Teorie economiche alternative per affrontare la crisi dell’Eurozona e le politiche che hanno contribuito a determinarla. SERGIO CESARATTO: Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne).

Il libro del prof. Cesaratto spiega la natura della disciplina economica secondo gli economisti “eterodossi”, gruppo non piccolo ma decisamente minoritario rispetto al pensiero economico  dei cosiddetti “neoclassici” attualmente  maggioritario nelle Università.

Neoclassici che Cesaratto definisce marginalisti, perché il termine “neo-classici” sottende una qualche eredità culturale, un legame stretto, con gli economisti “classici” (Smith, Ricardo e Marx i più noti) che consideravano l’economia una disciplina matematica ma anche politica, che ha come tema centrale la distribuzione del reddito, come la produzione viene distribuita tra i componenti della società.

Scrive Cesaratto che Ricardo, il più importante dei classici per Marx e non solo per lui, esprime una definizione molto chiara della scienza economica: “nelle diverse fasi della società, le proporzioni dell’intero prodotto della terra che sarà assegnato a ciascuna di queste classi, sotto i nomi di rendita, profitto e salario, saranno essenzialmente diverse… determinare le leggi che regolano questa distribuzione, è il problema principale dell’economia politica.”  (continua…)

Ottava lezione del Corso di Formazione alla Politica 2021-22
OLTRE LA PANDEMIA. UNA SOCIETÀ PER LA PERSONA

Leggi l’introduzione di Stefano Guffanti a Sergio Cesaratto

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Luca Caputo presenta la lezione – 12:17
Stefano Guffanti introduce Sergio Cesaratto – 24:20
Relazione di Sergio Cesaratto, prima parte – 22:49
Intervento di Stefano Guffanti – 19:17
Relazione di Sergio Cesaratto, seconda parte – 37:58
Domande dei partecipanti – 15:30
Risposte di Sergio Cesaratto – 13:41
Altre domande – 7:10
Risposte di Sergio Cesaratto e chiusura della lezione – 11:14

(continuazione)

I “marginalisti” in realtà rappresentano una reazione delle classi dominanti, impaurite dal contenuto “destabilizzante” delle  teorie di Smith, Ricardo e Marx, volta a ricondurre le relazioni sociali e le scelte politiche a relazioni quantitative di natura logico-matematica, dimenticando il profondo legame esistente tra economia, storia e politica.   

Si tratta di teorie economiche che hanno causato crisi devastanti come quella del 2008, che ancora stiamo vivendo, e  “ricette”  che hanno portato ad alti livelli di disoccupazione le quali, come ci ha insegnato Kalecki, scoraggiano ogni forma di ribellione da parte dei lavoratori.  

Esistono tuttavia anche economisti “eterodossi”, che, dopo la luminosa eccezione rappresentata da John Maynard Keynes,  hanno sviluppato il suo pensiero innovativo nella storia dell’economia moderna.   

Gli economisti eterodossi sono una minoranza, a causa della marginalizzazione subita in tante Università dominate dai marginalisti, ma di qualità elevatissima ! Basti pensare a Piero Sraffa, a Garegnani, a Federico Caffè (con il quale fece la tesi di laurea il nostro attuale premier Mario Draghi) a Paolo Sylos Labini, a Andrea Ginzburg, Fernando Vianello, Luigi Spaventa (per la parte iniziale del suo percorso intellettuale) o, se guardiamo all’estero, a conomisti ecome Hyman Minsky (il cui pensiero è sempre più “riscoperto” alla luce degli avvenimenti post crisi del 2008) o Kalecki per limitarsi solo ad alcuni di quelli citati nel libro.  

Successivamente il libro affronta il temi della politica monetaria, del modo in cui operano le Banche Centrali, del problema dell’Euro, la moneta unica con la quale ci troviamo a convivere ogni giorno dal 2001 ma, in realtà, da quando si decise di impedire la libera fluttuazione dei tassi di cambio delle monete limitandole  prima all’interno del cosidetto sistema monetario europeo e poi congelandole nell’euro, moneta unica per paesi che hanno economie diverse, con tassi di crescita diversi, livelli di occupazione diversi e, soprattutto, debiti pubblici diversi.  

Alla genesi della crisi europea, al comportamento delle autorità europee (BCE in primis) nazionali  nella gestione delle prime fasi, agli interventi successivi messi in campo dalla Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi per salvaguardare l’eurozona sono dedicati gli ultimi capitoli del libro.


Sergio Cesaratto, Heterodox Challenges in Economics – Theoretical Issues and the Crisis of the Eurozone, Springer, 2020.

INTRODUZIONE

Presentare questo libro è un  traguardo per me che, grazie al Circolo Dossetti, ho avuto la possibilità di presentare libri di prestigiosi economisti e affrontare il tema Europa da diversi punti di vista, chiedendoci quale sarà la sorte del Vecchio Continente in una fase storica in cui si assiste al crollo del vecchio ordine internazionale a fronte di un nuovo ordine in fase di faticosa gestazione e di un attacco del sistema di welfare che, sia pur con diversi modelli, lo contraddistingue.

