, ed è questa la specificità di Israele. Ciò è dimostrato bene dall’egittologo Jan Hasman che dice cose bellissime anche su questo tema nel bel libro su Mosè l’Egizio (Adelphi). L’ho conosciuto dopo la seconda edizione. La differenza fra Israele e le altre culture non sta nei comandamenti, questi ci sono anche in Egitto, ma nella modalità, quella appunto profetica: Dio parla direttamente al popolo. La visione egiziana, come quella mediterranea, è una visione cosmoteista in cui i comandamenti vengono ricavati dalla natura e dal mondo, o semmai vengono espressi da Colui che rappresenta la divinità, il Faraone. Nel mondo ebraico, invece, c’è veramente teocrazia: Dio governa direttamente il popolo ed esercita l’ira e la misericordia, che sono i grandi attributi del potere. Dio è sconosciuto nella sua essenza, noto nella sua volontà.

Questo è il nucleo dei monoteismi biblici. Il profeta è la figura centrale nell’Islam, nel Cristianesimo, nell’Ebraismo. Il profeta trasmette direttamente questo volere di Dio. Dio è conosciuto nella sua volontà etica, potremmo dire nella sua volontà morale, nei suoi imperativi, sconosciuto nella sua essenza. I cosmoteismi mediterranei ed orientali sono concentrati nella conoscenza della natura divina del mondo.

Nella Bibbia c’è un nucleo profetico a cui corrisponde una dimensione sapienziale che traduce i comandamenti biblici in esperienza, ridice dal basso ciò che viene detto dall’alto trovando conferma nelle tradizioni. Abbiamo nel libro dei Proverbi completamente riprodotto un intero libretto di sapienza egizia presa in blocco. Non si sapeva cosa fosse, poi si è trovato. Mentre Mosè è il profeta per eccellenza, che parla dall’alto, anzi che fa parlare Dio, Salomone è per antonomasia l’autore della Sapienza, con tutte le sue centinaia di mogli che gli venivano da tutto il mondo. C’è anche questa mediazione femminile del sapere. Nella Bibbia c’è questo importante filone. Gesù è profeta ma è anche sapiente. Il Nuovo Testamento è pieno di detti che sono detti di sapienza. La profezia è autoritaria, la sapienza è razionale. La Bibbia contiene l’una e l’altra e i contenuti sono, si può dire, identici, ma l’argomentazione è diversa. Questa è una cosa estremamente importante in ordine alla comunicazione di chi è in un contesto monoteistico. Pensate ai problemi degli integralismi: non si può dire, sì che si può dire! ma è rivelato, si, certo, ma si può argomentare. Nella Bibbia c’è questo duplice linguaggio. In Gesù ci sono queste due facce. Io ravviso proprio nella sua discesa in mezzo alla gente un passaggio dal profetico al sapienziale. C’è un detto di Gesù molto bello: “voi dite che io sono un leone e un mangione”.. La sapienza viene riconosciuta tra i suoi figli. Gesù realizza il grande banchetto della sapienza sulle strade, cioè quello che era contemplato nel Libro dei Proverbi. Questo è il gesto messianico: la sapienza come commensalità. Che cosa è la Sapienza? E’ il sapere essenziale per vivere che si può, non solo paragonare, ma porre nel prolungamento dell’atteggiamento di nutrimento della madre col bambino. La madre al bambino da cibo e poi parole che sono istruzioni per vivere. La sapienza, non solo biblica ma quella dei popoli, è questo.

La quarta tesi era sulla legge. Questa la sento un po’ più lontana. Tu parli di Bibbia, di Profeti, ma non ci hai ancora chiesto se crediamo o no in Dio, eppure fai un discorso biblico. Devi cominciare prima dicendo Dio esiste, Dio si rivela, ecc.

Io dico: no! La Bibbia, ma anche l’Ebraismo, sono delle religioni del fare e non del pensare. Non suppongono una speculazione o una contemplazione della natura. C’è qualcuno che ti dice con forza: fa questo e vivrai. Dice “tu devi”, che ha un’evidenza concreta. Tu devi fare, poi dopo capirai meglio che cosa c’è dietro questo ordine. Qui ci sono dei testi molto belli, per esempio quello di Tolstoj, “Confessione“.

