Progresso e catastrofe

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Un passaggio

“Progresso e Catastrofe” sono due parole che ho scelto per connotare l’epoca ed il passaggio d’epoca, per sapere dove ci si trova e ciò che è necessario guardare. Un’epoca si definisce sempre per differenze: se uno è chiuso in un ambiente ritiene che quello sia tutto il mondo, ma non sa dove finisce, è prigioniero di quello spazio. La sua collocazione diventa più sicura, più orientata se guarda fuori e definisce una distanza. Senza definire una distanza è impossibile ricavare con esattezza la propria collocazione. Le distanze sono molteplici e non è detto che definendo la distanza uno sappia davvero dov’è, ma quanto meno si orienta. Non è chiuso nell’assolutezza della sua intimità.

E quindi, progresso e catastrofe sono due parole che indicano un passaggio, quello dal moderno alla contemporaneità, di cui il ‘900 è una cifra. Si è indugiato tanto e occasionalmente, giornalisticamente, sulla fine del millennio, ma una conclusione non finisce con gli anni e con i millenni. Nella storia i processi di inizio ed i processi di conclusione sono lunghissimi. Quando nasce il Medioevo? Nasce tra fine del ‘200 e gli inizi del ‘300? Ed ancora: c’è il Medioevo nel ‘400 e nel ‘500? È come lo sfrangiarsi di un tessuto, non sono tagli netti.

E così le fini, le dissoluzioni: c’è qualcosa che entra in crisi, ma ancora dura, rimane attaccata.

Io ritengo che la modernità sia entrata in un esito finale molto prima della fine del secolo. Già nella prima metà di questo secolo, quello che in senso lato chiamiamo il moderno si dissolveva. Se volessimo trovare un luogo più esatto di questa dissoluzione, è fra le due guerre.

E questa consumazione è partita molto prima, è partita, grosso modo agli inizi dell’Ottocento. È un periodo contrassegnato già dalla tecnica, ed è singolare che quel periodo non sia stato chiamato l’età della tecnica, ma è stato chiamato l’età del progresso. L’esperienza della tecnica non era associata ad un problema, non esisteva una questione della tecnica, ma al contrario. La tecnica era pensata per il progresso. Non era la tecnica a creare il progresso, la tecnica risolveva i problemi, e in quell’età si associava la tecnica al progresso.

L’uomo e la tecnica

Oggi noi ci poniamo una questione che nella storia non si era posta mai: la questione della tecnica, cioè la tecnica come problema. La tecnica non risolve i problemi, è essa divenuta problema. Perché? Perché la parola tecnica non è più sottolineata dai segni del trionfo, del successo, della gloria, ma è sottolineata da segni quanto meno di incertezza e di dubbio? Già questo è un termine di passaggio dove una stessa prassi viene diversamente valutata. Ma dico di più, non è che la tecnica sia apparsa nell’Ottocento. Possiamo interpretare la storia del mondo, e certamente la storia dell’uomo, come una storia della tecnica, perché in generale tutti i processi sono trasformazione. Questo è il concetto vero di catastrofe. Tutti i processi sono trasformazione.

L’uomo in un certo senso è stato tecnico fin dai suoi inizi. Viene in mente quel bellissimo frammento di Anassagora che dice che l’uomo è intelligente perché ha le mani. Lo dice Anassagora molto prima che Marx dicesse che l’uomo è intelligente perché lavora, dove il lavorare è la capacità di trasformare.

L’uomo già nel suo esordio è artificiale per natura. La natura propria dell’uomo è quella di essere artificiale. Noi in genere opponiamo natura e artificio, dimenticando che anche gli animali adattandosi si trasformano giorno per giorno, e storicamente si sono trasformati. Meno dell’uomo, certo, ma anche nell’animale c’è questa dimensione di trasformazione catastrofica. La teoria dell’evoluzione di Darwin parla di questo: che non bisogna attendere l’evento uomo per scoprire la capacità di trasformazione.

Nell’uomo c’è uno stacco maggiore. Nella storia evolutiva possiamo dire che l’uomo è l’animale istintualmente meno dotato. Molti antropologi l’hanno rilevato. È un animale imperfetto, con un istinto non specializzato. Negli animali l’istinto è ragione, l’istinto li governa, vivono di istinto, perché hanno istinti fortemente specializzati. Questo ha fatto in modo che fossero forti per un aspetto e deboli per l’altro e quindi incapaci di trasformarsi perché troppo rigidi, troppo specializzati, troppo forti.