Ne voglio ricordare alcuni che hanno toccato temi che oggi ritroveremo con il prof. Cesaratto ma affrontati in un’ottica diversa, di chi appartiene a un pensiero economico eterodosso ispirato ai grandi economisti classici, a Keynes e ai suoi allievi, e che nella mia mente, era un po’ il completamento di un percorso che comprendeva economisti ortodossi e convinti europeisti come il prof. Cottarelli con il quale abbiamo esaminato i problemi istituzionali che in Europa ritardano le risposte della politica e la crisi finanziaria che, partita dall’America, mette a rischio la moneta unica e lo stesso progetto europeo. Il professor Bordignon che ci ha esposto il funzionamento dei vari trattati, dell’obbligo di bilancio in pareggio comparando il funzionamento del regionalismo italiano con quello del federalismo europeo e dimostrando come l’Europa sia rimasta “in mezzo al guado” e debba scegliere tra ulteriori passi verso l’unione politica o il ritorno a una semplice zona di libero mercato, Neo-keynesiani come il prof. Boitani (e uso il termine neo con un po’ di malizia pensando a come il prof. Cesaratto distingua tra classici e neo-classici e tra keynesiani e neo-keynesiani come vedremo in seguito) che, presentando il suo libro “Euro ultima chiamata”, ha ripercorso i passaggi che hanno portato all’introduzione dell’euro ovvero Maastricht, il Patto di Stabilità e Crescita, (più la prima che la seconda mi viene da dire…), il  Fiscal Compact e poi l’arrivo della  grande crisi del 2008 che ancora stiamo vivendo. La natura, come dire, estemporanea e non scientifica, dei criteri che hanno portato a scegliere i parametri di Maastricht su deficit/PIL e il limite del 60% del debito rispetto al PIL, gli effetti in termini di svalutazione interna dei salari per restare competitivi con i nostri concorrenti esteri, il rapporto politico preferenziale franco tedesco.

Un economista critico che ha mostrato dati estremamente interessanti sugli effetti delle politiche europee come il prof. Campiglio che, parlando di scontro e composizione delle sovranità europee, si soffermò su un tema estremamente attuale nell’ambito del dibattito riguardante il futuro dell’Europa: “La teoria del rigore nel sistema economico europeo” e altre importanti testimonianze che ora non c’è il tempo di citare.

GLI ECONOMISTI “CLASSICI”, L’AVVENTO DEI MARGINALISTI E LA “RIVOLUZIONE INCOMPLETA” KEYNESIANA.

Il libro del prof. Cesaratto, tuttavia, non si limita a parlare di Europa ma inserisce il tutto all’interno di una analisi storica del pensiero economico dal punto di vista di un economista “eterodosso”, parte di gruppo non piccolo ma minoritario rispetto al pensiero economico che ha dominato le università, un economista che si colloca al di fuori della tradizione cosidetta neoclassica, o marginalista, come direbbe il prof. Cesaratto, in quanto tale definizione presupporrebbe una qualche parentela, una eredità raccolta, nei confronti degli economisti “classici” mentre una prima lezione che io ho tratto dalla lettura di questo straordinario libro, straordinario per la chiarezza con cui è scritto e per la profondità dei concetti in esso espressi, è infatti che sono esistiti gli economisti “classici”, ma non è mai esistito un pensiero “neo-classico” che, per inciso, è il pensiero oggi dominante nelle università di tutto il mondo (anche perché, se mi permettete la battuta, è molto gradito ai padroni del vapore che non lesinano finanziamenti alle Università che lo sostengono e propaganda gratuita nei mezzi di informazione da loro posseduti)

La prima parte del libro esamina il pensiero dei grandi economisti classici soffermandosi in particolare su Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx. Tre economisti assai diversi tra loro ma accomunati da una concezione dell’economia politica che aveva bene in mente il fatto che l’economia non si basa su “leggi” e “equilibri” naturali ma si basa sul conflitto di interessi contrapposti che raggiungono una intesa sulla base della politica e dei rapporti di forza.

Scrive Cesaratto (pag. 9) che Ricardo, il più importante dei classici per Marx e non solo per lui, esprime una definizione molto chiara della scienza economica: “in different stages of society, the proportions of the whole produce of the earth which will be allotted to each of these classes, under the names of rent, profit and wages, will be essentially different….. to determine the laws which regulate this distribution, is the principal problem in politica economy” ovvero che nelle diverse fasi della società, le proporzioni dell’intero prodotto della terra che sarà assegnato a ciascuna di queste classi, sotto i nomi di rendita, profitto e salario, saranno essenzialmente diverse… determinare le leggi che regolano questa distribuzione, è il problema principale dell’economia politica. “

Il libro inizia affrontando la teoria del surplus, quella teoria che Marx utilizzava come titolo del quarto volume del Capitale, il concetto di “surplus” inteso come quella parte di prodotto che resta disponibile per la comunità ( o per le élites che la controllano) una volta eliminato ciò che serve per riprodurre lo stesso prodotto rimpiazzando e manutenendo i mezzi per la produzione e remunerando la forza lavoro.

Nella sua analisi il prof. Cesaratto cita un libro estremamente affascinante che vi segnalo: Arms, Steel and Germs di Jared Diamond, un biologo che affronta il tema della creazione del surplus nell’arco dei secoli con un originale approccio multidisciplinare.

Segnalo poi un originale e divertente paragrafo intitolato “Dal neolitico a Schauble” il noto ministro dell’economia tedesco tra i protagonisti della costruzione dell’euro e dei suoi parametri, in cui viene spiegata la genesi del pensiero mercantilista “ossessionato”, per così dire, dalla necessità di vendere i prodotti all’estero, di esportare, al punto da spingere qualcuno ad affermare che il concetto di ricchezza per i mercantilisti coincide con la differenza tra esportazioni-importazioni, dimenticandosi che, se l’obiettivo è quello di vendere i prodotti ed evitare l’accumulo di scorte nei magazzini, anche un aumento dei salari che espande la domanda interna può permettere di raggiungere lo scopo aumentando, in aggiunta, il benessere dei cittadini !

Cesaratto cita nel libro diversi storici dell’economia ed economisti che vedono nel Surplus Approach, che predica una politica di bassi salari che genera un surplus per i capitalisti i quali, non potendo venderlo nel mercato domestico a causa della compressione della domanda interna dovuta ai bassi salari, cercano di venderlo all’estero in cambio di beni di lusso e ricchezza finanziaria, i semi del pensiero Marxista.

Anche il pensiero economico di Adam Smith, l’economista scozzese autore del celebre libro “La ricchezza delle nazioni” del 1776, ritenuto dai neoliberisti il padre del laissez faire economico, è tutt’altra cosa rispetto alla caricatura che ne fanno i sostenitori odierni del neoliberismo, il conflitto sociale è ben presente nel suo pensiero che non tratta solo di divisione del lavoro e di “mano invisibile” del mercato.

