Un Paese in declino

Riguardando le fotografie in bianco e nero o i filmati d’epoca dell’Italia del boom economico sono ancora gli oggetti del prorompente consumo di massa ad essere in grado di catturare la nostra attenzione: dall’auto tanto agognata, fosse “la 600” con le porte che si aprivano controvento o le mitiche dueruote Vespa o Lambretta, per passare poi agli elettrodomestici più desiderati come il televisore, il frigorifero, la lavatrice, ma anche le nuove macchine adatte per l’allora ufficio moderno. Tuttavia quello che traspariva dai volti, dalle espressioni, dalla prossemica di quegli italiani era un sentimento comune di ottimismo, di speranza verso l’avvenire; un futuro che portava verso ad un deciso miglioramento generalizzato delle condizioni di vita. L’Italia di allora era una nazione che aveva slancio, propulsione, in perenne crescita economica. Non che mancassero le contraddizioni – infatti le stesse si renderanno più evidenti negli anni a venire – comunque la percezione del “sogno Italiano” era diffusa, mentre il new italian style non era soltanto immaginato ma vissuto nella sua incipiente concretezza. Il protagonismo dei giovani era evidente, magari anche se quelle compagini risultavano ancora circoscritte nella categoria dei “poveri ma belli”, dalla quale però si liberarono ben presto a tal punto che gli stessi renderanno evidenti le incongruenze del sistema soltanto qualche anno più tardi nel periodo della cosiddetta contestazione. Esattamente all’opposto della fase attuale, dove la presenza attiva delle nuove generazioni è poco avvertita, non valorizzata, per niente richiesta, tant’è che moltissimi giovani sono costretti ad emigrare per ricercare condizioni di vita migliori.

Ma c’è un dato ulteriore. In aggiunta alla peggiorata condizione psicologica di una parte degli italiani – per i quali perdura un diffuso calo di fiducia unito con una certa ansia in riferimento alla situazione economica sia personale che del Paese – si aggiunge una sequela di dismissioni, cessioni, vendite di importanti marchi del made in Italy, cioè di quella fiorente imprenditoria che per molto tempo è stata la cifra identificativa dell’originalissimo saper fare italico. Si potrebbe dire che il genio nostrano si è espresso pressoché in tutti i campi, ma forse potremmo anche affermare che le nostre migliori produzioni hanno a che vedere con “la bellezza e il prelibato”: ad esempio con auto lussuose dall’inconfondibile linea, con abiti dai preziosi tessuti e con una fattura che li rende unici, così come certi oggetti di arredo e di design; ma anche con cibi gustosissimi che vanno da una semplice pizza, una pastasciutta, un vino di qualità o un formaggio DOP, a pietanze più elaborate legate ai territori, cioè con quei prodotti ci rendono richiestissimi nel mondo. Tuttavia diversi marchi industriali autoctoni hanno preso per così dire la via dell’estero, giacché brand arcinoti come FIAT, la maison Versace o la storica azienda di origini sestesi Magneti Marelli – solo per citarne alcuni che recentemente sono stati interessati da queste dinamiche – “parlano sempre più in inglese”, oppure “conversano” abitualmente in spagnolo, francese, cinese, turco, giapponese, ecc. Così il made in Italy è sempre meno italiano, e semmai è il territorio di conquista per investitori esteri all’interno di una dinamica di mercato dove appare evidente la sostanziale assenza dello Stato. La deindustrializzazione nazionale non è da ricercare soltanto nel passaggio per certi versi inevitabile da una economia prevalentemente manifatturiera verso quella dei servizi, la stessa si potrebbe relazionare anche alla particolare tipologia del capitalismo familiare italiano, il quale stenta a rimanere competitivo anche se i suoi sono prodotti di eccellenza, dentro ad un mercato che è ormai di scala planetaria. In questa temperie la “locomotiva Italia” continua a rallentare, a sbuffare ansimante, quasi a deragliare, mentre contemporaneamente per distrarre i cittadini da questa situazione piuttosto drammatica, si discute con insistenza soltanto di migranti; si sollevano minacce provenienti dall’esterno per spostare l’attenzione da quella che è la vera, allarmante tragedia del nostro Paese: la penuria di lavoro e la crescita delle disuguaglianze. Mancano le basi solide su cui fondare la ripresa dopo l’estenuante crisi, e difettano quelle manovre che abbiano un carattere strutturale che si riferiscono al medio-lungo periodo. Una condizione generalizzata che ha portato alla disperazione di un ceto medio sempre più impoverito e a segmenti popolari che vivono da tempo ai margini della società: non stupisce pertanto se tante persone stanno cadendo nel vortice della paura assumendo contemporaneamente un atteggiamento di chiusura e di rabbia. Com’è possibile che quello stesso popolo uscito sconfitto dal secondo devastante conflitto mondiale – che era stato capace però di risollevarsi ed essere artefice del “miracolo italiano” – sia oggi invece in preda allo sconforto nonostante comunque un deciso miglioramento delle condizioni generali di vita?