L’uomo, in quanto non dotato di un istinto specializzato, non dotato di istinto ben definito, animale imperfetto, ha avuto, come singolare concessione, il vantaggio di essere più plastico, e quindi ha avuto più spazio per costruirsi.

Possiamo già ora introdurre un tema molto importante: la ragione è una modificazione dell’istinto, è quella risorsa che l’uomo ha trovato ed ha prodotto per cavarsela, per organizzare il suo movimento nello spazio mondo.

E’ a partire dal suo deficit che l’uomo si sviluppa in modo più tecnicamente elaborato di quanto non facciano gli animali, è a partire dalla sua debolezza, dalla sua non specializzazione che deve crearsi una protesi quasi innaturale. Così possiamo interpretare la storia evolutiva dell’umanità. Non solo l’uomo si costruisce a partire dalla sua non specializzazione, ma proprio in forza di questo è più esposto al pericolo, e quindi sente di più l’indeterminazione. Quindi c’è uno stacco tra il suo modo di vivere nel mondo ed il sentimento della sua esposizione nel mondo. Si sente più esposto, e quindi è più vigile. Attende e si protende. E tra l’attesa e la protensione immagina quello che ci può essere. Quindi lavora sull’anticipazione e sull’assenza, e quindi simula per poter immaginare quello che gli potrà accadere. È una grande macchina elaborativi: legge i segni, li combina, ed in base a questi profila le aspettative.

La stessa intelligenza è un fatto artificiale. Non a caso, per voler usare una metafora fisiologica, il cervello è una rete di neuroni. È una rete che si combina. Questa è l’intelligenza: si combina rispondendo a stimoli.

Tecnica e modernità

Nella modernità questa dimensione costruttiva o fabbrile dell’uomo si accelera. L’uomo antico è stato tecnico, ma dentro uno spazio che era manovrabile. L’uomo spostava le resistenze della natura, ma c’erano delle cose che non poteva spostare. Ancora non era sufficientemente forte. Nello stesso tempo, avendo avuto cognizione di se stesso, si è portato al di là della natura, proprio perché, a differenza degli altri animali, la poteva organizzare. La dinamica dell’uomo è stata una dinamica di trascendimento. Potendo immaginare un mondo diverso da quello in cui si trovava, l’uomo si pone in una dinamica di trascendimento. Pur essendo nel mondo, si sente qualcosa di meglio del mondo, di superiore al mondo, fino al punto da pensarsi – e le religioni in questo l’hanno aiutato – come fine, come culmine della creazione, come ultimo momento, quasi immaginando che tutta la natura sia stata fatta in funzione di lui. Lui si comprende come destino della natura. C’è tutta una letteratura così concepita.

Nella modernità succede che per il processo di secolarizzazione l’uomo perde di vista questa idea di essere il culmine della natura, comincia a perdere di vista questa idea perché perde di vista il suo interlocutore, cioè Dio.

Per capire questo, basta pensare a quella celebre sentenza di Nietzsche che parla di morte di Dio, che la morte di Dio equivale ad un omicidio. Quando Dio muore, l’uomo uccide la sua vecchia immagine. Quale? Quella destinata alla trascendenza e quindi non si sente più un fine. Comincia sempre di più, a partire dal ‘600, a sentirsi un caso della natura.

La modernità è quel processo in cui l’uomo si toglie dal centro per divenire arte, caso della natura, con questo singolare paradosso che per comprendersi come uomo deve interpretarsi come ente naturale. Per comprendersi, stranamente, deve oggettivarsi.

Questa è la prima mossa, che sembra di grande umiltà: io non sono il fine della natura, io sono un momento della natura e, proprio perché sono un momento della natura, un suo caso, per comprendermi, devo sentirmi ente naturale, quindi fisiologico, meccanico.

Nella modernità, nel processo e catastrofe, l’uomo si naturalizza. Però, nel momento stesso in cui l’uomo si naturalizza, è sempre quell’ente che comprende questo processo. È sempre quell’ente che non riesce a potersi mai ridurre a cosa. È quell’ente che ha bisogno, però, non essendoci più il riferimento a Dio, di prendersi lui in custodia.

Si sviluppa questo singolare movimento: l’uomo per un verso si naturalizza, ma la natura lo svela gracile, lo svela composto, lo svela fatto di elementi. Allora, stranamente, l’uomo, per conservarsi, deve apprendere dalla natura quelle leggi da usare contro di essa, per durare.