Benchè Smith ritenga che il sistema dei prezzi e la concorrenza siano un buon modo per coordinare l’attività economica, egli è ben cosciente del fatto che esista l’alienazione dei lavoratori nella famosa fabbrica di spilli e che “it’s not from the benevolence of the butcher, the brewer or the baker, that we expect our dinner, but from their regard to their own interest. We address ourselves, not to their umanity but to their self-love, and never talk to them of our own necessities but of their advantages”.1

Smith, scrive Cesaratto, lascia in eredità il concetto che, in ultima istanza, il prezzo dei beni prodotti dipende dalla remunerazione di quello che utilizziamo per produrli: capitale, lavoro e risorse come palazzi e terre la cui remunerazione è definita come “rendita”. La natura dei prezzi è strettamente legata a come il reddito viene distribuito tra salari, profitti e rendite

Nessun economista classico si sognerebbe di dire che il libero mercato, da solo, possa portare al pieno impiego. Smith scrive chiaramente che il livello dei salari dipende dal rapporto di potere, di forza, tra capitalisti e lavoratori. E non ha dubbi su chi sia il più forte, i capitalisti sono pochi di numero e possono facilmente accordarsi tra loro per resistere alle richieste dei lavoratori, i lavoratori invece non dispongono di ricchezze accumulate, sono tanti e divisi.

A differenza di Margaret Thatcher e della Adam Smith Institute famosi per la loro frase: “there’s not such a thing as society”, Smith crede nella società e nella naturale empatia tra gli individui che la compongono.

E anche Ricardo, l’esponente ai tempi più famoso e accettato tra gli economisti “classici”, in quanto membro autorevole del partito conservatore, ritiene che il livello dei salari muti in base alle condizioni storiche e che non vi sia una “distribuzione naturale” del reddito.

Non solo, con una affermazione che scandalizzerebbe tanti esponenti della politica e del sindacato odierni che negano che l’automazione comporterà la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, Ricardo si guarda bene dal demonizzare il movimento luddista, che distruggeva le macchine per timore che portassero via il posto ai lavoratori, e sostiene che non esistano meccanismi di mercato che garantiscano di per sé ai lavoratori ritenuti superflui a causa dell’innovazione tecnologica di poter trovare una ricollocazione altrove.

Ricardo è contrario alla proposta dei proprietari terrieri di imporre dazi sul mais importato dagli altri paesi europei che lo producevano a prezzi più bassi, in modo tale da poter vendere il grano prodotto in patria a prezzi più alti. L’aumento del prezzo del mais comporta, secondo Ricardo, la necessità per gli industriali di pagare salari più alti e Ricardo dimostra che c’è una relazione inversa tra salari e profitti ! Senza nominarla emerge la natura del conflitto di classe che Marx evidenzierà proprio sviluppando le teorie di Ricardo.

In Smith abbiamo visto che la teoria dei salari dipende dalle relazioni di potere tra capitalisti e lavoratori, in Ricardo emerge il “pericolo” (dal punto di vista degli imprenditori) che un aumento dei salari e dello standard di vita dei lavoratori diventi una sorta di “status” immodificabile per i lavoratori se persistente nel tempo.

La verità e che la Thatcher e Reagan non sono gli eredi di Smith, come loro affermano, ma della teoria economica che, dopo la nascita del marxismo, soppianta l’economia “classica”.

Secondo Cesaratto, una volta che la borghesia industriale britannica riesce a soppiantare la vecchia borghesia agraria applicando le teorie di Ricardo e prende il potere, ecco che le teorie di Ricardo, diventano “sovversive” e la classe dominante ritiene opportuno favorire la nascita di una nuova teoria economica che viene definita neo-classica, come se riprendesse e sviluppasse il pensiero dei classici, ma che in realtà deve essere definita “marginalista” perché nasce sul presupposto che non vi sia il conflitto ma solo la necessità di raggiungere “punti di equilibrio” naturali, come se in economia esistessero leggi naturali e, come sottolinea per esempio un altro economista a suo modo eterodosso come Giulio Sapelli, se avesse un senso parlare di economia prescindendo dalla politica estera, dalla forza militare, dagli elementi culturali e religiosi che caratterizzano il contesto geopolitico. A un certo punto del libro Cesaratto affronta il tema della MMT, così famosa oggi nel mondo e negli Stati Uniti in particolare, e mostra come le teorie sulla capacità di emissione di moneta delle banche centrali e sulla possibilità degli Stati di indebitarsi, non dipendano solo dal fatto di avere una moneta nazionale, ma anche dagli squilibri della bilancia dei pagamenti o commerciali, è cosa ben diversa essere gli Stati Uniti e disporre del dollaro, moneta di riserva del mondo intero, o essere il Kenya, il Mozambico o qualunque stato povero.

Evito di soffermarmi a lungo sull’ importanza del pensiero di Marx, ricordo a me stesso perché mi colpiva la sua straordinaria attualità mentre la leggevo, l’analisi di Marx sulle possibili cause di crisi del capitalismo:

  1. la natura anarchica della produzione capitalista che spesso porta a incertezza negli investimenti e, di conseguenza a sprechi, errori e bancarotte;
  2. la legge sulla caduta tendenziale del tasso di profitto: Cesaratto cita il noto intervento all’ IMF nel 2013 in cui l’economista dell’Università di Harvard e ex ministro del Tesoro americano Larry Summers parla di una tendenza alla “stagnazione secolare” a cui tende il capitalismo per la mancanza strutturale di domanda aggregata e la crescente diseguaglianza negli anni della globalizzazione e a come questa possa essere evitata solo attraverso il ricorso a “bolle” nel mercato azionario o dell’edilizia. In Italia, penso al paper su questo tema scritto da Vladimiro Giacchè “Spiegare la crisi: stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio di profitto?” con dati assai interessanti che dimostrano l’attualità dell’ipotesi marxista;
  3. il “realization problem” in base al quale ogni capitalista vorrebbe che i lavoratori degli altri capitalisti fossero pagati il più possibile, in modo da essere abbastanza ricchi da comprare i suoi beni e mantenere elevata la domanda ma, al tempo stesso, vorrebbe che i SUOI lavoratori fossero pagati il meno possibile per massimizzare il proprio profitto;
  4. l’ “Industrial reserve army” dietro il quale c’è l’interesse dei capitalisti ad evitare che, quando il tasso di accumulazione del capitale cresce e la domanda di lavoro aumenta, il potere di contrattazione dei lavoratori diventi troppo forte portando alla crescita dei salari e, di conseguenza, alla riduzione del tasso di profitto. Per evitare questa “pericolosa” dinamica dei salari gli imprenditori tendono a creare, un esercito industriale di riserva, composto da lavoratori disoccupati tenuti volutamente fuori dal mercato del lavoro e disponibili a essere assunti con salari minori quando la forza contrattuale dei lavoratori occupati cresce troppo. Marx ritiene che due siano i meccanismi storicamente usati dagli imprenditori per favorire la creazione di questi “eserciti industriali di riserva”: uno è l’automazione del lavoro che trasforma i lavoratori in esuberi, l’altro è favorire l’arrivo di lavoratori di altri paesi (non a caso tutte le Confindustrie del mondo sono per l’apertura dei mercati del lavoro ai lavoratori dei paesi più poveri ! Poi, beninteso, uno può invece continuare a credere che lo facciano in nome dei diritti umani, della solidarietà, della carità etc.. ……);

Parlando dell’importanza per i padroni del vapore di mantenere un livello di disoccupazione più alto di quello che la produzione consentirebbe di avere (questo è un altro modo di definire l’ “esercito industriale di riserva”) Cesaratto ricorda quanto scritto dall’economista polacco Michael Kalecki che, nel 1943, spiegò come il capitalismo sia incompatibile con il pieno impiego: il capitalismo potrebbe raggiungere il pieno impiego ma se così facesse renderebbe la classe lavoratrice troppo forte. Se proprio la disoccupazione cresce troppo e bisogna aumentare la spesa pubblica la classe dominante (oggi diremmo l’1% che detiene la metà della ricchezza mondiale) tendenzialmente preferisce la spesa militare alla spesa sociale, perché quest’ultima potrebbe far comprendere al 99% della popolazione rimanente che la società moderna potrebbe permettersi un livello di welfare più elevato e, ce lo insegnava già Ricardo, se il tenore di vita dei lavoratori aumenta per un periodo sufficientemente lungo, questi ultimi non accetteranno più di tornare indietro e rivendicheranno il loro status sociale come un diritto…..

Abbiamo detto che alle tesi di Marx (e Ricardo anche se lui non lo aveva immaginato formulando le sue teorie), segue una reazione che porta alla nascita della teoria neo-classica che Cesaratto definisce marginalista per i motivi visti prima. La distribuzione del reddito dipende dalla scarsità relativa dei vari fattori di produzione, tanto più è scarsa la produzione di un fattore rispetto agli altri tanto maggiore sarà la sua remunerazione e tanto minore la remunerazione degli altri fattori.

Secondo questa teoria esiste una “distribuzione naturale” del reddito nessuno sfrutta nessuno e ogni fattore di produzione riceve una remunerazione basata sul suo effettivo contributo alla produzione. Se i fattori della produzione accettano la loro remunerazione naturale ecco che si arriverà alla piena occupazione e il reddito risparmiato fornirà nuove risorse al fattore “capitale” per investire e creare nuova ricchezza.

La teoria marginalista oggi domina le principali università del mondo, tuttavia continua a esistere e a operare nel pensiero economico un pensiero critico.

Nella edizione scritta in inglese del libro del prof. Cesaratto, che ho voluto comprare e leggere non per sciocco snobismo ma perché pubblicata nel 2020 dopo l’edizione italiana, c’è una bellissima e molto significativa foto che, scrive Cesaratto, riassume in sè il contenuto del libro. La foto ritrae tre economisti a Tilton (Sussex, UK) nel 1927. Al centro c’è l’economista senza alcun dubbio più influente del secolo scorso, John Maynard Keynes, l’uomo che si è opposto con successo alle politiche che vedevano la salvezza nel laissez faire e che ha proposto, basti pensare a ciò che accadde durante la grande depressione del 1929 negli Stati Uniti, politiche di espansione monetaria e politiche fiscali interventiste volte a raggiungere il pieno impiego.

A destra di Keynes c’è Dennis Robertson, l’allievo che più tardi diventerà guardiano dell’ortodossia economica, mentre a sinistra di Keynes c’è Piero Sraffa, economista eterodosso, protagonista indiscusso della “Controversy on capital theory” altrimenti detta “the two Cambridges debate”, un dibattito tra i più importanti e significativi nella storia dell’economia che ha coinvolto economisti incentrati principalmente a Cambridge, negli Stati Uniti (più in particolare al MIT) e a Cambridge, nel Regno Unito. Il dibattito ha riguardato la natura e il ruolo dei beni capitali e una critica alla visione neoclassica della produzione e distribuzione aggregata. La critica alle teorie marginaliste (cosidette neoclassiche) venne mossa su base analitica con la pubblicazione di “Production of Commodities by Means of Commodities” di Piero Sraffa nel 1960, e “ Essays in the Theory of Economic Growth” di Joan Robinson nel 1962. Al termine del confronto, Paul Samuelson, futuro premio Nobel e esponente principale degli economisti della Cambridge “americana” ammise che le critiche di Sraffa erano corrette tuttavia, forse per l’esito finale favorevole alle teorie del gruppo di economisti guidato da Keynes di cui Sraffa era membro autorevolissimo, il pensiero Sraffiano è stato “commemorato” dal dibattito economico ma dimenticato.