Adesso invecchiando e diventando sempre più cattivo, mi rendo conto che praticare è difficile e quindi anche capire è difficile. Mi per metto allora di dire qualcosa sulla Grazia: quando uno tocca il punto più basso, sia del capire che del fare, o dell’infedeltà, lì è il momento in cui capisce di più….. Il fallimento dell’opera può essere il momento dell’illuminazione. Mi pare che Gesù fosse su questa linea quando Lui si apre a tutti e lascia la compagnia del Battista per andare da per tutto e sopra tutto tra le persone poco per bene.

Il quinto punto era una riflessione, una critica sulla separazione dell’etica dalla politica. Non era tanto suggerita dalla questione morale, quanto da una convinzione molto profonda che mi viene dal fatto di avere una formazione legata alla conoscenza del mondo anglosassone. Non è affatto vero che lì le cose funzionano perché c’è una rigida separazione tra Chiesa e Stato, ma al contrario perché c’è una potente animazione etico-religiosa del politico; salvo che la dimensione etico-religiosa è molto meno eteronoma, cioè non c’è una Chiesa fortemente costituita che dà dei comandi; piuttosto tutto viene portato dentro. Il 90% degli americani prega.

Il libro di Harold Bloom “La religione americana” che esamina tutti i movimenti, dimostra che c’è una base comune, dai battisti del Sud, ai cattolici, ai mormoni, agli ebrei: l’idea di una luce interiore, di qualcosa che ti sostiene. Sono storie appunto di immigrati, ecc. Lì c’è questa dimensione religiosa profonda, non è una religione civile.. E’ una religiosità profonda che deve sostenere l’etica.

Vi dirò ancora una cosa su questo. Eravamo nella sinistra, allora, c’era il P.D.S. Noi cercavamo di recuperare queste radici, le grandi tradizioni, al plurale, criticamente. Questa sinistra non capiva, c’era l’esigenza di distaccarsi dall’ideologia. Insomma noi eravamo fuori tempo. La nostra rivendicazione era quella che la Weil enuncia ne “La prima radice“.

Di più rispetto a questo c’è la scoperta e il tema della Regola d’Oro come convincimento di fondo su cui si può lavorare. Io ho lavorato su Pico della Mirandola, ho scoperto che nella seconda metà del ‘400, si sono misurati per la prima volta con culture altre: sono arrivati i greci, c’erano gli ebrei, poi gli arabi, ci sono le scoperte geografiche, anche se Pico non ebbe modo di apprezzarne l’importanza. Allora ci fu veramente un momento in cui la questione del pluralismo fu affrontata e l’umanesimo dà proprio l’esempio di una soluzione possibile: praticare da un lato il proprio linguaggio biblico, ma praticare anche strenuamente il discorso filosofico. Nel discorso filosofico entra tutto, compresa la Bibbia, ma entra con tutto lo scibile, tutto il possibile sapere.

Finisco con quell’affermazione della Weil che dice che ogni religione è l’unica vera, come ogni statua greca e ogni quadro che io contemplo è l’unico bello. Bisogna avere l’atteggiamento di amore per la propria tradizione ma sapendo che gli altri, nei confronti della propria, hanno lo stesso atteggiamento. Questo suppone, in fondo, un duplice sguardo, un duplice linguaggio: io ho un mio linguaggio, però anche un metalinguaggio che mi permette di comunicare con l’altro e di immedesimarmi con lui e di capire perché e come funziona anche la sua tradizione. Quindi non un atteggiamento sincretistico e relativistico (è tutto uguale, è tutto falso, è tutto vero), ma la capacità di praticare insieme la realtà della propria storia e sapere nello stesso tempo che ci sono tante altre realtà. Qui c’è un’importante esperienza che è quella dell’umanesimo religioso. Ho finito.

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