Una secolare contesa

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Giovanni Bianchi

L’anno 2016 si è aperto malissimo sullo scenario mediorientale con la dissennata decisione del Governo saudita di giustiziare una quarantina di persone fra cui l’imam Nimr al Nimr, portavoce della piccola (circa il 15% della popolazione) ma influente minoranza sciita fra i sudditi del Re che si proclama “Custode dei Luoghi Santi“ dell’ Islam ed insieme grande protettore dei wahhabiti, la corrente più rigorosa della tradizione sunnita.

Il contrasto fra sunniti e sciiti, come è noto, risale all’epoca di Maometto, e verte più esattamente sulla questione della successione al Profeta, se essa cioè debba spettare ai parenti del Profeta stesso, a partire dal genero Ali e dai suoi figli, in particolare Hussein (e “sciita” significa “componente del partito (di Ali)”) ovvero al successore designato da Maometto stesso in punto di morte, il suocero ed amico Abu Bakr, come sostengono i seguaci della tradizione (“sunna”).

Da notare che sia gli sciiti che i sunniti ritengono che attualmente non vi sia alcun vicario (“Khalifa”, da cui “Califfo”) del Profeta, i primi ritenendo che tale titolo sia stato detenuto legittimamente in ultimo da Hussein figlio di Ali, ucciso nella battaglia di Kerbala nel 680, i secondi poiché accettano l’estinzione del califfato con la deposizione, anche a livello religioso, dell’ultimo Sultano ottomano decretata da Kemal Ataturk nel 1924.

All’interno del panorama islamico i sunniti sono certo larga maggioranza, ma l’Islam sciita conta presenze strategiche, essendo maggioranza in Iran ed Iraq e potendo contare su significative minoranze in Siria, Libano, Bahrein e Arabia Saudita. Spesso, salvo che nel caso iraniano, gli sciiti hanno dovuto accettare di subordinarsi a governanti sunniti, ma dopo la rivoluzione islamica in Iran nel 1979 essi hanno avuto nella nuova Repubblica islamica un punto di riferimento .

D’altro canto, la decisione dissennata degli Stati Uniti di cancellare il regime baathista (e quindi “laico”) iracheno di Saddam Hussein ha permesso agli sciiti iracheni di rivendicare il loro essere maggioranza nel nuovo Stato, che di fatto è divenuto una confederazione rissosa e priva d’autorità, con l’automatico risultato di fare dell’Iran uno degli attori egemonici primari sulla scena mediorientale dopo anni di marginalità.ed ostracismo.

La politica iraniana è stata aiutata in questo tentativo di smarcamento dall’ emergere di un aggressivo movimento terroristico di marca sunnita, che ha reagito a quella che viene denunciata come un’aggressione coloniale e religiosa da parte dell’Occidente verso l’Islam con atti di violenza portati sul territorio stesso del “nemico”, come hanno dimostrato gli attentati dell’ 11 settembre 2001 a New York e Washington ad opera di Al Qaeda e quelli del 7 gennaio e 13 novembre 2015 a Parigi ad opera del cosiddetto “Stato Islamico” (Daesh). Soprattutto il secondo movimento appare come quello più organico al tentativo di recupero dell’ “ortodossia” sunnita – peraltro non asseverata da alcuna autorità teologica significativa- con la reinstaurazione del califfato da parte di un oscuro predicatore di origine irachena che ha assunto per sé l’appellativo di di Abu Bakr al Baghdadi, ossia il nome del primo califfo sunnita e quello della prima sede del califfato, Baghdad appunto.

Né al Qaeda né il Daesh, in ogni caso, avrebbero potuto esistere se alle spalle non avessero avuto la predicazione di imam wahhabiti finanziati sontuosamente dalla famiglia reale saudita, che ha tutto l’interesse a legare a sé una corrente islamica tanto rigorosa in modo da stornare ogni possibile critica rispetto al fasto e all’opulenza in cui essa vive rispetto alla miseria delle masse popolari. In questo senso è perlomeno ambigua la militanza del Governo saudita nel fronte anti – Daesh, visto che questo movimento sembra essere indirizzato contro gli stessi nemici dei signori di Riad, come il Governo baathista siriano e quello confederale iracheno, ambedue alleati strategici dell’Iran.

Ciò evidentemente mette in imbarazzo l’Amministrazione Obama, che ha fortemente voluto la normalizzazione dei rapporti con Teheran, e che allo stesso tempo ha un legame storico con l’Arabia Saudita, come lo ha del resto con Israele, il cui attuale governo sembra essere più preoccupato dal crescere della potenza sciita piuttosto che dall’avanzare del Daesh : infatti, sebbene non vi sia la minima possibilità di rapporti diplomatici formali, da sempre Israele e Arabia Saudita coltivano in modo eccellente comuni interessi, a partire dall’esigenza del “contenimento” del regime di Teheran, generoso sovvenzionatore di Hamas.

Il rischio reale è quello di far rientrare potentemente sulla scena mediorientale la Russia, che non solo da tempo ha saldi rapporti sia con Damasco che con Teheran, ma può anche atteggiarsi, caduto il comunismo, a paladina delle minoranze cristiane nel Medio Oriente contro cui il Daesh ha scatenato una guerra di sterminio (ed è da ricordare che mentre gli sciiti praticano una sostanziale tolleranza verso tali minoranze, negli Stati a maggioranza sunnita esse sono sottoposte a severe restrizioni nella loro stessa libertà di culto).

Il rischio è quindi quello di una doppia guerra, di natura insieme egemonica religiosa, con il rischio che ad esserne il campo di battaglia , oltre al Medio Oriente stesso, sia un’Europa divisa e confusa.

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