Sappiamo tutti la straordinaria rilevanza delle teorie keynesiane sia in campo economico che pratico (basti pensare a come influenzarono la reazione del governo americano alla “Grande depressione del 1929 o le politiche post seconda guerra mondiale per risanare l’economia dei paesi usciti stremati dalla guerra). Oppure pensiamo al concetto di moltiplicatore della spesa pubblica e a come la domanda possa influenzare gli investimenti, alla sua definizione del tasso di interesse come “prezzo della moneta”che ogni risparmiatore desidera ricevere per cedere la sua liquidità (se il mercato azionario è bullish, scrive Cesaratto, il prezzo sarà minore e viceversa) e alla “trappola della liquidità” che, in certi casi, impedisce alla Banca Centrale di abbassare i tassi di interesse quanto servirebbe all’economia per riprendersi.

Certo la Banca Centrale potrà influenzare il tasso di interesse (basti pensare a quello che avviene oggi con il QE inaugurato da Draghi e continuato da Lagarde, se il tasso di interesse è il “prezzo” per cedere liquidità ne consegue che la Banca Centrale, aumentando la liquidità sul mercato e influenzando le aspettative degli investitori può fare diminuire questo prezzo) E’ pur vero che i marginalisti hanno criticato in maniera efficace il concetto di trappola di liquidità e i cosidetti “Neo-keynesiani”, Cesaratto cita il prof. Modigliani, hanno teorizzato una sintesi del pensiero marginalista e di quello keynesiano definendo valide le tesi di Keynes ma solo nel breve periodo mentre, nel lungo periodo, rimarrebbe valida la teoria marginalista supportata dalla politica economica (da qui la famosa frase di Keynes: “nel lungo periodo saremo tutti morti”….

Cesaratto considera quella Keynesiana una “rivoluzione incompleta” e critica il fatto che Keynes colloca classici e marginalisti nello stesso calderone creando non poca confusione, invece il contenuto “rivoluzionario” del pensiero di Ricardo, Marx e Keynes viene compreso molto bene da Gunnar Myrdal, economista svedese padre del modello socialdemocratico scandinavo ( a me così caro come sa chi ha avuto la pazienza di seguirmi al Dossetti) e soprattutto dagli allievi di Keynes che approfondiranno le critiche alla teoria neoclassica tra i quali un grande economista italiano, molto caro a Sergio Cesaratto, ovvero Piero Sraffa.

Il pensiero di Sraffa, che fu tra le altre cose consigliere in Italia di Gramsci, ebbe una forte influenza sul movimento studentesco italiano e estero e sulla richiesta, da parte dei lavoratori, di una alternativa alle teorie economiche marginaliste mainstream dopo l’avvento, negli anni 80, della controrivoluzione monetarista che nacque e fu economicamente sostenuta, (scusate l’insistenza sul tema dei finanziamenti ma è voluta …..) per reazione contro le sgradite teorie keynesiane. Attraverso numerosi studi empirici Sraffa cerca di dimostrare che le decisioni di investimento non dipendono tanto dal tasso di interesse quanto dalla domanda attesa che, a sua volta, dipende fondamentalmente dalla politica economica.

Ecco, il prof. Sergio Cesaratto è l’allievo di uno dei giovani protagonisti di quello straordinario confronto intellettuale, il prof. Garegnani che, insieme a Sraffa, fa parte di quella ristretta cerchia di economisti che non hanno abiurato le teorie di Keynes ma, al contrario, le hanno sviluppate.

Economisti limitati nel numero a causa della marginalizzazione subita in tante Università dominate da quelle teorie economiche che hanno causato crisi devastanti, come quella del 2008 che ancora stiamo vivendo e “ricette” che hanno portato ad alti livelli di disoccupazione che, come ci ha insegnato Kalecki, scoraggiano ogni forma di ribellione da parte dei lavoratori.

Gli economisti eterodossi sono una minoranza, dicevamo, ma di qualità elevatissima ! Basti pensare a Federico Caffè (con il quale fece la tesi di laurea il nostro attuale premier Mario Draghi, tesi che sosteneva, lo dico perché mi sembra una curiosità degna di nota, l’inopportunità di una moneta unica europea) a Paolo Sylos Labini, a Andrea Ginzburg, Fernando Vianello, Luigi Spaventa (per la parte iniziale del suo percorso intellettuale) o, se guardiamo all’estero, a conomisti ecome Hyman Minsky (il cui pensiero è sempre più “riscoperto” alla luce degli avvenimenti post crisi del 2008) o Kalecki per limitarsi solo ad alcuni di quelli citati nel libro.

Come, parlando di due lavori di Sraffa e Garegnani nel “Quaderno del Dipartimento di economia politica e statistica” dell’Università di Siena “Keynes’s finance, the monetary and demand-led circuits: a Sraffian assessment” del marzo 2021, Cesaratto spiega in maniera efficace, si tratta di “liberare Keynes dai lacciuoli della teoria marginalista”.

LA MONETA UNICA, IL “VINCOLO ESTERNO” E IL FUTURO DELL’UNIONE EUROPEA.

Uno dei dirigenti della p.a. che più stimo mi ha insegnato che, quando affronto un argomento e formulo delle proposte per risolverlo, devo diffidare di chi tace e acconsente perché quasi sempre sono persone che non mi stanno prendendo sul serio o, ancora peggio, fingono di credere alle mie proposte avendole in realtà già bocciate in cuor loro e spesso apprestandosi a boicottarle. Devo invece ascoltare con attenzione coloro che mi fanno domande, mi criticano e formulano proposte alternative, perché sono quelli che hanno accettato di mettersi in gioco e di ragionare sul serio sulla fattibilità della mia proposta.