Se i giovani, i quali sono dotati in molti casi di alti livelli di istruzione, hanno come prospettiva soltanto quella di correre in bicicletta da un capo ad un altro della città per consegnare una pizza, qualcosa non deve funzionare nell’organizzazione del modello di società; e se probabilmente non è più il tempo di una economia semplicemente mista pubblico-privata ma è quello magari declinato all’interno di un mercato maggiormente temperato da una “polifonia” delle forme proprietarie, certo anche da uno Stato che in qualche caso sa farsi “imprenditore”, da organizzazioni dei lavoratori e dei corpi intermedi rinvigorite, se tutto ciò corrisponde al vero siamo comunque ancora ben lontani dal percorrere questa strada. La middle class che ha conosciuto gli agi dei consumi tende a chiudersi a riccio nella difesa del proprio status quo, continuamente minacciato dalla fluidità di una globalizzazione che in pratica mette a profitto del capitale qualsiasi pulsione umana, mentre nel contempo una politica opportunistica e di breve respiro, liscia il pelo di queste paure promuovendo culture sovranistiche, interessi particolaristici e sussidi monetari strumentalizzati ai fini del consenso. La “politica politicata” poi è fin troppo propensa a guardarsi il proprio ombelico oppure ad esercitare una opposizione di maniera, e non è di aiuto alla costruzione di un punto di vista da cui guardare alla realtà e sul quale richiedere il consenso. Da queste premesse non può determinarsi un nuovo “miracolo italiano”, semmai sarà soltanto “per miracolo” che il nostro Paese potrà scongiurare il rischio di un possibile default. Proprio quella middle class nelle elezioni politiche del 4 marzo scorso ha lanciato un chiaro segnale alle forze in campo, decretando la vittoria delle compagini che a vario titolo si possono definire “neopopuliste”, e nel contempo anche la sconfitta di quelle che hanno rappresentato gli interessi dell’alta borghesia e del turbolento universo di centrosinistra. Questo stesso ceto medio potrà decidere nella imminente consultazione elettorale per il Parlamento Europeo il suo mantenimento in termini di prestigio e di orizzonte politico condiviso oppure un indebolimento di questa istituzione, poiché la stessa è percepita come una specie di gabbia che impedisce ai singoli Stati di perseguire le politiche più confacenti agli interessi nazionali.

In Italia però appaiono altre le cause del declino, come il forte indebitamento pubblico e la conseguente spesa per pagare gli interessi, in associazione con il peso eccessivo della corruzione, della burocrazia, delle tasse ma anche e soprattutto dell’evasione fiscale: sono certamente quest’ultimi gli elementi di rilievo che risultano di ostacolo allo sviluppo. A maggior ragione se da un lato si assiste appunto alla scarsa possibilità di investimento pubblico per mancanza di liquidità e dall’altro agli effetti negativi connessi alla precarizzazione dei rapporti occupazionali, cioè alla percezione di salari sempre più bassi ed insicuri, e alla contemporanea propensione delle imprese a fare economia esclusivamente sul costo del lavoro, trascurando la necessità di investire in competitività dei prodotti. Le numerose cessioni aziendali sono quindi la cartina di tornasole del fatto che perdura in Italia una difficoltà a “fare squadra” e a puntare con decisione (e soprattutto con cospicui investimenti) sull’innovazione tecnologica. A questo proposito mettere il focus sulle giovani generazioni è ormai diventato improcrastinabile, al di là dei diversi (e a volte contraddittori) parametri numerici che possono descrivere la curvatura della crescita di un Paese, sarà soltanto quando le condizioni di vita dei figli risulteranno migliori di quelle dei loro genitori, che si potrà affermare con certezza che si è imboccata la strada giusta.

Andrea Rinaldo

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