La dinamica della modernità è questo doppio gioco: giocare la natura contro se stessa, diventare intimo alla natura per scoprirne le leggi, ma scoprire queste leggi per tradirla, cioè per non esserne soggetto.

Qui il primo tempo di radicalizzazione della tecnica: la tecnica, da dinamica difensiva nella prima parte della storia dell’uomo, comincia a formularsi come dinamica aggressiva. Prima l’uomo sapeva troppo poco della natura per poterla tradire. Si poteva difendere dall’esterno: le case contro i temporali, gli argini contro i fiumi, barriere meccaniche, ma il movimento della natura è dinamico. La tecnica aveva una funzione difensiva nei confronti della natura. Quando l’uomo comincia a penetrare le sue leggi, allora la sua dimensione diventa aggressiva: conoscere la natura per tradirla, per vincerla, per scomporla.

La modernità comincia questa dinamica aggressiva.La tecnica è vissuta come strumento dell’emancipazione dell’uomo, è associata alla libertà, al progresso.

Le avanguardie del ‘900, gli uomini della fine dell’Ottocento, hanno inneggiato alla scienza, l’hanno celebrata come elemento attraverso cui gli uomini si liberavano dai vincoli della natura: è il positivismo, la grande cultura positivistica.

Noi abbiamo, sostanzialmente, un’esperienza – e qui incomincio ad introdurre il tema del “finito” – un’esperienza originaria della finitezza, perché l’uomo si è sempre saputo finito. Nell’epoca antica, la finitezza era compresa dall’uomo come una condizione assegnata, e quindi come un vincolo ineliminabile. Nelle società ove la finitezza è sperimentata dall’uomo come una condizione assegnata e come un vincolo ineliminabile, l’etica non può che essere l’etica dell’obbedienza. Agire secondo natura: non si può forzare più di tanto la natura perché altrimenti interviene la nemesi a pareggiare le sorti.

Nella modernità questa natura conosciuta e tradita sviluppa una etica che è caratterizzata dall’emancipazione e dalla propria finitezza. Il moderno, a differenza dell’antico, non è la conformità alla condizione assegnata, etica dell’obbedienza, ma è il superamento: spezzare i vincoli.

Nel mondo antico c’erano tutte e due le cose, ma prevaleva l’obbedienza, nel moderno ci sono tutte e due le cose, ma prevale la voglia di emancipazione. Emerge un’etica della libertà: tutto il moderno è un mito alla libertà, un mito della libertà come possibilità dell’arbitrio dell’uomo.

In “Progresso e Catastrofe” io porto come esempio di questo Sade. Il sadismo lo vediamo come metafora: quanto c’è di più naturale nell’uomo, la sessualità e la generazione, è reso artificiale. Liberarsi dalla naturalità di se stesso vuol dire trasformare la natura in qualcosa che cade nell’arbitrio incondizionato del soggetto. Questo è il significato metaforico di Sade: la chiave metafisica, non seguire la naturalità della sessualità ma artificializzarla. Quello che è più innaturale nell’uomo deve essere gestito dalla libertà del soggetto.

Il problema della tecnica

Oggi abbiamo un’altra etica: io dico l’etica del finito.

Per capire questo bisogna fare un ultimo passaggio, cioè il trapasso dall’ideologia del progresso a quella che chiamo, l’età della tecnica, quell’età in cui la tecnica diventa problema.

L’Ottocento è stata una grande età della tecnica. L’Ottocento ha inanellato scoperte scientifiche grandissime ed ha proposto le premesse delle scoperte novecentesche. Voi vedete oggi sul giornale le leggi di Mendel per la genetica. È l’Ottocento che mette i mattoni della grande florescenza novecentesca. Però lì, appunto, la tecnica non faceva problemi. Perché oggi la tecnica fa problemi?

Quella dinamica che ha caratterizzato la modernità, essere intimi alla natura, per tradirla, lungi dallo sviluppare un’ampiezza incondizionata di libertà, ha incominciato a sviluppare controfinalità.

Detto in altri termini: la tecnica non crea problema perché è potente, crea problema perché non è onnipotente. Quindi, quelle celebrazioni retoriche della potenza della tecnica non colgono la natura del fenomeno. Sbagliano la diagnosi.