Purtroppo, nel dibattito italiano, si considerano invece europeisti sinceri coloro che professano una retorica “fede” nelle magnifiche sorti e progressive di un progetto europeo che, è bene ricordarlo, non è affatto quello pensato da Altiero Spinelli a Ventotene ma quello che, come bene ci ha spiegato Dario Fabbri in un recente incontro al Dossetti, per ragioni geopolitiche, all’indomani della II guerra mondiale, il governo americano dell’epoca impose agli sconfitti De Gasperi e Adenauer e a un francese, Schumann, che, come ben testimoniano le sue lettere private, in cuor suo detestava i tedeschi e solo per la forza militare americana accettò di aderire al progetto di Europa unita.

La seconda parte del libro esamina le tappe del percorso che ha portato l’Italia e l’Europa agli anni di stagnazione e di declino economico che stiamo vivendo con l’eccezione, come vedremo, della Germania e dei suoi satelliti che vivono un percorso esattamente inverso passando dall’essere “la malata di Europa” al dominus dell’UE e leader tra i paesi esportatori di oggi.

L’Italia passa dal miracolo economico degli anni 50 alla prima crisi economica del 1963, la cosidetta “congiuntura”, in cui si verifica una forte domanda aggregata che, unita a salari più alti grazie alle lotte sindacali e a una situazione di quasi pieno impiego, porta la bilancia dei pagamenti in deficit con l’impossibilità, per il nostro paese, di svalutare la lira a causa del sistema di cambi fissi di Bretton Woods.

La Banca d’Italia, allora guidata da Carli, spinta dalla borghesia italiana implementa misure severe che riportano la bilancia dei pagamenti in pareggio ma causano una diminuzione forte degli investimenti e un aumento della disoccupazione.

I tassi di crescita “cinesi” che avevano contraddistinto il miracolo economico negli anni ’50, diventano un lontano ricordo. In compenso diventano evidenti i limiti che caratterizzano il nostro paese: divario nord/sud, scarso sviluppo della tecnologia e della ricerca rispetto ai principali concorrenti europei, opportunità di formazione e educazione assai diverse per ricchi e poveri, servizi sociali inefficienti e, molto importante, la scelta (che invero sussiste anche ora per tante aziende italiane) di preferire uno sviluppo basato sullo sfruttamento della forza lavoro con bassi salari e prodotti di bassa qualità anziché, come avrebbe consentito una economia italiana che presentava forti surplus con l’estero, investire per la modernizzazione degli impianti pagando meglio i lavoratori e aumentando così la domanda e i consumi interni al paese.

Se uniamo a tutto ciò la tendenza all’esportazione (spesso illegale) di capitali all’estero, che impediva la rivalutazione della lira che un surplus commerciale di solito comporta, abbiamo quel fenomeno che Cesaratto, citando Pivetti e De Vivo, definisce il modello mercantilista italiano.

Arriva così la reazione del movimento dei lavoratori con l’autunno caldo, che parte nel 1969 e arriva a metà anni 70. Nonostante il terrorismo e l’uso disordinato e distorto della spesa pubblica, il ruolo della Banca d’Italia come compratore di ultima istanza dei titoli di Stato governativi permette al Governo, grazie anche agli alti tassi di inflazione che superano il rendimento dei titoli di Stato, di prestare denaro a tassi negativi mantenendo un equilibrio nelle finanze pubbliche.

Significative e, per così dire, “storiche” le parole di Guido Carli in occasione della presentazione del “Rapporto Annuale della Banca d’Italia” nel 1977: “…domandiamo e ci domandiamo se la Banca d’Italia avrebbe potuto o potrebbe rifiutarsi di finanziare il deficit del settore pubblico rinunciando ad esercitare le sue facoltà legali di acquistare buoni del tesoro italiano. Un rifiuto avrebbe reso impossibile allo Stato pagare i salari di chi lavora nell’esercito, nei tribunali, dei civil servants e le pensioni delle persone. Sarebbe apparso come un atto di politica monetaria; in sostanza sarebbe stata sedizione, avrebbe portato alla paralisi delle istituzioni pubbliche. La continuità dello Stato deve essere assicurata, anche se portasse alla stagnazione dell’economia, poiché le conseguenze del caos amministrativo sarebbero peggiori. Non possiamo prevenire la crisi solo con la politica monetaria ma possiamo fare in modo che sia meno severa.”

L’accordo del 1975 sulla scala mobile stipulato da Lama e Agnelli, portò all’allineamento dei salari minimi contrattuali con l’inflazione, lo scopo era quello di evitare scioperi frequenti con una sorta di “mercantilismo italico” che manteneva una lira debole (e quindi aiutava le esportazioni) grazie alla svalutazione che allora era ancora possibile e all’esportazione illegale di capitali che controbilanciava le pressioni a rivalutare la lira dovute all’esistenza di continui surplus con l’estero.

L’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto dovuto all’autunno caldo e lo shock petrolifero, unitamente a riforme mancate e incapacità degli imprenditori di innovare, portarono a una decrescita del PIL.

Il “divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro” che, impedendo alla Banca d’Italia di acquistare i titoli di Stato invenduti portò all’esplosione della spesa per pagare gli interessi sul debito pubblico, ci porta agli anni ’80 caratterizzati, come scrive Marcello De Cecco, da una concezione di “paradiso per gli sciocchi”, una terra promessa in cui si poteva conciliare l’esistenza di una rigida politica di tassi di cambi fissi voluta dai democristiani e dai liberali e, contemporaneamente, una politica fiscale espansiva supportata dai socialisti. Questa politica economica portò a disastrosi risultati sia sul bilancio interno al paese che sui conti con l’estero.

Il motivo di fondo è ben evidenziato dal prof. Cesaratto: in un regime di cambi fissi tutti i paesi membri dovrebbero avere lo stesso tasso di inflazione. Chi avesse un tasso di inflazione più alto perderebbe competitività perché i suoi prodotti diventerebbero più cari rispetto ai prodotti degli altri paesi e, di conseguenza, si creerebbe un deficit commerciale che non potrebbe più essere risolto dalla svalutazione della moneta che un tempo bilanciava l’inflazione più alta.