Nei confronti della tecnica, c’è un doppio atteggiamento sbagliato. Ci sono gli apologisti della tecnica che dicono che tutto quello che fa la tecnica è grande, e quindi su questa base sono disposti, per interessi economici, a sottoscrivere tutto purché lo faccia la tecnica, a coprire, velare e dissimulare i suoi danni. E ci sono quelli che invece celebrano la catastrofe, la dissoluzione, la rovina della tecnica, ricadendo, così, in un pensiero arcaico, povero, neosacerdotale, magico, e in una tecnica molto antica: deprimere gli uomini per governarli.

Tutti e due gli atteggiamenti non capiscono il fenomeno, non lo leggono nel suo specifico sviluppo, e quindi noi intorno alla tecnica, spesse volte, ignoriamo di cui parliamo. Esiste cioè una grande retorica intorno alla tecnica, ma non esiste una comprensione analitica della tecnica.

Esiste una semplificazione, una simbolizzazione dello schema, e non una proporzione fra pensiero e problema. La tecnica non fa paura perché ha successo, la tecnica fa paura quando fallisce. È l’errore della tecnica che ci inquieta, non la tecnica riuscita. Ecco, allora, il passaggio dalla modernità alla contemporaneità.

Un esempio, per capirci, quello della macchina a vapore. I danni che lo scoppio di una macchina a vapore poteva provocare erano infinitamente più bassi dei miglioramenti che portava. Quei danni diventavano sempre più irrilevanti a fronte degli immensi benefici, al punto che non si può dire quanto sarebbe stato scomodo il non poter usare lo scaldabagno, contro tutti quelli che celebravano l’arcaismo. Pensate, ad esempio, agli elettrodomestici, prima di parlar male della tecnica. Pensatevi senza penicillina, prima di parlare male della tecnica. Pensatevi senza un sistema di produzione alimentare adeguato a fronte delle carestie. Oggi ci può essere l’orrore di avere i mandarini in agosto, ma un tempo c’era l’orrore di non avere il pane per tutto l’anno.

Il problema della tecnica non era un problema: a fronte dei benefici erano troppo bassi i danni per essere rilevanti. Pensate oggi a Chernobyl: i danni possono essere peggiori dei benefici, o quanto meno, se non sono peggiori, sufficientemente inquietanti, sia nell’ordine dello spazio: la pervasività del danno, sia in ordine del tempo: la durata del danno.

Questo problema sorge quando Chernobyl non funziona. La questione della tecnica nasce a partire dalle controfinalità che essa fa sorgere.

Se è vero che la tecnica diventa un problema, essa genera problemi. E noi ci problematizziamo a partire dalla tecnica. Di fronte ai suoi fallimenti noi poniamo domande che la tecnica non può porsi. La tecnica è competente dell’oggetto su cui opera, ma difficilmente si pone domande sulla sua prassi. Però, generando la sua prassi controfinalità, la scienza è costretta allo stop and go, costantemente. Ecco il nuovo grande problema.

L’esposizione all’indeterminatezza

Qual è la caratteristica, allora, della contemporaneità? L’uomo moderno – l’uomo post-moderno – deve convivere sempre di più con il dilemma, deve essere capace di rischio. La caratteristica dell’uomo contemporaneo è l’esposizione all’indeterminatezza.

Il pensiero debole è una banalità, soltanto una società obbediente si poteva permettere di essere debole. Perché obbedire è anche comodo, si è custoditi, infatti, dal potere degli altri. Decidere non è comodo, perché bisogna prendersi in custodia da sé, ed essere all’altezza del compito.

Tutti cercano regole, sono pochi quelli che riescono a darne. La posizione giusta è darsi le regole, perché anche qui c’è un doppio errore: o essere soggetti al potere degli altri o pretendere il potere incondizionato senza remore. E sono due disperazioni. Etica vuol dire essere all’altezza del problema, cioè portarsi all’altezza della propria finitezza, questa è l’etica definita.

Una società dell’obbedienza non poteva avere un’etica del finito perché doveva ubbidire, non governare la finitezza.

La modernità non poteva avere un’etica del finito, perché il problema suo era di spezzare i vincoli della costrizione. Il progresso non è stato un male, però non funziona più: il progresso illimitato trova un blocco in se stesso. Oggi, allo stesso modo in cui la tecnica diventa un problema, per tener testa al problema bisogna amministrare la finitezza.

Ecco perché l’interfaccia della tecnica è l’etica finita.

Quindi, non è vero che la tecnica dissolve le possibilità della morale, ma rilancia la morale come responsabilità del potere stesso.

Bisogna partire dall’idea che soltanto con la tecnica si limita la tecnica.Non è demonizzandola, ma studiandola, che noi possiamo stabilirne i limiti. Che i raggi X siano cancerogeni si è scoperto perché si sono usati i raggi X. Se non si fossero usati i raggi X, non avremmo scoperto che erano cancerogeni. La scoperta nasce dal rischio, ma, una volta che l’abbiamo scoperto, sappiamo che non tutto è possibile.

Per comprendere la tecnica, non dobbiamo semplificare il processo, ma dobbiamo portarci ad un livello di astrazione più raffinata.Normalmente della tecnica si parla male, perché non ci si porta ad un livello di astrazione più raffinata.

C’è un irresponsabile attacco alla scienza. Si reagisce al problema della tecnica entrando nel suo meccanismo, abitando il suo problema e, per quanto possibile, diventandone responsabili come individui e come comunità. Non è vero che la scienza dissolve l’etica: la chiama ad un livello superiore, ad una più alta responsabilità.

Il rischio come opportunità

Io ridimensionerei la formula “età della tecnica”, vorrei usare una definizione molto più limitata di Nicholas Newmann: “La tecnica è una semplificazione che funziona nel medium della causalità”.

Detto altrimenti: la tecnica consiste nell’isolamento, più o meno riuscito, di relazioni causali. Questo comporta processi controllabili, risorse pianificabili, errori riconoscibili ed imputabili.

La tecnica, in effetti, è quel dispositivo che controlla gruppi di causalità, sistemi di interdipendenze, ma il regime di complessità non può controllare tutte queste interdipendenze. C’è qualcosa che esclude, e qualcosa che include.

La tecnica per funzionare deve correggere se stessa. Oggi si distingue molto bene tra macchina banale e macchina sofisticata. I dispositivi per proteggere un computer esigono investimento e calcolo molto più raffinato del computer stesso. Abbiamo una scalarità dei controlli, quindi la tecnica si pone come suo problema il suo fallimento. Dove sta l’onnipotenza? Una tecnica funzionerebbe in modo adeguato, secondo alcuni, se riuscisse, come fa la mente dell’uomo, a trasformare in input i suoi ouput. Cioè, trasformare quello che produce in base di conoscenza per quello che deve produrre: le macchine non ce la fanno. Non solo, ma dovrebbe avere la capacità di selezionare, cioè di rinunciare a qualcosa a vantaggio di qualcos’altro, perché non è vero che si possa correre lungo tutti i fili.

Per esempio Internet. Se qualcuno di voi lo usa, lo saprà. Liberi di navigare, ma andate in un sito di fisica o di biologia molecolare senza conoscere la fisica o la biologia molecolare: ve ne tornerete indietro. Chi usa Internet con competenza, lo usa limitatamente. C’è un potenziale illimitato, ma la prestazione è limitata perché ci vuole il soggetto che la domina. Non voglio con questo sottovalutare i rischi, perché può capitare, per esempio, che in Internet si allentino i legami di comunità, legami personali diretti. Può essere funzionale per il sapere, ma non è detto che sia funzionale per le relazioni umane. Potrebbe produrre un’atrofia degli affetti: anche questo è rischio. Però, nel momento in cui produce atrofia degli affetti, può anche stabilire contatti allargati, che possono diventare anche contatti personali.

Ecco la questione della tecnica. I problemi della tecnica ci mettono in questa situazione, di esposizione, di ambivalenza.

Riprendiamo la figura del rischio, con il sentimento proprio della nostra esposizione. Questo corrisponde in modo adeguato ad un diverso formularsi della temporalità. La teoria del progresso partiva dall’idea che il beneficio della tecnica, insieme alla tecnica della politica, potesse creare un mondo abitabile ed un mondo uno.

In fondo, il progresso si pensava come un’umanità che si muove verso un comune destino. Questa è l’ideologia del progresso: energie che si liberavano perché si creasse un mondo di uomini liberi, un movimento destinale e corale insieme.

Un caratteristica del passaggio dal moderno al contemporaneo è che nel movimento della storia non è possibile dare a tutto la stessa direzione. Non è possibile una laseralizzazione del tempo. Più la società diventa complessa, più aumentano le prestazioni, più si articolano le funzioni, meno è riconducibile tutto con tutto. Il tempo non è pensabile secondo l’immagine di un fiume che si nuove diretto verso una foce, ma invece è un tempo differito, fratto, non va da nessuna parte, sta lì dov’è, o ha movimenti, essi stessi, a orientamenti limitati. Si conosce, si sa, si apprende entro l’ambito in cui ci si muove, entro l’ambiente in cui si opera, e quindi non si sa tutto del mondo. E costantemente ci si scambia informazioni, in questo spazio.