Inoltre, partecipare a un sistema di cambi fissi, implica, per paesi come l’Italia che hanno un tasso di inflazione tendenzialmente maggiore dei paesi del nord, implementare politiche fiscali restrittive con tagli della spesa pubblica e riduzione /contenimento dei salari al fine di allineare il tasso di inflazione a quello dei paesi competitors.

Queste politiche portarono a ridurre il tasso di inflazione italiano ma non abbastanza per arrivare a quello dei suoi partner europei e, come scrive il Nobel Stieglitz nel suo libro del 2010 “Freefall: America, free markets, and the sinking of the world economy”, le nazioni che perdono competitività rispetto ai concorrenti esterni, possono essere forzate ad aumentare il deficit per mantenere la domanda aggregata e evitare alti tassi di disoccupazione.

Con la svalutazione interna dei suoi salari, alti ma più bassi rispetto a quanto la produttività tedesca permetterebbe, la Germania ci ha obbligati a fare altrettanto e ci permette di crescere solo fino al punto in cui si arriva al pieno impiego in Germania ! Crescere oltre, infatti, creerebbe inflazione e renderebbe i prodotti tedeschi meno competitivi.

Il problema è che nelle Università italiane non si insegna la storia del pensiero economico ma ricette operative più o meno preconfezionate quasi che l’economia fosse una scienza simile alla fisica e dimenticando che è ridicolo formulare teorie economiche senza tener conto del contesto di politica estera, militare, culturale religioso etc…

Come ci ricorda ad esempio il prof. Sapelli, impedire ai tedeschi di avere un vero esercito non ha eliminato il loro forte senso identitario e la loro secolare aspirazione a emergere e influenzare l’Europa, semplicemente ha spinto i tedeschi a concentrare tutta la loro forza e aggressività competitiva nell’economia, esportare è diventato il loro mantra e il mercantilismo è stato lo strumento teorico attraverso il quale “sconfiggere” i competitors.

Non è un problema di ideologia, il prof Cesaratto cita il fatto che Marx era un fiero critico di Friedrich List, l’economista tedesco contrario alle politiche di laissez faire propugnate dal Regno Unito e teorizzate da Adam Smith. Secondo Marx il nazionalismo era il modo con cui le borghesie corrompevano e cooptavano la classe operaia nei loro piani di sviluppo. “Il proletariato non ha nazione ! Internazionalismo ! Rivoluzione !”. Molti politici di sinistra ancora si illudono, ricorda ironicamente Cesaratto, che i lavoratori tedeschi prima o poi scenderanno in piazza per solidarietà verso i lavoratori delle nazioni europee meno ricche della Germania….

List, contrariamente a Marx, sosteneva che il Regno Unito aveva conquistato l’egemonia in campo economico proprio utilizzando contro gli altri paesi quelle politiche mercantiliste che ora Smith criticava solo per il timore che le altre nazioni utilizzassero dazi e intervento pubblico nell’economia per migliorare la loro situazione.

Provate a pensarci: ci viene continuamente narrato dagli economisti mainstream che grazie alla globalizzazione chi ha accettato il libero commercio spalancando i propri mercati alla concorrenza ha sottratto milioni di persone alla povertà. Ma è proprio andata così ? E’ bastato aprire i mercati alla concorrenza oppure è successo anche qualcos’altro ?

La lezione di List, ci fa notare il prof. Cesaratto, è stata bene appresa e utilizzata in Asia da paesi come il Giappone, la Corea del Sud e le tigri asiatiche che si sono ben guardate dall’applicare le ricette di “free trade” proposte dagli economisti occidentali che vanno per la maggiore e hanno mantenuto uno Stato forte, una economia mista e robusti controlli sull’attività delle imprese. Ancora più forte il ruolo dell’intervento statale e dei controlli pubblici nel caso cinese, per ovvi motivi.

Chi ha accettato di spalancare i propri mercati confidando nelle virtù del libero mercato e rinunciando o riducendo fortemente il peso dello Stato, mi viene in mente la Russia di Eltsin affidata ai Chicago boys, gli economisti di Friedman che lo consigliavano, ha visto spesso privatizzazioni selvagge che non hanno creato ma hanno “estratto” ricchezza dal paese come direbbe Mariana Mazzucato che nel libro “Il valore di tutto, chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale” distingue tra imprenditori che “creano” valore e imprenditori che “estraggono” valore dalle imprese.

L’effetto di queste politiche di “estrazione di valore” è stato quello di creare una classe di oligarchi ricchissimi (la Russia ha una concentrazione di ricchezza tra le più alte al mondo) e diminuire il tenore di vita del cittadino medio e il sistema di welfare che, con tutte le sue criticità che mi guardo bene dal negare, il comunismo garantiva. Parlavo di recente con un signore Moldavo, ingegnere, che mi diceva che con il comunismo lui lavorava e sua moglie insegnava matematica nelle scuole, dopo il comunismo lui e la sua famiglia hanno deciso di emigrare in Italia (lui a fare il manovale la moglie la casalinga) perché la Moldavia è diventata uno Stato dominato dalla presenza di mafie potenti e violentissime e il tenore di vita è bruscamente diminuito.

Cesaratto esamina poi la crisi europea dal punto di vista della politica monetaria descrivendo il suo funzionamento e l’effetto sull’economia europea dell’utilizzo di quelle misure eccezionali di politica monetaria implementate dalla BCE nell’era Draghi che, tenendo conto che, a differenza della FED, la BCE ha come unica missione la stabilità dei prezzi e non la piena occupazione, ha cercato di supplire all’assenza di una politica fiscale comune dei paesi membri e descrive in maniera efficacissima la crisi del 2011 dovuta all’aumento dello spread tra il rendimento dei titoli italiani e quello dei titoli tedeschi. Se leggete il libro vi accorgerete che non c’era nulla di nuovo, si trattava di meccanismi ben noti agli economisti e dovuti al comportamento di chi detiene titoli esteri e, da un giorno all’altro, può decidere di chiedere indietro i denari investiti.

Avrei tante domande da fare al prof. Cesaratto ma, essendo una persona rispettosa dei ruoli e del sacrosanto diritto di chi assiste alla lezione di avere la possibilità di fare domande mi limiterò a citare alcuni temi:

  • Il debito estero è sempre un problema ?
  • E cosa accade a quei paesi come l’Italia, che emettono titoli di Stato in una valuta che non è la loro ?
  • La fiducia degli investitori esteri nello Stato in questione ha un valore ?
  • E, se sì, quale ?
  • Perché si crea quella che Cesaratto definisce la “trappola del debito” ?
  • Che cosa ha significato la Direzione della BCE da parte di Draghi ?
  • Salvatore dell’Euro come lo definiscono i media più importanti del mondo o “Conte Draghila” che succhia risorse finanziarie dai paesi del nord Europa per trasferirle ai paesi PIIGS del Sud Europa acquistando i loro titoli di Stato come lo vedono i suoi critici tedeschi ?

Quanto inciderà, concretamente, Next Generation UE sui destini dei paesi membri e sul processo di Unione politica europea ? “La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni” diceva Karl Marx, questa frase mi torna in mente quando penso a quei commentatori, a quei politici, a quegli esperti, che descrivono con grande entusiasmo il Recovery Fund attribuendogli virtù salvifiche, che vanno francamente aldilà delle possibilità, pur notevoli, dello strumento.

Il mio timore, condiviso con mio grande piacere e una certa sorpresa da una nota esponente del PD alla quale ho avuto la possibilità di esporlo di recente durante un incontro, è che i cittadini, stremati dalla crisi pandemica e bisognosi di liquidità per le loro attività, rimangano delusi dal fatto che, al netto dei soldi che l’Italia dovrà versare al bilancio dell’UE per finanziare l’emissione dei bond, le risorse che arriveranno al paese saranno pari a circa 30 miliardi all’anno e verranno concentrate su materie ben precise (Green Economy, digitalizzazione etc…)

Il Recovery Fund è un fatto importante perché ha rotto il tabù della mutualizzazione del debito e ha posto le premesse per la costruzione di una Federazione di Stati Europei dotata di risorse proprie (il bilancio dell’UE passerà dall’1% del Pil europeo al 2%), ma non siamo affatto, come sproloquiano alcuni pseudogiornalisti, di fronte a un nuovo “Piano Marshall”.

Il Piano Marshall non andava restituito, i prestiti del Recovery Fund, come è noto, andranno restituiti fino all’ultimo centesimo sia pure in tempi lunghi.

Inoltre, dalla Germania arriva chiaro e tondo l’avvertimento del nuovo presidente della Bundesbank, Jaochin Nagel: se l’inflazione prosegue su questi binari, la Bce deve intervenire, sentenzia Nagel l’11 gennaio 2022, giorno del passaggio ufficiale di consegne.

Il prof. Cesaratto nel suo libro parla dell’“original sin” che caratterizza alcuni Stati, il peccato originale di contrarre debito con l’estero in valuta estera era il tipico problema che costituiva la pre-condizione per le crisi finanziarie nei paesi in via di sviluppo, oggi abbiamo visto questo diabolico meccanismo operare nell’UE: pensiamo alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e anche al nostro paese.

Qualcuno pensa che esistano scorciatoie, penso ad alcuni esponenti della MMT che ritengono che se uno Stato emette debito nella sua valuta e dispone di una sua Banca Centrale non andrà mai in bancarotta perché, se gli investitori italiani o esteri, non riacquisteranno i titoli di Stato in loro possesso la banca centrale potrà intervenire stampando moneta e comprando lei i titoli invenduti, ma è sempre così o dipende dalla valuta ?

Come scrive il prof. Cesaratto: nelle università italiane il pensiero critico è diventato un lusso, rimpiazzato in paesi come l’Italia e la Germania da lauree sempre più brevi possibilmente orientate al mainstream con la scusa che occorre competere in un mercato del lavoro sempre più difficile. Nonostante questo, la fiamma della teoria critica continua a bruciare e molti bravi giovani continuano a mostrare interesse e a cercare un pensiero alternativo a quello dominante. La mia speranza è che questo incontro serva a risvegliare altri giovani (e non solo giovani) e a trasformarli in protagonisti di un cambiamento che, di fronte alla evidente crisi del modello di capitalismo esistente e al rischio di involuzioni autoritarie che ciò comporta, fornisca nuovi orizzonti ideali e nuove strade da percorrere.

1 ovvero “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo la nostra cena, ma dal loro rispetto per il proprio interesse. Ci rivolgiamo non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e non parliamo mai loro delle nostre necessità ma dei loro vantaggi”.


File audio da scaricare (clicca sul link)

1 – Luca Caputo presenta la lezione – 12:17
2 – Stefano Guffanti introduce Sergio Cesaratto – 24:20
3 – Relazione di Sergio Cesaratto, prima parte – 22:49
4 – Intervento di Stefano Guffanti – 19:17
5 – Relazione di Sergio Cesaratto, seconda parte – 37:58
6 – Domande dei partecipanti – 15:30
7 – Risposte di Sergio Cesaratto – 13:41
8 – Altre domande – 7:10
9 – Risposte di Sergio Cesaratto e chiusura della lezione – 11:14


Sergio Cesaratto è fra i più noti economisti critici internazionali.

Ha studiato alla Sapienza, dove ha conseguito il dottorato, e all’Università di Manchester. È professore ordinario di Politica monetaria e fiscale dell’Unione Economica e Monetaria europea e di Economia internazionale all’Università di Siena.

Ha pubblicato sulle principali riviste eterodosse internazionali e si è occupato, fra l’altro, di teoria della crescita, economia delle pensioni, economia monetaria e crisi europea. Da sempre legato all’impegno civile, è stato fra i primi a denunciare il contributo della moneta unica, con la connivenza della politica italiana, al degrado economico e civile che si è abbattuto sul nostro Paese. (fonte: Diarkos)

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