Dobbiamo immaginare il movimento non più come un tempo unico verso un comune destino, ma come uno spazio dove ci sono tanti luoghi mobili che si incontrano qua là, interferiscono, cambiano.

Ogni sistema è esposto costantemente a perturbazioni che lo collegano e a queste perturbazioni deve rispondere, deve costantemente ristrutturarsi. Noi lo dobbiamo fare come sistema fisico.

Porto un esempio dove tutti possono capire. Pensate al sistema famigliare, in una società ad alta mobilità a quante ristrutturazioni subisce: relazionali, gerarchiche, con il nuovo partner, con i figli dell’altro. Per non esplodere, il sistema deve costantemente riequilibrarsi, deve definire prestazioni nuove, a seconda dei problemi.

Ci sono processi reversibili, ma anche questa rottura del legame famigliare può essere un vantaggio, nel senso che potrà formare dei legami subiti in scelte, obbedienze in processi identitari, figli voluti davvero, e figli incontrati divenuti figli nella relazione e nella corrispondenza, problemi come vedete tanti, ma anche possibilità. Ma per fare questo occorre essere responsabili.

Ecco perché l’attacco alla scienza è un mito che deve scomparire, esso rende inopportunamente pessimisti, quando invece si deve attrezzarsi in termini di conoscenza per giocare col rischio.

Il rischio un tempo più che dalle decisioni dell’uomo veniva dalla natura: eventi naturali, epidemie, malattie, tempeste. L’uomo, a fronte del pericolo, è stato costretto ad aggredire. Però la dimensione del rischio era sempre collegata all’elemento della misura. Il rischio deve essere misurato. Era legato sempre al calcolo delle probabilità. Era la posta che si aveva davanti che faceva aggio sul rischio: decidere se questo si doveva fare o non si doveva fare, era definito dalla misura delle probabilità. E quindi era limitato all’oggetto. Oggi noi siamo in una situazione diversa. Sappiamo che rischiamo se non rischiamo. Cioè, certe opportunità possono nascere soltanto se siamo noi innovatori, cioè se non definiamo il nostro rischio rispetto all’oggetto, ma assumiamo il rischio come una responsabilità innovativa in avanti.

Questo è un rischio di secondo grado, perché il primo rischio era definito in funzione dell’assestamento della sicurezza, questo secondo rischio è definito in funzione dell’ampliamento delle opportunità. Ma forzare la sicurezza è diverso che ampliare le opportunità. Si può rinunciare all’ampliamento delle opportunità? Sarebbe un impoverirsi.

L’uomo, attraverso questo processo, immette rischio nella natura. Deve essere consapevole di questo e quindi, pur nell’ampliamento delle opportunità, non deve immaginare che l’ampliamento come tale sia un bene.

Tecnica ed etica del finito

Ecco ancora l’etica del finito.

L’etica del finito blocca il trip tecnologico, permette di valutare tra ciò che è opportuno e ciò che è in sovrappiù, problematizza il successo. Non qualsiasi trapianto permette una buona vita, magari comporta una convalescenza infinita. Non è meglio morire e vivere una vita piena, che indugiare in una lunga terribile malattia. Ecco, non bisogna che la scienza si trasformi in delirio di onnipotenza.

Il rischio c’è, ma soltanto il sentimento alto della nostra finitezza lo può bloccare. Per quanto si spostino i limiti, noi saremo sempre allocati nel limite, e quindi non dobbiamo mai immaginare lo spazio della nostra riuscita come uno spazio in cui non siamo presenti al nostro limite.

E poiché la scienza fallisce, bisogna anche tenere il conto di questo fallimento, quindi stare nel dilemma, muoversi in esso, problematizzarlo, cogliendo di volta in volta le sue chanches, le sue scelte. Questo suppone una mente attenta, vigilante, interessata.

L’etica della finitezza è un’etica della scepsi, è un’etica del sospetto, è un’etica interrogante, e perciò difficile. È più facile demonizzare la scienza e poi, di fatto, nella nostra vita, ogni giorno, esserne irresponsabili parassiti, che starci dentro distaccandosene, nel modo più alto, per dominarla, controllarla, viverla.

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